Esteban n. 6

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Sono tornato a casa questa sera, ho parcheggiato distrattamente la

mia vecchia Seicento sulla strada. Più che un auto, l’Azzurra è un colabrodo. Tutte le volte che la omaggio di un pieno di benzina mi regala effluvi odorosi dai bocchettoni laterali; in quanto all’autoradio, quella i cd li ingoia, li tritura, li mastica, ci fa salsa e rock&roll. Il peggio è che non me li restituisce più. La radio, invece, è tecnologicamente un gioiellino. Non solo si accende automaticamente nei sobbalzi della strada, ma pure cambia in automatico le frequenze, e in 100 metri di percorso è capace di passare da una compassata Radio Radicale a una devota Radio Maria. Io sostengo che sceglie lei per me, si rifiuta di ascoltare i radio-giornali la mattina presto, ignora Radio Popolare alle due del pomeriggio, si entusiasma della Borsa con Radio 24 la sera. E al salto della ferrovia di Remondò decide che le previsioni di strade e autostrade d’Italia sono il cocktail che devo ascoltare in quel momento, anche se la mia strada intasata non lo è mai. Anche se ogni giorno lavorativo non esco mai dal perimetro degli inceneritori lomellini. Però non mi abbandona mai, a dispetto dei sedili bruciacchiati dalle sigarette ritornate da fuori, nonostante il ghiaccio dell’inverno e i bollori di agosto, nonostante gli spifferi e la cronica disfunzione al motore, i fendiocchiali bloccati, il freno a mano incastrato, nonostante la nausea nel dover percorrere ogni giorno lo stesso asfalto, la stessa via. Nonostante la noia del solito paesaggio, del sonno secolare che cerca di graffiare quello che la porta in giro.

NIENTE SUV QUESTA SERA di Adriano Arlenghi

il giornale dell’associazione culturale IL VILLAGGIO DI ESTEBAN inverno 2009-2010 Stampato con la collaborazione di CSV PAVIA E PROVINCIA via Taramelli 7 Pavia via Da Vinci 15 Vigevano. Hanno collaborato a questo numero : Arlenghi, Boiler Due, Giacomone, Gradinaru, Livraga, Maia, Mossi, Oisin, Prella, Protti , Ratti, Savini, Vallati. Questo numero di Esteban è dedicato ai 76 giornalisti uccisi, ai 33 rapiti, ai 573 arrestati, ai 1156 aggrediti o minacciati e ai 157 fuggiti dal loro paese, ai 570 media censurati, ai 151 bloggers e cyberdissidenti arrestati (uno dei quali è morto in prigione) ed ai 61 aggrediti fisicamente, il tutto avvenuto in vari paesi del mondo (60 dei quali operano censure su internet) nel corso del 2009 (fonte Reporters Sans Frontieres) Questo numero è dedicato in particolare a Bahman Ahmadi-Amui, giornalista iraniano condannato a sette anni e quattro mesi di reclusione e 34 frustate, e a Leily Afshar fotografa iraniana recentemente arrestata e, come tutti gli arrestati in Iran, a rischio di tortura

Per comunicare con ESTEBAN scrivi a info@ilvillaggiodiesteban.net oppure invia un fax o un messaggio vocale al numero 1782785900 o chiama il numero 3338351178.


Esperti e profani, professionisti e dilettanti, cultori della verità e mentitori, sono tutti invitati a partecipare alla contesa e a dare il loro contributo all'arricchimento della nostra cultura. (Paul K, Feyerabend, Contro il metodo) Il problema che mi si presenta qui è essere eloquente eppur sincero, lasciarmi scoprire e non fare il ciarlatano con affermazioni gonfiate .... scrivi qui di seguito: sapeva cosa voleva mai conoscenza più maligna perseguita l'uomo di quando sa illustrare chiaramente proprio ciò che sta cercando. (Patrick Kavanagh, Entrino i revisori) Don't know what I want But I know how to get it (SexPistols, Anarchy in the U.K.) I lettori più attenti se ne saranno accorti: la cadenza trimestrale con cui Esteban aveva promesso di presentarsi, ha subito qualche rallentamento, per cui in pratica il numero autunnale è uscito proprio alla scadenza astronomica della stagione. È necessario rimediare per non turbare questo ritmo naturale che Esteban si è imposto, per cui ecco a breve distanza il numero invernale. Un numero un po' più breve, così non vi stancate troppo e arrivate in forma ad un altro appuntamento ciclico: il secondo compleanno di Esteban, che si è presentato con il suo Numero Zero nella primavera del 2008. Una ricorrenza che comunque Esteban non celebrerà, né tanto meno farà bilanci della sua breve eppur intensa esistenza. Però alcune considerazioni su dove è arrivato si possono fare. Perchè Esteban non è nato con un progetto preciso e definito, non era previsto cosa avrebbe dovuto fare da grande (ammesso che mai lo diventerà, grande). È nato solo da un desiderio, da un

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bisogno di comunicare e di offrire a tutti uno spazio per comunicare, per parlarsi e raccontare di sé o del mondo. È diventato così come è oggi, bello o brutto che sia, solo per le persone che sono state disponibili a partecipare a questa avventura e che hanno lasciato qualche segno di sé su queste pagine. Forse non è propriamente quello che si aveva in mente di fare quando la storia di Esteban è iniziata, ammesso si avesse in mente qualcosa o, ancora più improbabile, che tutti avessero in mente la stessa cosa; qualcuno aveva magari in mente qualche idea che non si è potuta ancora realizzare, ma tutti hanno comunque scoperto qualcosa che non si aspettavano in quello che si è presentato su queste pagine. Esteban è ad ogni modo contento almeno di un paio di cose. Prima di tutto che quasi ad ogni numero si aggiunga qualche amico nuovo che accetta di far circolare tramite queste pagine le proprie riflessioni, le scoperte o le proprie esperienze, che sia in forma di poesia, racconto, saggio, disegno, fotografia, recensione o commento sulle cose che lo hanno colpito. In più, cosa che aggiunge ancora più piacere, chi lo fa una volta in genere ci ricasca e continua anche nei numeri successivi, segno che evidentemente trova qui un luogo accogliente. Seconda cosa, Esteban ha costretto tutti noi, anche quelli che non ci pensavano proprio, a mettere per iscritto le cose che si desiderava dire; è questo è un lavoro fantastico, perchè obbliga a sistemare le proprie riflessioni, a pensare bene al significato di ogni singola parola che si intende usare e magari alla fine scoprire che quello che si pensa non è poi così intelligente. Per noi questa è una cosa importantissima, se no, in effetti, non avremmo cercato di dar vita ad una rivista che privilegia la parola scritta come mezzo di comunicazione. E la cosa essenziale è che a questo esercizio sono invitati tutti: Esteban non ha mai voluto essere una vetrina per finti intellettuali o scrittori che si vogliono mettere in mostra, ma uno spazio per ognuno, sia per chi è più colto e vuole raccontarci le cose che lo appassionano o vede nella scrittura il proprio modo ideale di espressione, sia per chi più semplicemente, pur non avendolo mai fatto prima, vuole condividere le proprie scoperte e riflessioni. L'unica cosa che Esteban chiede ai suoi lettori e ai suoi scrittori è la curiosità, cosa che vediamo sempre più mancare intorno a noi, curiosità di incontrare cose nuove e di conoscere quello che hanno incontrato gli altri. Adesso, ad esempio, Esteban è molto curioso di sapere come sarà tra un anno... Le foto di pagina 7 e delle pagine 8 e 9 ci sono state fornite da Diego Vallati e da Claudia Mossi, che ringraziamo; le altre illustrazioni rappresentano una piccola antologia della produzione di Boiler Due, che collabora con noi sin dai primi numeri del giornale.


PICCOLI FURTI

CLEPTOMANI

di Bernardino Prella

di Franco Ratti

Chi vedesse il signor Felice attraversare Piazza della Scala in questo mattino di maggio, con passo spedito, diritto nel completo azzurro, la cravatta sistemata a dovere, i baffetti argentei appena accorciati, non riuscirebbe a indovinarne gli anni e tantomeno l’ammontare della sua pensione. Il signor Felice va verso la Galleria Vittorio Emanuele, la sta già imboccando quando il suo sguardo percepisce il movimento di una gonna a fiori. La ragazza è alta e bionda, ha una cartelletta sotto il braccio, camminando fa ondeggiare la sua lunga gonna. Il signor Felice la intercetta con una impercettibile deviazione, le passa accanto, si sfiorano, il signor Felice inspira forte, trattiene per alcuni attimi il profumo della giovane, ha gli occhi socchiusi, rallenta il passo... Poi si riprende, percorre in lungo tutta la Galleria fino al Camparino; qui si siede ad un tavolo esterno, attende tamburellando con le dita sulla tovaglia rosa l'arrivo del cameriere. Trascorre qualche minuto durante il quale il signor Felice guarda la gente passare e dalla gente si fa guardare seduto al Camparino. Arriva il ragazzo. Un caffè, ristretto! Ma appena quello rientra nel bar, lesto il signor Felice si dilegua tra la folla di Piazza del Duomo. Nella solita calca c'è il solito gruppo di giapponesi con la solita coppia che dal gruppo si stacca: portano entrambi gli occhiali: entrambi vestono di bianco: lui è alto, lei piccolina: hanno una stupenda macchina fotografica. Sono una bella copia, la coppia giusta per il signor Felice che infatti incomincia a seguirla. Prima un po' distante, poi sempre più vicino. Ora sono proprio dinanzi al portone del Duomo, lui si appresta a scattare una foto. Lei si mette in posa: alza una mano come per salutare e sorride. Il signor Felice si fa sotto. Lui regola meglio l'apparecchio. Lei continua a sorridere, ha sempre la manina alzata... Il signor Felice è attentissimo. Scatto. Il signor Felice si butta tra i due, fissa l'obbiettivo, gli occhi e la bocca aperti in un grande sorriso. Soddisfatto, s'infila in chiesa, raggiunge subito la Cappella del Crocifisso, si segna, resta un momento immobile, poi va al reggicandele. Sceglie una candela consumata a metà, la toglie dalla pinza di ferro nero e mormorando: per il Felice, la infila in un'altra.

I ricchi, quando rubano, li chiamano cleptomani. Non avrebbero bisogno di rubare. Ma lo fanno. Ci sono quelli che rubano i paesaggi. Vedono un posto bello. Tac! Ci costruiscono una villa grande, con un muro di cinta lungo lungo. Così gli altri non vedono più niente. Non vedono molto neanche loro perché non hanno tempo di andare in tutte le loro ville. Ne hanno tantissime. I cleptomani non se ne fanno mai nulla di quello che rubano. Anzi, le refurtive impicciano, sono impegni, preoccupazioni. Ci sono i banchieri ricchissimi che rubano un po’ alla volta i risparmi dei pensionati. Per farsene cosa, poi, di tutti quei soldi? Spenderli? E poi? Allora li usano per sfilare altri soldi ai distratti. Si chiama fare investimenti. Ci sono anche quelli che sono padroni dei mezzi di informazione. Potrebbero dire la loro a tutto il mondo. Ma non hanno niente da dire. Allora, riempiono scaffali ed edicole di milioni di parole vuote. Così rubano la possibilità di parlare a chi qualcosa da dire l’avrebbe. Poi ci sono gli intellettuali che rubano il buon senso alla gente, e lo sostituiscono con le loro cazzate. Ci sono giovani che rubano il silenzio ai vicini. Ci sono signori, vecchi e arrivati, che rubano ancora onorificenze e potere. Cleptomani. Non hanno mica bisogno di rubare. Eppure lo fanno. Jacopo, non lo era mai stato cleptomane. Viveva bene. Buon lavoro, amici, quattro soldi, simpatico, allegro, non invidioso, onesto: non rubava neanche sulla denuncia dei redditi… Cominciò una sera. Era arrivato tardi alla Ca’ di Ratt. I tavoli erano tutti pieni. Attendeva che arrivasse qualche amico suo ma non arrivava nessuna faccia nota. Finita la birra. Torno a casa? Ma c’era una aria bella. Tutti bevevano e ascoltavano la musica, bella musica, calda, non quella musica che ti pesta nelle orecchie con frastuono o ti stringe il cuore di nobile tristezza, neanche quella difficile che sfida gli strumenti. Era una musica facile, che ti avvolgeva come la coccola di una mamma semplice.

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Poi c’erano le fiamme del camino e delle candele sui tavoli che coloravano di rosso e di ombre le facce. Al tavolo davanti c’era una compagnia di ragazzi e ragazze. Tre o quattro ragazzi, belli, brutti, alti, buffi, sembravano allegri. Alla luce del fuoco gli sguardi sembrano più vivi. C’era una ragazza bella. Si accarezzava i capelli, si faceva guardare. Le altre due ragazze erano meno belle. Loro non erano guardate. Loro guardavano. Una era una facciottina giovane con due occhi nocciola, normale. Si scaldava con la musica? L’altra non era già più una ragazza. Le rughe segnavano un po’ gli anni. Magra, bel profilo, occhi chiari, grigi. Tristi? Rassegnati? Saggi? Occhi che avevano già visto, che erano stati guardati, incrociarono lo sguardo con Jacopo. Da dove viene uno sguardo? Dove porta? “Che strano quell’uomo!”, avrà pensato, “Che ci fa qui? E’ già un po’ vecchio. Chi sarà?” Chi guarda interroga. Gli altri bevevano, parlavano, ronzavano attorno alla bella. Non guardavano. Poi arrivarono gli amici di Jacopo. Birra, musica, fuoco, una serata bellissima. Ce n’erano state tante altre di serate bellissime alla Ca’ di Ratt ma questa fu particolare perché il mattino dopo Jacopo si accorse che si era portato a casa la faccia di quella donna. Non se la toglieva di testa, la vedeva come se fosse lì davanti, con la sua amica cicciottella. Colpo di fulmine? Ma va! Da quel momento cominciò a portare a casa tutte le facce che incontrava. Il mondo è pieno di facce. Circolano liberamente, si vedono e si dimenticano, con tutto quello che si ha già per la testa. Jacopo si accorse che guardava, vedeva e portava a casa di tutto: facce, pensieri, sentimenti, frasi, barzellette, battute, stati d’animo. Di solito non si fa caso, minuto per minuto, ai propri stati d’animo. Sto bene, sto male? Si vive e basta. E ciascuno fa gli affari suoi. Lui non si faceva più gli affari suoi. Spogliava con lo sguardo quelli che incontrava e si portava via gesti, parole, sentimenti e anime che gli restavano incollati nella memoria. Anche a letto, alla sera, era abituato a leggere qualche pagina, bella, brutta, noiosa, fine! Spegneva e si addormentava subito. Adesso ricordava questa o quella frase del libro, come se l’avesse pensata lui, viveva le storie dei personaggi…anche coi giornali, anche con la televisione, si portava via tutto con sé… Anche l’allegria dei nipotini… E teneva tutto.

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E che cosa se ne faceva? Niente. Nessun cleptomane se ne fa mai niente della refurtiva. La refurtiva impiccia i cleptomani. Sentimenti, idee, frasi, anime rubate facevano una folla disordinata, chiassosa, prepotente che litigava con i suoi ricordi, dentro di lui, lo rendevano inquieto, irascibile, malcontento e gli rovinavano il carattere. Era diventato nervoso, distratto sul lavoro, pessimista. Guardava tutto, leggeva tutto, pensava sempre. Era incazzato perché il mondo era sull’orlo della catastrofe e tutti, anche gli amici se ne fregavano! Gli amici giravano alla larga. Era noioso, discuteva sempre e voleva sempre avere ragione. Peggiorò ancora nella sua cleptomania. Cominciò a rubare a sé stesso. Si rubava i minuti liberi e correva a scrivere tutto quello che aveva visto e sentito. In ufficio si astraeva e scriveva su un blocchetto, scriveva sempre. Poi a casa ricopiava su dei quaderni. Poi cominciò a pensare a quello che avrebbe scritto sul quaderno, prima di aver ancora provato le sensazioni. Poi arrivò a sentire in base a quello che avrebbe scritto. Insopportabile. Un giorno sparì del tutto, dal lavoro, dagli amici. Stava casa a riordinare appunti e quaderni. Scriveva tutto in ordine. Non usciva più. Spacciato? Invece no! Come i sentimenti, le frasi, le immagini, i pensieri, le anime rubate cominciarono a mettersi in ordine sui fogli, si calmavano e stavano buone buone dentro il filo della storia che Jacopo scriveva. All’inizio litigavano ancora, perché volevano starci subito tutte nella storia e si pigiavano per entrarci ma Jacopo diceva: “Tu no! Tu un'altra volta, in un'altra storia!” I pensieri, i ricordi, le immagini, le anime rubate protestavano un po’ ma poi si tiravano indietro e aspettavano. Alla fine le storie furono lì, tutte in fila, in un libro, con una bella copertina, rispettose, in silenzio, in attesa, in attesa di uno che le leggesse. Allora le anime rubate si infilavano nell’animo del lettore e ricominciavano a far casino: risvegliavano i dormiglioni, consolavano gli inquieti, iniettavano dubbi ai sicuri, coloravano di poesia le giornate normali... ritornavano alla gente. Non era la stessa gente a cui Jacopo le aveva rubate. Chissà dove erano adesso quelli là! Però ritornavano alla gente. E, man mano le anime rubate tornavano tra la gente e che si disfaceva della refurtiva, Jacopo riprendeva il suo buon carattere bonario. Gli amici tornavano a bicchierare con lui. Era guarito. Buon per lui! Non tutti i cleptomani restituiscono la refurtiva.


UN SOLO DIFETTO Alessandro era il padrino perfetto, Anna lo sapeva da sempre, da quando aveva scoperto di essere rimasta incinta e aveva iniziato a pensare al nome, alla cameretta, agli invitati al battesimo. Quella domenica pomeriggio ne ebbe la conferma. Alessandro era lì, bello come il sole nel suo vestito blu da cerimonia. Le sorrideva e le faceva le linguacce allo stesso tempo, per farla ridere, anche se era perfettamente conscio che il luogo e le circostanze rendevano una sonora risata del tutto inopportuna. Alessandro, però, sapeva quando poco Anna riuscisse a trattenere il riso e quanto facile fosse per lui

un’eruzione cutanea; era sopravvissuta a quelle e a molte altre avversità, portando entrambi a quel momento. Alessandro era passato a salutare Anna già la mattina, mentre allattava la piccola Monica. “Allora ci sarai oggi pomeriggio, alla cerimonia.” “Certo, o non sarei tornato in città.” “Ti piacerebbe fermarti per pranzo?” “No, vorrei incontrare altri che non vedo da un pezzo.” Anna aveva provato una leggera fitta di gelosia all’idea che non fosse lì solo per lei e la sua bambina, che anche altri avessero il diritto di salutarlo, seppur per poco. Vederlo, però, lì davanti a lei, accanto al fonte battesimale, la rese felice e i mesti pensieri fuggirono. Alessandro era riuscito ad arrivare nonostante la neve che intasava le strade, non era mancato all’appuntamento a cui lei tanto teneva.

provocarla. L’occasione gli era servita su di un piatto d’argento, non poteva non approfittarne. Era lo stesso gioco di mimica con cui l’aveva impressionata anni prima, ai tempi ancora della scuola. Anna aveva accompagnato un’amica a un incontro di recitazione, per offrire le sue doti artistiche per la realizzazione di fondali e arredamenti di scena. In cambio chiedeva solo di assistere gratuitamente a una delle repliche dello spettacolo. La regista fu entusiasta dell’idea: una studentessa di liceo artistico sicuramente era la soluzione migliore al problema scenografia. Mentre Anna dipingeva le quinte o creava gli oggetti che servivano alla recitazione, Alessandro, prim’attore indiscusso, trainava il resto della compagnia durante le prove con un carisma ammaliatore che Anna non avrebbe mai ritrovato in nessun’altro. Cominciò tutto così, per gioco. Una passeggiata, un timido abbraccio, un bacio inatteso e insieme sperato, la prima notte fuori casa. Poi l’amore era passato, come una malattia esantematica, l’amicizia invece no, come le cicatrici di

Anna si sforzava di distogliere gli occhi da lui, ma era più forte di lei. Lo sguardo magnetico di Alessandro catturava il suo, deconcentrandola e distraendola dal rito sacro. Non avrebbe dovuto. La sua bimba veniva battezzata e lei si perdeva via con il suo amico. Il carisma istrionico di Alessandro, però, surclassava tutto e tutti, dominando la scena anche se non era sua. Anna si commosse per le tenere smorfie con cui Alessandro distraeva Monica per impedire che gridasse dallo spavento, lei così piccola e indifesa, investita da una cascata d’acqua. La commozione di Anna presto si trasformò in un pianto a dirotto, incontenibile. Alessandro era proprio il padrino ideale, aveva solo un difetto. Era morto in un tragico incidente di macchina due mesi prima. Solo Anna lo vedeva e ne sentiva la presenza accanto alla sua bambina, nessun’altro poteva. Eppure il suo amico era lì, a mantenere la promessa fattale. Anna lo sapeva che lui era proprio il padrino perfetto.

di Francesca Protti

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IL CONTO di Guido Giacomone

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Festeggiando non so più quale ricorrenza familiare mi è capitato qualche anno fa di partecipare ad un pranzo in uno di quei sempre più rari ristoranti piemontesi dove si fa ancora cucina alla maniera di una volta: dopo una lunga sequenza di antipasti che traboccavano dai vassoi e un assortimento di primi piatti serviti a badilate, arrivarono in tavola certi pezzi maestosi di una carne stupenda che se ne restò lì a farsi guardare dato che più nessuno era in grado di ingoiare neppure una briciola. Ovviamente niente sarebbe comunque andato sprecato, giacchè i clienti del giorno dopo si sarebbero ritrovati la stessa carne nel ripieno degli agnolotti, però io provai ugualmente un po’ di vergogna: una bestia superba era stata privata della vita per soddisfare il nostro capriccio e noi neanche le rendevamo onore. Credo sia stato in quell’occasione che ho cominciato a distaccarmi dalla schiera dei carnivori. Pur senza diventare un autentico vegetariano; infatti quando sono in giro e soprattutto se sono a casa d’altri, mangio quel che c’è senza fare storie, e se ho ospiti in casa non riesco a sottrarmi all’obbligo sociale di portare in tavola della carne (avrete notato, in proposito, che per molte persone il massimo dell’ospitalità è rappresentato dall’imbandire certe grigliate sanguinarie che fanno piangere il cuore; io non arrivo a tanto, ma mi adeguo al principio per cui se all’ospite non si imbandisce almeno un pezzetto di animale morto - carne rossa, carne bianca, pesce azzurro, rane, lumache, rettili o molluschi, qualsiasi cosa purchè sia

stata uccisa - si passa da mentecatti). Ora non vorrei aver dato l’impressione di essere quel che si dice un amante degli animali; in tutta franchezza gli animali preferisco vederli in fotografia che trovarmeli tra i piedi. Semplicemente, li considero colleghi nel mestiere di stare al mondo e penso che per un minimo di rispetto non si debba far loro del male se lo si può evitare. Le zanzare, per dirne una: la zanzara mi morde e mi porta via una gocciolina del mio sangue; io la spiaccico con una manata e le porto via la sua vita, irrimediabilmente. Sarebbe come se una montagna mi schiacciasse sotto una frana solo perchè mi sono messo in tasca un paio di sassi. Che razza di paragone sarà mai questo, direte. Beh, per la zanzara io non rappresento altro che una colossale fonte di calore e di nutrimento, una montagna di materia prima. Per lei sono talmente fuori scala che non ha modo di concepirmi diversamente. E analogamente che ne capiamo noi dell’esistenza delle montagne, dei fiumi, o del vento, delle nuvole e dei fulmini ? Il clima sta cambiando: le Potenze dell’Atmosfera si combattono su tutta la superficie del pianeta per raggiungere nuovi equilibri di potere. Che ne sanno loro degli umani spazzati via da mareggiate e alluvioni? Semplicemente non li vedono. L’aspetto assurdo della faccenda sta nel fatto che i contendenti sono dopati dalle emissioni e dal calore che salgono da industrie, città e campagne disboscate. A scatenare la loro furia siamo stati noi. Nelle sere d’estate, quando è tutto uno schiaffeggiarsi, e il crepitìo di quelle lugubri griglie che arrostiscono gli insetti risuona incessante, la zanzara mi punzecchia e io mi sforzo di tenere a freno le mani; chissà che questo piccolo risparmio di energia distruttiva non mi valga qualche sconto sulla bolletta che prima o poi mi toccherà pagare.


STAMINA AND ENDURANCE, mi spronava tramite sms Jarmo Ryyti, l’amico ciclista finlandese, alla notizia del mio sesto giorno consecutivo di sfiga (pardon, sfortuna) nel mio viaggio in bicicletta verso Capo Nord, nella primavera-estate del 2009. In effetti tenacia e pazienza (ammesso che la mia traduzione sia esatta) non mi mancano. Forse più tenacia che pazienza, pensavo, ma in questo momento non guasterebbe anche un po’ di fortuna, considerato che per una causa o per l’altra sono sei giorni che faccio soltanto delle mini tappe. Stavo arrancando nella parte settentrionale della Finlandia e la novità del sesto giorno ero lo scoppio improvviso (bravo! come se esistessero anche gli scoppi preavvisati!) di camera d’aria e copertone, sotto l’ormai immancabile pioggia. Lo scoppio, oltre ad aver fatto fuggire spaventato un gruppo di renne che pascolavano a lato della strada, mi aveva messo qualche dubbio sul fatto che fossi davvero una persona paziente... Jarmo Ryyti è un ciclista finlandese che in incontrai nel mio precedente viaggio a Capo Nord nel 2006 quasi al confine tra Finlandia e Norvegia. Da allora ci siamo sempre tenuti in contatto via email, e in occasione di questo ultimo mio viaggio ci siamo incontrati nei pressi della sua città. Poi, tutti i giorni, tanti consigli con gli sms sul percorso che avrei affrontato, particolarmente utili quando al pomeriggio o alla sera mi faceva sostare per tempo prima di iniziare un lungo tratto di strada deserta e senza possibilità di pernottamento, che sarebbe stato più opportuno affrontare al mattino... Diego Vallati, 63 anni, pavese, ciclista per vocazione, solitario per scelta. E’ stato due volte a Capo Nord, nel 2006 e nel 2009, seguendo ogni volta un itinerario diverso; nel 1997 aveva raggiunto Parigi, sempre in bici e sempre in solitario, nel 1999 Pavia-Roma-Pavia, nel 2004 Calais, Dunquerque e Parigi, nel 2005 Capo Finisterre.

Se ho un sogno nel cassetto? Certamente e da tempo lo sto coltivando amorevolmente, ma con difficoltà. Perché è pur vero che si tratta di un sogno, ma questo tipo di sogni costa. Tenuto conto che non sono mai stato capace di convincere uno sponsor a sostenermi, il sogno rischia di restare tale. A questo punto non mi resta che fare un tentativo, anche se risulterà ancor più complicato: cercare l’aiuto degli operatori economici di un’altra città e un vero sostegno da parte del quotidiano di quella città. E’ una collaborazione che in altri casi simili è stata raggiunta, ma altrove, qui da noi a Pavia no...

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Che cosa porta con sè al ritorno l´europeo che va in Africa?

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Anche se compra i tamburi e le collane, si traveste da locale e impara la lingua locale, rimane inchiodato alla propria cultura e riesce a stupirsi sempre di piu; è capitato anche a me. Ammirazione, commozione, pietà sono i sentimenti piu comuni al ritorno. Nostalgia, si, ma come negarla quando si è ricevuto dai poveri preziose lezioni su come stare al mondo? Sono ritornata di nuovo in Uganda pronta ad affrontare situazioni vecchie e nuove, nuovi ritmi, avversità climatiche, difficoltà di lingua, crollo di certezze.

ricerca di un riparo con uno strofinaccio per dormire. Lo stesso strofinaccio che le mamme usano per pulire i bambini che usano il pavimento per i propri bisogni. Entrare di notte è un colpo mortale al cuore e all´anima. La mia amica serafina, infermiera, che ha deciso di accompagnarmi quest'anno per una parte del viaggio è rimasta pietrificata da questo spettacolo. Eppure è lo spettacolo della vita di volontari, medici, infermieri, logisti e maestri, ingegneri o muratori che hanno deciso di rimanere a lungo per qualcosa, non so, forse un cambiamento se mai ci sarà. Ma intanto si continua a morire e a dannarsi l´anima per capire come fare. Ho guardato la distesa di bimbi denutriti del centro intensivo di nutrizione: sono una ventina, molti ce la faranno, alcuni ne usciranno con invalidità permanente e altri non ne usciranno affatto. L'ospedale è l'unico nel raggio di chilometri e dà lavoro a tante persone in questa sconsolata

Ho rivisto il St.Kizito Matany hospital cosi come lo avevo lasciato. L'ospedale è grande ma non abbastanza per contenere il flusso di gente ammalata che chiede un riparo, qualche medicina e la possibilità di far sopravvivere il proprio figlio. Ho lavorato per quasi un mese nel reparto di pediatria; l'emergenza malaria è immensa e ci sono troppi bambini che aggiungono a questo disidratazione, diarrea, tubercolosi e in moltissimi casi la positività all´Aids. Si fa quello che si può. Per il resto ci si potrebbe ingegnare ma il pediatra resta uno solo e ci sono ottanta letti per centocinquanta bambini. La notte il reparto sembra un mercato affollato o peggio una rimessa di barche dove la gente si accalca sicuramente non per comprare ma solo alla

regione ugandese della Karamoja, la più povera in assoluto. Di ribelli e di armi ne girano ancora, di spari se ne sentono pochi, sempre solo per rubare. Quello che si può fare è limitato ma se ben fatto ha un impatto evidente sulla sopravvivenza. La leggerezza africana a volte mi turba, la gente muore e il personale non si affanna per niente. Vent'anni, trent'anni o cinque che differenza fa, il diritto o il desiderio di vita non sembra abitare nè bussare alle porte di queste parti. Bisogna accettarlo. Mi chiedo molto spesso, cercando parole non banali, cosa cambia tra il mio essere qui e il vivere là, ogni giorno trascorso lungo questa frontiera netta che congiunge la vita e la morte. Vorrei avere più tempo per cercare delle risposte.


Prima di partire ho letto di Fratel Elio Croce, trentino, comboniano, da trent´anni missionario in Uganda nella regione a nord di Gulu, vicino a Congo e Sudan, un uomo che ha fatto della sua vita un unico servizio per i poveri, una vita educata alla competenza, all´armonia, alla non violenza, a trovare soluzioni semplici in questo mondo cosi complesso. Un uomo che non si è piegato a niente e a nessuno, scrivendo un diario con scarna crudezza e raccontando il drammatico scorrere dei giorni al St.Mary Lacor Hospital durante l´epidemia del virus Ebola contro il quale ben poco si è potuto tranne seppellire i morti nei cimiteri sotto due metri di terra e mille parole di sconforto, parole che sussurrano che non c'è fine alla povertà in Africa se si aggiungono anche queste stragi alla già delicata situazione economica e politica. Cosi, coraggiosamente devo dire, sono andata nel distretto di Gulu a trovarlo. Un viaggio decisamente difficile per le difficoltà delle strade, a tratti assenti. La savana mostra tratti di inviolabilità e per

Tanti bambini li hanno trovati per caso là fuori abbandonati da madri che non sanno come mantenerli. Fratel Elio li ha portati a St. Jude per un destino diverso, una speranza in più di questa vita che non é vita. Immagino che se avessero potuto avrebbero scelto di nascere in occidente o di non nascere affatto. La manina dei bimbi impavida stringe la mia mentre mi allontano da questa vita in Africa. Mi piace questo lavoro malgrado ti sbatta in faccia con violenza ogni giorno ineliminabili verità dolenti. Torno con un sorriso sulle labbra, con la certezza che non si sarebbe potuto fare di più e la segreta speranza che un giorno ci sia un cambiamento in questo mondo assurdo ed illogico. L'occidente mi offre un futuro dorato di cui continuerò a beneficiare. Esisterà una dimensione della povertà ancora da scoprire? Tornerò a vivere il mio tran tran quotidiano pensando a questi orizzonti lontanissimi perchè il cielo è uno, la terra una, una la storia e uno è il destino di tutti i nord e i sud del mondo.

UGANDA, UN ANNO DOPO

di Claudia Mossi

strada passano pochi sparuti individui che sembrano solo stanchi e ti chiedi dove mai possano arrivare. Ma ti salutano sempre, e i bambini corrono nudi dietro al proprio gregge armati di un piccolo bastone. Gulu è una citta, l'Ospedale di Lacor è a sette chilometri. E' grande tre volte Matany e all´entrata campeggia sul muro la foto dei medici fondatori che hanno vissuto lì e lì sono morti dedicandosi anima e corpo. I cortili sono zeppi di gente che con il proprio bagaglio costituito da un cesto e uno straccio si distribuiscono ovunque rientrando poi nei corridoi principali in caso di pioggia. La strada fuori è sterrata e si alza una polvere rossa infernale. Il personale si affanna a pulire per tutta la giornata ma hai quasi sempre la sensazione che sia tutto sporco come prima. Ho lavorato nel reparto di chirurgia; si respirano infezioni centimetro a centimetro, si lotta alla disperata ricerca di un letto, e quando c'è un caso grave si fa alzare un occupante e lo si fa sdraiare per terra, è una specie di diritto di precedenza, non saprei come chiamarlo. Ed è straordinaria la disinvoltura con cui si affronta tutto. Regnano ordine e silenzio nella lenta camminata africana, nonostante il brulicare e il vociferare dei bimbi e di tutti quelli che lì fuori un letto non ce l´hanno. Vorrei tanto scrivere un giorno di un'altra Africa ma questa è quella che ho portato a casa insieme al ricordo dell'orfanotrofio St. Jude Children Home di Gulu. Un fermo immagine davanti agli occhi, gruppi di bambini di qualche anno, qualche chilo, qualche malattia che rode dentro o qualche disabilità permanente che li fa vivere come un cicciobello con le pile che durano a lungo. Vite appese a un filo di speranza e mani bianche tese con un sorriso, con un pianto o una voce diversa dal silenzio che regna là fuori.

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C’E’ VITA NEL VILLAGGIO Magrebini, cinesi, rumeni, un centinaio di persone di etnie diverse si sono ritrovate domenica 20 dicembre nel salone di Casa Madre per festeggiare l’Evento nell’Avvento, l’iniziativa annuale con la quale la nostra Associazione fa gli auguri di Natale e fine anno alla città e raccoglie fondi per una iniziativa benefica. Quest’anno la scelta effettuata è stato l’acquisto di testi scolastici per la scuola per stranieri che ha sede proprio nei locali delle Suore Pianzoline. Pasta italiana e cibi etnici, fogge di vestiti diversi e variopinti, lingue europee e non, sorrisi e spaesamenti si sono ritrovati per l’occasione. Poi alle 21 tutti nel grande auditorium in silenzio, grandi e piccini. L’umanità e’ sempre vissuta di sogni: un ideale, una meta, uno scopo ben più grande dei nostri sogni individuali, una patria ideale verso cui andare, felici di essere insieme, orgogliosi di ciò che vogliamo raggiungere. Cosi abbiamo voluto iniziare la serata, per proseguire con l’indicazione che anche noi volevamo proporre a tutti i cittadini della lomellina il nostro sogno. Un sogno che ha preso la forma del dono. Non quello consumistico che ormai non riempie più nè i cuori nè le nostre pance e a cui forse siamo troppo abituati, ma un dono più grande, quello per cui l’altro diventa una parte di noi, che lega e riempie di senso e di gioia le relazioni tra le persone. E cosi abbiamo raccontato il dono nel modo che ci contraddistingue, con poesia e musica, videoclip e

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filmati, pezzi teatrali. La conduzione della serata è stata mirabilmente svolta dalla nostra socia Pinuccia, che si è districata, e non era facile, tra chitarre e fisarmoniche, lirica e cori, narrazioni e poesie. Poi alla fine abbiamo notato che, inaspettatamente, tutti i bambini in sala si sono scatenati in risate e balli alla proiezione del filmato dell’ australiano Harding, un tipo pazzo che non potendone più del suo lavoro di impiegato, un giorno ha preso telecamera e zaino e si é fatto filmare danzante in ogni luogo del pianeta, ballando con i nativi nei modi e nei luoghi più strani e divertenti. Come a dire che la voglia di stare insieme crea relazione e butta giù tutti i muri: dell’ipocrisa, dell’ignoranza, dell’ideologia. Che era poi il sottile filo rosso della serata dedicato appunto al valore del dono e della convivialita’.

PELLEGRINI AL CHIARO DI LUNA Il 31dicembre del 2009 la nostra associazione, insieme agli amici della Compagnia dei Lunatici, ha promosso l’iniziativa “Pellegrini al chiaro di luna”, una camminata che partendo da S. Albino si è snodata fino alla zona della Barza per festeggiare al chiarore dell’astro lunare la fine dell’anno. Le parole con cui abbiamo voluto caratterizzare questa iniziativa celebrativa della prima decade del nuovo millennio sono state: cammino, monastero, frugalità, pellegrini, luna piena. Cammino: chi negli scorsi mesi chi è venuto con noi a camminare nelle notti lomelline ha sempre riportato a casa il fascino di un tempo inusuale, scollegato dai tempi e dai ritmi del quotidiano. Se possiamo osare lo definiremmo come una gioia interiore che ci ha riportati a quel tempo in cui la luce artificiale era poca e i tempi del giorno e della notte erano scanditi dalle meridiane, dalle albe, dai tramonti, dalle campane. Procederemo anche l’ultimo giorno dell’anno lentamente, per cadenzare meglio il ritmo e sintonizzarlo con il nostro respiro e con il nostro battito del cuore, sentiremo le voci della natura, penseremo in silenzio, avvertiremo la presenza degli altri, delle loro inquietudini e dei loro sogni. Sarà anche un cammino interiore, quasi un ritorno all’infanzia, per riscoprire un modo di essere non più dettato dagli impegni improrogabili, dalla velocità di cui tutti siamo prigionieri, dal mondo della produzione dove tutto deve essere fatto con rapidità, precisione, utilità. Monastero: che per noi sarà, in quest’occasione, il refettorio dell’Abbazia di Sant’Albino. Ci chiederemo se i monasteri del Terzo Millennio abbiano ancora valore e senso.


Noi diciamo di si perché sono diventati luoghi di incontro per chi sente in modo particolarmente acuto il disagio. Oppure i limiti di una vita fondata solo sulla produzione e sul consumo e vuole riscoprire altri valori come il piacere del dono, la reciprocità, il legame con il territorio, la

Luna Piena: la sera del 31 dicembre doveva essere al massimo del suo splendore. E invece, forse vergognandosi un po' delle sue nudità così pagane, la Dea della notte si è mostrata solo per un istante, avvolta in un pesante scialle di nubi. Le nostre lanterne hanno illuminato il cammino raccontandoci fiabe e poesie. E il tempo ha rallentato il suo passo per accompagnare il nostro incedere. E quella notte anche la Luna spegnerà la luce: il prossimo appuntamento con Esteban e i Lunatici è fissato per la sera di venerdì 12 febbraio ed in via del tutto eccezionale non sarà un appuntamento con la Luna, che sorgerà soltanto a notte molto inoltrata. In occasione della grande manifestazione nazionale MI ILLUMINO DI MENO promossa da Rai Radio Due e Caterpillar, ci avventureremo sui sentieri che attraversano i pioppeti e le boscaglie dei Casoni dei Peri, nel Buio. per Esteban, Adriano per i Lunatici, Lino Maia

contemplazione. Un luogo di pace dove non esiste l’ambizione di “cambiare il mondo”, ma quella di poter ripetere le parole di Baudelaire “Ho più ricordi che se avessi mille anni”. Frugalità: l’essenziale al posto del troppo, una solidarietà nei fatti con chi nella nostra terra e nel mondo vive nella povertà materiale, culturale, relazionale. Ma soprattutto una condivisione con i tanti Sud del globo che hanno così poco ma tanta voglia di danzare la vita. Pellegrini: La Chiesa ha sempre visto il pellegrinaggio come un percorso di rinascita. Ma possono essere pellegrini anche persone il cui stile di vita non è religioso, e le cui motivazioni coscienti non sono spirituali. Il pellegrino non è il turista post-moderno, inscatolato nell’erranza organizzata, dove non incontra altro che se stesso. Il pellegrino impara il valore del "passo dopo passo", il mal di piedi, la stanchezza fisica. Riscopre le esperienze elementari del corpo, dell’incontro con gli altri viandanti: i quali non sono degli sconosciuti ma persone che fanno la stessa via. La scoperta che la felicità è donarsi, che il mondo vivente, con tutta la sua energia, è pronto ad accoglierci, se facciamo solo "il sacrificio" di andargli incontro. Questo è il significato profondo che vogliamo dare al nostro andare in terra di Lomellina, su strade sterrate, rifuggendo la città con i suoi lustrini colorati e con la sua vita artificiale.

Le passanti all'autogrill un contributo di Oisin Capita che un pomeriggio d'estate, con fuori il temporale, si sta in casa e ci si mette a sentire canzoni su youtube: ognuno propone le sue e ad un certo punto si arriva a Les Passantes di Brassens. E lì qualcuno dice adesso basta canzoni tristi. A giustificare questa reazione, occorre dire che appena prima c'era stata Gloomy Sunday, nella versione cantata da Diamanda Galas (se non la conoscete, e siete coraggiosi fate qualche ricerca su questa inquietante canzone e magari prima sentite la versione di Billie Holiday). I meccanismi del passaggio tra una canzone e l'altra mi sfuggono ancora, ad ogni modo, giusto per divertirsi, credo si sia passati a qualcosa tipo viking metal o a qualche hit giapponese. Comunque istintivamente a questa affermazione mi ribello, Le passanti, non so perchè, ma non la vedo come una canzone “triste”.

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Triste, non solo triste, ma anche un po' deprimente, invece trovo un'altra canzone, grosso modo con lo stesso tema, ovvero “Autogrill” di Francesco Guccini. In pratica Brassens e Guccini partono da una esperienza simile, che aveva già ispirato anche Baudelaire (Ad una passante), ma a questa rispondono in modi diversi. Se vogliamo essere proprio precisi, Brassens il lavoro se lo trova in parte già fatto, in quanto lui ha solo messo in musica una poesia che lo aveva colpito, e forse solo agli autori di canzoni francesi riesce di essere così efficaci nel trasformare le poesie in canzoni. La poesia, in cui evidentemente Brassens si riconosceva, era di un certo Antoine Pol, poeta di cui forse non ci si ricorderebbe se non ci fosse stata questa canzone, ed era inclusa in una sua raccolta datata 1918. Come si sa, la canzone è stata poi tradotta, molto fedelmente in italiano e cantata da De Andrè. L'esperienza comune, è quella di volti, immagini, in questo caso di donne in cui ci si imbatte per caso e su cui si fantastica, si sogna, incontri che avrebbero potuto esserci, ma non ci sono stati. In sostanza qualcosa che avrebbe potuto essere felicità, che si intuisce appena, ma che non può realizzarsi. E nel testo di Pol, condiviso da Brassens e De Andrè, alla fine è meglio così: non essendo mai messo alla prova, questo barlume di sentimento provato resta intatto, con tutte le sue promesse mai confutate, mai deluse. E se da una parte sono un motivo di rimpianto nei momenti di solitudine che alla fine la vita potrebbe riservare, dall'altra stanno comunque lì a dirci che la felicità era, ed è, possibile, che l'assenza non è un vuoto assoluto, ma ciò di cui si nutre il desiderio. In effetti, a ben vedere, non è allegrissima come prospettiva, però è umana, di un certo crudo realismo, non nasconde la possibile disillusione, ma si tiene stretto quelle promesse di felicità che comunque si sono incontrate. Guccini ci racconta una storia; la sua “passante” è la ragazza al banco dell'autogrill, “bella di una sua bellezza acerba”, ma già da

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subito capiamo che qualcosa non va. Le passanti di Pol ci fanno “restare rasserenati” “ ci fanno sembrare più breve il cammino”. Guccini no, da subito sente “una infelicità vicina”. Cioè alla fine tutta la storia è la storia di una sconfitta. Lui vorrebbe parlarle, ma prima perde tempo mettendo un disco nel juke-box, per darsi un po' di tono (la canzone è dell'83, allora i juke-box esistevano ancora), poi si mette a picchiettare su una scatola di tè, più precisamente “sull'indù .. di una scatola di tè”, finchè quando forse ha trovato la frase giusta da dire (che poi la frase era “non la tocchi oggi la malinconia”: ogni commento è superfluo) entra una coppia, non se ne fa più niente e, gran fortuna per la fanciulla, lui se ne va. Alla fine, di un esperienza, anche questa umana, che sicuro è capitata a tutti, ne fa un inno, quasi una giustificazione all'incapacità di vivere. E la sua indubbia raffinatezza di scrittura, quell'uso esperto di artifici e figure poetiche, le rime al mezzo, le ardite similitudini, “quasi triste, come i fiori e l'erba di scarpata ferroviaria” (che per la verità fa venire in mente la degregoriana “ragazza di Roma la cui faccia ricorda il crollo di una diga”) tutto questo dà ancora più enfasi a questo senso di rassegnazione, di non credere già in partenza ad una felicità possibile. Non so se sono riuscito a spiegarmi bene le ragioni, ma mi interessava capire l'effetto completamente differente che ha su di me l'ascolto di queste due canzoni, tutto a vantaggio ovviamente di “Le passanti” che lascia forse un certo senso di malinconia, ma non chiusa in se stessa; l'altra mi fa un effetto quasi pericoloso, come un autoassolversi e quindi un esaltare le proprie inadeguatezze. Insomma di sconfitte direi che ne abbiamo avute abbastanza, forse abbiamo ascoltato troppo Guccini da piccoli.

MITI un contributo di Adriano Arlenghi Quattrocento pagine fanno di questo libro di Umberto Galimberti "I Miti del nostro tempo" Feltrinelli editore, un tomo non indifferente. Se volete gustarlo in tutte le sue sfumature, tuttavia, dovete partire, magari appollaiarvi in un'isola abbandonata, aspettare l’alba o il tramonto e iniziare a leggere. Il libro non è facile, ma non per questo può mancare nel vostro frigo dei tesori terrestri, perché lì dentro c’è la storia di tutti i miti dell’umanità, quelli individuali e quelli collettivi. Lì, pagina dopo pagina, trovi le cose che hai sempre saputo ma che mai sei riuscito a tradurre in pensieri. Ci sono poi dei pezzi cult, come quello in cui Umberto racconta dei manager delle nostre aziende. Che a furia di inseguire la categoria dell’utilitarismo sono riusciti a fare dei bilanci aziendali una religione, certo efficiente e specializzata ma incapace di aiutarli a comprendere la realtà sociale che li circonda.


Nel tempo delle passioni fredde, del disincanto dei valori collettivi, nel tempo del crollo degli idealismi anche le aziende hanno perso il gusto del rischio. Capaci solo di valutare in modo strumentale e razionale chi ci lavora, senza dare alcun spazio ai loro sogni, desideri, aspirazioni, emozioni e tanto meno a una ricerca di senso. Interessante e discutibile anche il pezzo dedicato al mito dell’amore. Dove si sostiene che la scoperta e l’uso degli anticoncezionali negli anni ’70 “sciogliendo l’atavico nesso che legava piacere sessuale e riproduzione” creò l’unico vero movimento di liberazione della donna. Il femminismo? Giunse solo più tardi come istanza ideologica promuovendo l’emancipazione di una coscienza femminile che la biochimica aveva già emancipato “nel solido e irreversibile registro della materia”. Da questo assunto Umberto fa partire un lungo ragionamento sul rapporto uomo-donna sino alla critica di un corpo femminile che finalmente liberato dalla catena della riproduzione obbligata, si è perso nel culto della bellezza seguendo il narcisismo più sfrenato. Come anche nel culto della moda, dell’alimentazione, della chimica farmaceutica, tutti luoghi dove si esercitano illusioni di bellezza e di benessere psichico. Per giungere infine alla bellezza come unico scopo dell’esistenza, al mito dell’eterna giovinezza, alla filosofia dell’apparire, tutti ingredienti che mettono in crisi ogni giorno di più il terreno dell’essere. E ancora nel libro Galimberti raccoglie e amplifica storie sui miti più diversi, della giovinezza, della felicità, del potere, della follia e poi tra i miti dell’umanità quelli della tecnica, del mercato, della sicurezza, della globalizzazione, della razza. Duecentonovantuno sono i libri citati nel libro, centonovantaquattro gli autori letti e utilizzati. Per raccontare miti e dunque storie e idee che sono profondamente radicati nella nostra anima e che spesso ci danno sofferenza. Bisogna vincere la pigrizia del nostro pensiero, rimettere tutto in discussione per potere comprendere meglio il mondo in cui viviamo. Solo a questo punto potremo lasciare l’isola in cui siamo finiti e tornare a immergerci nel fiume della vita.

INVITO A GARDEL

un contributo di Lino Maia

A quanto pare è tornato di gran moda, ma si sa che le mode vanno e vengono in un baleno; in ogni caso mi sembra che si possa dire che nel nostro paese esistono due modi di intendere il tango, ed entrambi mi paiono un po’ limitativi:

per il grosso pubblico il tango è solamente uno dei vari sottogeneri del ballo liscio o del ballo da sala, e poi ci sono gli intellettualoidi per i quali il tango sono le contorte elucubrazioni di Astor Piazzolla buonanima e dei suoi numerosi emuli ed imitatori. In effetti il tango rioplatense dei tempi d’oro era qualcosa d’altro; il brio del tutto immotivato con cui le orchestre di liscio attaccano Adios Muchachos è tanto lontano dalla malinconia del vero tango quanto la furia paranoide con cui i tangheri modernisti straziano gli strumenti per eseguire Libertango, e lo stesso si può dire dell’esasperata aura di glamour che avvolge il nuovo tango-dance. Tanto per dirne una, qui da noi Gardel non se lo fila quasi nessuno, quando invece in Argentina è un dio e forse anche qualcosa di più. La statua eretta sulla sua tomba tiene tra le dita una sigaretta sempre accesa; quando sta per finire c’è sempre qualcuno che la sostituisce con una nuova, e questa storia va avanti da settant’anni, perchè Gardel è morto nel 1935, in un incidente aereo. Aveva quarantacinque anni e quasi mille incisioni all’attivo; era il più grande cantante di tango e la morte non gli impedì di continuare ad esserlo, tant’è che i suoi fans coniarono per lui il soprannome postumo di El que canta cadadia mejor, colui che ogni giorno canta meglio. Da noi i dischi di Gardel li trovate negli ipermercati dentro i cestoni delle offerte, e se vi capita non lasciatevi sfuggire l’occasione di gustarvi al prezzo di un aperitivo una delle più superbe esperienze artistiche della storia. Gardel fu, insieme al fedele LePera morto insieme a lui, un eccellente autore ma fu soprattutto uno straordinario interprete; la sua voce era virile ed adulta e sapeva esprimere tutte le sfumature di quell’umanità alla deriva che popola il mondo del tango: volta a volta era ironica, nostalgica, accorata, strafottente, disperata, insinuante, contrita, prepotente, tenera, brutale, tutto e il contrario di tutto.

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La discografia che potrei proporvi, vale a dire quella in mio possesso, è poca cosa, edizioni supereconomiche che di tanto in tanto vengono riciclate cambiando copertine e ordine dei brani; voi tenete gli occhi aperti e quando vedete la magica parola Gardel, comprate a scatola chiusa. Io ho due cassette della Saar pubblicate nel lontano 1994, intitolate “Carlos Gardel Tangos” e “Carlos Gardel Tango Argentino”, nonchè un cd sempre della Saar che contiene una scelta delle due cassette. Il catalogo Saar viene costantemente riproposto in tutte le salse ormai da qualche secolo e vi consiglierei di dare la caccia alle immancabili successive reincarnazioni di queste raccolte giacchè esse rappresentano senz’altro il modo migliore di accostarsi a Gardel: i brani proposti sono tutti dei classicissimi e spicca tra di essi una stratosferica interpretazione della Cumparsita, quasi irriconoscibile a confronto delle tante versioni ad uso ballo liscio. Le registrazioni sono eccellenti e l’acustica è goduriosa; sicuramente il tutto è stato rimanipolato in misura massiccia ma ne valeva senz’altro la pena: la voce del Divo si materializza a pochi centimetri dalle nostre orecchie e colpisce. Posseggo anche una cassetta prodotta in Portogallo che si premura di garantire come originali le registrazioni proposte, e in effetti i brani hanno una sonorità piatta e miserella, ma quando Gardel incomincia a cantare, la sua voce decolla e nuovamente colpisce. Ho, infine, un cd che in origine doveva essere allegato a qualche pubblicazione della Hobby & Work (e anche in questo caso la riapparizione è quasi certa); la qualità delle registrazioni è ancora più scarsa ma l’interesse per l’appassionato è comunque notevole, trattandosi in genere di brani eseguiti con formazioni ridottissime e sovente con l’accompagnamento della sola chitarra. Tra questi c’è un’interpretazione di Milonga Sentimental che mette i brividi: la voce passa in maniera inavvertibile da un nostalgico lirismo alla più spavalda guapparìa e l’effetto è devastante. La milonga non è precisamente il tango, ma il tango ne ha fatto un suo satellite; come sarebbe accaduto mezzo secolo più tardi alla

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disco music, il tango ha attratto nella sua orbita e ha fagocitato le più svariate forme musicali. Nella galassia del tango c’è veramente di tutto, dalla sceneggiata ai cantautori, dal folclore di mezza Europa fino ai ritmi dell’Africa nera, e nessuno meglio del Troesma (il Maestro, in gergo lunfardo) vi può fare da guida.

TERRITORIO IL DIALETTO un contributo di Marco Savini

Il dialetto è una lingua allo stesso titolo dell'italiano, da cui si differenzia non solo per i caratteri linguistici, ma anche per un diverso ambito d'uso. Ormai il dialetto è parlato solo nei piccoli centri o nei comuni rurali, ma anche qui si assiste a una situazione di diglossia. Cioè assieme al dialetto, di uso esclusivamente orale, impiegato per ristretti usi familiari o comunitari, è presente un altro registro linguistico, l'italiano, per gli usi ufficiali sia orali che scritti. Il dialetto, come ogni altra lingua, è in continua evoluzione. Attualmente l'evoluzione dei dialetti è molto accelerata e li porta ad avvicinarsi sempre di più alla lingua nazionale Si moltiplicano gli italianismi, cioè parole italiane declinate come se fossero dialettali (ad esempio television). Al contrario, i dialettalismi sono parole dialettali rese in italiano, cme moroso. La rapida evoluzione dei dialetti ha posto il problema se il dialetto sia un bene culturale da tutelare e da conservare. Su questo c'è accordo, ma bisogna specificare se va conservato l'uso del dialetto o il documento dialettologico. Tutelare e riproporre l'uso effettivo del dialetto è oltre che ambiguo, assurdo. Il dialetto non è un elemento culturale a sé, che si possa maneggiare liberamente al di fuori del proprio contesto culturale. E poi il dialetto si impara in famiglia e non a scuola. Piuttosto la scuola deve riconoscere dignità al dialetto e alla cultura popolare che lo esprimeva. L'italiano non si insegna sradicando o reprimendo il dialetto, ma partendo dalla lingua effettivamente parlata, dal dialetto o dall'italiano popolare, attraverso un processo di confronto e di arricchimento. Va riconosciuta la dignità di ogni lingua e di ogni cultura, il che non significa che vanno conservate, ma che non vanno represse. Diverso è pertanto il discorso sull'importanza della conservazione dei superstiti documenti dialettali, che vanno raccolti e conservati. Il dialetto costituisce una documentazione storica e antropologica preziosa: i documenti dialettali vanno raccolti, conservati, tutelati, non diversamente dagli archivi e dai monumenti, con in più la consapevolezza che in questo caso non si hanno di fronte oggetti, ma persone, testimoni viventi di una cultura, che rischia non solo di morire con loro ma di non lasciare traccia, dato che è affidata all'oralità.


Nei paesi c'è un'insospettata permanenza di comportamenti e costruzioni culturali legati alla cultura orale. Quindi può essere ancora sorprendentemente ricca di frutti una rilevazione di queste persistenze culturali, se non altro nella memoria degli anziani. Come si può studiare il mondo contadino? Tradizionalmente indagando su due livelli: Ciclo della vita: dalla culla alla bara. Ciclo dell’anno: ritmo delle stagioni e relative feste. In questo caso si potranno raccogliere molti usi e costumi, esposti in forma di conversazione, di racconto di vita. Un altro percorso possibile è quello di ricercare i “documenti” tradizionali prodotti dalla cultura popolare: fiabe, canti, filastrocche, proverbi...

IL DILUVIO un contributo di Guido Giacomone

“Si aprivano periodicamente di sette in sette anni certe bocche o voragini, e rimandavano acque in tanta copia da rendere le strade navigabili, da inondare i campi, da rovesciare gli edifici anche più solidi". Come spesso accade con gli eruditi locali della vecchia scuola (nel caso specifico il pavese Capsoni, che scriveva nella seconda metà dell’Ottocento) si tratta di una testimonianza di seconda mano e per di più deliberatamente caricata aggiungendovi personali tocchi di colore, come la menzione di quel ciclo settennale che col suo sapore biblico getta un'ombra particolarmente minacciosa su di un aspetto del fenomeno la sua ricorrenza - che senz'altro era reale ma non così drasticamente scandita. Che la faccenda fosse comunque seria ce lo confermerebbe un autore del XVI secolo, Bernardo Sacco, che afferma di avere visto coi propri occhi un analogo diluvio scaturito dal suolo portarsi via addirittura un castello. Una delle ultime manifestazioni del fenomeno, clamorosa e fastidiosissima ma molto prosaica, è consistita nel ripetuto e prolungato allagamento di cortili, cantine e seminterrati nella città di Vigevano attorno al 1817, allorchè il marchese Saporiti incrementò la portata del Naviglio Sforzesco, col risultato di saturare d'acqua un'ampia superficie che, evidentemente, non aveva un adeguato sfogo

a valle. Un fenomeno analogo si verificò una sessantina d'anni più tardi nella zona di Mortara, allorchè le acque del Canale Cavour convogliate dal Diramatore Sella di recente realizzazione rimpinguirono la falda freatica e "l'acqua sgorgava dai pavimenti", come testimonia il brillante pubblicista Enrico Pollini che per un lustro diede alle stampe un preziosissimo Annuario grazie al quale sappiamo come si vivesse in Lomellina negli anni della rivoluzione irrigua che presto avrebbe cambiato il volto della regione. La conversione pressochè totale dei suoli della Lomellina alla risicoltura ha portato quasi di necessità alla gestione unitaria delle acque da parte di un grande Consorzio Irriguo che sa affrontare con indiscutibile perizia i temutissimi periodi di

siccità ma anche i momenti di eccesso idrico dovuti a precipitazioni di eccezionale intensità. Tutto questo in ambito rurale, ma nelle aree urbane gli amministratori – spiace dirlo - non dimostrano altrettanta perizia e pare anzi che non sappiano quel che l’acqua sia capace di fare quando le gira male. Fra i tanti esempi possibili vorrei citare, perchè lo trovo piuttosto colorito, quello di Garlasco, importante ed industriosa cittadina situata a metà strada tra Mortara e Pavia, cresciuta a dismisura negli scorsi decenni attorno ad un compatto centro storico che era racchiuso da un fossato la Roggetta - tombinato ormai da tempo. Le notizie a cui faccio riferimento sono tratte da articoli apparsi sulla stampa locale tra il 1997 e il 1998. Garlasco, a quanto pare, è costruita sull’acqua: crolla parte del pavimento di un negozio di informatica e i computer e le stampanti affondano in uno strato di acqua melmosa (all’avvenimento è dedicato un trafiletto); si inaugura un’ala del cimitero comprendente un’area seminterrata e l’acqua la invade (due articoli); arriva un temporale e tanto i quartieri nuovi come le vecchie vie del centro vanno sott’acqua (un diluvio di articoli). E nonostante tutto questo, quando si abbatte il vecchio lavatoio che sorgeva lungo la Roggetta cosa si pensa bene di costruire nell’area rimasta libera? Una palazzina di tre piani più un seminterrato nel quale, come recita un articolo celebrativo dell’evento, “ci saranno quattordici autorimesse di diciotto metri quadrati ciascuna”. Proprio sul vecchio corso della Roggetta.

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l’angolo di Anna Mara

Dialogo di Anna Livraga - È bello stare a far niente. Che pacchia, mi ritaglio un angolo e mi metto a pensare… Ma è proprio così? Oppure quando pensi stai lavorando, ed anche al massimo? Io qualche idea ce l'avrei. Se sono io a pensare, allora mi sto stancando, e alla grande! Oh che lavoro incredibile! Vi prego lasciatemi stare, ho bisogno di concentrazione, ora, e di riposo quasi assoluto poi. Devo metabolizzare i pensieri, le impressioni, i sogni. Datemi tempo, ripassate domani. Ma se sono gli altri ad avere la stessa esigenza? - Oh, ma che roba! Ci manca solo che mi facciano perdere del tempo a spiegarmi le LORO cose! Non parliamo poi di quelli che ti pensano addosso in diretta, i logorroici! Ma dico io, è mai possibile che non la ritengano una cosa privatissima? Certe pensate a volte si cerca di non raccontarle neanche a sé stessi. O no? Ok essere socievoli, ma a me tutto ‘sto altruismo nel farmi sapere le loro storie mi dà qualche problema. - E' vero, a volte mi imbarazza. L’idea di sapere certe cose di una persona, mi dà fastidio, mi sembra di essere invadente. - Ma sei stupida? Mica l’hai chiesto tu di sapere. E allora, se sono contenti loro di mostrarsi, di che ti preoccupi? Lascia fare e piuttosto, se proprio ci tieni, datti una mossa e diventa sorda. E finiscila lì. - Beh, sai, questo di solito avviene con le persone che mi stanno simpatiche, e alla fine non lo sono neanche più tanto. Sono più imbarazzata io ad ascoltarle che loro a parlare. Mah! Per me è inconcepibile. Poi, però, c’è tutto il campionario di quelli che mi stanno da antipatici in giù (nel senso di peggio ancora). Il “moderatamente antipatico”, ad esempio. Mi infastidisce, ma solo un po’. E io che faccio? Gli dimostro pienamente il mio fastidio (inutile dire che ci calco anche la mano) ma ci rido anche sopra, e intanto cerco di fuggire.

- Risultato? - Mah, di solito non succedono catastrofi; l’unico problema può sorgere con chi non fa caso al mio show e mi trattiene comunque. Lasciami andare o ti tratto davvero male! Non sono pensieri cattivi, è solo sopravvivenza. Ma è il classico “peggio che antipatico” che mi fa un effetto orribile. Riesce a trasformarmi in un distillato di acredine, eppure, chissà perché, mi viene subito voglia di giocarci, e pesante, se possibile. E di fare anche un po’ la furba. L’inizio è blando: studio, attacchino come assaggio, risata di circostanza, piccola richiesta di informazioni (servirà ad orizzontarsi), pausa, frase informale che va bene sempre (chissà se mi crede interessata? Spero proprio di sì). Attesa del secondo round; se ho fatto centro adesso mi spiegherà per filo e per segno un po’ di cose e allora sì che ci divertiamo! Se il candidato si è comportato bene e ha seguito le mie istruzioni sarà premiato con una perfetta frase raggelante inclusiva di pesante attacco diretto (Uauh!), e per finire una bella risata cattivissima. E non ti dico se poi ha da ridire! La mia reazione sarà di beata insolenza. Ma come, non hai capito che scherzavo? Dio, quanto poco umorismo che ha a volte la gente! - Beh, neanche tu sei esattamente un mostro di simpatia. Tra l'altro sto cercando di capire perchè mai dovresti farmi partecipe delle tue strategie e delle tue armi segrete. Vedo nello specchio questa tua espressione e non mi riesce di decifrarla. Eppure ormai dovrei conoscerti a sufficienza...

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Tu sei il mare che non conosco il mio mare profondo che tocca l'orizzonte e nasconde gli abissi tra le sue onde. Un mare d'acque sparse e ritrovate insieme sulla solita spiaggia bollente che fa perdere le tracce dentro la sabbia.

Tu sei l'immenso oceano che porta con sè parecchi velieri instancabili dondolati dal respiro del vento scossi da tempeste depositati su fondali dimenticati. Ma il vero amore non si perde mai tra le nuvole non si spegne con le lacrime; vive all'infinito la malinconia del tempo irreversibile che non si scorda mai Danut Gradinaru nato nel 1974 a Mangalia, in Romania, Danut vive a Mortara ed ha partecipato con le sue poesie all’edizione 2009 di L’Evento nell’Avvento


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