Roby Vian
MA CHI L’HA DETTO CHE SI BALLA PER GLI UOMINI? La via bioenergetica naturale al Femminino Sacro
SPAZIO INTERIORE
Roby Vian Ma chi l’ha detto che si balla per gli uomini? © 2014 Roberta Vian © 2014 Spazio Interiore Tutti i diritti riservati Edizioni Spazio Interiore Via Vincenzo Coronelli 46 • 00176 Roma Tel. 06.90160288 www.spaziointeriore.com info@spaziointeriore.com editing Maura Gancitano illustrazione in copertina Satvat I edizione: febbraio 2014 ISBN 88-97864-38-7
INDICE
Premessa
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parte prima guarire da cosa? la ferita del patriarcato Capitolo 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15
l’età dell’oro: l’età della dea Capitolo 2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31
la danza nell’età della dea Capitolo 3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45
l’invasione: la ferita del patriarcato Capitolo 4 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 61
il riflesso della ferita sulla danza in occidente Capitolo 5 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 71
il riflesso della ferita sulla danza in medioriente
parte seconda perché guarisce? la via bioenergetica naturale al femminino sacro Capitolo 6 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 83
la terapia bioenergetica e la danza d’oriente Capitolo 7 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87
il grounding I segmenti pelvico e addominale • I segmenti toracico e diaframmatico Il segmento cervicale • Movimenti trasversali ai vari segmenti
Capitolo 8 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 113
l’abito degli archetipi e la dimensione di gioia Capitolo 9 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117
la sorellanza e l’accettazione del corpo Capitolo 10 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 121
movimenti sacri in tutte le culture Capitolo 11 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129
la danza come connessione al divino Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 135 Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139
PREMESSA
Il mio primo contatto con la danza orientale risale ai tempi del liceo: una mia compagna di classe voleva tanto frequentare un corso di danza del ventre ma, una volta che lo ebbe trovato, le fu sconsigliato di iscriversi perché era troppo magra. Trattandosi di una danza profondamente universale, letteralmente intrinseca a tutte le donne di ogni corporatura, età, epoca, non ne capisco proprio la ragione. Ciononostante, a me, che per tutta la vita mi ero sentita grassa, questa discriminazione verso le magre suscitò simpatia, così decisi che anch’io un giorno avrei cercato un corso di danza orientale. L’occasione arrivò qualche anno dopo. Ero reduce da un’operazione alla pancia che mi aveva parecchio traumatizzato. Mesi di fascia elastica mi avevano fatto perdere tutta la muscolatura, e la mia pancia ferita rimbalzava a ogni passo come priva di vita o, peggio, con una vita autonoma, come fosse un’entità a sé stante. All’epoca non avevo consapevolezza che questo distacco fisico implicasse un allontanamento dal centro delle mie emozioni. Giunsi alla prima lezione con la mia amica del cuore: lo spogliatoio era gremito di ragazze scalze che si affrettavano ad aggiustarsi gonne larghe dai colori sgargianti e corpetti traboccanti di monetine. Io e la mia amica, in tuta, ci guardavamo intimorite. Sembrava di essere a un ritrovo di zingare. Echeggiavano i tintinnii delle cinture sulla melodia orientaleggiante che già giungeva dalla sala.
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Ci chiedevamo dove fossimo finite. Al contempo, l’intensità del colore, dei suoni e della musica in cui le altre si muovevano con perfetta disinvoltura aveva un ché di accattivante. Guardavamo i corpi delle più esperte ondeggiare in movimenti sinuosi, emanando fascino, armonia, padronanza. Qualcosa di mai visto. Subito ci innamorammo e, con tutte le rigidità che ci portavamo addosso, ci chiedemmo se mai un giorno saremmo riuscite a fare qualcosa di lontanamente simile. Dopo qualche mese il rapporto con la mia pancia era cambiato: non era più un’entità distinta da appiattire, ma una parte di me che si poteva esibire e vivificare con movimenti belli che esprimevano un’armonia interiore. Per altri impegni interruppi il corso e non lo ripresi se non dopo alcuni anni, ma il seme era stato gettato: non guardai più alla mia pancia allo stesso modo, la cicatrice era sbiadita – o forse scomparsa dal mio campo visivo – e il cammino della riappropriazione di sé avviato. Rimase vivo il desiderio di riprendere una danza che mi appariva estremamente difficile per la mia struttura rigida, ma al tempo stesso affascinante proprio per l’ideale di morbidezza e flessuosità che incarnava. La mia esperienza personale non costituisce, come ho avuto modo di scoprire, un caso isolato. I provati benefici della danza orientale sono svariati: attivazione della circolazione, rassodamento, prevenzione dell’artrosi, irrobustimento della muscolatura dorsale, addominale e pelvica con conseguente miglioramento della postura, delle lombosciatalgie, della funzionalità degli organi interni che risultano meglio sostenuti, prevenzione e cura di prolassi vaginali e dell’incontinenza urinaria, scioglimento delle tensioni addominali e pelviche, alleviamento dei dolori mestruali, miglioramento di problematiche ginecologiche, della fertilità e della sessualità. Oltre al piano puramente fisico, la danza d’Oriente riduce lo stress, armonizza, migliora l’umore, la coordinazione, la padronanza del proprio corpo, cambiando la percezione di sé e favorendo l’autostima. Tutto ciò è stupefacente se si considera che questa danza, lungi dall’essere considerata terapeutica, è stata per anni relegata ai limiti della moralità e dell’accettazione sociale. I primi timidi riconoscimenti
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di una qualche virtù curativa appartengono, infatti, a tempi recentissimi. Qualche ginecologa illuminata, per esempio, potrebbe oggi consigliare la danza orientale in preparazione al parto: i movimenti del torace e delle spalle sciolgono le tensioni facilitando la respirazione, i dolori lombari vengono alleviati, l’acquisita mobilità addominale e la padronanza della muscolatura pelvica giovano al momento del travaglio, che può essere gestito con maggiore consapevolezza. Proprio al fine di documentare i suoi effetti miracolosi, la danzatrice e insegnante Flavia de Marco, dopo aver riscontrato per anni notevoli miglioramenti in allieve e colleghe, ha deciso di raccogliere alcune testimonianze in un libro, La più antica delle danze e il suo potere curativo.1 I benefici che descrive riguardano una migliore accettazione del proprio corpo e dei propri difetti, una maggiore sicurezza, considerazione di sé e comunicatività anche in ambito lavorativo, miglioramenti almeno parziali in casi di dispareunia e frigidità ed effetti antidepressivi. Addirittura, racconta che molte donne affette da infertilità sono rimaste magicamente incinte dopo pochi mesi di corso. L’autrice ha condotto inoltre un’indagine su duecento soggetti scelti tra insegnanti e allieve di tutta Italia, i cui risultati si sono rivelati sorprendenti: più del novanta per cento dei soggetti ha riferito di aver riscontrato cambiamenti sul piano fisico e/o emotivo, a livello di circolazione, e di aver visto sparire dolori vari, in particolare alla schiena, oltre a miglioramenti nella vita sessuale.2 È chiaro che siamo di fronte a una sorprendente danza di guarigione, a una forma eletta di benessere prettamente femminile. Viene spontaneo chiedersi, quindi, perché guarisca. Innanzitutto, è sorprendente verificare come alcune posizioni di danza orientale siano simili ai movimenti di bioenergetica individuati da Wilhelm Reich e Alexander Lowen per sciogliere i conflitti intrappolati nel corpo, che sono causa di ristagno del flusso energetico e quindi di malattie. Non è un caso. Tali movimenti, infatti, sono gli stessi che vengono praticati 1. F. De Marco, La più antica delle danze e il suo potere curativo, Lampi di stampa 2007. 2. Ivi, pp. 115-116.
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da migliaia di anni nelle danze rituali delle culture di tutto il mondo. Sono i moti della celebrazione della vita, della sacralizzazione del principio creativo femminile, i moti che favoriscono e auspicano la fertilità per sé, per le sorelle, per la Madre Terra. Gli stessi che la partoriente esegue per agevolare il parto, incitata dalla comunità di donne che con lei li esegue a sostegno della nuova nascita. Da un capo all’altro del mondo, dal lontano paleolitico alle culture tribali ancora superstiti, le danze si sono svolte in pose e ritualità del tutto similari. Le celebrazioni del parto nell’Antico Egitto non sono così lontane, infatti, da quelle che – tramandate di generazione in generazione – sono giunte fino ai nostri giorni e si praticano ancora in alcuni villaggi del Medioriente. Libere dai filtri ideologici e dalla medicina moderna, le donne e le comunità hanno saputo ascoltarsi e trovare naturalmente le forme più congeniali al proprio corpo, a sostegno della vita e del benessere. L’attrazione sempre più diffusa da parte delle donne occidentali per la danza orientale potrebbe non essere dovuta, quindi, a un semplice gusto per l’esotico o al fascino nei confronti di una tradizione lontana. Al contrario, la spinta a cercare e a reiterare i movimenti che la memoria ancestrale riconosce come armonizzanti e benefici potrebbe derivare dalla saggezza intrinseca del corpo di queste donne, che le spinge a recuperare una dimensione spirituale – quella del corpo, appunto – assai carente nella cultura occidentale. La scelta – spesso inconscia – di praticare questa danza potrebbe essere dovuta al fatto che essa rappresenta la forma che più di ogni altra raccoglie e conserva i movimenti delle ritualità antiche legate al culto della vita, della Dea Madre, della Madre Terra. Altro che danza di seduzione! Eppure, un alone di peccaminosità la accompagna sempre e inevitabilmente. La sua stessa denominazione – danza del ventre – è infatti erronea, e rappresenta il significativo stravolgimento dell’arabo raqs sharqi (“danza d’Oriente”). A chiamarla per primi danza del ventre furono i soldati francesi ai tempi dell’invasione napoleonica in Egitto, cioè nel xix secolo, l’età della ragione, che considerava immonda la carne, con particolare accanimento nei confronti del corpo della discendente di Eva, pericolosa fonte di tentazione e lussuria. In quell’epoca
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era indecente nominare non solo le gambe delle donne – ben sepolte da abiti soffocanti e costrittivi – ma persino le gambe dei tavoli, che i vittoriani si premuravano di nascondere con pesanti drappeggi. A contatto con la manifesta esplosione di sensualità delle ghawazee, le ballerine zingare che si esibivano in pubblico, i soldati europei rimasero quindi interdetti. Occorre immedesimarsi nel fanatismo puritano del tempo per comprendere quanto il termine ventre evocasse qualcosa di impudico, amorale, sporco. «Se le viscere di una donna venissero aperte» asseriva il monaco Roger de Caen, «si vedrebbe quale lordura la sua pelle candida ricopre». «Se gli uomini vedessero ciò che sta sotto la pelle» rilanciava Sant’Oddone di Cluny, «la sola vista delle donne gli riuscirebbe nauseabonda: questa grazia femminile non è che suburra, sangue, umore, fiele. Considerate quello che si nasconde nelle narici, nella gola, nel ventre: dappertutto, sporcizie. [...] E noi che ripugniamo dal toccare anche solo con la punta delle dita il vomito o il letame, come possiamo dunque desiderare di stringere nelle nostre braccia un semplice sacco di escrementi?»3 Come non inorridire increduli di fronte a tali asserzioni, e come non pensare alle terribili vessazioni subite dalle donne in virtù di tali ideologie, perpetratesi sino a poche generazioni fa. Eppure, come testimoniano i reperti archeologici, per decine di migliaia di anni l’Europa matriarcale aveva adorato sopra ogni altra cosa il ventre sacro della donna. Dove si è perso il glorioso grembo della Dea, venerato per millenni? La civiltà occidentale moderna si è gettata completamente alle spalle l’infame concezione del corpo sudicio della donna, sotterrando per sempre un tale vergognoso capitolo della storia della coscienza? Ripensiamo ai benefici fisici, emotivi, psichici della danza orientale, danza di guarigione delle donne, del femminile. Guarisce da cosa? Qual è la ferita?
3. Brani tratti da R. Miles, Chi ha cucinato l’ultima cena? Storia femminile del mondo, Elliott 2009, p. 131.
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parte prima GUARIRE DA COSA? LA FERITA DEL PATRIARCATO
Capitolo 1
L’ETÀ DELL’ORO: L’ETÀ DELLA DEA Figli del mondo volate, cercatemi nello spazio, nei precipizi delle mie viscere, nelle radici dell’umanità. Afferratevi ai miei capelli, viaggiate con il vento con il lampo con l’eco. Venite per i corridoi delle mie costole, che io vi voglio allattare. Venite tutti a me, che il mio cuore vi aspetta. E ricordate che siete figli dell’arcobaleno e della Pacha Mama. Yelitza Altamirano Valle
E vibra potente il canto dell’Una Nel ventre delle Molte Micaela Balìce
Per comprendere appieno la profondità della ferita delle donne, è necessario andare a scoprire cosa è stato reciso. Occorre, in altre parole, fare un balzo indietro di qualche decina di migliaia di anni, fino a un’epoca misconosciuta dai libri di storia: un’età in cui l’umanità venerava le molteplici manifestazioni di una Grande Madre Divina. Le donne
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ne erano incarnazione vivente, e per questa ragione hanno goduto per millenni di un ruolo sociale e di una sacralità difficilmente immaginabili al giorno d’oggi. Ruolo sociale e sacralità successivamente soffocati, calpestati e cancellati dalla memoria della storia. Nella vasta area geografica che si estende dall’Europa Occidentale e Settentrionale all’India, dal Mediterraneo all’Egitto e al Medioriente, i reperti archeologici dell’epoca paleolitica (40.000-10.000 a.C.) mostrano incredibili analogie. Ricorrono con estrema assiduità rappresentazioni degli organi genitali femminili incavate nella roccia delle caverne – risalenti in certi casi anche al 34.000 a.C. – insieme ai simboli che sono loro associati (triangoli, v, zig-zag, meandri, spire...). Amuleti a forma di vulva e fili di conchiglie di ciprea, che ne ricordano le fattezze, sono stati rinvenuti in tombe della stessa datazione. Le prime statuette di argilla che rappresentavano il corpo prosperoso della donna sono comparse, probabilmente, intorno al 25.00020.000 a.C. Gli archeologi le definiscono comunemente le Veneri del Paleolitico, che presentano seni e natiche sproporzionalmente abbondanti, e ventri gravidi. Fin dall’inizio il loro uso fu presumibilmente rituale, e spesso erano tenute a contatto con la terra e poste sotto le dimore.4 Le ceramiche cultuali e le minuscole sculture del Neolitico ne sono l’indubbia eredità, e per millenni sono state utilizzate, con una stupefacente continuità, forme e simbologie affini a queste. Nel proposito di analizzare e interpretare il significato di reperti così lontani fra loro nel tempo e nello spazio – eppure così simili – l’archeologa Marija Gimbutas ha intuito che il loro messaggio, manifestamente tutt’altro che estetico, rimandava a una precisa concezione religiosa del mondo diffusa e profondamente radicata: «La stupefacente ripetizione di associazioni simboliche nel tempo e in tutt’Europa su ceramiche, statuette e altri oggetti di culto» scrive l’archeologa lituana, «mi ha convinta che si tratta di molto più che motivi geometrici: devono appartenere a un alfabeto del metafisico, [...] una sorta di metalinguaggio attraverso il quale è stata trasmessa tutta una costellazione 4. M. Gimbutas, Il linguaggio della Dea, Venexia 2008, p. 142.
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di significati. [...] Le sistematiche associazioni in Medioriente, sud est europeo, area del Mediterraneo ed Europa centrale, occidentale e settentrionale rivelano la diffusione della religione di una medesima Dea in tutte queste regioni come sistema di idee coeso e persistente».5 Accostando la ricerca e l’analisi archeologica a studi di mitologia comparata e di etnografia storica, è chiaro come il lavoro di Marija Gimbutas costituisca un contributo fondamentale alla ricostruzione della visione del mondo trasmessa dalle Veneri e dalle statuette successive, fino ad allora sottovalutate dagli studiosi e relegate a ruolo di effigi di divinità inferiori. La sua opera ha avuto il merito di descrivere dettagliatamente ciò che lei stessa ha definito una «sceneggiatura iconografata della religione della Grande Dea dell’Europa Antica».6 Appare innanzitutto chiaro e incredibile che, come fa notare Layne Redmond, «i primi esempi di rappresentazioni artistiche nella storia dell’uomo siano immagini di vulve».7 Osservando tali incisioni e reperti, io per prima mi sono meravigliata di siffatta primitività. Man mano che approfondivo la concezione del mondo di cui erano manifestazione, tuttavia, mi sono ricreduta, e sono giunta infine ad ammirare l’intenso intento di celebrazione della vita e il profondo senso di connessione cosmica di cui erano prodotto. Gli uomini preistorici percepivano la divinità in tutte le espressioni del creato. Ogni manifestazione della natura e ogni attività umana rispecchiavano l’azione e la volontà del divino, non esistevano distinzioni fra sacro e profano. Tutto era esternazione della divinità. Mistero maggiore appariva la capacità creativa della donna, e grazie a questa il perpetuarsi della vita. Il corpo della donna rappresentava un privilegiato tramite del divino e col divino. Le donne generavano la vita come la divinità aveva generato la Terra, una divinità che era sentita – è ovvio – come prettamente femminile. Nelle filosofie di creazione del mondo, con le dovute variazioni sul 5. Ivi, p. xi. 6. Ivi, p. xv. 7. L. Redmond, When the drummers were women, A spiritual history of rhythm, Three Rivers Press 1997, p. 29.
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tema, Dio era infatti pensato come una Madre Divina, che si era autogenerata e che aveva partorito il cosmo e l’uomo, e che in certi casi si diceva avesse deposto l’uovo cosmico da cui si era dischiuso il creato. Era la madre che culla, nutre, protegge i suoi figli, datrice di vita e prosperità agli uomini e alla terra intera. La Madre Terra stessa, dispensatrice di frutti. Gli studi di Marija Gimbutas si sono concentrati volutamente sulla zona dell’Eurasia ma, come ha constatato la stessa archeologa, analogie di simboli che rimandano a filosofie similari si possono ritrovare in tutto il mondo. Una tra tutte è la cosmogonia delle popolazioni di nativi americani Athapascan riportata da Luciana Percovich, che ha raccolto e fatto conoscere le filosofie sulla creazione del mondo di paesi lontani dalla nostra cultura, le cui immagini rappresentano spesso brani di autentica poesia: «Quando la Madre Terra era molto giovane, le montagne e i fiumi germogliavano in primavera dal suo corpo rigoglioso. Era bellissima, e la sua parte più bella diventò quella abitata dagli Athapascan. [...] Fu in questa parte perfetta della terra che comparve Asintmah, la prima donna del mondo, ai piedi del monte Atiksa, vicino al fiume Athabasca. Camminando nelle foreste che coprivano la terra, raccolse i rami caduti dagli alberi, attenta a non strappare nulla che vivesse ancora in connessione con la terra. Intrecciandoli, costruì il primo telaio e su questo cominciò a tessere la Grande Coperta della Terra con le fibre del salice e i fili d’erba secca. Quando la coperta fu pronta, Asintmah cominciò il lungo cammino per stendere la coperta sulla terra. Ne fissò un angolo sul monte Dente di Squalo, un altro al Pilastro di Roccia, il terzo sul monte Livello di Testa e il quarto sul monte Atiksa. Poi, seduta vicino all’orlo della coperta, cominciò a intrecciare fili di musica, cantando le bellezze della terra e quelle che presto sarebbero nate, creature perfette al pari di lei. Non ci volle molto prima che il suo canto cambiasse in una melodia capace di alleviare le fatiche e le contrazioni del parto che la terra aveva iniziato per dare alla luce le nuove creature. A un tratto tutto fu
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silenzio, la terra ora giaceva ferma e silenziosa. Asintmah seppe allora che era nato un nuovo essere, sentì un movimento sotto la coperta, la sollevò un poco e ne uscì un corpicino grigio con quattro zampette e una lunga coda. Era il topo. [...] Asintmah era così contenta che continuò a cercare ancor più sotto la coperta che ricopriva la terra e così trovò il cougar e il caribù, il wapiti e l’alce e tutte le altre creature che ora camminano sulla terra. Fu così che, con l’aiuto di Asintmah, la donna che visse prima di tutte le altre creature, la terra da giovane fanciulla diventò Madre Terra. E sebbene tutto questo sia successo tanto tempo fa, gli Athapascan se lo ricordano ancora e sanno che oggi devono prendersi cura della loro vecchia madre, quella che ha dato loro la vita, e venerano Asintmah, la donna che era con lei all’inizio di tutto».8 Le donne, le donne gravide, le madri, nel loro perpetrare i gesti primordiali della creazione erano intrinsecamente incarnazioni della divinità. Di conseguenza, il corpo femminile era venerato sopra ogni cosa e riprodotto a scopo celebrativo nelle parti, forme e associazioni che più ne richiamavano la bontà generativa: la vulva, quindi, ma anche i seni, da cui sgorgava il latte nutritivo e il ventre fruttifero che nelle rappresentazioni risultava «antico quanto l’arte delle statuette».9 Il ventre gravido è ciò che meglio esprime la potenzialità e l’esplosione della vita. A volte vi si trovavano incisi i simboli e i motivi geometrici che venivano percepiti come richiami al principio creativo, e che celebravano e osannavano la fecondità e la fertilità delle donne e della terra. Curioso che le Veneri paleolitiche fossero steatopigiche: ciò che per noi è quasi una patologia – cioè l’accumulo eccessivo di adipe nelle natiche, nella parte superiore delle cosce e del ventre – veniva ricercato e accentuato nei manufatti preistorici allo scopo di intensificare l’invocazione del principio creativo. Per tutta l’Età del Rame, la Dea in dolce attesa continuò a essere l’aspetto più venerato, e solo col 8. L. Percovich, Colei che dà la vita, Colei che dà la forma, Venexia 2009, pp. 112-113. 9. M. Gimbutas, Il linguaggio della Dea, cit., p. 141.
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ventre gravido fu rappresentata su un trono in postura regale.10 Anche le alture e i rigonfiamenti del suolo erano sacre metafore del ventre gravido, così come le caverne erano l’utero della Madre Terra. La rotondità e la sinuosità delle forme rimandavano, in generale, alla sacra fecondità della donna. La celebrazione della vita non nascondeva la presenza della morte. Sono state rinvenute tombe sotterranee di forma rotonda con un cunicolo stretto che collegava la tomba alla terra: era come se i defunti – così deposti – potessero tornare nel grembo tondo della Madre Terra, e il cunicolo potesse agevolare la loro rinascita attraverso una via già tracciata. Oggetto di particolare adorazione era tutto ciò che veniva associato non solo alla fondamentale energia creatrice, ma anche alle energie trasformatrice e rigeneratrice, che pure erano attributi del femminile. Oltre che al mistero della nascita, le donne presiedevano ai misteri della morte e della rinascita, della trasformazione e della rigenerazione dell’energia cosmica. Indissolubilmente legate alla terra, potevano comunicare col regno sotterraneo dei morti e con quello dei cieli. Regine indiscusse dei tre regni, le erano particolarmente care le forme, le manifestazioni e gli esseri viventi che meglio esaltavano i variegati attributi della Dea che incarnavano. Nella mucca, per esempio, si concretava il mistero della nascita. Da essa scaturiva il sacro latte che nutriva la comunità. Le sue corna adornavano frequentemente capo e copricapo della Dea. Anche la testa del toro con le corna – il cosiddetto bucranio – ricorreva assiduamente nelle raffigurazioni a causa della sua somiglianza con l’apparato riproduttivo femminile (l’utero e le tube di Falloppio). Il serpente, animale niente affatto malefico, costituiva un importante emblema di energia rigeneratrice: la muta della sua pelle è, infatti, un esempio di costante rinnovamento e trasformazione, il fiducioso abbandono del vecchio che permette l’espressione del nuovo. Immerso nella terra e nelle acque, è una forte metafora di fertilità. L’immagine del serpente che si 10. Ivi, p. 142.
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mangia la coda è simbolo dell’eternità, così come le forme a spirale che assume sono sinuose come le curve del corpo femminile. I due serpenti intrecciati attorno a un bastone compongono il Caduceo, emblema della salute e dell’equilibrio degli opposti. Nell’antica cultura harrapana della valle dell’Indo, il Caduceo indicava in particolare il connubio dei principi maschile e femminile, l’incontro sessuale di Shakti e Shiva come esperienza di guarigione.11 Gli uccelli in generale erano messaggeri degli dei che viaggiavano dal cielo alla terra, dal cielo alle acque. Deponevano e covavano le uova come la Madre Divina aveva deposto e covato l’uovo cosmico. Oltre alla bella e amorosa colomba, accompagnava e impersonava la Dea l’avvoltoio, che come lei incarnava la morte e la resurrezione: «Come avvoltoio» scrive Layne Redmond, «la Dea non uccide. Essa consuma il morto per trasmutare ancora una volta l’anima alla vita, nella forma di un uovo».12 Anche l’ape regina, con la sua capacità di deporre fino a duemila uova al giorno, occupava un posto rilevante come simbolo di rigenerazione. Le api erano inoltre viste come regolatrici e portatrici di ordine, come la Dea Madre e come le stesse donne preistoriche, che fin dal Paleolitico erano state viste come regolatrici del cosmo e delle vicende umane: «I ritmi del loro corpo mostravano e garantivano l’armonia dell’universo» fa notare Luciana Percovich. Nei templi dell’Asia Minore, in Grecia e nell’antica Roma, le sacerdotesse dell’antica Dea Ape (Demetra, Rea, Cibele) erano chiamate Melisse, dal termine greco (μέλισσα) con cui si indicava l’ape.13 A garantire la continuazione della creazione era l’equilibrio, la capacità di seguire costantemente la Via e gli insegnamenti dati da Madre Natura, «in un patto che doveva essere continuamente riaffermato tra Natura ed esseri viventi».14 Il loto indicava il fiorire di uno stadio più elevato della coscienza, ma rappresentava anche un’ulteriore immagine della vulva. Lo stesso valeva per la rosa, il 11. L. Redmond, When the drummers, cit., p. 69. 12. Ivi, p. 51. 13. Ivi, p. 113. 14. L. Percovich, Colei che dà la vita, cit., p. 7.
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