Igor Sibaldi
LA SCRITTURA
DEL DIO
Discorso su Borges e sull’eternità
SPAZIO INTERIORE
Il direttore Andrea Colamedici mi ha chiesto, di nuovo, di trasformare una mia conferenza in un libro. Si rifiuta di ammettere che sia una cosa impossibile. Una conferenza ha una voce, mentre le voci contenute in un libro sono più numerose dei suoi lettori. Una conferenza è fatta di tempo, ore e minuti; i rapporti tra un libro e il tempo che scorre sono, invece, come sguardi da un aereo. Posso tutt’al più lasciare che un libro su Borges si impadronisca della mia conferenza su Borges, e ne faccia quel che vuole. Se Andrea se ne accontenta. I numeri che compaiono ogni tanto tra parentesi indicano le pagine dell’edizione Meridiani Mondadori delle Opere di Borges, in due volumi. La considero una buona edizione, nonostante i vari errori di traduzione: per esempio «azione» invece di «nazione» (nación), a pagina 862 del primo volume; oppure, a pagina 525, «è» invece di «e» (y); ma nei riguardi di questo genere di sviste ho sempre nutrito simpatia e anche gratitudine, per la stessa ragione per cui la fotografia in bianco e nero di un quadro è più utile, a un pittore, di una a colori. E poi, lo spagnolo è una lingua facile, soprattutto facile da immaginarsi leggendo; e si trovano facilmente ottime edizioni ispaniche di Borges: i lettori si concedano di esplorarne qualcuna, e ne trarranno piacere. grafia: o*: o con un trattino sopra, omega greco e*: e con un trattino sopra, eta greco
«La componente sociale della percezione riduce la portata di quanto può essere percepito, e ci fa credere che le forme a cui abbiamo adattato le nostre percezioni siano le sole cose che esistano. Sono sicuro che per sopravvivere, oggi, l’uomo debba cambiare la base sociale della sua percezione». Carlos Castaneda
La scrittura del dio
La escritura del dios La sorte che Borges si scelse, e che tenacemente si costruì con la speranza che servisse da esempio, è argomento di un suo racconto degli anni Quaranta (quand’era quarantenne), intitolato La escritura del dios. La trama è lineare: voce narrante nell’Escritura è un sacerdote e mago azteco, Tzinacán: gli invasori spagnoli lo hanno rinchiuso in una cella profonda, divisa a metà da un muro. In basso, nel muro, c’è una grata: e «da un lato del muro sto io, Tzinacán, mago della piramide di Qaholom, che Pedro de Alvarado incendiò; dall’altro lato c’è un giaguaro, che misura con segreti passi sempre uguali il tempo e lo spazio della prigione» (1,857).
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Il conquistador Pedro de Alvarado vuole che il mago gli riveli dove sono nascosti i tesori del Templo Mayor; l’ha torturato, invano: ora confida che la continua vicinanza della belva affamata sia un supplizio più astuto, e irresistibile. Tzinacán invece confida in Qaholom, il Dio Padre atzeco. Sa che Qaholom aveva scritto, fin dai giorni della Creazione, una frase incantatoria, atta a scongiurare qualsiasi sventura: dove il Dio l’abbia scritta, e con quali caratteri, nessuno l’ha ancora scoperto, ma Tzinacán prega perché a lui, ultimo sopravvissuto del suo collegio sacerdotale, venga rivelata. Dopo intense preghiere, intuisce che la frase magica è cifrata proprio nelle macchie del giaguaro che va avanti e indietro di là dalla grata. Evidentemente il Dio aveva fatto in modo che gli spagnoli scegliessero proprio quell’animale, per sgomentare il suo sacerdote: e confidava che Tzinacán avrebbe capito. Ha allora inizio, nel racconto, lo studio della configurazione delle macchie. Per anni (due pagine e mezzo) il sacerdote prigioniero vive decifrando sia quelle sia i sogni in cui si avventura ogni volta che il lavoro di decifrazione lo sfinisce. Finché sopraggiunge l’illuminazione: un’improvvisa «unione con la divinità, con l’universo (non so se queste parole differiscano)» (1,861).
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Durante la visione Tzinacán vede e capisce ogni cosa: l’origine e la fine, la Ruota altissima di tutto ciò che sarà, che è e che c’è stato, e il volto di tutti i volti divini, e tutte le cause dell’universo, e i loro effetti, e anche la frase scritta sul giaguaro. «È una frase di quattordici parole casuali (che sembrano casuali) e mi basterebbe pronunciarla ad alta voce per essere onnipotente: per abolire questo carcere di pietra; perché il giaguaro lacerasse Alvarado. Quattordici parole e io, Tzinacán, governerei le terre governate da Moctezuma. Ma so che mai dirò quelle parole, perché non mi ricordo più di Tzinacán. Muoia con me il mistero che è scritto en los tigres. Chi ha scorto l’universo non può pensare a un uomo, alle sue meschine gioie o sventure, anche se quell’uomo è lui. Quell’uomo è stato lui e ora non gli importa più. Non gli importa la sorte di quell’altro, non gli importa la sua nazione, poiché, ora, egli è nessuno» (1,862). E qui il racconto termina. Apparentemente, consiste nell’invenzione di un enigma – la frase, la sentencia mágica – e nella sua soluzione, la quale rimane segreta, divenendo
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dunque un enigma a sua volta. Vi sono opere, per esempio i romanzi polizieschi, in cui «la soluzione del mistero è sempre inferiore al mistero» (1,869); ma non è questo il nostro caso: ne La escritura del dios, Borges insiste troppo sulla «gioia di comprendere» (1,861), perché il lettore non desideri addentrarsi di più nel mistero del sacerdote. Inoltre, si ha da subito, limpida, la sensazione che siano enigmi anche il sacerdote stesso, e la prigione in cui è rinchiuso, e Pedro de Alvarado, e il Dio, e il giaguaro, il muro, l’attesa, il tesoro nascosto, la piramide, la visione, le quattordici parole, il silenzio, e anche quel diventare «nessuno» – che nel finale sembra voler sfidare chi legge: sei capace, tu, di non essere più te stesso? Ed è nostro desiderio, nelle prossime pagine, indagare questi quattordici misteri, nessuno dei quali è soltanto se stesso, e trovarne le chiavi: per varie ragioni, la più complessa delle quali è che qualunque enigma (anche quelli in cui è cifrata la sorte di Borges) svela qualcosa di coloro che ne sentono parlare. Alvarado Il tempio distrutto dall’incendio è il più facile, tra i misteri di Tzinacán. Sappiamo infatti che agisce,
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nell’umanità e in ciascun individuo, un impulso a distruggere la sapienza; e di questo si tratta. Nell’opera sia poetica sia narrativa di Borges vengono dati, a quell’impulso, numerosi volti, tratti dalla storia o anche dall’immaginazione: e uno è appunto il fulvo, spietato Don Pedro de Alvarado, che nella piramide messicana cercava solo l’oro, e nulla volle sapere del significato della piramide e del dio straniero, che per suo intervento cessarono di esistere. Un altro volto di quella forza annientatrice si trova nel racconto La muralla y los libros: è il costruttore della Grande Muraglia cinese, «quel Primo Imperatore, Shih Huang Ti, il quale dispose altresì che venissero dati alle fiamme tutti i libri scritti prima di lui» (1,907). – perché Huang Ti non voleva che in ciò che era stato scritto in passato si trovassero argomenti per criticare il presente. Un altro volto ancora, nel racconto Los teólogos, sono gli Unni che «lacerarono i libri incomprensibili, li oltraggiarono e li diedero alle fiamme, temendo
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forse che le pagine avessero accolto bestemmie contro il loro dio, che era una scimitarra di ferro» (1,795). E un’intera collezione di altri volti affini si incontrano nella Historia universál de la infamia: galleria di «orrendi modi di trattare la speranza» (1,450). Ognuno di noi sa per certo dell’esistenza di quella forza ostile ai sapienti, soprattutto perché tuttora la vediamo all’opera nelle nostre case: invece che al rogo, oggi, essa suole consegnare certi libri agli scaffali e lasciarli lì per sempre. E il motivo rimane il medesimo degli Unni o di Huang Ti: è una forza della paura: la paura (oggi particolarmente inconscia, se la si confronta con i distruttori narrati da Borges) che nella sapienza registrata nei libri siano contenute bestemmie contro la divinità a cui in un determinato periodo viene tributato il culto principale. Tale divinità non è necessariamente una Persona Divina. Una divinità vera, non semplicemente creduta, è un qualsiasi potere, o dinamica, o situazione, o ruolo, o norma,
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che in dato periodo vengano accettati senza osare domandarsi perché ci siano. Li si pone, in tal modo, al di là sia dell’intelligenza, sia del bene e del male: com’è appunto per le divinità. Le nostre giornate sono affollate di simili dei, ora locali, ora del tutto personali, o nazionali, o razziali. E il principale tra essi, ovvero il dio supremo di una data epoca, è quello a cui la stragrande maggioranza si sottomette, mentre i pochi individui che ne dubitano si sentono a disagio, isolati e vagamente in pericolo. Per Pedro de Alvarado e il suo piccolo esercito di saccheggiatori la divinità suprema era probabilmente la ricchezza. Per Shih Huang Ti era la propria sovranità. Per gli Unni, era la scimitarra; per molti filosofi è stata la ragione; per noi, oggi, tutto lascia supporre che sia la Normalità. Normalità: Carattere, condizione di ciò che è o si ritiene normale, cioè regolare e consueto, non eccezionale o casuale o patologico, con riferimento sia al modo di vivere, di agire, o allo stato di salute fisica o psichica, di un individuo, sia a manifestazioni e avvenimenti del mondo fisico, sia a situazioni (politiche, sociali, ecc.) più generali: normalità di un comportamento, di una reazione, ecc. (dal Vocabolario Treccani).
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