Igor Sibaldi - Dieci obiezioni ai comandamenti

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Igor Sibaldi

DIECI OBIEZIONI AI COMANDAMENTI Breve storia della letteratura russa attraverso i suoi paradossi

SPAZIO INTERIORE


Igor Sibaldi Dieci obiezioni ai comandamenti Š 2015 Spazio Interiore Edizioni Spazio Interiore Via Vincenzo Coronelli, 46 • 00176 Roma Tel. 06.90160288 www.spaziointeriore.com info@spaziointeriore.com illustrazione in copertina Igor Sibaldi I edizione: giugno 2015 ISBN 88-97864-69-1


INDICE

Prefazione di Igor Sibaldi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7 Non avrai altri dèi di fronte a me IVÀN IL’IČ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11

Non pronunciare il nome di Dio invano PADRE SERGIJ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33

Ricordati di santificare le feste OBLOMOV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 53

Onora il padre e la madre I FRATELLI KARAMAZOV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 75

Non uccidere CHADŽÌ-MURÀT . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 99

Non commettere adulterio ANNA KARENINA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 115

Non rubare STORIA ECONOMICA DI RASKÒL’NIKOV

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Non dire falsa testimonianza IL MAESTRO E MARGHERITA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 159


Non desiderare la donna d’altri IL DOTTOR ŽIVAGO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 179

Non desiderare la casa del tuo prossimo L’UOMO DEL SOTTOSUOLO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 199


PREFAZIONE di Igor Sibaldi

Questa breve e frammentaria storia radiale della letteratura russa parla principalmente dei dieci comandamenti. E dieci forme di obiezione ai dieci comandamenti sono adoperate qui come chiavi di lettura di alcune problematiche fondamentali della cultura russa dell’Otto e Novecento; e queste problematiche sono adoperate qui come chiave di lettura dei dieci comandamenti. Secondo me è un buon metodo. La letteratura, la critica letteraria e la teologia hanno sempre argomenti in comune; hanno talmente tanti argomenti in comune che, a considerarle obiettivamente, risulta in realtà molto difficile tracciare tra esse una demarcazione. La nostra teologia infatti (la nostra teologia propriamente detta) parla sempre e soltanto di opere letterarie, di narrazioni: la Bibbia, il Vangelo. Proprio come la critica letteraria. E le narrazioni di cui tratta la nostra teologia parlano delle stesse cose di cui parlano i romanzi: il rapporto dell’uomo con il mondo, con Dio, con se stesso, con la vita e la morte, con la Storia, eccetera. E ne parlano nello stesso modo in cui ne parlano i romanzi. Precisamente nello stesso modo. Di solito non ci si bada, poiché si ritiene che le narrazioni di cui parla la teologia abbiano un intento normativo che la letteratura non ha. Ma non è vero. È vero soltanto là dove la teologia viene utilizzata come strumento di una qualche religione; le religioni, come dice la parola stessa, sono appunto quegli apparati che trasformano in norme determinati brani delle narrazioni di 7


cui parla la teologia. Ma attualmente nessuno obbliga a utilizzare la teologia come strumento di una qualche religione, e nessuno punisce più chi fa teologia senza riconoscersi in nessuna religione istituzionale. E la differenza tra coloro che utilizzano la teologia come strumento di una qualche religione e coloro che fanno teologia e basta, è che i primi hanno appunto come scopo la dimostrazione della necessità di quelle norme religiose – ­ che la loro religione trae da quelle narrazioni – mentre gli altri parlano per lo più del contrario, cioè della necessità di superare quelle norme. E questa stessa necessità riempie sia i romanzi, sia le narrazioni di cui parla la teologia: così infatti la Bibbia è tutta quanta colma della inesauribile necessità di superare i dieci comandamenti, la stragrande maggioranza delle storie della Bibbia sono storie di disobbedienza ai comandamenti; e i Vangeli espongono addirittura il metodo (a partire dal Discorso della Montagna), il metodo per superare i comandamenti biblici, cioè di disobbedire a essi, nonché il metodo per superare ciascun comandamento di Gesù che non sia di per sé un infinito autosuperamento. Questa stessa necessità di superare i comandamenti si ritrova, molto evidente, nelle opere di cui parlo qui, e nelle quali e per le quali il confine tra letteratura e discorso teologico diviene dunque indefinibile, e inutile. E ciò, indipendentemente dalla religiosità dei loro autori. La questione del superamento dei comandamenti è molto interessante, e molto semplice e molto complessa al contempo; in gran parte si spiega da sé, richiede solo un paio di precisazioni preliminari, riguardo a ciò che in essa può apparire inconsueto ai più. I dieci comandamenti li conoscete: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio. Osserva il giorno di

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sabato, per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio. Onora tuo padre e tua madre. Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non pronunciare falsa testimonianza. Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo.

Sono i tabù della nostra religiosità. Sono i tabù della coscienza: nella prassi è uso comune disobbedire a essi, ma nella coscienza si sa che sono importanti, giusti e veri; è questo il modo in cui la nostra religiosità intende i suoi tabù. E un tabù esiste appunto perché lo si superi. È un confine posto all’individuo (alla coscienza dell’individuo, secondo la nostra religiosità) al solo scopo di dare un orientamento alla sua crescita interiore. Come a dire: fin qui, fino a questo tuo confine tu sei cresciuto finora, e questo è il tuo confine, ora. Così che se crescerai, saprai di essere cresciuto soltanto se questo tuo confine non sarà più un confine per te (per la tua coscienza, secondo la nostra religiosità). I più, si sa, sono abituati a ritenere che non sia affatto così, e che questi comandamenti siano dati perché sono e devono essere soltanto comandamenti. Ma i più sono soltanto i più, e anche per loro è soltanto una questione di crescita. Crescite simili richiedono secoli, millenni: perché la coscienza si accorga di essere giunta più in là dei confini dei propri comandamenti. Più in là, non più indietro. E quanto più profonda è la religiosità di una cultura, di un individuo, di una classe sociale, o di un popolo, tanto più netta è la percezione del disagio che è dato da quei confini dei suoi tabù, dei suoi comandamenti. E tanto più netto è, nella coscienza, lo sforzo di capire e dire quel disagio. Così è sempre. Succede sempre così. Così, non è che non siano o non vogliano essere cristiani gli 9


autori di cui si parla in questo libro. Tutt’altro. Il disobbedire della coscienza ai dieci comandamenti, il premere della coscienza sui loro confini è la forza di crescita dell’anima cristiana. Alla teologia consueta, strumentale, questo non interessa. Alla letteratura sì. E da qui partiamo, in questo libro. Igor Sibaldi

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non avrai altri dèi di fronte a me

IVÀN IL’ÌČ

A Tolstòj piace dar torto: è il suo tratto distintivo, era la sua natura. Dar torto, e non semplicemente dubitare, od obiettare, Dostoevskij dubitava e obiettava, dostoevskiano è il “sì, ma...” che socchiudendo gli occhi e alzando le sopracciglia si avventura, passo dopo passo, tra l’ironia e l’ignoto. Tolstoiano è il secco, imperioso “no”: qualunque cosa si mettesse a fare, Tolstòj partiva da questo no imbronciato, urgente, imperioso ­– che fin verso i cinquant’anni, fino ad Anna Karenina, altalena tra il gusto dispettoso della sfida e un nichilismo disperato, uggioso, e poi si condensa stabilmente in uno zelo da predicatore eretico, eretico integralista. E lì moltiplica la sua forza d’urto, vuole e diventa la forza terribile del «guai a voi scribi e farisei ipocriti, guai a voi dottori della legge», e del «non resterà qui pietra sopra pietra, che non sia diroccata». Guai a voi, avete torto, vivete male: Non si può vivere così. Non si può e non si può!1

Lo diceva a tutti. Ai lettori russi, a se stesso, ai lettori stranieri, ai lettori a venire, a te, a me. Il mondo è sbagliato, il loro, il nostro, il tuo e il mio. E tanto che, ancor oggi, leggendo il 1. Cfr. L. Tolstòj, Perché la gente si droga? e altri saggi su società, politica e religione, Mondadori 1988, p. 603.

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Tolstòj vecchio si sta seduti scomodi. E quel che più colpisce ancor oggi il lettore di Tolstòj, è che questa evoluzione del suo “no” si possa imparare. E rapidamente anche. Capita di impararla addirittura senza accorgersene, è sufficiente una minima predisposizione interiore per intenderne subito, intuitivamente la norma operativa. E la norma è facile, ed è questa: a) non una delle cose che agli altri sembrano vere è vera; b) quanto più grande, o scontata, o fondamentale appare una data cosa, tanto più semplice e appassionante sarà coglierne la menzogna, l’equivoco colpevole, a cui tutti coloro che vi circondano si sono rassegnati per loro infinita infelicità. Questa norma tolstoiana è una diretta applicazione del comandamento del Discorso della Montagna: «Io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nei regno dei cieli» (Matteo 5,20). Tolstòj mette “verità” al posto di “giustizia”; e poiché «Dio è verità», come dice il Vangelo di Giovanni, e «Non avrai altri dèi di fronte a me», come dice il primo comandamento, quel tolstoiano “no” a priori risulta essere – anche alla luce del Vangelo ­– il punto di partenza più sicuro e fruttuoso, per orientarsi tra le concorrenti verità del regno della terra. È l’unico punto di partenza che non inganni e – detto fra noi – l’unico che non annoi. Mentre il «non si può vivere così» è poi sempre, anche alla luce del Vangelo, il punto d’arrivo, di là dal quale incomincia una libertà sconfinata, bella come il deserto. Dove finisce questo deserto? Dove si ferma il “no”? Chi riesca a porre in quel deserto Dio, ne trarrà immensa energia per ripartire da altri “no” verso altri “non si può vivere così”; e amerà il deserto, ne diverrà padrone augurandosi che non finisca mai, e proverà una gioia intensa e irruente nelle sue scorrerie 12


beduine tra le altrui certezze. Chi non riesce a porvi Dio, avrà l’intensità e l’irruenza senza gioia. Questa è la norma operativa. Così formulata sembra una norma per giganti dello spirito: fa immaginare destini leggendari, epopee della coscienza critica. Ma davvero, il bello è che basta praticarla, anche soltanto un poco, per accorgersi che essa è invece un metodo alla portata di tutti, e funziona sempre, in tutti, con tutto. Perciò Tolstòj ne andava tanto orgoglioso. Era una splendida scorciatoia per la grandezza: volete diventare grandi anime? Volete diventare profeti, dare un seguito al Vangelo di Cristo? Vi insegno io come si fa, state a sentire, do it yourself. E tuttavia (e questo è molto importante), prima di divenire il metodo del cristianesimo tolstoiano, questa norma era stata in Tolstòj ed è in realtà, in realtà in ognuno una segreta, minuscola, terribile, anonima legge di natura: minuscola, un sottile sussurro anonimo nel cuore di ogni uomo, non avrai altri dèi di fronte a me. Minuscolo, tanto minuscolo che lo si può ignorare e far finta che non ci sia. Ma c’è. Ed è anonima, non è firmata: il me di questa minuscola legge non si sa chi sia, cosa sia, né tanto meno perché ci sia – lì, in qualche angolo del cuore – e si sa soltanto cosa non c’è e non ci può essere, quando si presta orecchio a quel suo sussurro: dèi, verità... No. Nessun’altra verità all’infuori di quel me. E quel me non è; è il nulla, se volete. Ma il nulla è ciò che non c’è. Dico sul serio. E Tolstòj in realtà non fece che scoprirla e riscoprirla sempre e sempre, sempre di nuovo, questa minuscola e raccapricciante legge nichilista, e inorridirne sempre di nuovo, mentre la usava; e proprio per reagire al raccapriccio la volse in una legge maiuscola della Verità, del Bene, dell’Amore, prima che – verso i cinquant’anni appunto – questa minuscola legge lo strozzasse; poiché essa sempre strozza, ipnotizzandolo, chi impara ad ascoltarla, a riconoscerne la voce. 13


Così fu: non toglie nulla all’autenticità del cristianesimo eretico di Tolstòj, ma questo è il segreto, quel che c’è sotto. Leggete una qualsiasi biografia di Tolstòj (sono tutte molto interessanti, ottime letture) e vedrete che ho ragione. E ne La morte di Ivàn Il’ìč, Tolstòj racconta proprio una scoperta di questa minuscola legge, ombra della Legge grande – e il minuscolo, solitario, tremendo orrore dello scopritore. Ma racconta sottovoce, sono cose delicate, bisogna fare molta attenzione. La morte di Ivàn Il’ìč è un romanzo breve del periodo “cristiano”, “neocristiano”, di Tolstòj: è del 1886. È aggressivo, predicatorio; ma è soprattutto paradossale. E il paradosso è totale: ciò verso cui Tolstòj punta il suo “no” è qui la nozione stessa di morte, e la complementare nozione di vita, e né l’una né l’altra la scampano. La storia della morte del quarantacinquenne magistrato Ivàn Il’ìč Golovìn diviene infatti nel romanzo la storia della sua vita. Il titolo è ironico: la vita di Ivàn Il’ìč, alla quale egli muore per un tumore a un rene, una vita onesta, rispettabile, tutta imperniata su una quantità di semplici, ordinari dèi occidentali – la Carriera, la Piacevolezza, il Decoro – ­ questa sua vita è in realtà una non-vita, un lunghissimo torpore mentale pieno di cose morte (vedete? “Non avrai altri dèi di fronte a Me”, e Non avrai altri dèi di fronte a me); così essa gli si rivela, così Ivàn Il’ìč impara a riconoscerla qual è, durante la malattia e l’agonia: impara a vederne il “no”, il “non avrai” (e “non hai”, “non hai mai avuto”), e piange e ha paura. E soltanto poco prima della morte tutto ciò si interrompe, interviene un altro “no”, un “non hai neppure questo”, e per un istante Ivàn Il’ìč improvvisamente vede, sogna una vera vita, dolcissima e piena, inaudita e travolgente. Dopodiché muore, e un altro “no” e “non avrai” lo chiude per sempre. L’irruzione di questa vita nella mente, nell’anima di Ivàn Il’ìč fa sì, inoltre, che la sua morte – ciò che egli sapeva essere la 14


morte – non ci sia affatto, e che dunque egli “non abbia” neanche quella: il suo corpo agonizzante si rivela essere, alla fine, nell’ultima pagina, un sepolcro vuoto, Ivàn Il’ìč non è più lì, è già scomparso, prima, un attimo prima, appena in tempo. Così che solo il “no” rimane. «E la morte? Dov’è?» Cercò la sua solita paura della morte, la paura d’un tempo, e non la trovò. Dov’era? Quale morte? Non c’era nessuna paura perché non c’era nemmeno la morte. Al posto del morire c’era la luce. «Allora è così!» disse improvvisamente ad alta voce. «Che gioia!» Per lui tutto ciò avvenne in un attimo, e il significato di quest’attimo ormai non poteva più mutare. Per i presenti la sua agonia si protrasse ancora per due ore. Nel suo petto gorgogliava qualcosa; il suo corpo emaciato sussultava. Poi il gorgoglio e il rantolo si fecero sempre più rari. «È finita!» disse qualcuno sopra di lui. Egli udì queste parole e le ripeté nella sua anima. “È finita la morte” si disse. “Non esiste più”. Inspirò l’aria dentro di sé, si fermò a metà del respiro, si allungò, e morì.

«...e morì» sta qui a significare due cose: 1 La prima è: giudicate voi, fate con coraggio il vostro dovere di lettori, l’autore vi offre un paradosso la cui soluzione ultima non è nel racconto, e dipende bensì dalla vostra capacità di contenere quel paradosso in tutta la sua impietosa vastità. Il paradosso 15


è: Ivàn Il’ìč scopre che la morte non esiste, e subito dopo muore. L’autore non ha intenzione di saperne di più, di sapere qualcosa di là dalle parole «e morì», perché ciò farebbe inclinare l’equilibrio dell’opera, a suo avviso perfetta. Continuate voi, in quel che riguarda voi e le vostre fedi: «e morì»: e poi? Non potete non continuare, non è vero? Nel racconto Il padrone e il lavorante, nove anni dopo, Tolstòj lasciò un finale simile, appena un poco più affabile: Nikita è morto soltanto quest’anno, a casa sua, come desiderava, con una candela accesa nelle mani. Prima di morire ha chiesto perdono alla sua vecchia e l’ha perdonata...; ha detto addio anche al ragazzo e ai nipotini ed è morto, rallegrandosi sinceramente di liberare con la propria morte il figlio e la nuora del peso di una bocca inutile, e di passare intanto e sul serio da questa vita venutagli a noia a quell’altra vita, che di anno in anno andava divenendo ai suoi occhi sempre più comprensibile e attraente. Sta meglio o peggio là dove si è svegliato dopo questa sua morte vera? Ne è rimasto deluso, o ha trovato proprio ciò che si aspettava? Noi tutti lo sapremo presto.

Ma in quale misura questa affabilità sia ironica, e in quale misura sia terribile, Tolstòj lo lascia, anche qui, alla decisione del lettore. 2 Il secondo significato dell’«e morì» di Ivàn Il’ìč è: ecco che il cerchio si chiude. Nel primo capitolo erano descritti il feretro di Ivàn Il’ìč e le emozioni di amici e parenti del morto, e qui nel finale giungiamo all’antefatto di quell’inizio. Ogni vita umana fa 16


questo effetto, vista dalla fine: è un cerchio chiuso, chiuso, e non fatevi illusioni, perché anche a guardarla da dentro, se guardate bene, vi farà questo stesso effetto. Il povero Ivàn Il’ìč è riuscito per un attimo a uscirne: un attimo solo, ma che importa? Fuori dalla vita non importa il tempo che si misura in minuti e ore. Voi piuttosto, a che punto siete voi, nel vostro tempo misurabile? Poiché è in questo tempo che si vive, e che agiscono le leggi della vita. Le grandi leggi, le piccole leggi. A che punto siete? Questa questione dell’ “e voi?” (che per il lettore suona: “e io?”) si impone da subito nel romanzo di Ivàn Il’ìč, insinuante, caparbia, minacciosa. Si pone fin dalla prima pagina, indicando, descrivendo coloro che non la ascoltano, coloro che non vogliono che si ponga. Al tribunale, tra i colleghi di Ivàn Il’ìč: Oltre alle considerazioni che questa morte aveva suscitate in ciascuno di loro circa i trasferimenti e i cambiamenti d’organico che da questa morte sarebbero potuti conseguire, di per se stessa, in quanto morte di un loro intimo conoscente, essa suscitò in tutti loro, come sempre avviene, un senso di gioia per il fatto che il morto fosse lui e non loro. «Ecco, lui è morto e io no» pensò o sentì ognuno di loro.

Notate quel «come sempre avviene». Ma notate soprattutto l’importanza della negazione, del “non” e del “no”, in queste righe. Ci sono molti modi di aggirare, ingannare e usare al contempo la legge del “no”, del non avrai; e questo è uno dei modi più diffusi, per il quale Tolstòj dice anzi, terroristicamente: «sempre». A casa del morto, due colleghi venuti in visita si scambiano un’occhiata: e uno dei due «strizzò l’occhio, come per dire: “L’ha fatta la sua stupidata, Ivàn Il’ìč, noi due invece...”». L’altro collega, Pëtr Ivànovič, ha invece, poco dopo, un istante di sgomento: sente in sé l’ “e io?”, ma per poco: 17


«Tre giorni di orribili sofferenze e la morte. È una cosa che anche adesso, in questo stesso istante, può capitare anche a me» pensò, e subito ebbe paura. Ma immediatamente, senza sapere neppur lui come, gli venne in soccorso il solito pensiero che la cosa era capitata a Ivàn Il’ìč, e non a lui, e che a lui quella cosa non doveva né poteva succedere; e che così pensando, egli si abbandonava a un umore cupo, il che non era bene... Fatto questo ragionamento, Pëtr Ivànovič si tranquillizzò e con interesse si mise a far domande sui particolari della fine di Ivàn Il’ìč, come se la morte fosse qualcosa di naturale per Ivàn Il’ìč, ma non lo fosse affatto per lui.

Non, non, non, non. Così avviene sempre: il collega Pëtr Ivànovič sgattaiola via, come tutti, dall’inutile “monito”, dalla paura o anche soltanto dall’umore cupo. Così avviene sempre, al posto suo anche Ivàn Il’ìč avrebbe fatto lo stesso. La forma di vita circoscritta nel «come sempre avviene» ha come suo carattere essenziale quell’illimitato sgattaiolar via davanti all’ “e io?”, davanti all’essenziale. Lukàcs ne parla così, trattando dell’epica tolstoiana nella Teoria del romanzo: «Il mondo della convenzione è una sola monotona realtà, che sempre ritorna e sempre si ripete, e si svolge secondo leggi proprie e prive di significato; una eterna mobilità senza direzione, senza crescita, senza declino» ­– senza l’ “e io?” – nella quale «le figure si succedono, ma senza che nulla accada, poiché tutte sono egualmente inessenziali e a ciascuna si può sostituire indifferentemente un’altra qualunque. E ogni qualvolta ci si affaccia sulla scena o la si abbandona, si tratta sempre della stessa variopinta inessenzialità che vi si scopre o si abbandona. Sotto a tutto questo freme il flusso della natura tolstoiana». Giusto. E ne La morte di Ivàn Il’ìč , la «natura tolstoiana» prende a fluire e a fremere sotto forma di malattia mortale. La malattia dà a Ivàn Il’ìč una direzione, privandolo 18


della sostituibilità: dà una direzione a lui solo, conduce lui solo, proprio lui e non un altro, verso la morte. Quando i primi sintomi del tumore cominciano a chiarirsi, Non era possibile ingannarsi: qualcosa di terribile, di nuovo e di significativo come null’altro nella sua vita, stava avvenendo dentro di lui.

E questa improvvisa condanna all’essenzialità, all’ “e io?”, è il serrarsi di una solitudine spaventosa – «una solitudine in mezzo a una città sovrappopolata; e in mezzo a innumerevoli conoscenti e famigliari, una solitudine che in nessun luogo avrebbe potuto essere più completa: né in fondo al mare né sulla terra...»: e da questa solitudine Ivàn Il’ìč guarda gli altri, quelli che possono usare la legge del “non” (il non avrai) a proprio vantaggio, a propria difesa, mentre lui può solamente subirla. Visti da lui, gli altri (lettori compresi, va da sé) appaiono così: «È la morte. Sì, la morte. E nessuno di loro sa, e non vuole sapere, e non hanno pietà... Per loro è indifferente la cosa, ma anche loro moriranno. Stupidi. Io prima, ma loro dopo: e per loro sarà la stessa cosa. E loro intanto se la godono. Animali!» La rabbia lo soffocava. E si sentì orribilmente, tormentosamente male.

Chi subisce quella legge, chi ne è così intrappolato, perde l’uso del “non”. Per chi la subisce, tutto ciò che egli ha cessa di poter essere “non-vero”, “non-me”, e diventa “vero”, diventa “me”: e tutto ciò che egli ha è la malattia, la natura-morte che si appresta a negare lui, a distruggerlo per sempre, in nome di un qualche altro minuscolo, segreto, anonimo me, più piccolo di tutto e più grande di tutto. Questo spostamento dell’asse del guardare è la chiave del romanzo. È anche e sarà sempre di più, in seguito, la chiave di 19


tutta quanta la predicazione tolstoiana – che si verrà precisando proprio come una morale e una tecnica dell’ “e io?”. Ma nel romanzo di Ivàn Il’ìč predicatoria è la morte, la morte è intimamente e fondamentalmente morale, con la sua morale, che è l’ombra della morale, di ogni morale. E la morte è lì per fare giustizia e per annunciare giustizia, e una giustizia più grande di quella di qualsiasi scriba o fariseo; questa è la regola della sua partita. Questa partita e questo predicare della morte nella vita di Ivàn Il’ìč vengono descritti come una discreta, paziente attesa. C’è un me, un null’altro che me in attesa, ed è come se questo me tossicchiasse, di quando in quando, discretissimamente, per far sentire che c’è. Si può non farci caso, nessuno ci fa mai caso. Sulla medaglia consegnata a Ivàn Il’ìč al momento della sua laurea si legge l’iscrizione respice finem, e Ivàn Il’ìč ovviamente non ci fa caso. E nel menzionare le modeste intemperanze giovanili di Ivàn Il’ìč, viene citata la frasetta francese: Il faut que jeunesse se passe, e viene citata in modo che il lettore possa non farvi caso, non subito. E così è. Bisogna che passi. Voi non ci fate caso e tuttavia bisogna che passi, piano piano, tutto ciò che c’è tra l’io e quel me. Nella vita di Ivàn Il’ìč bisogna che passi la giovinezza, poi bisogna che passino i primi anni dell’età adulta, poi qualche anno ancora: «come sempre avviene», in attesa di quella fine da respicere e che nessuno respice. Bisogna che passi, piano piano, tutto quanto: che tutto si rivesta del “non”, piano piano, che tutto ciò che è vero cessi di esserlo – Non avrai altri dèi di fronte a me – perché l’uomo si abitui piano piano a quel misterioso me che nega tutto. E così, «come sempre avviene», Ivàn Il’ìč marito ha qualche dispiacere quanto mai passeggero, Ivàn Il’ìč nel suo lavoro ha qualche dispiacere e qualche soddisfazione, che passano anch’esse. Perché? Perché è così. “Bisogna che passi”: non è possibile trovare altra ragione oltre a questa banalissima e terribile, 20


nel giudicare del perché la vita di Ivàn Il’ìč conosca tutte le sue fasi. Ed è davvero terribile, poiché, annuncia Tolstòj: «La storia passata della vita di Ivàn Il’ìč era delle più semplici e comuni, e delle più terribili». L’ordinario è il terribile, è senza scampo. E il “bisogna che passi” prosegue e prosegue, fino a che qualcosa di molto semplice comincia a non passare più. Per Ivàn Il’ìč è una piccola contusione a un fianco – stava arredando la sua casa nuova, stava appendendo le tende alla finestra quando è scivolato dalla scala a pioli, e nel cadere ha urtato col fianco la maniglia della finestra. Non è nulla, passerà. E invece no. Duole. Continua a dolere; e comincia un sapore strano in bocca, inappetenza, irritabilità. E il qualcosa che non passa acquista un significato. Diventa un significato. E comincia il gioco feroce di questo significato – di questa novità inquietante, allarmante nella vita di Ivàn Il’ìč: qualcosa che ha un significato e che non passa. Il resto è passato e continua a passare, di fronte a quel significato che resta. Per difendersi da quel significato – per farlo passare – Ivàn Il’ìč va, naturalmente, dal medico. E il medico, i medici lo aiutano a difendersene. Per Ivàn Il’ìč una sola domanda aveva importanza: c’era pericolo, o no? Ma il dottore ignorava questa domanda inopportuna. Dal punto di vista del dottore si trattava di una questione superflua, e non veniva nemmeno presa in esame; esisteva soltanto la valutazione delle probabilità: rene mobile, catarro cronico o affezione dell’intestino cieco. Non era una faccenda che riguardasse la vita di Ivàn Il’ìč, era una questione tra il rene mobile e l’intestino cieco.

Non, non, non. Ma i non dei medici sdrucciolano sulla sempre più dura durezza di quel qualcosa. Le cure non giovano né 21



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