Racconti carnivori (titolo originale Contes carnivores) di Bernard Quiriny Traduzione di Enrico Valenzi © Éditions du Seuil, mars 2008 © Omero Editore, Roma 2009. Tutti i diritti riservati. Isbn: 978-88-901869-7-4 www.omero.it Impaginazione e grafica di Luigi Annibaldi
RACCONTI CARNIVORI Bernard Quiriny Traduzione di Enrico Valenzi
ÂŤSe questi fatti stupefacenti sono reali, sto diventando pazzo. Se sono immaginari, lo sono giĂ .Âť Ambrose Bierce
Sanguigna
«Sbucciati, piccolo mango, o stai attento al coltello...» André Pieyre de Mandiargues
Ci incrociavamo ogni sera nel ristorante dell’albergo dove alloggiavo. Stava da solo, così l’avevo subito notato tra le coppie e le famiglie che formavano il grosso della clientela. Ero arrivato a Barfleur per trovare calma e riposo e c’ero riuscito così bene che cominciavo ad annoiarmi un po’. A parte qualche passeggiata, tutte queste città costiere non offrono molte distrazioni a quelli che come me si stancano in fretta dei piaceri dei bagni al mare. Mi dicevo che forse avremmo potuto mangiare insieme. Niente mi faceva pensare che preferisse starsene da solo e non c’era nessun motivo perché lui si annoiasse meno di me in quell’atmosfera di fine stagione. Potevamo pranzare assieme e poi prenderci un cognac nella sala bar dell’albergo, oppure camminare un po’ sulla spiaggia deserta. Il tutto con lo spirito distaccato e riservato di due gentiluomini che, senza fissare le regole del gioco, non spingono troppo oltre la loro confidenza. Purtroppo non mi dava mai un appiglio che mi permettesse di avviare la conversazione; non leggeva giornali, 7
si vestiva senza stravaganze, ordinava sempre gli stessi piatti: insomma, sembrava fare di tutto per rendersi invisibile ed essere dimenticato. Perfino dal maître, che non chiamava neppure quando aveva finito il suo piatto, aspettando che fosse lui stesso a ritirarlo per farsi proporre un dolce. L’aria malinconica, il modo che aveva di passarsi di continuo la mano tra i capelli grigi, la cura che metteva nel piegare la salvietta prima di lasciare la tavola: tutto di lui mi incuriosiva. Senza avergli mai rivolto la parola, mi convinsi che con lui si sarebbe fatta una conversazione interessante. E non mi sbagliavo. Una sera, finalmente, fece il gesto che mi permise di avvicinarlo. Era una domenica, la seconda che passavo in albergo. Ero sceso alle sette di sera per cenare e mi ero seduto in un tavolo vicino al suo. Il cameriere mi portò il menu, poi gli si avvicinò. L’uomo chiese che gli si preparasse una spremuta d’arancia. Ne fui stupito, non concependo che prima di cena si potesse bere qualcosa di diverso da un alcolico. Il cameriere non fece commenti e qualche istante dopo tornò dal bar con un bicchiere ornato da un ombrellino di carta di soia. L’uomo lo ringraziò, poi lasciò vagare il suo sguardo facendo ruotare il bicchiere tra le dita. Pensai che stesse per bere la sua spremuta, invece infilò la mano nella giacca e tirò fuori una fialetta spezzandone l’estremità prima di versarne il contenuto nel bicchiere. Poi, dopo averlo mescolato con un cucchiaio, lo bevve in un sorso. Il gesto mi parve talmente inaspettato che non ho potuto impedirmi di chiedergli: – Medicina? Alzò la testa verso di me, sorpreso. Ho avuto paura di es8
sergli sembrato sconveniente, ma lui mi fece un bel sorriso e rispose con gentilezza. – Non è una medicina, no. Proprio per niente. Appena si rese conto che la sua risposta stava per farmi fare un’altra domanda, mi invitò alla sua tavola, cosa che feci. Prese il piccolo tubicino di vetro tra il pollice e l’indice e lo considerò pensosamente. – Questa fialetta, disse, conteneva un liquido la cui natura la sorprenderebbe se gliela svelassi. – Era una droga? – No. – Cosa, allora? – Sangue. Mi vennero in mente immagini di vampiri e di chirurgia a cuore aperto e feci un salto all’indietro. Un sorriso malizioso gli attraversò il viso. – Non abbia paura, non le salterò al collo per morderle le vene. Ma capisco che il mio rito domenicale la stupisca. – Beve sangue tutte le domeniche? – Un po’ di sangue in una spremuta d’arancia, sì. Ogni domenica da quindici anni. Le piacerebbe sapere perché, immagino? «È successo quindici anni fa a Bruxelles, dove avevo vissuto tre anni e da dove stavo per andarmene. La mobilia era stata già spedita nella città dove mi sarei trasferito e il mio appartamento era completamente invaso da cartoni e casse di libri. Nella stanza non restavano che un letto e una sveglia. Malgrado il fastidio del trasloco avevo del tempo libero. Ne approfittai 9
per camminare per Bruxelles cercando di impregnarmi un’ultima volta dell’atmosfera della città. Durante una di queste passeggiate, una domenica pomeriggio, ho incontrato la donna arancia. Nome curioso, non crede? In ogni caso è quello che lei ha nel mio ricordo. Non credo che mi abbia detto come si chiamasse, o comunque l’ho dimenticato. Era bella e molto giovane, vent’anni forse, il viso nascosto in parte da capelli di un biondo irreale, e il magnetismo dei suoi occhi era sbalorditivo. Si era seduta sulla mia stessa panchina vicino a place de la Monnaie e consultava, aggrottando le sopracciglia, un opuscolo che mi sembrò una cartina della città. In tempi normali l’avrei lasciata a sbrigarsela da sola: non sono in grado di offrire il mio aiuto agli sconosciuti e non sono mai stato bravo con le donne. E invece quel giorno, chissà perché, le proposi di aiutarla. Lei ha sollevato la testa con un sorriso radioso e mi ha detto che cercava rue Camusel. La voce era alta, con un accento che, per via del colore dei suoi capelli, trovai scandinavo. Conosco bene Bruxelles, le dissi, vuole che l’accompagni? Contentissima, si alzò di scatto; le offrii il braccio e ci muovemmo assieme. È così, in modo del tutto casuale, che ci siamo incontrati. Durante la passeggiata non scambiammo una parola. Ero agitato all’idea di camminare a fianco di una tale bellezza e pensavo vagamente di allungare il nostro percorso per approfittare della fortuna che mi era capitata. Quanto a lei, si lasciava condurre come una bambina, guardandosi in giro come se fosse sbarcata da un altro pianeta. Arrivammo a rue Camusel, ed era deserta. Lei si fermò davanti al civico n° 8, una grande casa in mattoni rossi come ce ne sono tante a Bruxelles. Lasciò il mio braccio, mi ringraziò, 10
poi guardò con attenzione i nomi sul citofono. Era un vecchio citofono, come se ne fabbricavano negli anni cinquanta, roso dalla ruggine. Stavano per aprirle, pensavo con dispetto, e la mia avventura sarebbe finita lì. Mi preparavo ad andarmene quando lei mi disse che il nome che cercava non c’era. Verificammo assieme, senza successo. Giocai la mia chance: siccome il suo appuntamento è saltato, vuole continuare la passeggiata con me? Accettò, e ripartimmo verso il centro, prendendo rue d’Anderlecht e rue du Marché-au-Charbon. Il pomeriggio fu magnifico. Presi fiducia e le parlai dei miei quartieri preferiti, dei paesi in cui avevo vissuto, della gente che avevo conosciuto. Lei non era una chiacchierona e faceva soprattutto delle domande; mi sforzai tantissimo per ottenere qualche confidenza, ma fu così sfuggente che riuscì a non dirmi praticamente nulla di sé. Passeggiammo per Bruxelles come due stranieri; al suo braccio avevo l’impressione di scoprire strade e piazze che pure conoscevo a memoria. Quando fummo stanchi di camminare, entrammo in una birreria. Mi lasciò ordinare della birra, bagnò con cautela le labbra nella schiuma e poi, siccome il sapore le piaceva, piegò la testa, chiuse gli occhi e la mandò giù. Al tramonto siamo andati a mangiare in un ristorante su place Sainte-Catherine dove andavo di solito. Era pieno, ma per fortuna, un tavolo si liberò; il pasto fu gustoso e durò fino a mezzanotte. Avremmo potuto separarci là, ma non ne avevamo per niente voglia. Temendo di rovinare l’atmosfera, non me la sentii di chiederle direttamente di restare con me; lei capì le mie intenzioni e mi baciò. C’era in questa storia una specie di semplicità che escludeva il disagio, come se avessimo stabilito per 11
un tacito accordo di evitare il supplizio delle dichiarazioni reciproche. L’aria si era freddata e lei rabbrividiva; un taxi ci riportò a casa mia, vicino alla porte de Namur. Ero incerto se accoglierla in un appartamento quasi senza mobili, ma lei non si fece problemi. Mi baciò di nuovo. Cademmo avvinghiati sul letto. Le imposte non erano chiuse, la luce della città rischiarava debolmente la stanza. Lei immaginerà bene il mio stato.» Tacque, pensieroso. Per evitare di fargli dire di più sulla notte che aveva trascorso con la ragazza, feci un commento volgare. Alzò la testa e mi guardò sorridendo. Capii allora che mi ero sbagliato e che quella notte doveva essere raccontata in ogni dettaglio. «Perdoni questa lunga introduzione», disse, «ma non era possibile riferirle questa storia senza risalire al suo inizio. Lei di sicuro sta pensando che prima di addormentarci la donna e io ci siamo dati ai piaceri che la situazione richiedeva. Non ha completamente torto, perché è proprio quello che è successo. Ma senz’altro l’idea che lei si sta facendo della scena è molto lontana dalla realtà.» Arrivò il cameriere e ci lasciò i piatti che avevamo chiesto. Non commentò il fatto che avevo cambiato tavolo, mi portò i coperti e se ne andò. Il mio interlocutore riprese il racconto. «Quando le ho messo una mano sotto la maglietta che indossava a pelle, mi ha bloccato con un gesto di resistenza, come se si rifiutasse di andare oltre. Io non ho provato un senso di frustrazione, piuttosto una specie d’incomprensione. Perché dovevamo fermarci adesso, quando tutto sembrava dovesse portarci ad andare fino in fondo? Stavo per chiederle delle 12
spiegazioni, ma lei posò l’indice sulle mie labbra. – Devo dirti una cosa, mormorò. Tu non devi avere paura. Restai in silenzio. – Promettimi che non avrai paura. Promisi tutto quello che voleva, lei allora prese la mia mano e se la portò sotto la maglia. Sentii sulle dita uno spessore inatteso, una granulosità sconcertante. Intrigato, salii verso i suoi seni, ma non trovai in nessuna parte la morbidezza che deve avere una pelle di giovane donna. Cosa aveva? Immaginai un incidente grave, bruciature, cicatrici, callosità. I suoi occhi mi fissavano duramente, come se mi stesse mettendo alla prova. – Vuoi vedere? – Sì, dissi. Alzò allora la camicetta e mi si presentò lo spettacolo più straordinario che mi fosse mai capitato di osservare. Dal ventre fino alla gola era ricoperta di pelle d’arancia. Era una specie di carapace che la modellava alla perfezione, come una tunica di Nesso. Preso per metà dal desiderio e per metà dal panico, non sapevo che fare: dovevo avvicinare le mie labbra e gustare quella pelle soprannaturale o solo ammirarla senza poterla toccare? Lei non mi lasciò il tempo di decidere, perché subito alzò il bacino per sfilarsi i pantaloni. Pietrificato, scoprii sulle sue cosce e sulle sue gambe la stessa scorza che aveva sul resto del corpo. Solo le sue estremità ne erano prive: la pelle d’arancia diventava sempre più fine man mano che si avvicinava alle caviglie, ai polsi e al collo, finendo con una specie di bordo simile alle pellicine delle unghie. Quando si fu completamente spogliata, re13
stammo in silenzio. Siccome io non mi muovevo, lei mi aiutò a togliere camicia, pantaloni e mutande. Restammo nudi entrambi. Più o meno, considerando che lei aveva la sua buccia d’arancia. Ero agitato: potevo amarla come se fosse una qualunque altra donna o la sua pelle d’arancia mi avrebbe impedito di farci l’amore? Immaginando la sua pelle come fosse un estremo baluardo, fissavo la parte alta delle sue cosce per scovare un qualunque interstizio che mi permettesse di arrivare al suo sesso. Lei allora fece qualcosa che, se possibile, mi stupì ancora di più. Portando la mano alla caviglia piegò l’indice e con l’unghia grattò l’orlo dove la pelle umana del suo piede si congiungeva con la pelle d’arancia del polpaccio. Dopo qualche secondo riuscì a separare le due parti e, tirando con precauzione, staccò una fasciolina che le zebrò la gamba. Gettò la pelle lontano e poi mi guardò: – Ora è il tuo turno, dai. Si allungò sulla schiena e mi si offrì. Inutile dirle che non ero mai stato così intimidito dall’invito di una donna. Inginocchiato davanti a lei, passai la mano là dove si era tolta un po’ di pelle. Lo strappo era troppo stretto perché potessi affondarci le dita, così ne feci un altro vicino al primo. Era una pelle molto fine, più simile al mandarino che all’arancia. Dei filamenti bianchi aderivano ancora alla carne, e li staccai uno ad uno. Il suo polpaccio si rivelò così, opaco, sodo e molto liscio, più setoso di qualunque tessuto prezioso. La sbucciai dalla testa ai piedi, strappando il suo carapace a pezzi interi, giocando come i bambini a ottenere le più lunghe bucce possibili, girando attorno alla sua coscia per farne delle serpentine. Sul suo ventre, le tolsi 14
delle larghe placche che disegnavano delle mappe geografiche attorno all’ombelico. In certi punti, la buccia, più spessa, lasciava sulla carne uno strato spugnoso e biancastro che i botanici chiamano mesocarpo, e che io tolsi facendolo increspare sotto le mie dita come un tappeto che viene arrotolato. Un potente profumo d’arancia invase la stanza. Ogni tanto lei gemeva languidamente; penso che prendesse piacere per quella messa a nudo e che la sensazione che la sua seconda pelle si distaccasse dalla prima la facesse godere. Quanto tempo mi ci volle per liberarla dalla sua scorza d’arancia? Un’ora, forse due. Una volta puliti spalle, torace, seni e gambe, la pregai di girarsi per spellare schiena, fianchi e cosce. Con mia sorpresa sulle natiche scoprii una buccia molto fine che al passaggio delle mie dita si sbriciolava come fosse una pellicina. I talloni erano asimmetrici: uno era coperto di buccia d’arancia, l’altro no. Spesso i pezzi che staccavo lasciavano sulla pelle delle goccioline profumate che leccavo avidamente. La cerimonia fu interminabile. La voglia di possederla era intensa, ma mi sforzavo di ritardare il momento ispezionando ogni piega del suo corpo per trovare dei frammenti dimenticati e staccarli delicatamente. Infine aprii le sue cosce e, col cuore che mi batteva a mille, iniziai a staccare la buccia che ci si nascondeva. Sull’orlo del suo sesso la pelle d’arancia si assottigliava fino a scomparire, come alle caviglie e ai polsi. L’orifizio era libero. Mi misi all’opera, incoraggiato dai suoi sospiri eloquenti. Infine, quando il suo corpo fu interamente riportato allo stato umano, l’abbracciai e m’insinuai dentro di lei, sentendo la sua pelle meravigliosamente vellutata contro la mia. Le risparmio il seguito.» 15
Tacque. Il suo viso era inespressivo come al solito, ma lo sentivo emozionato. Il cameriere venne a chiedere se avevamo finito. Mi accorsi che avevo divorato la mia portata senza rendermene conto. La scelta di un dolce ci concesse qualche momento di distrazione; degustammo in silenzio la stessa torta alle prugne e poi ordinammo il caffè. Il mio interlocutore riprese allora il racconto. Il suo viso si rabbuiò. «Preferirei fermarmi qui, ma lei avrebbe tutto il diritto di chiedermi degli altri particolari perché alla fine continua a ignorare il motivo per cui verso del sangue nella mia spremuta d’arancia. E nonostante per me sia davvero sgradevole, devo dirle come è finita questa storia. Mi addormentai subito dopo averla posseduta e, per quanto sembri strano, feci tutta una tirata fino al mattino. Quando mi risvegliai, mi ci volle qualche secondo per ricordarmi della notte trascorsa e della donna arancia che dormiva al mio fianco. Aprii gli occhi e girai la testa. Mi si offrì una visione raccapricciante. Al posto dell’angelo biondo col quale avevo fatto l’amore scoprii un corpo avvizzito e raggrinzito, come se fosse stato esposto al fuoco. Una spessa muffa blu si sviluppava in diversi punti, e la prurigine aveva distrutto il suo viso. Quanto alle bucce che avevo staccato durante la notte, si erano incartapecorite annerendosi, e alcune si liquefacevano producendo una fanghiglia vischiosa che colava sul parquet. Tremavo in preda alle convulsioni, e mi rifiutavo di riconoscere la ragazza di ieri in quel corpo putrefatto. Era morta? Esaminai il suo viso orribilmente deformato: respirava appena. Le palpebre si aprirono a metà, come le sue labbra annerite. Mormorò appena: “Bevimi, ora”, poi morì. Sul letto giaceva 16
una spoglia irriconoscibile, nessuno avrebbe potuto credere che la notte prima fosse appartenuta a una donna. Scioccato e affascinato, non sapevo cosa pensare. Avevo creduto di partecipare a un gioco spogliandola della sua buccia, convinto che le sarebbe ricresciuta una nuova scorza, invece l’avevo uccisa. Ero il suo assassino, involontario, ma ugualmente il suo assassino. Perché si era abbandonata a me sapendo che non si sarebbe salvata? Ignorava che lo spellamento le sarebbe stato fatale? O mi aveva manipolato suicidandosi a poco a poco sotto le mie stesse dita amorevoli? Le sue ultime parole mi ossessionavano. “Bevimi, ora.” Come un automa, senza riflettere, andai in cucina e, rovistando a caso nei cassetti, trovai un sacchetto di cannucce di plastica che portai vicino a lei. Con un gesto secco, gliene piantai una nella fronte. Benché fosse flessibile, entrò come nel burro. Perfino le ossa non avevano più consistenza, tutto il cadavere si rammolliva man mano che imputridiva. Affondai dolcemente la cannuccia nel fondo del cranio, poi la misi tra le mie labbra e aspirai. Una pappetta risalì nella mia bocca, e aveva il gusto d’arancia e di sangue. Era deliziosa, assolutamente deliziosa. Quando l’ho bevuta per intero, di lei non restava che una membrana trasparente e schiacciata, come uno spicchio d’arancia cui si sia succhiata la polpa. Il suo gusto mi ha perseguitato per settimane. L’avevo di continuo sulla lingua e ne traevo un misto di piacere e disgusto difficile da esprimere. Finalmente si attenuò e poi sparì. Constatai subito che mi mancava, e che non potevo farne a meno. Da allora cerco quel sapore versando ogni settimana una fialetta di sangue in un bicchiere di succo d’arancia. Variando i dosaggi, la quantità di zucchero e i gruppi 17
sanguigni, provo a ricreare quella bevanda esotica. Temo però di non ritrovare più la sensazione che mi ha dato all’epoca quel festino omicida.» Ci rivedemmo diverse volte durante la settimana che passai ancora a Barfleur. Facemmo delle passeggiate, giocammo a scacchi e chiacchierammo, senza tornare più sulla donna arancia. Io avrei desiderato fargli delle domande, chiedergli della sua vita dopo la loro notte d’amore, del rito funebre che poi le aveva reso. La mia curiosità arrivava fino ai particolari più bassi: se aveva cercato di sapere chi fosse quella donna, che ne aveva fatto della buccia svuotata, dove si procurava le sue fialette di sangue. Ma non osavo interrogarlo apertamente, temendo di sembrare indiscreto. Lasciammo l’albergo lo stesso giorno e prendemmo lo stesso taxi per raggiungere la stazione. All’arrivo ci salutammo cortesemente senza promettere di rivederci. Ho pensato spesso a lui dopo d’allora, e devo confessare questo: da quando ho conosciuto questa storia, il succo d’arancia ha preso nella mia mente una portata estremamente erotica e l’associo a tutti i miei giochi sessuali. Questo feticismo incongruo piace molto alle mie donne che acconsentono volentieri di far colare un po’ del loro sangue in un bicchiere di spremuta d’arancia. Alcune di loro condividono la mia voglia e, giustificando la loro ingordigia con imperiose preoccupazioni dietetiche, bevono, dopo averli mescolati con gli agrumi, tutti i succhi che io voglio offrirgli.
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Racconti carnivori di Bernard Quiriny Quando un editore sceglie il primo autore di una nuova collana, lo fa perché è convinto di tracciare una strada e di indicare un modello. Per noi di Omero i Racconti carnivori di Bernard Quiriny sono questo e anche di più. Quiriny ci ha convinto con la forza della sua prosa e ci ha divertito con la brillantezza della sua immaginazione. Ci siamo sorpresi a seguire i suoi personaggi lungo percorsi che si muovono da un picco narrativo all’altro, da un’idea all’altra. Ma i suoi racconti non sono un repertorio di trovate letterarie, che pure non mancano, piuttosto ognuna delle sue storie apre squarci surreali e produce rivelazioni profonde nel tessuto grigio del quotidiano. Non si può dimenticare tanto facilmente un personaggio come Pierre Gould. Nè si può rimanere indifferenti leggendo il finale di Qui habet aures... Se leggere è un’esperienza, dopo aver attraversato il fantastico mondo di Quiriny possiamo dire di aver davvero sperimentato qualcosa di nuovo, intenso e raro come lo Zveck, inquietante come una Venere Acchiappamosche. Nei Racconti carnivori di Quiriny risuonano e parlano tra loro i grandi autori del repertorio fantastico recente e classico (da Julio Cortàzar a Tommaso Landolfi, da Marcel Aymè a omas de Quincey arrivando fino a Ovidio), ma già si sentono molto bene le idee e le invenzioni di quegli scrittori che da tutto il mondo ben presto verranno a fargli-farci compagnia nel nostro grande e ideale spazio fantastico. Per acquistare il libro: www.omero.it