Tutte le ombre del mare

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Tutte le ombre del mare (El mar de todos los muertos) di Javier Argüello Traduzione di Lorenza Del Tosto e Francesca Saltarelli © 2008 Javier Argüello © Omero Editore, Roma 2014. Tutti i diritti riservati. www.omero.it Isbn: 978-88-964500-7-9 Impaginazione e grafica di Luigi Annibaldi Finito di stampare nel mese di novembre 2014 presso Rotostampa Group srl - Via Tiberio Imperatore 23, Roma


TUTTE LE OMBRE DEL MARE Javier Arg端ello Traduzione di Lorenza Del Tosto e Francesca Saltarelli



A Omar e Lolita, il piacere è mio A Lola, ovunque

Perché quel cielo azzurro che tutti vediamo, non è cielo, né azzurro. Che gran peccato che non sia vera tanta bellezza. Leonardo de Argenzola

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Sono arrivato a Maiorca con la ferma intenzione di smettere di scrivere. Quando glielo dissi il mio editore andò su tutte le furie. Ma di che cosa stai parlando?, mi disse. Non diciamo stupidaggini. Vuoi gettare al vento quasi due anni di lavoro? gli risposi di sì. Allora cominciò a parlare del blocco dello scrittore, cosa che capita a molti, che passa con il tempo, vedrai. Mi chiese se mi sentissi sopraffatto dal romanzo, intrappolato dentro. Non sapevo bene a che cosa si riferisse, ma decisi di dire di sì. Si mise le mani fra i capelli, si alzò dalla scrivania, andando avanti e indietro per la stanza, mi disse che un cambiamento d’aria era quello che mi serviva, che un periodo lontano dalla città mi avrebbe guarito da ogni cosa. Conosci Maiorca? mi domandò. Di nuovo risposi di sì. Allora mi parlò di una casa di proprietà della sua famiglia, vuota tutto l’anno, mi disse che mi sarebbe piaciuto moltissimo quel posto in una bella caletta in riva al mare. Lui si sarebbe occupato di tutto. Dovevo portarmi roba pesante perché in quella stagione faceva ancora freddo da quelle parti. Vedrai quanto ti piacerà. Che ne pensavo di partire quel lunedì? mi domandò. Per qualche motivo che ignoro tornai 7


a dire di sì e così tutto fu sistemato. E adesso eccomi qua, sull’isola di Maiorca in una casa che guarda il mare, in compagnia di un cane che mi studia con diffidenza e con in testa un romanzo che non scriverò mai. Fuori è lunedì e piove. Non ho mai capito in che modo accadano le cose. Qualche giorno fa in un’antologia di racconti dal mondo ho letto una storia che mi ha colpito. Credo che fosse di origine ebraica e parlava di un uomo che aveva sognato un tesoro sepolto sotto un ponte in un paese lontano. All’inizio l’uomo non volle farci caso, ma l’immagine tornava a incalzarlo, finché decise che avrebbe fatto bene a mettersi in cammino. Impiegò diversi mesi per arrivare a destinazione, e una volta arrivato ne passò altrettanti scavando invano: il tesoro non si trovava. Un vagabondo che viveva nei dintorni e lo aveva osservato mentre scavava gli domandò un giorno quale fosse la ragione di tanto trambusto. L’uomo, ormai sfinito, gli raccontò i particolari del sogno che aveva fatto. È curioso, disse il vagabondo, qualche giorno fa ho fatto un sogno simile, solo che non c’era nessun ponte, ma un giardino con un albero di fico, e dietro un campo di girasoli. L’uomo gli chiese di essere più preciso e il vagabondo prese a descrivergli minuziosamente il luogo. Meravigliato, l’uomo comprese che si trattava del proprio giardino e senza una parola riprese la via del ritorno. La conversazione a cui mi riferisco – quella avuta con il mio editore ormai una settimana fa – si svolse al quinto piano di un palazzo di vetro situato sulla Travessera de Gràcia a Barcellona. Non saprei spiegare la combinazione di errori e stupidaggini che mi condussero a quella città, mi basti dire per ora che con 8


ogni probabilità avevano a che fare con te. Che più che cercare tesori ciò che facevo era fuggire, che un giorno mi misi a correre lasciandomi Buenos Aires alle spalle e che quando finalmente mi fermai avevo il Mediterraneo di fronte. Se vuoi imbarcarti cerca porti e pontili, se vuoi tranquillità fiumi e boschi, ma se ciò che vuoi è pubblicare libri chiedi del bar dove vanno a bere gli scrittori, lì troverai anche gli editori e gli agenti. È quel che mi dissero e così ho fatto, e poco tempo dopo il mio libro era pubblicato. Ci furono feste e celebrazioni. Improvvisamente un mucchio di facce mi divennero familiari. È curioso come gli ambienti che si direbbero più sofisticati mantengano con rinnovato vigore i comportamenti tribali, quasi che negandoli li potenziassero, come se il desiderio di volerci allontanare dalla nostra bestialità facesse di noi un branco di animali velleitari. Era un po’ quel che succedeva con queste persone. Trincerate dietro il pretesto della dissoluta tradizione dell’industria editoriale, si ritrovavano in bar dov’era sempre notte per ubriacarsi a dovere e sbandierare allegramente le proprie marcate debolezze, prova tangibile che avevano attraversato la vita tenendosi a distanza dalla vita stessa, asserragliate in quel prolungamento delle aule che altro non è che il mondo della cultura e dell’intellighenzia. Non che mi dispiacesse, anzi, in fin dei conti il mio caso non era diverso e in qualche modo era ciò che stavo cercando. Avevo bisogno di perdermi. Avevo bisogno di quel rumore e di quell’inconsistenza per potermi smarrire liberamente e in realtà, sebbene allora non lo sapessi, dal momento in cui non ci sei più stata, ho trovato poche ragioni per continuare a esserci io. Il lavoro, d’altro canto, non era troppo com9


plicato: pranzare con questo, cenare con quello, viaggiare un po’ qui un po’ là, partecipare a presentazioni e celebrazioni di vario genere, bere come una spugna e svegliarsi ancora ubriaco nel letto di qualcuno, con un’idea confusa della propria identità, per non parlare di quella del corpo che giaceva accanto. Suona bene, no? Be’, no. Non suona né bene né male, semplicemente non suona. Uno strato di ovatta comincia inavvertitamente a interporsi fra la propria pelle e il mondo trattenendo i suoni. E in mezzo a quel vuoto, a quello sterile rumore bianco, tu cominci a sfumare fino a perdere i riferimenti. Per me andava bene, ho già detto che in fondo era ciò che cercavo e probabilmente sarei rimasto lì se una notte non fosse arrivato uno spirito generoso a regalarmi l’opportunità di fermarmi a guardare. A volte serve soltanto questo, fermarsi e guardare. Trovare un pretesto che ci permetta di fermarci un istante, scendere dalla giostra e guardarci un po’ intorno, e giocare un’altra mano di carte. In genere, non si tratta di una gran decisione, il più delle volte basta una piccola svolta, un leggero cambiamento di direzione che ci ricollochi sulla scacchiera. A me è accaduto una notte, in una stanza in affitto, in una proprietà antica quanto il quartiere gotico che la circondava e lo spirito generoso venne in forma di racconto. Il sole stava scendendo sulle strade della città e io ero ancora a casa, insolitamente sereno. Avevo mangiato qualcosa con il tedesco con cui vivevo, parlando di barche e di mestieri marinari. Sembrava che un tempo si fosse dedicato a queste cose. Tornato nella mia stanza, con la piacevole certezza che i postumi della sbornia avevano cominciato a scemare, distratta10


mente mi misi a guardare la piccola biblioteca che ero riuscito a mettere insieme con i pochi esemplari che mi regalavano, e scelsi a caso un libro che si rivelò essere l’antologia di racconti dal mondo di cui ho già parlato. Mi sedetti a sfogliarla e ben presto trovai l’inizio di quel racconto, quello dell’uomo che sognava un ponte e un tesoro. Non era troppo lungo, ma per qualche motivo impiegai parecchio tempo a leggerlo. Lo lessi più volte, in un gesto ripetitivo che divenne quasi ipnotico, come se a ogni lettura scoprissi un nuovo significato e dovessi ricominciare da capo. Forse fu così che potei uscire dalla ruota del tempo, quella che se non viene interrotta ci abbandona all’inerzia del moto perpetuo; fatto sta che quando lo terminai sentii che il pianeta girava più lentamente. Cominciò a invadermi il torpore e mi dissi che quella sera non sarei andato da nessuna parte ma mi sarei lasciato cullare dolcemente dal sonno. Avevo messo le lenzuola pulite. Spensi la luce e la stanza si riempì del pulviscolo biancastro della luna; sul pavimento, in diagonale, vidi disegnate le imposte della finestra. Da molto tempo non mi capitava di contemplare l’istante che precede il sonno – serenamente, intendo dire, e non in uno stato di alterazione, – quell’intima oscurità che avvolge tutto nel suo silenzio di neve, disponendoci nella migliore delle condizioni per ricevere la visita di tutte quelle presenze che le luci e il viavai del giorno ci hanno impedito. Che fosse da loro, e non da te, che fuggivo da tempo? Che fosse per questo che ero finito in quella stanza buia? Improvvisamente m’invase un’eccitazione infantile, un insieme di avida curiosità e di paura ormai trascorsa, anche se molto palpabile nelle forme e nelle espressioni in cui si mani11


festava. Chiusi gli occhi, li riaprii e per quanto non vedessi nessuno, mi parve di sentire che loro erano lì, e quando il mattino mi svegliai lo feci con la certezza che non avrei potuto continuare a scrivere. Quando glielo dissi, il mio editore andò su tutte le furie e mi sottopose al breve interrogatorio poi sfociato nel mio assurdo esilio su quest’isola. Credo che se avessi cercato una spiegazione avrebbe avuto a che vedere con il fatto di essermi addormentato guardando quella finestra. Non era affatto facile perché non si trattava di idee mie, ma era come se me le avessero prestate, per questo decisi di mantenere il silenzio e di accettare stoicamente il mio destino. No, non erano idee mie, so che può suonare strano, ma per me in quel momento era chiarissimo, potevo solo dire che tutto aveva a che fare con quella luna e con quella finestra, con ciò che le presenze erano venute a sussurrarmi in sogno, qualunque cosa fosse, con i meccanismi sconosciuti che ci è dato talvolta intravedere e che abitano il mondo intermedio che separa i vivi dai morti. Lo pensai proprio in questi termini: i meccanismi del mondo intermedio che separa i vivi dai morti e in questi termini continuò a baluginare nel mio cervello per un certo tempo. Non c’è dunque da stupirsi che fosse quella la prima idea che mi venne in mente quando, alcuni giorni dopo, il mio editore mi obbligò a trovarne una.

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Tutte le ombre del mare di Javier Argüello Joaquín, uno scrittore che ha deciso di smettere di scrivere, si fa convincere dal suo editore a trasferirsi sull’isola di Maiorca per ritrovare l’ispirazione. Non sa bene nemmeno lui perché accetta, comunque si ritrova a vivere nella casa del suo editore con un cane, Argos, che ha paura dei tuoni e non mangia mai il cibo che gli viene offerto. Nel frattempo dalla sua immaginazione scaturiscono due personaggi, Ernesto e il capitano di una nave. Lo scrittore li tiene sotto chiave perché non vuole assolutamente scrivere la loro storia. Ma loro riescono a scappare e... Per acquistare il libro: www.omero.it

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