Anna Laura Cannamela Embergher - Costellazioni Familiari

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Universo Olistico 2



Anna Laura Cannamela Embergher

COSTELLAZIONI FAMILIARI Il viaggio dell’eroe alla ricerca del Sé autentico

Illustrazioni di Silvia Bennardo

SPAZIO INTERIORE


Anna Laura Cannamela Embergher Costellazioni Familiari © 2014 Spazio Interiore Tutti i diritti riservati Edizioni Spazio Interiore Via Vincenzo Coronelli 46 • 00176 Roma Tel. 06.90160288 www.spaziointeriore.com info@spaziointeriore.com editing Maura Gancitano copertina Francesco Pandolfi illustrazioni Silvia Bennardo Studio artistico Amore & Colore • Bergamo I edizione: marzo 2014 isbn 88-97864-40-0


INDICE

prefazione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9 di Clara Maria Ferrato

introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 Capitolo 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25

elementi teorici essenziali

Una premessa, che non è una falsa promessa • Dipende da noi • L’elemento transgenerazionale e il metodo costellativo • Una postilla su psicoanalisi e Antenati • L’energia maschile e femminile • La ricerca del senso nel costellare • La guarigione dell’Albero • La fotosintesi clorofilliana, ossia perché le foglie sono così importanti

Capitolo 2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 81

narrazioni

Destino e scelta: dalla trasmissione transgenerazionale alla persona libera • Storie di Donne • Riflessioni di Psicogenealogia familiare • Sul partorire: siamo canali • Rinascere • La favola del Lupo e della Principessa • Il destino • Cuore sacro • I Primi Antenati

Capitolo 3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 117

le costellazioni come strumento per il viaggio dell’eroe

Casi di Costellazioni e commenti • Conclusione incoraggiante

Capitolo 4 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141

formazione

Diventare costellatori

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151 Ringraziamenti. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155



A Chiara. Ogni cosa che fai, anche la piĂš piccola, mi riempie di onore e di orgoglio. A Ivano. Tu sei il Matto e io il Mondo.

A Francesco. Ti amo e questo mi permette di non perderti. A Pina. Ti amo e ti somiglio quando ridi. A Maria. Ascolta! I lupi mannari si sono trasformati in colibrĂŹ. A Rossella. Dolce e amata amica, la Spagna ci aspetta!



PREFAZIONE

di Clara Maria Ferrato

A volte le strade si incrociano per un caso, una necessità, per avere delle risposte. Così è stato con Anna. Il nostro incontro riguardava degli interrogativi personali che desiderava chiarire ed è nata così una storia, la nostra. Quando si cerca insieme e si percorrono gli stessi sentieri camminando fianco a fianco, le scoperte che si fanno sono veramente molte. Le sue domande, il suo mettersi in gioco ci hanno dischiuso luoghi inesplorati: là dove c’era buio io portavo la luce e lei si inoltrava in sentieri a me sconosciuti, per poi rivelarli a me che non li avevo mai visti. Poi altri incroci e altre strade da percorrere insieme, un gioco di ricerca, di ascolto. Abbiamo abitato spazi resi visibili dalle parole e dalle emozioni che muovono sentimenti che non hanno tempo, che hanno abitato il passato, abitano il presente e abiteranno il futuro. 9


Trama e ordito si sono intrecciati dando luogo a una tela solida, che ora può reggere pesi. Grazie a questo lavoro sul Sé profondo, Anna ha continuato e continua a camminare sempre più sicura e forte verso conquiste personali e professionali e verso orizzonti di vita nuova. Anna si è lasciata incontrare. Per me è stato un privilegio conoscerne la curiosità, la multiforme creatività, il desiderio di vivere la vita con consapevolezza, la determinazione, i dubbi, le certezze, l’intelligenza, la passione. Guardo con benevolenza i suoi passi e sempre la porto nel cuore.

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INTRODUZIONE

«Non posso comprendere il senso dell’essere, stando fermo». Quando, diversi anni fa, lessi queste parole in un testo di Derrida, filosofo francese affascinante quanto controverso, ebbi una folgorazione. Dovetti tornare più volte a rileggerle, per essere sicura di aver capito. A volte poche parole ci colpiscono più d’interi trattati, aprendo squarci illuminanti di inedita comprensione. Mi riecheggiavano nella mente, presenti e vive per giorni e settimane; mi chiedevano di essere soppesate, distillate, ricordate, fatte mie. Avevano colpito nel segno: le sentivo familiari, e allo stesso tempo erano nuove, e chiedevano a gran voce di essere riconosciute dalla mia consapevolezza. Con una vivezza irresistibile, mi urlavano (affinché non le ignorassi) che per afferrare il senso della vita non basta la dimensione serena, e magari severa, dell’intelletto che analizza e contempla, ma che «la vita si comprende solo vivendo». Nella mia formazione, la filosofia occupa una parte rilevante, e il confronto quotidiano con i testi originali nutre la mia attività di pensiero. Negli anni, seguendo un percorso ramificato ma non frammentario, sono entrata in risonanza non solo intellettuale, ma anche empatica, 11


con i più diversi autori e orizzonti culturali: ho vissuto molteplici e intensi entusiasmi ogniqualvolta mi è capitato di leggere un pensiero che risuonava in me come vero (e in qualche modo la scelta dei testi non è mai casuale, ma segue un filo coerente di interessi spirituali). Ma, appunto, perché alcuni testi (così come certe persone, esistenze, vite, persino certi incontri) hanno il sapore della verità, mentre altri – pur validi e profondi – risultano più neutri, quasi disincarnati, privi di quella dimensione di urgenza, di appello personale, che richiede una risposta, un impegno non rimandabile? Ebbene, mi sono data una risposta. Credo che – anche grazie all’allenamento filosofico e ad altre modalità ed esperienze di meditazione – sia possibile affinare una speciale sensibilità, che prende la forma di una limpida e attendibile consapevolezza: è possibile cioè sviluppare degli strumenti che permettono di rilevare con finissima precisione quando si sta toccando un tema essenziale per la propria stessa vita, in grado di aumentare sensibilmente la comprensione autentica, di estendere il raggio delle potenzialità vitali. In altre parole: questi strumenti ci avvisano quando sentiamo di esserci messi in comunicazione con qualcosa di più ampio della nostra individualità, di più essenziale e vero. Vogliamo chiamarlo l’essere? La verità? Un canale privilegiato di comunicazione col vero Sé? Poco importa definirlo, l’essenziale è cogliere l’appello, e accettare di viverlo. Per me si tratta del discrimine tra il senso dell’essere e l’ovvio quotidiano, l’inessenziale, la realtà in malafede, che pure, talvolta, occupano una parte assai estesa della vita delle persone. Intere esistenze sono connotate dall’o12


blio del senso. C’è chi non esce mai da questa indesiderabile forma di ottusità esistenziale. Dunque, la frase di Derrida che ho riportato all’inizio1 mi offriva con elegante sintesi questa riflessione: il senso dell’essere, della mia esistenza, come quella di ciascun essere umano, richiede che io mi metta in cammino (in primo luogo interiormente).2 Esso, infatti, ha una struttura dinamica, per cui non può essere colto solo per via concettuale, cercando di individuarne una apparente fissità ontologica, che abbia cioè i caratteri di una presunta e permanente oggettività. L’analisi concettuale non basta a soddisfare la domanda di senso. Bisogna rovesciare la prospettiva. Uscire dall’isolamento dorato della teoresi pura e prendere corpo, letteralmente, ribaltando il modo e il metodo con cui si cerca il senso. Soluzione pulita, semplice e per ciò stesso elegante, ma assolutamente radicale. Come ricordato nella dottrina

1. Si tratta di una frase che, peraltro, sollecita pensatori delle più diverse formazioni: si veda per esempio l’appassionata analisi che ne fa Pier Aldo Rovatti, che da attento fenomenologo si dedica soprattutto ai temi del gioco, dell’ascolto e dell’alterità, tutti collegati alla questione attuale della soggettività. 2. Naturalmente, riconosco un’importanza capitale anche al viaggio in senso reale, come spostamento geografico, intrapreso per ampliare i nostri orizzonti d’esperienza, dunque di conoscenza e coscienza. In questo particolare senso, voglio ricordare quanto Alberto Moravia scriveva nel 1987 a proposito dei suoi molteplici viaggi in Africa: «Il viaggio non è uno spostamento nella geografia, ma nel tempo e nella storia. [...] Passare dal passato al futuro in poche ore, ritrovarsi in una dimensione diversa dalla tua realtà, scuote, ma nello stesso tempo rende vivi, desta le curiosità sopite».

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del Tao, la realtà è costituita da polarità dinamiche e complementari, è pervasa da perpetuo cambiamento che ne costituisce l’aspetto strutturale.3 Dinamismo, progressione, evoluzione. Sono queste le parole chiave che ci possono salvare dall’opaca schiavitù del concepire la realtà come eternamente identica, cioè da un’idea semplicemente falsa, che ci procura però rassicurazioni intellettuali illusorie, quando ci parla di una regolarità o permanenza dell’essere. Questi tratti, invece, non riguardano l’essere in se stesso, ma vengono rilevati soltanto dall’attività dell’intelletto umano, che ne ha bisogno per semplificare le operazioni di comprensione e di lettura dei temi (fisici, logici, ontologici, fenomenologici) a cui si dedica. In una fase di pensiero sviluppato, pienamente razionale ma ancora con tratti epistemologici adolescenziali (diciamo così), a qualcuno potrebbe sembrare intuitivo che la realtà – se mai riuscissimo ad afferrarla conoscitivamente – dovrebbe avere certi caratteri e non altri: chiarezza, semplicità, unitarietà. Dai presocratici in poi, sino all’Ottocento compreso, si è coltivato l’ideale della possibilità di arrivare a una sintesi conoscitiva del vero: come dicevano gli scolastici, «verum et unum convertuntur» (“il vero e l’uno si equivalgono, ossia c’è un’unica verità”). Tale è stato il lungo, e per molti ver-

3. D’altronde, anche all’interno della tradizione filosofica occidentale questa è la poderosa intuizione dello stesso Eraclito, che percorre come un filo rosso la storia del pensiero, fino all’apoteosi che ne faranno Hegel e l’Idealismo.

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si glorioso, cammino del pensiero occidentale, fino alle soglie del Novecento. L’appartenenza storica e culturale a questa robusta tradizione di pensiero in Occidente è, con tutta probabilità, il motivo principale per cui arrivare a cambiare prospettiva è impresa così faticosa. Eppure, un pensiero maturo, esperto, autenticamente consapevole, è in grado di approdare – si badi, senza rinunciare ai propri strumenti – a un esito opposto: arriviamo a comprendere che il senso ultimo delle cose non è unitario, né semplice.4 Il senso sta nel cambiamento (quindi “molteplicità”, “complessità”), che va considerato un elemento strutturale. Di nuovo: dinamismo – e questo vale sia per la realtà fisica sia per la nostra realtà interiore. Vorrei anticipare, con pochi tratti essenziali, cosa questo comporti per la nostra vita. I lettori più attenti si saranno già resi conto che questa nuova prospettiva implica una conseguenza fondamentale: così come la realtà tutta, allo stesso modo anche la nostra realtà interiore è soggetta al mutamento. Questo apre le porte a un discorso dalla portata immensa, sulla reale possibilità che ciascuno di noi ha di cambiare, affrontando con successo anche le dinamiche più critiche che permeano le nostre esistenze. Non solo cambiare si può, ma, in senso letterale, non si può non cambiare. D’altro canto, mettersi nella prospettiva secondo la quale il cambiamento è un elemento strutturale postula anche che l’essere umano sia

4. Non è difficile sentire qui l’eco delle parole di Aristotele, peraltro in diverso contesto: «L’essere è polivoco».

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il soggetto attivo della propria esistenza, in grado cioè di essere consapevole, di avere una progettualità e di operare delle scelte. Vorrei altresì aprire un’utile parentesi, per chiarirci un possibile dubbio che resta aperto: dunque, non c’è nulla di permanente, di eternamente identico a se stesso? E, come diretta conseguenza, se affermiamo che non esiste una natura umana permanente, che ne sarebbe di tutti i discorsi sui valori e sui loro fondamenti? Non rischiamo di cadere nella confusione, camminando sul bordo di un magma concettuale, fino ad avvitarci nel relativismo più totale, che renderebbe sterile ogni discorso sul senso? È una domanda impegnativa, di squisito sapore filosofico. Ma la risposta risulta abbastanza agevole: nell’essere umano, come nella realtà in senso ampio, tutto è soggetto a cambiamento, in profondità. Tuttavia, è caratteristica dell’essere umano – che è dotato di certe strutture emozionali e cognitive, anche sulla base delle sue organizzazioni neurali (come hanno dimostrato, con abbondanza di dati sperimentali, i più seri e verificabili studi di neuroscienze) – portare con sé un filo costante nel tempo, che gli permette di riconoscere e connettere tra loro le cose, gli avvenimenti, le persone: questo filo rosso è la memoria. È proprio la memoria, in noi che siamo esseri segnati essenzialmente dal cambiamento, l’elemento che garantisce una certa continuità alla vita, alla personalità: si potrebbe quasi affermare che, senza memoria, andrebbe perduta persino la possibilità di parlare di noi come di persone. In realtà, sappiamo bene che anche la memoria (tema molto complesso, impossibile da sviluppare in

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questa sede)5 è articolata in livelli e funzioni diverse, ed è soggetta al cambiamento, nel senso della crescita come anche della regressione. Ma nel vissuto quotidiano e nell’esperienza emozionale, essa rappresenta quasi un sigillo di continuità, di legame con qualcosa che assomiglia al permanere, all’identico. Torniamo ora al punto principale che avevamo guadagnato: tutto cambia.6 Ne deriva che, per essere adeguata al suo oggetto, deve cambiare anche la nostra prospettiva sulla realtà, sia conoscitiva sia autenticamente esistenziale. La principale conseguenza di questa rivoluzione copernicana è che, nel corso della nostra esistenza, noi siamo chiamati a diventare ciò che siamo. L’accento, come si vede, è posto sul cambiamento, sulla presa di consapevolezza interiore, in ultima analisi sulla libertà. Non esiste, infatti, niente di immutabile. Ricordiamo come già oltre cinquecento anni fa Pico della Mirandola, nel celeberrimo De hominis dignitate, abbia definito l’uomo come l’essere caratterizzato dalla potenzialità: «Non ha l’uomo una natura definita; può scegliere cosa diventare, se più simile a un angelo o a una bestia».7 Per arrivare a una visione così limpida, e solo in apparenza così sinteticamente semplice, occorrono anni di esperienza introspettiva,

5. Ritengo tuttavia che, per chi vi fosse interessato, varrebbe la pena approfondire su testi qualificati certi temi: la memoria a breve e a lungo termine, la memoria di lavoro, la dimensione bottom-up e top-down delle funzioni cognitive. 6. Mi fa piacere qui rimandare al testo della canzone Todo cambia di Mercedes Sosa. 7. Pico della Mirandola, La dignità dell’uomo, cusl 1982, p. 76.

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anche dolorosa, di maturazione, di rigoroso e profondo lavoro interiore. Bisogna, direbbe san Giovanni della Croce, «attraversare il buio della notte». In questo libro ho voluto chiamare eroe quel tipo di persona che, lavorando sulla propria consapevolezza, con rigore e allo stesso tempo con estrema apertura mentale, prendendo le distanze da tutto ciò che fa solo rumore ed è inessenziale, decide (è una dimensione della libertà) di vivere la propria vita come un viaggio, in una prospettiva di evoluzione, di strutturale e continuo cambiamento interiore. Usando termini ancor più semplici, si potrebbe dire che l’eroe è ciascuno di noi, a partire dal momento in cui si accorge (ovvero prende coscienza) di essere al mondo, di essere in relazione con l’altro, di avere dei problemi da affrontare, e decide (si tratta infatti di una scelta, di un esercizio di libertà) cosa fare, come muoversi: può intraprendere un cammino di trasformazione e di progressivo approfondimento della consapevolezza, o in alternativa può aderire, accettandola, alla situazione in cui si trova.8 Anche in questo secondo caso, è da notare, si tratta comunque di una scelta, di cui vanno semmai valutate le condizioni di libertà. L’eroe è dunque il viator (come viene detto nel delizioso testo medievale Itinerarium mentis in deum di San Bonaventura), cioè colui che per natura vive nel viaggio e attraversa diverse tappe, superando delle prove (talora delle iniziazioni), aprendosi a dimensioni sempre nuove

8. Si sente qui il permanere di un’eco del tema esistenzialista, in particolare heideggeriano, dell’«essere gettati nel mondo».

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e, così facendo, realizzando nel contempo una sempre migliore – e inesauribile – conoscenza di se stesso. Per alcuni pensatori si tratta di trovare il proprio dio interiore. Potremmo quasi parlare di viaggio come dimensione metafisica, ove quello che conta non è tanto l’arrivare a una meta determinata (una fine), ma essere in ricerca, dal momento che questa condizione risulta perfettamente connaturata – se ben ci riflettiamo – alla natura sempre in trasformazione dell’uomo.9 In questa visione dell’uomo come eroe in viaggio, siamo confortati da una schiera molto nutrita di autori. Alcuni sono dei classici, e talvolta comprendono nomi inattesi: da Agostino («Inquietum est cor nostrum, Deum, donec requiescat in te»10), al Pascal dei Pensieri, per approdare fino all’amato/odiato Hegel, che ha scritto pagine stupende sulla necessità di diventare ciò che siamo, dialetticamente, attraverso le tappe del cammino dello Spirito, a cominciare dalla fondamentale Fenomenologia dello Spirito. Includo poi, in questo computo, certe pagine di Kierkegaard, laddove polemizza contro il dogmatismo e si richiama ai temi della libertà e del salto nella fede, e di Nietzsche, che ha infine dato una spallata poderosa e definitiva, per il Novecento, al

9. È probabilmente questo uno dei motivi per cui ci appassionano i racconti di viaggio nelle condizioni più dure: traversate di deserti o di oceani, scalate di vette impervie o di ghiacciai, incontri con le culture più diverse che sfidano l’uomo a fare i conti con i propri limiti (in una dimensione metafisica), e naturalmente a superarli progressivamente, non solo per se stesso, ma per tutta l’umanità. 10. Sant’Agostino, Confessioni, i, 1.

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mito dei presunti valori oggettivi e dei dogmi. Altre volte, invece – e tralascio una folta messe di compilatori di stucchevoli opere genericamente spiritualistiche e misticheggianti in salsa pseudo-orientale – siamo arricchiti e immensamente stimolati da autori più vicini al nostro tempo e a una sensibilità multiculturale: si tratta di pensatori la cui opera è spesso una originale e geniale rielaborazione del tema fondamentale della complessità quale dimensione essenziale del reale. Tra essi, riconosciamo l’impronta dello spiritualismo russo, e ricordiamo le folgoranti intuizioni di Pavel Florenskij11 o l’opera complessa del citatissimo ed eclettico Gurdjieff. In questa sede non è possibile dare il giusto risalto al ruolo che va riconosciuto ai grandi movimenti di pensiero dell’estremo Oriente, in primis il taoismo, che ha avuto un’influenza assai profonda e pervasiva su molte discipline e su molti pensatori occidentali (su tutti, Arthur Schopenhauer), che hanno poi elaborato autonomamente dei seri tentativi di mediazione tra le diverse culture di pensiero, cominciando a creare dei ponti che oggi ci sono semanticamente indispensabili. D’altro canto, in ambito prettamente occidentale dobbiamo sicuramente riconoscere la via all’esplorazione dell’inconscio – qui vista

11. «Tutto passa, ma tutto rimane. Questa è la mia sensazione più profonda: che niente si perde completamente, niente svanisce, ma si conserva in qualche modo e da qualche parte. Ciò che ha valore rimane, anche se noi cessiamo di percepirlo». Pavel Aleksandrovi Florenskij, Non dimenticatemi. 1933-1937, Mondadori, Milano 2006, p.156.

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come il viaggio per eccellenza – aperta dalla psicoanalisi, maturata anche attraverso la riflessione sull’arte compiuta nel primo Novecento12 e poi sviluppata attraverso ramificate evoluzioni successive.13 Sento particolarmente vicini alcuni approcci successivi,14 che si caratterizzano per uno speciale focus sulle dimensioni della relazione oggettuale15 e della cura (in senso lato, l’aiuto alla persona). Desidero ora completare la mia digressione sul viaggio dell’eroe parlando del Matto dei Tarocchi, il Folle. Come sostengono Jodorowsky e Costa, è possibile utilizzare i Tarocchi di Marsiglia come formidabile strumento proiettivo, dotato di una ricchissima profondità di contenuti simbolici.16 Negli Arcani Maggiori la prima carta è il Matto, l’unico Arcano che ha solo il nome e non il numero. Nell’epistola ai Corinzi scritta da Paolo di Tarso leggiamo: «Il savio della sapienza di questo secolo, se è veramente innamorato della sapienza, occorre che diventi stolto per

12. Suggerisco la lettura del libro L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni, di Eric R. Kandel (Raffaello Cortina 2012). 13. Penso ad esempio all’originale e stimolante approccio adottato intorno ad alcuni temi di analisi del reale dal pensatore e psicoanalista lacaniano Slavoj Žižek. 14. Mi riferisco al vasto arcipelago delle psicoterapie sistemiche e a tutti gli approcci olistici, tra i quali includo le Costellazioni Familiari. 15. Essi implicano una distinzione soggetto-mondo esterno piuttosto precoce, addirittura con un ruolo costitutivo. 16. È questo l’uso che ne fanno Alejandro Jodorowsky e Marianne Costa nel loro testo, La via dei Tarocchi, che a mio parere rimane un punto di riferimento indispensabile.

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essere sapiente». San Paolo sembra darci una buona descrizione dell’attitudine che si dovrebbe avere per avvicinarci all’inconscio: il Matto è, infatti, colui che abbandona la via sicura della coscienza e si avvia, in modo apparentemente assurdo, lungo un cammino sconosciuto e temibile. Il Matto abita terreni sconosciuti, terre di nessuno che sono in realtà regioni dell’inconscio. Il Matto non è certo un simbolo di stupidità, ma di sapienza; esso è come lo 0 (zero), un’anomalia aritmetica, che pur non avendo un proprio valore serve a rappresentare, tra i numeri, i valori a loro volta assenti. È il seme che deve germogliare per dare frutto. Non a caso la sua meta finale lungo il cammino dei Tarocchi è proprio l’ultima carta, il Mondo. La carta del Mondo è una summa di significati e insegnamenti: in essa è rappresentata una donna quasi totalmente nuda dentro una mandorla, un ovale, come ovale è lo zero del Matto, un uovo simbolico pronto a schiudersi. È l’anima che entra in se stessa e penetra in una nuova dimensione, attraversando simbolicamente un limite, una porta. Il Matto è così parte di una categoria extranumeraria, è l’eroe che per raggiungere la piena completezza, per arrivare al Mondo, deve percorrere un cammino, attraversare delle tappe, rappresentate da tutte le carte degli Arcani Maggiori. Ogni carta è percorsa dal Matto e, a propria volta, ogni carta cambia il proprio valore intrinseco quando viene affiancata dallo zero – dal vuoto17 – del Matto.

17. Il vuoto è un concetto chiave nella filosofia Zen. Esso rappresenta il ritorno alle origini, il conoscere ciò che si è. Bisogna partire dal vuoto per potersi riempire di un nuovo significato.

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Parsifal, cavaliere di re Artù alla ricerca del Santo Graal, è detto il Folle. È interessante osservare come, nell’omonima tragedia, Wagner realmente descriva Parsifal come un Matto in grado di abbandonarsi totalmente all’ignoto, un eroe capace di accettare l’irrompere dell’inconscio. Quando vogliamo lavorare sul nostro inconscio, quando ci accingiamo a esplorare un terreno così sconosciuto, diventiamo degli eroi: siamo il Matto che va verso il Mondo, verso il senso della propria esistenza. Certo è che per essere eroi, per comprendere il senso dell’essere – e aggiungerei anche del non-essere – bisogna costantemente muoversi fuori e dentro di sé, accettando che l’equilibrio definitivo non esista, in quanto solo il Matto ha il coraggio per intraprendere il viaggio dell’eroe. Vi auguro dunque buon viaggio!

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