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INSTALLATION SHOT La disperazione dello spazio pittorico
OR 2015
ALESSANDRO SAU
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La pittura non è più romantica, ha la stessa valenza di un opera concettuale, perché è fatta con l’idea concettuale, non è la risultante di un impeto vitale, ma è il prodotto di un ragionamento culturale assai disperato Sandro Chia
Quello che si percepisce intuitivamente nell’immagine è per natura differente da quello che si comunica e si esprime nel linguaggio. Credo non si possa conoscere e dire razionalmente quello che si apprende e si percepisce visivamente: si dice sempre qualcosa che si avvicina a quell’immagine, a quella costellazione di significati e senso, ma non si arriverà mai a dire ed esprimere quell’immagine così com’è, a dire quello che si vede. Un paragone che mi viene in mente, giusto a proposito di costellazioni, è quello del cielo stellato (spero Kant non me ne voglia): guardatelo, e poi provate a dire quello che avete visto. Per quanto ci si sforzi, non si riuscirà a riprodurre nel linguaggio quella stessa qualità sensibile che abbiamo sentito, percepito, conosciuto, attraverso il nostro sguardo, attraverso l’immagine. A mio parere, questo rapporto incolmabile e difettivo della conoscenza, tra visione e linguaggio, diventa un presupposto da chiarire e sviscerare, sopratutto quando si parla di pittura o di arte in generale. Per farla breve, e sintetizzando il più possibile, penso che oggi si sia giunti, probabilmente inconsciamente, ad accettare un annullamento delle differenze nei due diversi modi di conoscere. Sottolineo e scrivo ‘’inconsciamente’’ perché suppongo che qualsiasi persona interrogata sull’esempio del cielo stellato, probabilmente converrebbe nell’accettare un
enorme differenza almeno qualitativa tra il ‘’veduto-percepito’’ del cielo stellato ed una sua successiva rielaborazione attraverso la parola. Si potrebbero ammettere dunque delle differenze, ma di fatto, nella pratica, l’uomo contemporaneo si comporta diversamente. L’uomo contemporaneo ha come perso la sua capacità di comprensione intuitiva dell’immagine, di soddisfarsi e pascersi dei sensi e significati propri dell’immagine. Basterebbe osservare il pubblico che va in giro tra le sale dei musei con mastodontiche cuffie, che risuonano di informazioni sull’immagine, così da permettere un approccio il più possibile ‘’corretto’’ ed ‘’esaustivo’’. E chi non ha le cuffie sta chino di quadro in quadro, a leggere le didascalie per riconoscere con esattezza quello che sta osservando. La paura è probabilmente quella di perdersi l’occasione di saper riconoscere quello che si sta guardando, la paura di sbagliare e di non potersi vantare con se stessi per non aver suputo riconoscere ‘‘un Caravaggio’’, pur avendolo osservato con attenzione. Mi pongo allora il problema e mi chiedo se in realtà ci sia un modo giusto per guardare un immagine, ma soprattutto se si saprebbe riconoscere le qualità di un opera d’arte senza la didascalia o l’audio-guida che ci conduce agevolmente alla ‘’giusta’’ comprensione dell’immagine, al suo ‘’certo’’ riconoscimento. Certo, qualcuno potrebbe dire: ‘’ma è normale che sia così tra un pubblico di turisti ed amanti dell’arte domenicali! Per un critico d’arte tale discorso non può essere fatto! Essendo una figura professionale e preparata in materia, non gli servono ne didascalie ne cuffiette!’’. A mio parere è invece tutto il contrario: se la capacità di ‘’vedere un immagine’’ è ancora in qualche modo presente come residuo di una certa qualità ancestrale tra le persone ‘’non erudite’’, scompare quasi totalmente tra gli addetti ai lavori. E questo vale per gli artisti così come per i curatori e i critici d’arte etc.. Mi rendo conto che questa affermazione possa suonare come un insensata generalizzazione, e non bisogna di certo ‘’fare di tutta un’erba un fascio’’, tuttavia, anche a costo di esagerare, preferisco dire qualcosa di estremo piuttosto di non dire nulla per paura di restare all’interno del confine del ‘’politicamente corretto’’. Riporto qui un piccolo aneddoto, giusto per comprovare la mie idee. Una volta mi è capitato di passeggiare, insieme a una curatrice X, per le sale di Documenta Kassel, quando davanti ad un’opera di un artista Y, lei inizia a denigrare il lavoro: ‘’che non era più possibile andare avanti così’’ che era ‘’una cosa assurda che simili cretinate fossero esposte come arte’’. Poi succede l’irreparabile, la curatrice avvicinandosi alla didascalia che riportava il nome dell’autore, riconosce uno degli artisti più importanti e storicizzati
Ryan Gander, I Need Some Meaning I Can Memorise (The Invisible Pull), 2012.
delle sue letture critiche: inizia così nel suo viso, la fase di un imbarazzo e mal celato disagio; dice che ‘’certo non è la sua opera migliore, però è comunque l’ artista Y, uno degli artisti viventi più importanti etc, etc.’’. A prescindere dalla curatrice, dall’opera e dall’artista, ho riportato questo episodio solo per far capire come al giorno d’oggi esista un nuovo modo di avvicinarsi alla ‘’comprensione’’ dell’immagine. La curatrice X ha infatti avuto la necessità di confermare le sue supposizioni intuitive basate sull’immagine andando a guardare la didascalia e, nel momento stesso in cui quella didascalia le diceva che quello che stava guardando non era quello che aveva percepito, compreso e giudicato, è iniziata una scissione tra le due modalità di conoscenza. Quale sia la più appropriata non si sa, certamente però ai libri di storia dell’arte e alle riviste d’arte non si può dar torto, e quindi che fare? Giudichiamo l’episodio una semplice svista? Un errore? Esistono errori nel percepire un immagine?
A mio parere, l’uomo contemporaneo, soprattutto l’intellettuale, l’uomo colto, colui che ha studiato estetica e storia dell’arte, soffre il paradosso di una coscienza emozionalmente ed idealmente libera ma praticamente controllata, che non gli permette un rapporto sincero e diretto con l’immagine. Alla base di tutto questo ci sono probabilmente due ragioni di carattere sociologico: la prima in riferimento all’identità borghese, la seconda in riferimento alla storia dell’arte ed al suo carattere specificatamente scientifico. L’esperienza estetica in relazione all’arte è sempre più direttamente corrispondente a quell’esperienza di ‘’piacere senza interesse’’ di cui parlava Kant; in questo senso non essendoci una reale partecipazione interessata all’immagine, si può prendere come valido e vero quello che altri hanno già detto e stabilito su di essa. Si tratta quasi di un bieco e mirato addestramento all’immagine: dietro una sorta di emancipazione visiva, di libertà individualistica del giudizio, su cui si basa la stessa identità borghese, si nasconde un nuovo spiritualismo del disinteresse verso l’immagine. Su questa ideale libertà di giudizio estetico, è naturalmente il capitalismo a guidare lo sguardo giudicante tra ciò che risulta un’immagine di piacere estetico ‘’senza interesse’’ ed un’immagine di piacere estetico totalmente ‘’interessata ed interessante’’. Facile capire che l’ago della bilancia dello sguardo pende pesantemente sul piatto dell’interesse per una ‘’immagine-merce’’. La nascita poi della storia dell’arte come ordinamento scientifico dato a stabilire oggettivamente dei parametri di comprensione e di classificazione dell’oggetto artistico, aggrava ulteriormente la situazione. L’impostazione scientifica del giudizio, dietro ad un apparente interesse per l’immagine analizzata, nasconde e perpetua il distacco rispetto al fenomeno analizzato. Gli stessi artisti non sono naturalmente esenti dal problema. Per capire quello che voglio dire, basterebbe dedicarsi alla lettura dei diari, delle lettere, degli scritti sull’arte degli artisti del passato. Prendiamo diciamo un periodo che va dal settecento fino a fine ottocento, fino agli impressionisti e post-impressionisti (naturalmente bisogna seguire delle coordinate temporali coerenti rispetto al senso delle nostre analisi che non potrebbero certo retrodatarsi fino al rinascimento, al medioevo, o al mondo classico), e poi confrontiamoli con i documenti scritti o che si possono trovare in rete sotto forma di intervista con gli artisti contemporanei.
Restringiamo magari il campo d’indagine alla sola pittura: vi invito a leggere i diari di Delacroix o i brevi appunti di Ingres, le lettere di Van Gogh, o gli scritti di Matisse (nella collana ‘’Carte d’artisti’’ di Abscondita si può facilmente trovare tantissimo materiale). In questi testi, ed in relazione alla propria epoca storica, quello che emerge è sopratutto l’aspetto biografico dell’esperienza quotidiana dell’artista. Ogni artista esprime gioie e dolori della propria vita: tra disperazione e soddisfazione per gli avvenimenti positivi o negativi dell’esistenza, emergono e si differenziano le sovrastrutture estetiche ‘’normative’’ di ogni epoca, le quali caratterizzano, come in una sorta di timbro generale, lo stesso sviluppo artistico. Mi riferisco a quei concetti di valore ideale, veri e propri filtri estetici dell’immagine, quali il ‘’bello’’ ed il ‘’vero’’, il concetto di ‘’classico’’ e di ‘’natura’’, l’idea del ‘’sublime’’ e del ‘’pittoresco’’, del successivo ‘’realismo’’, e ancora più in là nel tempo lo stesso concetto di ‘’modernità’’, l’ ‘’avanguardia’’ e la ‘’concettualità’’ , e così via. Per quanto riguarda tutti questi aspetti, alla fine, bisogna ammettere che non si rileva una differenza sostanziale tra un artista di duecento anni fa e quello contemporaneo. Voglio dire che se nelle parole di Ingres emerge una concezione ideale dell’arte improntata sul ‘’classicismo’’, nelle parole di Delacroix l’accento sarà invece posto sul filtro opposto, quello ‘’romantico’’, in Van Gogh su quello ‘’realistico’’. In questo senso è chiaro che ogni grande artista è prima di tutto un rappresentante storico dell’idealità artistica del proprio tempo, ed in questo senso c’è una perfetta corrispondenza tra un artista contemporaneo ed uno del passato. Basterebbe sostituire l’idea di ‘’classicità’’ con quella di ‘’concettualità’’, e noteremo più affinità e corrispondenze piuttosto che differenze. Una differenza brusca, un vero e proprio cambio di registro, lo si percepisce invece quando questi artisti iniziano a parlare dell’immagine: gli artisti del passato, parlano e ragionano infatti nei termini di una potenzialità espressiva circoscritta al mezzo tecnico utilizzato (la pittura in questo caso). Questi testi in maniera diversa, e certamente secondo un diverso stile da un autore all’altro, ci parlano dell’immagine filtrata ed analizzata sempre attraverso il suo mezzo: l’immagine attraverso il colore e la linea, l’immagine e la sua luce nel contrasto con il buio; la forza del colore: come cioè un colore si accende e si esalta in rapporto ad un altro; la composizione delle forme e la forza del segno; come leggere le pitture dei grandi maestri del passato e come carpirne i segreti nascosti nella composizione generale, e così via. Il rapporto con l’immagine non è poi riservato ad una discussione ristretta alla superficie pittorica, ma è tutta la realtà della vita che filtra da queste parole, con i suoi colori e forme che confluiscono nel quadro; è questo che si percepisce nelle parole di questi artisti: i colori sono i colori che fanno la realtà dell’immagine, il riferimento alla realtà è sempre preciso, chiaro.
L’immagine si ricompone pittoricamente sulla tela dipinta, si percepisce il quadro come una superficie osmotica, il luogo in cui l’immagine della realtà si riproduce con naturalezza, la realtà concreta diviene realtà dipinta. Mi concedo qui una citazione, perché vorrei riportare le parole di Van Gogh, per far capire in che senso questi artisti riflettevano sulla realtà dell’immagine attraverso la realtà pittorica. Così Van Gogh scrive di quello che sarà uno dei suoi più celebri capolavori: Ho ancora gli occhi stanchi, ma intanto avevo una nuova idea nel cervello, ed eccone lo schizzo. Sempre tele da trenta. Questa volta è la mia stanza da letto, solo che il colore deve fare tutto, dando attraverso la sua semplificazione uno stile più grande alle cose, e deve suggerire il riposo o in genere il sonno. Insomma la vista del quadro deve riposare la testa, o meglio l’immaginazione. I muri sono lilla pallido. Il pavimento è a mattoni quadrati rossi. Il legno del letto e le sedie sono giallo burro chiaro, il lenzuolo e i cuscini verde limone chiaro. La coperta rosso scarlatta. La finestra verde. La tavola di toilette arancione, il bacile blu. Le porte sono lilla. E non c’è altro – nient’altro in questa stanza con le persiane chiuse. La quadratura dei mobili deve rafforzare l’idea di un riposo inalterabile. Sul muro di entrata, uno specchio, un asciugamano e alcuni vestiti. La cornice - dato che non c’è niente di bianco nel quadro – sarà bianca.
Ora facciamo un passo avanti nel tempo e andiamo a vedere che cosa succede e cosa dicono gli artisti quando parlano dell’immagine in un tempo a noi molto più prossimo. Rivolgiamoci dunque agli anni ottanta, agli anni del ‘’ritorno alla pittura’’, e vediamo di cercare un po’ di documenti sugli artisti che hanno fatto la storia dell’arte di quegli anni, artisti celebri oggi come lo erano allora. Su internet si trovano molte interviste, non ho trovato invece molti documenti scritti. Tuttavia le interviste e i pochi scritti, sembrano sufficienti per farci un idea di un cambiamento abissale nel cuore e nello spirito dell’artista, di un nuovo modo di concepire il mezzo tecnico (la pittura in questo caso), di un nuovo modo di analizzare l’immagine ed il suo senso rispetto alla realtà. Da tutte queste interviste, la prima cosa che mi è saltata subito alla mente è questa: l’immagine non viene più discussa e filtrata attraverso le caratteristiche specifiche del medium. Nelle parole degli artisti contemporanei si percepisce come un ironia intellettuale, una artificialità nel parlare e nel descrivere che fa presentire un vuoto, si vive e si lavora artisticamente come se si stesse partecipando ad una partita a scacchi. Potremmo dire che con un atteggiamento progressivo che va dagli anni settanta in poi, l’attenzione dell’artista si allontana dal proprio mezzo distintivo ed elettivo di espressione, come per esempio la pittura, per focalizzarsi esclusivamente su un nuovo mezzo linguistico. Si tratta sicuramente di un medium più problematico, diverso da quelli del passato perché totale, indistinto, una vera e propria realtà che si costituisce come medium. Questo nuovo medium è, a mio parere, il sistema dell’arte stesso: esso si costituisce autonomamente, con regole e leggi proprie, che potrebbero sembrare bizzarre al di fuori di esso (volete una prova? Provate a convincere una qualsiasi persona, anche quella con la mentalità più aperta e progressista che un cavallo dentro una galleria è un’opera d’arte e non un semplice
cavallo, o che una scatoletta contenente merda possa esser venduta a peso d’oro e considerata arte), ma che al suo interno non lo sono, e si costituiscono come un vero e proprio linguaggio, medium. Il cambiamento storico è reale e profondo, e non è risolvibile con il paradosso comico del ‘’si stava meglio quando si stava peggio’’. Quindi niente più campi di grano, cieli di luce all’alba o al tramonto da osservare, nessuna stanza d’albergo o café da ritrarre e raccontare attraverso l’immagine, perché questo non è più lo spazio esistenziale e concreto dell’artista contemporaneo, la sua realtà è ormai diversa. Il fatto è di natura antropologico-sociale: il mondo dell’artista, quello che lui vive, è profondamente cambiato; la vita di un artista è infatti possibile unicamente all’interno del mondo dell’arte, del sistema dell’arte, con tutti i suoi cerimoniali estetici e riti di accettazione. Chi pensa o vuole diventare un artista non può pensare di stare fuori da tutto ciò, anche se fugge per qualche mese in campagna o si ritira geograficamente a vivere in Alaska, sa bene che i suoi spazi di vita reale sono quelli offerti dalle gallerie e da tutti gli spazi adibiti ai rituali dell’arte (musei, fondazioni, fiere, biennali etc.). Qui avvengono gli incontri sociali che professionalizzano e legittimano la figura dell’artista.
Questi luoghi nella loro generalità spaziale hanno oggi un nome ben preciso, noi tutti riconosciamo tale generalizzazione spaziale nel termine white-cube. E’ qui dentro che avviene la trasformazione, il salto del valore tra quello che è arte e quello che non lo è, ed è questo spazio fisico che permette la riconoscibilità sociale dell’artista che altrimenti non ne avrebbe una. Queste quattro pareti bianche pensate per contenere l’opera d’arte diventano anche il centro sociale e comunitario per la vita dell’artista e degli altri addetti ai lavori. L’artista diviene così artista a prescindere dalla propria specificità di ‘’medium’’ ed opera. Si può diventare artisti con un ombra proiettata sul muro, con un chiodo affisso alla parete, con una leggera linea su un foglio di carta, con il nulla; basta però che questo nulla venga presentato nelle quattro mura bianche della galleria, assieme ad una classe, gruppo di intellettuali che possa legittimare l’operazione artistica. Ma ritorniamo alle interviste di alcuni protagonisti dell’arte degli anni ottanta. Alla domanda sul perché si fosse ritornati alla pittura dopo anni di arte concettuale, tutti rispondono facendo si che la risposta sia quasi troppo banale per essere vera. Una sorta di verità talmente sfacciata che non possa esser considerata come vera, come se la verità della risposta fosse così esplicitamente palese da essere negata, da scomparire nella burla. Tra tutte le risposte date, comunque, nessuna affronta neppure alla lontana il problema dell’immagine rispetto al suo mezzo, cioè il fatto che un determinato mezzo, la pittura in questo caso, diventi in quel momento funzionale ad essere utilizzata per esprimere un immagine, un’idea. Si userebbe cioè la pittura proprio perché ci sono dei motivi ben precisi per usarla, magari legati all’idea stessa che l’artista ha dell’arte o dell’immagine, per cui per dire ‘’quelle cose’’ si può usare solo la pittura e non il video o l’installazione, o la performance, o la fotografia etc.
Niente di tutto questo: prima la pittura non si faceva semplicemente perché era proibita, rigettata dalla comunità degli intellettuali, o dai galleristi. Allora, proprio per questo, la pittura non si poteva fare; poi viene scelta ed utilizzata perché in fondo si inizia a percepire che l’arte concettuale aveva stancato, era diventata una fredda estetica dei rituali e del gioco dell’arte. Intellettuali e mercato avrebbero successivamente accettato e permesso la pittura, anche perché una tela si può vendere meglio rispetto ad un vasettino ripieno di merda. La spiegazione finisce qui, certo qualcuno la condisce meglio aggiungendo qualche intellettualismo, la maggior parte gioca la carta della semplificazione massima (così il pubblico non potrà che pensare ad un’altra verità, che l’artista rifugge di dire perché troppo complicata e profonda), ma la verità si desume facilmente, sopratutto dal modo in cui gli artisti del nostro tempo raccontano la loro storia (basta un poco di attenzione e spirito d’osservazione). Il passaggio all’antico medium, quello pittorico, non è motivato da nulla se non per un tentativo giocato per il successo di essere artista, una strategia giocata per rendersi visibile. Invito in questo senso il lettore ad ascoltare il contributo di Salvo sull’argomento, durante l’incontro del 9 gennaio 2014, dal titolo ‘’Anni ‘70. Arte a Roma: i protagonisti raccontano’’, tenutosi al Palazzo delle esposizioni di Roma (https://www.youtube.com/watch?v=zx03DZX6fcc); o quello di Sandro Chia in conversazione con Daniela Lancioni e Danis Viva a villa Carpagna (https://www.youtube.com/watch?v=_9XTW_4o0qk ). Sandro Chia non si discosta molto dalla versione di Salvo, però verso la fine dell’intervista, dice una cosa di primaria importanza per la nostra ricerca, e che ci fa capire come Chia sia prima di tutto un ‘’artista contemporaneo’’ e soltanto successivamente ma non necessariamente un ‘‘pittore’’. In quanto artista contemporaneo, e non come pittore, ha infatti compreso cosa bisogna fare per essere-diventare un artista, e della pittura dice questo: la pittura non è più romantica, ha la stessa valenza di un opera concettuale, perché è fatta con l’idea concettuale, non è la risultante di un impeto vitale, ma è il prodotto di un ragionamento culturale assai disperato Questa affermazione di Chia è importantissima perché analizzata parola per parola, ci può portare a capire quelli che saranno gli esiti successivi della pittura nell’arte contemporanea. Quando Chia dice che ‘’la pittura non è più romantica’’ e che ‘’non è la risultante di un impeto vitale’’, enfatizza come questo antico medium, oggi, non può essere più utilizzato quale semplice mezzo (pittura) in vista di un fine (arte), perché il mezzo pittorico in se non permette più, da solo, una riflessione sulla realtà destinata a diventare arte. Questo perché è avvenuto? Lo si deduce dai due sostantivi usati da Chia: la pittura non è più ‘’romantica’’ perché lo sarebbe solo se nel suo uso, nel suo essere mezzo per un fine (l’arte), essa si rivolgesse ad esprimere la realtà, la realtà della vita, quella di ogni uomo, quella che accomuna tutti gli uomini, e per tal ragione comprensibile e condivisibile nel suo senso più profondo a tutti gli uomini. Ma la pittura per essere arte non ha più bisogno di accomunarsi alla vita, di essere un ‘’impeto vitale’’, qualcosa che scava nel profondo delle cose, che manifesta artisticamente il mondo, un mondo terribile ma grandioso perché riguarda comunque l’uomo, il genere umano. La pittura per essere arte non ha più bisogno di raccontare la realtà, ed è per questo che non è più ‘’romantica’’ né ‘’vitale’’, ma ‘’è fatta con un idea concettuale’’ ed è il ‘’prodotto di un ragionamento culturale assai disperato’’. Qui arriviamo ad un altro punto importantissimo, bisogna capire perché e come, secondo Chia, si è giunti alla ‘’disperazione’’. Se pensiamo all’arte in generale, e alla sua qualità di essere idealmente un espressione del pensiero, potremo definire concettuale la produzione artistica di ogni secolo della storia dell’uomo. Questo credo possa esser detto per tutte le epoche, e Joseph Kosuth, in un certo qual modo sosteneva proprio questo: il paradosso artistico kosuthiano, fu quello di escludere, eliminare la creazione formale dell’opera in favore della sua sola idea originaria, del suo solo concetto. Tutti i grandi artisti della storia, i più ‘’romantici’’ e ‘’vitali’’, sono stati prima di tutto artisti
Sandro Chia, The Idleness of Sisyphus
‘’concettuali’’. Da Michelangelo al Pontormo, da Rubens a Delacroix, da Van Gogh a Bacon, tutti questi straordinari artisti hanno espresso in pittura, nella sostanza della pittura, una certa concettualità (se con questo termine intendiamo un’idea primaria ed astratta che viene poi trasmessa formalmente, concretizzata nell’oggetto artistico, nel quadro, nel dipinto). In tutto ciò, dunque, non ci sarebbe nulla di nuovo, né tantomeno di disperato. In questa cosiddetta concettualità non ci sarebbe nulla di terrificante. Ma Chia, evidentemente, intende qualcosa di diverso, di disperato, perché c’è qualcosa di disperato nella concettualità della pittura dell’artista contemporaneo. La pittura di cui parla Chia è infatti ‘’il prodotto di un ragionamento culturale assai disperato’’. Se la pittura per essere-diventare arte non può più rivolgersi alla vita, al mondo dell’uomo, ma solo ed unicamente al suo sostituto, il mondo/sistema dell’arte, allora anche la pittura diviene un ‘’mezzo come un altro’’, sostituibile come e quando si vuole, perché una volta rotto quel rapporto osmotico tra pittura, vita e arte, ogni mezzo diviene interscambiabile. Pittura, scultura, fotografia, video, performance, ogni mezzo ‘’va bene’’, ‘’funziona’’, basta solo che questo mezzo sia riportato alla giusta realtà, che non è più il ‘’vitalismo del mondo’’, ma un ‘’ragionamento culturale’’. Diviene dunque artista chi capisce per primo quali siano le migliori carte da giocare ed offrire al sistema arte per ottenere il tanto ricercato riconoscimento artistico. L’artista contemporaneo diviene un ‘’disperato’’ perché in favore della propria riconoscibilità sociale di artista, ha sacrificato il suo originario rapporto con il vitalismo del mondo e di conseguenza delle immagini, lasciando cadere dalle sue mani la sua unica arma di difesa, quel mezzo tecnico che per secoli gli ha permesso di esprimere una condivisione originaria con il mondo tutto e con se stesso. All’interno del sistema dell’arte, le scelte si fanno sulla base del sistema stesso: è il sistema che determina le regole del gioco e l’arte non può andare oltre l’immagine creata attraverso un ‘’ragionamento culturale’’. Nasce dunque così la ‘’disperazione’’ di cui Chia accenna. Quello che ai tempi di Chia era però un sistema dell’arte in formazione (questo viene affermato chiaramente nell’intervista), con i suoi pregi e difetti, è diventato oggi un gigantesco apparato economico di continua e smodata produzione del valore artistico. Lo sviluppo in termini capitalistici del sistema dell’arte ha gradualmente eliminato quella che per Baudrillard sarebbe una giusta ‘’referenzialità del valore’’ a vantaggio di un ‘’gioco strutturale del valore’’. Il sistema dell’arte si costituisce infatti come una dimensione strutturale del valore sempre più autonoma rispetto alla più concreta dimensione referenziale, per cui scomparsi i cardini referenziali che radicavano il valore nella realtà, tutto può essere arte.
Nella sua autonomia strutturale di valore, il sistema arte decide cosa sia e non sia arte nella relatività più totale. Nel corso della storia questi cardini referenziali del valore sono stati diversi: dall’utilizzo del mezzo tecnico propriamente artistico, quale la pittura o la scultura (da qui la definizione di ‘’Belle Arti’’), fino ad una propria normatività referenziale rispetto ad un canone considerato appunto come valore (il valore ideale delle proporzioni, i dogmi rappresentativi della religione, il valore del bello e del vero, dell’uomo a misura delle cose, della naturalezza e dell’artificio, della copia e dell’insegnamento degli antichi maestri etc.). Tutto questo ha permesso nel corso dei secoli l’esistenza di una sostanziale ‘’referenzialità del valore’’ adeguato alla realtà delle cose.
Tra gli anni 70 e gli anni 80, in Italia come nel resto del mondo capitalistico, inizia a strutturarsi e a nascere un vero e proprio sistema dell’arte. Abbiamo già sottolineato come lo stesso Chia, nella sua intervista, affermi che negli anni 70 non esisteva un vero e proprio sistema dell’arte. Veri e propri Dioscuri della formazione di questo sistema, almeno in Italia, sono sicuramente le figure di due curatori, oggi famosissimi e che sono passati alla storia: Germano Celant ed Achille Bonito Oliva. Quest’ultimo forse più di Celant, sembra aver compreso quelle che sarebbero state le dinamiche ‘’antropologiche’’ successive dell’arte contemporanea e del suo sistema. Achille Bonito Oliva, con un fortunato e certamente significativo parallelo tra contemporaneità e Manierismo, riesce a delineare alcuni elementi guida dell’evoluzione dell’arte degli ultimi 30 anni (invito alla lettura del saggio ‘’L’ideologia del traditore’’). Nel Zeitgeist del proprio tempo il critico campano introduce un ideale di artista contemporaneo in cui la coscienza infelice del potere ipoteticamente ‘’tutto’’ ma concretamente ‘’nulla’’, si manifesta in una frustrazione intellettuale dell’ironia e dell’artificio, attraverso una sorta di virtuosismo tecnico del dissenso; l’artista diviene capace di operare solo nel linguaggio e non più sulle cose, secondo un operazione di chiara natura metalinguistica che inibisce il contatto con la realtà, causando una conseguente angoscia interiore che giunge all’eccentricità più bizzarra. Tutto questo risulta assolutamente vero ed interessante per l’analisi di una deriva storica risalente agli anni 80, di cui però si calcolava già in un certo senso il fondo. Oggi potremo dire che questa situazione è stata lungamente superata. Tutto il discorso di Bonito Oliva, mantiene infatti intatti i cardini della ‘’referenziabilità del valore’’, si mantiene cioè all’interno del linguaggio, quello, nel nostro caso, della pittura, la quale continua ad essere un ‘’mezzo’’ per un ‘’fine’’ (arte). La frustrazione intellettuale, le difficoltà nel rapportarsi alla realtà si traducono, è vero, nell’artificio, nel virtuosismo dell’immagine, ma questa traduzione avviene sempre e comunque all’interno del linguaggio stesso, nel medium pittorico. In altre parole esiste ancora una ‘’referenzialità di valore’’ con un qualcosa di reale, la pittura in questo caso, che rimane mezzo per un fine.
Cosa succede però quando questa ‘’referenziabilità del valore’’ con la realtà diminuisce sempre più in favore di un ‘’autonomia strutturale del valore’’ imposta dallo stesso sistema arte? Succede che l’artista capisce che per diventare un artista non ha più bisogno di padroneggiare un determinato medium, ma il suo unico obiettivo diviene quello di saper padroneggiare, o meglio, sapersi districare tra le regole di quella ‘’autonomia strutturale del valore’’ imposta dal sistema arte. Una prova visiva di quello che sto dicendo, è facilmente rintracciabile nelle modalità di autorappresentazione che la macchina del sistema arte produce di se stessa. Vi sarà certamente capitato di rivedere le immagini di una mostra su internet, su un catalogo, o su una rivista, e vi sarete accorti che le modalità di rappresentazione sono sempre le stesse. Per semplificare vorrei definire questa modalità di rappresentazione con il nome di installation shot. Cosa succede in questo spazio fotografico e che senso ha rispetto all’opera pittorica? Premetto che questo discorso ha un senso ed un significato sopratutto per la pittura, mentre per altre forme di espressione come la scultura o l’istallazione, il discorso si pone su piani differenti e avrebbe bisogno di ulteriori approfondimenti. Limitandoci dunque alla pittura, bisogna anzitutto chiedersi cosa visivamente si rappresenta con l’installation shot, e cosa noi vediamo in esso. L’installation shot è un colpo d’occhio fotografico che presenta tre elementi: lo spazio, quindi il white-cube; le opere dell’artista, quindi in questo caso i suoi dipinti; ed infine un terzo elemento, non meno importante dei primi tre, la scelta espositiva del curatore, come cioè le opere sono state allestite nello spazio. Siamo di fronte ad una nuova trinità composta da tutti quegli elementi capaci di sostanziare il valore arte. Di seguito due immagini relative all’installation shot: cosa vediamo?
Sicuramente vediamo e ci rendiamo conto di come viene enfatizzato lo spazio luminoso, bianco, e preciso della galleria, con una sorta di revival neo-rinascimentale e futuribile della prospettiva; poi vediamo tanti piccoli quadrati e rettangoli colorati sui muri, disposti secondo un ordine e bilanciamento perfetto. Tutto dunque chiaro e comprensibile sennonché si prende coscienza che quello che dovrebbe essere il primo elemento enfatizzato, in quanto opera d’arte, il dipinto appunto, viene rappresentato come francobollo colorato sul muro. La domanda che ci si dovrebbe porre è questa: perchè e quando si è venuta a creare una mentalità, un modo di rappresentare l’opera d’arte, il dipinto, in questa maniera? E sopratutto nel caso del dipinto, in quanto forma autonoma e circoscritta su un piano definito, perché si è arrivati a questo tipo di rappresentazione?
Se si volesse mostrare l’opera non si farebbe prima a fare una foto dettagliata dei singoli dipinti? Perché fotografare anche lo spazio della galleria in maniera così decisa e sbilanciata, tanto da far pensare che l’opera stessa sia lo spazio espositivo? La risposta è semplice e l’ho in qualche modo già data in precedenza. Nell’attuale sistema dell’arte la scala dei valori se non capovolta, si è sicuramente strutturata secondo i parametri stessi del sistema arte, la cui capacità legittimante si basa su una auto-referenzialità del valore. Posta così la questione, io credo che si possa azzardare una definizione dell’installation shot quale immagine-documentazione del valore trinitario (whitecube+curatore+artista) che il sistema arte ha creato di se stessa. Queste immagini mettono infatti in bella mostra prima di tutto lo spazio legittimante della galleria, poi la disposizione-presentazione dei quadri nello spazio (vale a dire la scelta estetica del curatore nel raggruppare un certo numero di dipinti degni dell’etichetta ‘’arte’’ e di disporli armoniosamente sulle pareti bianche), ed infine il lavoro dell’artista.