Jean de Maleissye
Storia dei veleni da Socrate a oggi introduzione di
Carmen Covito
O D O YA
Titolo originale
Histoire du poison © éditions François Bourin, 1991 Traduzione: Maria Teresa Beccaria Prima edizione italiana: SugarCo 1993 Revisione traduzione e ricerca iconografica: Odoya srl Hanno collaborato: Corinna Barchetta, Michele Filippini, Matteo Landi Un ringraziamento particolare a Jean de Maleissye e Carmen Covito © 2008 Casa editrice Odoya srl Tutti i diritti riservati isbn: 978-88-628-8019-0 Odoya srl Via Benedetto Marcello 7 - 40141 Bologna www.odoya.it
Introduzione di Carmen Covito
Solo pochi decenni fa, pensare a un assassinio per veleno poteva far sorridere, perché la mente andava subito a figurarsi stregonerie, pozioni medievali e fattucchiere da fiaba oppure criminali subdoli alle prese con investigatori da romanzo, meglio se con un po’ di nebbia attorno: insomma, se non era Biancaneve doveva essere per forza Agatha Christie. Grazie ai progressi della medicina legale e della tossicologia scientifica, il veneficio non sembrava più praticabile nella realtà, dopo essere stato per secoli un utile strumento politico nelle mani di cardinali e principi e un’arma casalinga alla portata di tutte le massaie. Tra P38 e bombe che esplodevano sui treni, alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta del Novecento arsenico e vecchi merletti sapevano senz’altro di naftalina. Poi nel 1986 il banchiere Michele Sindona, in carcere per bancarotta fraudolenta e omicidio, bevve un caffè al cianuro. Nel 1995 a Tokyo una setta di fanatici religiosi fece una strage nella metropolitana uccidendo 12 persone e intossicandone seimila con il gas nervino sarin. Nel 2003, mentre George W. Bush lanciava sull’Iraq la sua guerra preventiva sventolando lo spauracchio di armi di distruzione di massa a base di veleni chimici e biologici che poi si rivelarono inesistenti, in Italia si diffondeva una vera e propria psicosi collettiva per le bottiglie d’acqua minerale contaminate nei supermercati con iniezioni di varechina o altri prodotti tossici da misteriosi sabotatori mai individuati. E nel 2006 hanno fatto il giro del mondo le drammatiche foto dell’ex agente del KGB Aleksandr Litvinenko avvelenato con il polonio-210, un micidiale e molto moderno isotopo radioattivo. I veleni, come gli esami, non finiscono mai. Difficilmente si potrà sapere quando precisamente siano cominciati, da qualche parte nella preistoria, nel momento in cui un australopiteco
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particolarmente sveglio o un homo sapiens molto osservatore rubò a un ragno o a una vipera l’idea di usare una sostanza tossica per ammazzare più facilmente le prede e poi, visto che c’era, anche i rivali; ma a partire dall’epoca dei magdaleniani, che ci hanno lasciato punte di freccia con minute incisioni che servivano a trattenere e inoculare un veleno da caccia, la storia dei metodi di avvelenamento, delle preparazioni e delle loro conseguenze sulla vita, la morte e la fantasia degli esseri umani è ben Basilisco a supporto dello stemma civico documentata, ricca e densa come di Basilea, caricato del pastorale vescovile, un composto alchemico. L’ormai stampa del XVI secolo classico saggio di Jean de Maleissye ricostruisce e interpreta questa storia con intuizioni acute, e a volte folgoranti come, da Plinio in poi, si credeva che fosse lo sguardo del basilisco, un minuscolo e mitico serpente nato da un uovo prodigiosamente deposto da un gallo e velenosamente covato da due rospi. Apprendiamo da questo libro che il fascino esercitato sull’immaginazione di poeti, artisti e proto-scienziati dell’antichità dalle sostanze più o meno mortali offerte (a sperimentatori spesso involontari e spiacevolmente sorpresi) dal mondo vegetale e animale ha prodotto nel tempo molta mitologia, non pochi personaggi memorabili, qualche meraviglioso trattato di farmacologia per metà vera e per metà fantastica, e, insieme alle svariate superstizioni popolari arrivate quasi intatte fino a noi, credenze e simbolismi duri a morire. In più, il veleno ha prodotto infinite metafore, proverbi, modi di dire. In italiano, il termine stesso che indica la sostanza porta in sé un carico di informazione storico-fantastica: “veleno” (o “veneno” come era voce comune all’epoca di Dante) viene direttamente dal latino venenum, che gli etimologisti mettono in connessione con Venere. Perché? Cosa c’entra la dea dell’amore con una «sostanza tossica che, se penetra in un organismo e ne viene assorbita anche in piccola quantità, produce effetti gravissimi,
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anche letali»? Forse ce lo può spiegare Ovidio, grande esperto di cose veneree. Infatti, nell’ottava elegia del primo libro degli Amores ecco che la mezzana Dipsas (l’ubriacona) insinua nell’orecchio della bella Corinna velenosi consigli su come circuire e rovinare un uomo: «Serviti della lingua per celare la mente: lusingalo e fagli male. I veleni spietati si nascondono sotto il miele più dolce». Di gran lunga più ingenuo in fatto di vicende amorose ma molto più audace nell’uso della metafora, Petrarca un bel migliaio d’anni dopo cantava la sua Laura dichiarandosi un peccatore sì, ma non pentito «che di dolce veleno il cor trabocchi». E in un sonetto ribadiva l’immagine: «Per quel ch’io sento al cuor gir fra le vene / Dolce veneno, Amor, mia vita è corsa». Nei secoli, l’ossimoro “dolce veleno” è diventato una banalità sconfortante: già Ippolito Pindemonte se ne rendeva conto, visto che cercò inutilmente di rivitalizzarlo attaccandogli un aggettivo insolito («E dal torbido sempre, o dal sereno / Lume degli occhi suoi pendendo, berne / L’incendioso lor dolce veleno»), e molto meglio ha fatto di recente Gianna Nannini con il suo memorabile: «questo amore è un gelato al veleno». Ma forse più che la linea della dolcezza si dovrebbe seguire quella dell’amarezza, e in questo ci può fare egregiamente da guida il grande Lucrezio, che di veleni amari se ne intendeva anche troppo: si dice infatti che fosse impazzito, finendo per suicidarsi a 44 anni, a causa di un filtro d’amore propinatogli a tradimento da un’incauta che non sapeva quello che faceva, o da una sciagurata che lo sapeva benissimo. “Venenum” infatti era in origine una qualunque pozione di erbe, filtro amoroso o no. Il Digesto giustinianeo raccomanda che «qui venenum dicit, adicere debet utrum malum an bonum, nam et medicamenta venenum sunt», chi dice veleno deve aggiungere cattivo o buono, perché anche le medicine sono veleni. Tutto dipende dalle dosi, avvertiva più tardi il saggio Paracelso; ma lo stesso Lucrezio, nel suo per nulla delirante poema filosofico-scientifico sulla Natura, era andato anche oltre, sostenendo con vari esempi che gli effetti dipendono anche dalla reazione del soggetto, poiché «ciò che per uno è cibo, per altri è un amaro veleno», e lo impararono a proprie spese gli uomini dei primi tempi, che spesso si avvelenavano da soli per imprudenza o ignoranza, mentre «quelli di adesso più scaltramente lo danno loro agli altri». In un altro passo del poema, Lucrezio anticipava le preoccupazioni dei medici forensi di oggi: «se vedi da lontano il corpo di un uomo steso senza vita, ti conviene dire tutte le cause di morte possibili perché sia detta l’unica vera. Non potresti
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infatti dimostrare che sia morto di spada o di freddo o di malattia o magari di veleno, ma un qualcosa del genere gli è capitato, lo sappiamo». Se il veleno è inteso in questo modo, non metaforicamente, dall’amore alla morte il passo può essere davvero breve. Chi non ricorda l’avvelenamento più famoso della letteratura mondiale? «Farmacista sincero! Il tuo veleno è rapido. E così, con un bacio, io muoio!» e Giulietta svegliandosi da quello che oggi chiameremmo un coma farmacologicamente indotto vede Romeo esanime, trova la coppa vuota, tenta invano di avvelenarsi a sua volta baciandogli le labbra dove spera di trovare una stilla residua di veleno e, alla fine, è costretta a pugnalarsi. Ma sono veleni anche sostanze non necessariamente o non immediatamente letali: “Chi fuma avvelena anche te. Digli di smettere!” fu il tormentone di una Pubblicità Progresso realizzata tra il 1975 e il 1976. Espressioni che appaiono molto moderne come “atmosfera satura di veleni”, “inquinamento da veleni industriali”, o “il veleno dell’individualismo”, “delle ideologie” eccetera, riposano su una lunga storia di spostamenti metonimici e metaforici. Masticare veleno. Mandar giù veleno. Sputare veleno. Avvelenarsi l’esistenza. Il veleno della gelosia, dell’invidia, del rancore, del-
La morte di Romeo da Tales from Shakespeare di Charles e Mary Lamb, 1901
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l’avarizia. «Voler che il balsamo si converta in veleno!» (Carlo Goldoni). «A Renzo quel poco mangiare era andato in tanto veleno» (Alessandro Manzoni). «La festa gli si cambiò tutta in veleno soltanto a pensarci» (Giovanni Verga). Oltre all’amore e all’odio, per estensione, è stata fatta rientrare nel campo dei veleni ogni esperienza umana che includesse anche il minimo sospetto di un danno inflitto al corpo o ai sentimenti propri o altrui. Dante: «Ben conobbi il velen dell’argomento». Sant’Agostino: «Il veleno della curiosità è il sentimento tipico di un’anima morta». Italo Svevo: «La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni». Sono considerate velenose anche, o soprattutto, le parole. Insinuazioni velenose, detto con una punta di veleno, malignità velenosa, penne avvelenate. A proposito di lingue velenose, è perfido e gustoso l’aneddoto con cui veniva decorato il ritratto di Pietro Aretino nella Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis: «Non gli spiacea aver nome di mala lingua, anzi era parte della sua forza. Francesco Primo gl’inviò una catena d’oro composta di lingue incatenate e con le punte vermiglie, come intinte nel veleno, con sopravi questo esergo: ‘Lingua eius loquetur mendacium’. Aretino gli fa mille ringraziamenti» racconta divertito De Sanctis. E poi aggiunge: «Quando non gli conviene dir male delle persone, dice male delle cose, tanto per conservarsi la reputazione». Come recita il proverbio, in cauda venenum: la botta di veleno arriva sempre quando non te l’aspetti più.
Prefazione
A partire dalla sua comparsa sulla terra la vita non ha mai cessato di evolversi e diversificarsi, ricorrendo a meccanismi regolatori capaci, essi soli, di mantenerla in armonia con l’ambiente che l’accoglieva. Uno di questi è un elemento che può essere mortale: il veleno – poiché è di esso che stiamo parlando – uccide, ma partecipa anche dei grandi equilibri naturali e salvaguarda le varie specie. È grazie ad esso che molti insetti possono uccidere le loro prede e nutrirsi, mentre altri ne fanno uso per proteggersi efficacemente da nemici più potenti. Ma negli organismi più evoluti è misteriosamente venuta meno la componente venefica, come se la sua funzione fosse divenuta incompatibile con l’organizzazione dei vertebrati superiori. È così che gli uccelli, i mammiferi e, fra questi ultimi, i primati, sono privi di un apparato venefico. L’uomo, punto d’arrivo di questo lungo percorso evolutivo, non è dotato di alcuna arma naturale di questo tipo; ma egli si è ingegnato a ricostruire per sé – e in seguito a perfezionare senza tregua – ciò che la natura gli aveva rifiutato. Non dispone di aculei né di denti avvelenati, ma possiede in compenso lo strumento più velenoso che in assoluto esista, sempre che, s’intende, venga usato a fin di male: il cervello. Ben presto l’uomo è riuscito a imitare quel che aveva osservato nei suoi lontani cugini che possedevano il veleno, adattandolo alle proprie necessità di caccia. In origine, l’uso del veleno era unicamente una necessità di vita, ma molto rapidamente venne esteso alla guerra. L’uomo non poteva sfuggire a questa fatalità, che non sempre riesce a evitare. Nell’utilizzazione criminale del veleno, ci troviamo quasi sempre di fronte a una mistura di dissimulazione, di segreto e di menzogna. Le rare eccezioni che contravvengono a questa regola aiutano a capire meglio la vera natura del veleno, squisitamente ambigua. Non è possibile confonderlo con una comune sostanza tossica, così come in materia penale non è
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possibile confondere gli omicidi volontari con quelli involontari; di conseguenza, la storia evolutiva delle sostanze tossiche e il loro impiego normale e accidentale non fanno parte di questo saggio. Abbiamo limitato il nostro interesse al veleno nel suo aspetto violento e criminale, cioè a quando viene usato con il cosciente proposito di mettere fuori combattimento, temporaneamente o definitivamente, avversarie vittime. È uno strumento che resta innanzitutto l’arma dei deboli, di tutti coloro che hanno bisogno di un’ombra che li protegga, per colpire e imporsi. Un tempo, la convivenza del veleno con l’uomo era quotidiana. I grandi di allora lo temevano e dovevano diffidare di tutti, in particolar modo delle persone più prossime, che potevano in ogni istante trasformarsi in avvelenatori. Paragonato ad altri “metodi” di eliminazione fisica, il veleno presentava evidenti vantaggi pratici. Era facile procurarselo e non costava eccessivamente. Non esistevano, o erano pochi, i mezzi efficacemente preventivi, né a molto servivano i rimedi terapeutici. L’impresa, adeguatamente condotta, lasciava ben poche possibilità alla vittima. Il criminale doveva osservare un minimo di precauzione per evitare di essere scoperto e, soprattutto, cercare di conferire all’accaduto un aspetto del tutto naturale, così da lasciar sempre aleggiare un’ombra di dubbio sulla vera causa del decesso. A tale proposito, la migliore tecnica d’eliminazione consisteva nell’usare un veleno capace di simulare una malattia a evoluzione lenta, ma con prognosi fatale. Il veleno avrebbe potuto rimanere per lungo tempo il collaboratore più prezioso nelle alterne vicende, importanti o meno, politiche o domestiche, se il progresso scientifico nell’arte medica e nell’analisi chimica non fosse sopraggiunto, nel XIX secolo, a gettare lo scompiglio nell’ordine prestabilito. A poco a poco si riuscì a individuare, analizzare, prevenire e guarire sempre con maggior successo l’avvelenamento. Oggi, un veleno individuato, neutralizzato, messo a nudo, non è più un veleno, ma un comune tossico, la cui manipolazione diventa alla fin fine più pericolosa per il criminale che per la sua vittima. Questo mutamento non significa tuttavia per il veleno un esilio definitivo nel museo delle armi antiche a fianco delle spade, delle picche o delle asce da guerra, giacché, grazie alla sua natura proteiforme, esso potrebbe volgere ben presto a proprio vantaggio la stessa rivoluzione scientifica e industriale che ha minacciato la sua operatività pratica.
Prefazione
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Si annuncia l’era del veleno di massa. Quel che si riteneva stesse per cadere in disuso ritorna in auge e riprende vigore cambiando proporzione. Ormai non si tratta più di qualche grammo occultato in una tasca e poi frettolosamente versato in un bicchiere o sparso in un piatto, bensì di decine, centinaia, migliaia di tonnellate prodotte e poi disperse. All’obiettivo dell’eliminazione individuale di un tempo si sostituisce quello dello sterminio di una massa di persone sacrificate a un’idea, una causa o una razza. È la comparsa del nuovo ordine venefico, capace, in ultima analisi, di avvelenare la terra stessa. E così il veleno partecipa, fin dalle sue origini, del nostro universo, con un legame così stretto che con esso si confonde e in esso si trasforma, senza poter essere eliminato.
Illustrazione di un alambicco da Le çons élementairés de chimie (B. Bussard, H. Dubois), 1906
I. Viaggio nei paesi che usano il veleno
Gli uomini hanno imparato il tanto micidiale avvelenamento delle frecce dalle vespe, le quali caricano il loro aculeo con il veleno della vipera morta Claudio Eliano, De natura animalium
Veleni divini e mortali curiosi Sarebbero stati gli dei dell’Olimpo a cedere le ricette dei loro veleni ai poveri mortali? I greci del V secolo a.C. non nutrivano dubbi in proposito. Il loro pantheon, fra le altre meraviglie, annoverava un dio che, al momento della sua discesa sulla terra, seppe servirsi molto bene di strali avvelenati. Ercole era figlio di Alcmena e di Zeus. Per lui le cose furono difficili fin dalla nascita giacché Era, figlia di Crono e moglie di Zeus, protettrice ufficiale delle spose, non aveva visto di buon occhio la nascita di questo bastardo. Per vendicarsi di Zeus, spedì dunque al bambino, quale dono per la sua nascita, due bei serpenti che avevano il preciso incarico di divorare il neonato in culla. Ercole li scambiò per giocattoli, afferrò a piene mani i due rettili e li serrò con una forza incredibile, finché non morirono strozzati, prima di aver potuto fare uso del loro veleno. Felice auspicio per questo bambino che crebbe molto più in fretta in forza che non in saggezza. Ben presto rivelò un’eccezionale predisposizione per tutto ciò che richiedeva l’impiego di muscoli e poca intelligenza. Dopo
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aver sposato la sventurata Megara, figlia di Creonte, sgozzò i propri figli, prima di far subire la stessa sorte alla loro madre. Questo dramma di ordinaria follia non poteva rimanere impunito presso gli dei. La pizia di Delfi, consultata d’urgenza sul caso, dichiarò che bisognava senza indugio inviare Ercole dal re di Tirinto, Euristeo. La naturale autorità di cui godeva questo sovrano era tanto grande quanto piccolo era il suo regno; egli affidò ad Ercole dodici imprese di collettiva utilità, le quali avrebbero dovuto rettamente incanalare, per un certo tempo, la sua forza sproporzionata. Armato di una mazza e di un arco dalle frecce avvelenate, il nostro eroe superò con successo tutte le prove, guadagnandosi una lusinghiera reputazione di superuomo e di giustiziere. L’antenato diretto di Tarzan, di Zorro e di qualche altro eroe del genere si incaricò in seguito di sgombrare il suo mondo, pur tuttavia limitato, da briganti, tiranni e calamità di tutti i tipi che a quel tempo lo infestavano. Il lavoro non mancava e gli strali velenosi fecero miracoli. La leggenda vuole che le sue frecce straordinarie venissero intinte nella bile di un mostro policefalo, l’Idra di Lerna, che Ercole aveva ucciso. La forza leggendaria di Ercole gli procurò anche numerose avventure amorose. Nel corso di una di esse cadde sotto il dominio di Onfale, regina di Lidia, a cui l’aveva venduto Ermes, dio riconosciuto dei ladri, che era rimasto in quel momento a corto di denaro. Ercole, per amore della sua padrona, liberò il regno dagli immancabili briganti e mostri che vi imperversavano; ma, dopo questa ripulita generale, Onfale ritenne più prudente confiscargli la mazza, l’arco e anche la pelle di leone, sostituendoli con un arcolaio. Fu così che Ercole, intento a filare ai piedi di Onfale, divenne un soggetto caro ai pittori accademici. Un siffatto individuo non poteva però rimanere a lungo nello stesso posto e, nonostante tutte le lusinghe messe Ercole bambino strozza i serpenti velenosi in atto dalla regina, Ercole lasciò la inviati da Era per ucciderlo sua padrona per sposare Deianira,