Le vite che abbiamo fatto

Page 1



Le vite

che abbiamo fatto Testimonianze raccolte da un gruppo di allievi del ginnasio cantonale

di Mendrisio, sotto la guida di Alberto Nessi Illustrazioni di Andrea Radaelli Edizioni Svizzere per la GioventÚ Zurigo No 1622Š 1982



Premessa Questo opuscolo è il risultato di un lavoro svolto sotto la mia guida, durante l'anno scolastico 1977/78, da allieve e allievi di quinta ginna sio. Messi da parte per qualche ora i poeti e le grammatiche, abbiamo dato la parola alla gente dei paesi. Le persone da intervistare sono sta te scelte a seconda delle nostre conoscenze, senza seguire un criterio rigoroso. Fra le testimonianze raccolte con il registratore abbiamo trascritto quelle che con maggiore vivacità e precisione ci offrivano gli elementi per ricostruire alcuni aspetti della vita popolare del Ticino di mezzo secolo fa. Emergono, dalle parole dei cinque testimoni (quattro del Mendrisiotto, uno di Intragna ma da tempo domiciliato ad Arzo), i temi del l'emigrazione, della povertà, della durezza delle condizioni di lavoro, del mondo rurale con le sue usanze. Sono temi soltanto accennati, ma bastano ad aprirci una finestra sul nostro passato prossimo, che sembra già così lontano. Abbiamo tradotto in italiano le testimonianze, lasciando nel testo alcune espressioni dialettali — spesso spiegate in nota — per dare il sa pore dell'originale e per rendere omaggio all'espressività di una lingua che, come il paese in cui viviamo, ha cambiato fisionomia. Nella traduzione dal dialetto abbiamo seguito, per quanto possibile,

il criterio della fedeltà ai modi della lingua parlata. Luglio 1978Alberto Nessi



Ci hanno nascosti dentro un armadio GIUSEPPINA GAROBBIO, nata a Campora, classe 1904. (Testimonianza raccolta da Rezio Sisini, Beniamino Gubitosa, Monica Innocenti, ottobre 1977). Sono nata a Campora di Caneggio il 28 settembre 1904. Mio padre faceva il contadino, al Latte Caldo di Morbio Sopra; eravamo in nove fratelli, sei ragazze e tre ragazzi. Dal Latte Caldo andavamo a scuola fino a Morbio Sopra e siccome non potevamo tornare a casa a mezzogiorno, portavamo dietro da mangiare e andavamo in una stalla, in mezzo alle vacche. Dal Latte Caldo a Morbio Sopra c'erano quaranta minuti tutti a piedi. Da man giare portavamo dietro la minestra, pane e formaggio, né carne né niente. D'inverno pestavamo giù anche il sedere, tutti con gli zoccoli e uno scialle fatto a mano. Alle volte, quando c'era un metro e mezzo di neve, dovevamo restare a casa a fare i compiti. Tutte le classi erano riunite in una sola aula. Dopo scuola sono andata a lavorare in una fabbrica di sigari a Castello, fabbrica Eschbach. Lacevo i sigari con la paglia in mezzo, i Virginia. Da Campora dovevo portar giù le gambe fino a Castello con il secchiello della minestra, eh sì, niimm sì lem fai i vitt...! Poi sono andata alla scuola di tirocinio a Balerna, il professore era il professore B. di Lugano che non è tanto che è morto quello lì, che mi quanti parol gu dii adré a quel asan lì, noi facevamo bene e lui dice va che facevamo male, invece siamo passati proprio tutti bene, lo sapete come sono i professori, eh...! Al tempo della guerra del '14 ci hanno nascosti dentro un armadio, tutti gli apprendisti, e dopo è arrivata la polizia a guardare se c'erano degli apprendisti, e non ci hanno visti. Se ci trovavano, il padrone prendeva la multa perché non potevano tenere gli apprendisti, era vamo troppo giovani. Il lavoro durava dalle sette e mezza fino a mez zogiorno e poi dall'una e mezza fino alle sei e dovevo tornare a casa a piedi quand che la posta la cifulava via. Dopo il lavoro, a casa a fa ul scalfin1 oppure a ricamare per la schèrpa2, ci facevano ricamare una fudreta3, una servieta... Avevamo bestie al Latte Caldo, anche campi che dovevamo van gare. Coltivavamo patate, verdura, verze, carote, fagioli. Al Latte Caldo ci sono delle piante che ha piantato mio padre.

5


Due miei fratelli sono andati in denta* e hanno messo su famiglia. Una volta i miei fratelli si sono seduti l'uno accanto all'altro sul treno senza però riconoscersi; poi quando sono arrivati a casa mia si sono riconosciuti. (...) Le case di una volta erano misere, c'era il necessario e basta. La casa dove abitavo era un comuniorum, cioè abitavamo in comune, gli affitti non erano alti, il gabinetto era giù in giardino, l'acqua non c'era e nemmeno il bagno, dovevamo lavarci nei bagnetti. Le mie figlie le lavavamo in stalla, portavamo i bagnetti pieni d'acqua calda in stalla e poi ai puciavum giós, in stalla perché non avevamo abbastanza locali e poi perché era un luogo caldo, c'era il caldo delle bestie.

i A fare la calza 2 II corredo 3 Una federa 4 In dentro, cioè in Svizzera interna

5 Le immergevamo nell'acqua


Sentivum i biisecch a curr LUIGI REALINI, nato a Coldrerio, classe 1904. (Testimonianza raccolta da Claudio Valsangiacomo e Maurizio Verga,

febbraio 1978). Ho cominciato a dodici anni a lavorare, al tempo delle vacanze delle scuole. Ho cominciato a fare il boria1 a tredici anni là al Lòcul2, canton Neuchàtel. Sono andato là al mese di marzo e al mese di maggio compivo i quattordici anni. Sono stato là due anni, ma tornavo a casa d'inverno. Si lavorava a stagioni, da marzo a dicembre. C'erano là diversi di Balerna, perché il padrone, il Maspoli, era di Balerna. Sul posto di lavoro c'era una baracca, c'era il cuciniere, che lo pagava il padrone. Guadagnavo un franco al mese a fare le provviste, fare i letti e la pulizia delle scarpe. Quando sono andato via dal Lòcul, sono andato a Wallisellen, canton Zurigo, cinque anni. Prendevamo uno e trentacinque all'ora, i muratori erano pagati dieci centesimi di più. Ogni anno il salario aumentava di cinque centesimi l'ora. I soldi che risparmiavamo li mandavamo a casa. C'è stato un perio do che li mettevamo nel cesto per non spendere i soldi della posta, dopo c'è stato che un cesto si è rotto nel trasporto e sono mancati i soldi, così hanno pubblicato che non si poteva più mandare i soldi a casa nel cesto. Noi facevamo per risparmiare quaranta centesimi. Quelli sposati lasciavano qui la famiglia per andare a lavorare. Qui da noi ce n'era di lavoro, ma la paga era bassa: ottanta centesimi all'ora, ad andare a Chiasso. Sono stato anche a Davos due anni, come muratore sorvegliante; eravamo in sedici operai, nel 1938/39. Poi è venuta la mobilitazione, e mi è toccato venire a casa. Sono arrivato con tre giorni di ritardo, così sono stato messo in prigione per qualche giorno. A Davos ero pagato a mesi, si conservava qualcosa grazie ai grandi sacrifici. Avevamo la baracca sul posto, lavoravamo in montagna. Andavamo via alle quattro a piedi, e arrivavamo alle otto, tornavamo solo al sabato. Dormivamo nella paglia in una cantina che veniva giù l'acqua. Trasportavamo il mangiare con i muli. Un giorno un mulo è andato a burèla2: siamo restati tre giorni senza mangiare. Questo mulo era caduto da un brich. C'è stato un periodo che è caduta una grande


nevata di un metro e mezzo, non abbiamo neanche potuto uscire dalla cantina dove dormivamo (sopra c'era un hotel). Fasciavamo i piedi con i giornali per il freddo. Facevamo ripari per le valanghe. Ci davano le coperte dei cavalli. Alle sette cenavamo e dovevamo andar là ancora a lavorare fino alle nove, fin quando ci vedevamo. Quando è caduto quel metro e mezzo di neve, avevamo una sorgente, ce l'ha sotterrata. Abbiamo dovuto fare da mangiare con la neve. Il lavoro era della Gemeinde, era del Comune di Davos. Tutti i giorni veniva su il geometra comunale e mi cercava le ore e il materiale che adoperavamo. Poi sono andato a Wàdenswil due anni, canton Zurigo, insieme al povero Bruno Ciani, 1945/46/47. Al mese di luglio - ero già muratore - siamo restati senza lavoro. Mi alzavo alla mattina presto, con un pezzo di pane in saccoccia, un cotechino o quello che mi mandava mia madre, un po' di lardo, per girare a cercare lavoro. Da Wàdenswil fino a Uster: venticinque chilometri. Grazie ad un amico ho trovato lavoro a Sissach, vicino a Basilea, dove lavoravo ad una chiesa. Per i lavoratori che si recavano in Svizzera interna c'erano i bi glietti di ribasso: bisognava interessarsi a Bellinzona, alla Camera del Lavoro, che era chiamata la camera da imbroiament, perché tanti ce la facevano e tanti no (ad ottenere i biglietti). Sono arrivato il mese di luglio, sono stato là fino alle feste. Durante il tempo di guerra ho lavorato a Mànnedorf, c'erano i buo ni del pane e i razionamenti. Eravamo là io e un mio amico da un pri vato a mangiare e gli abbiamo mangiato fuori tutti i buoni. I nostri buoni bastavano solo fino alla metà del mese, senza i buoni non ci da vano niente. Dopo siamo andati a finire in un Alcoolfrei. La mattina ci alzavamo alle quattro a raccogliere mele e pere, perché là ci sono grandi estensioni di pere e mele. Ci alzavamo quand che sentivum i biisecch a curr. Lavoravamo sei giorni per settimana, nove ore al gior no. La domenica andavamo a Liestal, nei paesini lì fuori. Era una vita meschina, come si dice. Oggi fare il muratore non puoi venire a casa ammalato, invece prima ci toccava far .su la malta con la carretta, portar là i quadrei^, (...), metter giù la sabbia perché si scivolava. Quando ero via a lavorare, mia mamma mi mandava lardo, pan cetta e cotechino nel cesto e burro nelle foglie delle viti, o uova avvolte nelle calze, e di qua e di là la biancheria. Mio padre ha fatto sedici anni di Mérica (...) a Montevideo. Ha

8



fatto otto anni e poi è venuto a casa al tempo della guerra del '14, sono fallite le banche, a Mendrisio gh'è nai tucos a baliin5. Dopo è tor nato in Mirica, ha fatto anche un po' di fortuna, ma dopo è andata male, si è dato alla bibita. Mia madre lavorava nella filanda di Men drisio.

Il povero Milòò è andato in Africa dove c'era già suo fratello che è morto per la malaria. Poi è tornato. Il povero Matee era giù in Ameri ca. Il Pedru si è sposato poi è andato anche lui in America. Il mio povero padre ci ha messo trentatré giorni di bastimento per arrivare in America. Mi raccontava che quando faceva quei grandi calori andava fuori sulle querce a dormire. Cominciavano a lavorare alle tre del mattino, alle quattro, fino a mezzogiorno, poi riposava. Laggiù la vita era meno cara che qui, perché non si pagavano tai*.

1 Ragazzo che fa da garzone a operai 2 Le Lode 3 A rotoloni toni 5 E' andato tutto in fallimento 6 Taglie (imposte) IO

4 Mat-


Spazafurnèl viens ici! DOMENICO MAGGINI, nato a Intragna, classe 1897. (Testimonianza raccolta da Emanuela Rossi e Lorena Maroni, feb

braio 1978). - Quante volte all'anno veniva a casa? -Ah, secondo. A Pasqua di solito. -Era solo lei, o c'erano anche fratelli che andavano con lei in Pie monte? -No, eravamo giù in tre fratelli. Ah ma il Piemonte è bello. Gb'è gió el vin bon, jiòò! E' bello stare assieme ai Piemontesi, ah sì, c'è giù buona gente. Mi ricordo che al giorno dei Santi ci si trovava e si diceva il rosario, loro dicevano: Stasera si viene qui e diciamo la corona, poi si mangiano i marroni e si beve il vino, buono e fin che se ne vuole. Stavamo lì fino alle tre di notte. Molte volte tornavamo troppo tardi, le camere erano chiuse e dovevamo dormire nelle stalle. Ma si dormiva bene e dormivum pulito e sum chi ammòl. Eravamo diciassette figli, io ero l'ottavo e siamo andati un po' per cantone. Io in Svizzera interna e in Piemonte, due in America, due in Ticino e gli altri in Italia. Tra l'altro quello in America non scrive mah -Cosa fanno quelli in America? -Uno lavora nel ranch e l'altro è falegname. -La pagavano di più in Piemonte o a Zurigo? -In Svizzera interna. Però ho lavorato dodici anni qui in Ticino. Prima lavoravo (nel 1935) per uno qui a Arzo. Poi in cava. E poi per il comune. (...) D'estate non andavamo a lavorare da spazzacamini. Solo in inverno: sette mesi. -E d'estate cosa facevate? -Eh, lavoravamo qui, aiutavamo i nostri, poi si andava un po' in Svizzera interna. -E quando andavate in giù? -Venivamo a casa in aprile e andavamo giù in novembre. -Quanto guadagnavate al mese? -Non eravamo pagati al mese. Ci pagavano trentacinque franchi per sette mesi. Mi ricordo che la prima volta che sono tornato a casa c'era lì vicino al fuoco mio padre e mia madre, e i miei fratelli tutti attorno ad ascoltare: Vardee chi, fidò, l'a ciapaa trentadnch franch in set mesi 11


—E ha sempre guadagnato la stessa somma? —No, ogni tanto guadagnavamo qualche cinque franchi in più. Venivamo a casa, dopo i sette mesi, tutti vestiti di fustagno, una volta tutti si vestivano di fustagno. Sì, con quei vestiti che venivano dalla Francia, pesano otto chili ma durano sette o otto anni. —Lei non ha mai pensato di fare il minatore? —Ma sì, sono stato due anni a Kloten. Eravamo sei chilometri den tro in miniera, ah ma ci organizzavamo. Chi faceva questo, chi que st'altro. Ci volevano tre quarti d'ora per risalire a mangiare e alla sera; seicento operai, lavoravano quindici giorni di giorno e quindici giorni di notte, così il lavoro era continuato. —E quanto guadagnava lì? —Due e cinquanta all'ora. Dopo due anni ho dovuto venire a casa perché mi è arrivato un telegramma che mia moglie aveva preso un mezzo colpetto. Poi non sono più andato via perché la moglie è morta e la figlia è rimasta scossa, non è più stata lei, e dopo poco è morta. —Ma da quanto tempo è che vive solo? —Mi sono trovato solo nel 1946, avevo quaran^anni, e sono trent'anni che vivo da solo. Sì, mi faccio tutto da solo: il letto, il mangia re, solo a lavare i panni non riesco. —E poi dove ha lavorato? —Poi ho lavorato un po' di qui e un po' di lì. Sono venuti a fotografarmi l'ultima volta che ho pulito questo ca mino. Dei tedeschi. Prima ho tolto le scarpe, poi ho messo il mio sacchettino in testa, ho tirato giù la catena, preso il raspino in mano e ho cominciato a raspare e mi hanno fotografato. E poi sono passato su. Ero su nel camino e loro non erano ancora fuori e gli grido: Ehi gent, si scià cun stu macinin^ —In quali paesi del Piemonte andava? —A Casale Monferrato, Novara, Torino e Biella. —E quando dormivate, dormivate in casa di qualche cliente o tor navate sempre nello stesso posto? —La sede principale era Biella. Quando avevamo molto lavoro e non riuscivamo a tornare a casa, però, ci fermavamo in qualche stalla. Stavamo magari fuori un paio di giorni, a girare i dintorni di una città. —E quanti spazzacamini eravate di solito? —No, non si girava a gruppi. Ognuno andava in un paese. —Quanto prendeva per un camino? 12


-Io non prendevo niente, prendeva tutto il padrone. A noi però davano la bonamdn2. Monete di rame, roba da mangiare, vestiti e stof fa. I vestiti e la stoffa ce li davano le fabbriche dove andavamo a pu lire le caldaie. Quando prendevamo molta mancia, la nascondevamo, ma il padrone ce la prendeva e noi non vedevamo più niente. Mi ricordo che una volta dovevamo pulire un camino di 30-40 me tri. Un collega mi domandò: - Ma sei sicuro di arrivarci?Come no!? —, risposi io, — ne ho già puliti di più alti. Appena finito di mangiare, presi il raspino, il sacchetto in testa e cominciai a salire. E su, e su, e su, e non si arrivava mai! Era molto largo il camino, che non riuscivo nemmeno a toccare l'altra parte con una gamba. Poi vidi che ero quasi in cima perché vedevo il paraful mine. Quando fui su mi fecero la fotografia. Ero a Reconvilier, ad una fonderia di ottone. -Ma lei ha lavorato pure nelle fonderie? -Sì, ma come minatore. In più quando ce n'era bisogno pulivo i camini. Adesso, tra un po', dovrò andare a Tremona e Meride a pulire i camini di qualche amico. -Ma lei lavora ancora? -No, ma ogni tanto pulisco il camino a certi amici. Lo faccio per fargli un piacere, perché è gente che riconosce la vita, la fatica che si fa a lavorare. -Quando lavorava in Piemonte, quante ore al giorno lavoravate? -Non c'erano orari. Andavamo via alle tre, tre e mezza di notte per arrivare alle sette a bussare alle case della gente a chiedere se ave vano bisogno. -E a che ora smettevate? -Alla sera arrivavamo a casa stanchi, ci sedevamo a tavola, ma c'era sempre quella minestra, sempre quella minestra. -Se dovesse tornare indietro, cosa farebbe? Preferirebbe vivere ai tempi addietro o ai nostri tempi? -Quei tempi là, per l'amor di Dio, si stava meglio! At boge o at boge nèn, dio fauss! Mi vengono in mente certe parole che ci dicevamo tra noi in Piemonte. (...) -Allora, andavamo a prendere il sale dal tabacchino. Era sempre aperto, allora, andavamo su con una zucca bucata che tenevamo in mano con una corda e ci dicevano: - Ta me ved ici o là4? -Mais c'est ici monsieur - rispondevamo. Eravamo talmente neri,

13



sia davanti che dietro, che non sapevano più da che parte avevamo gli occhi. Ma era brava gente, ci davano sempre sei o sette soldi che corrispondevano circa a sei o sette franchi svizzeri. L'ultimo dell'anno e il primo andavamo a cercare la stregua. —Che cos'è la * stregua? —A prendere su soldi! Solo noi spazzacamini però. Sì, bei tempi, venivamo a casa con un sacco pieno, sì, tante palanche che avevamo da fare a portarle. Ma cosa ci si voleva fare, ormai dovevamo darle ai padroni. Era vamo piccoli e loro ce le prendevano ma, invece di darle ai nostri ge nitori, se le tenevano per sé! Mi ricordo che ci chiamavano: - Spazafurnèl viens ici, viens ici

spazafurnèl! Mi vengono in mente tutti i soldi che ho guadagnato io, le bonamàn, tutto per i padroni! La sera, per un periodo, ci mandavano a scuola serale, ma, dopo un po', il maestro è andato a dire ai padroni di non mandarci più perché eravamo già morti dalla stanchezza. Faceva mo fatica a stare in piedi, altro che andare a scuola! I padroni erano due. Il secondo (quello che non avevo io) era più bravo. Ho lavorato per lui solo due anni, ma era più bravo. Mi dava sempre qualcosa. Mentre l'altro sacociava^ tutto lui. Mi viene in mente quella volta che sono andato a spazzare il cami no al vescovo di Biella. Oh, ma come siamo stati bene! Ci ha dato da mangiare, eravamo in quattro, e ci hanno fatto la fotografia. Ci ha dato venti lire per uno, senza contare quello che ha dato al padrone. —Mangée spazafurnèl, mangée... ! - mi dicevano. —Ma non si è trovato in difficoltà con la lingua piemontese? —Eh, un po', in principio. Ma poi per forza l'abbiamo imparata, eh sì, perché loro parlano solo il piemontese. E' un bel linguaggio. - Viens ici poru cit*f — mi dicevano. —E' andato a scuola? —Ci addormentavamo! Dovevamo alzarci alle tre, quattro di notte e camminare due, due ore e mezzo. Eh, non si fa più quella vita! Il pane costava dieci centesimi al chilo quei tempi là. In Italia costava dieci soldi. A volte restavamo fuori a mangiare e il padrone ci dava tre micutèi per uno. In mezz'ora non ce n'erano più. Alla mattina ci davano un pezzo di polenta e via! (•••) Adesso c'è quella del ristorante da raccontare. Ristorante Rossetti,


adesso sono morti. Gli ho spazzato il camino cinque o sei volte e non mi è mai successo niente. Quella volta lì invece... Sono andato su spingendomi, come sempre, con la schiena per tenermi e... mi saltano sette o otto quadrelli! Sono caduto su un letto, un letto rifatto, che se per caso c'era dentro qualcuno lo ammazzavo. Tra me, gli attrezzi e i quadrelli! Altrimenti non mi è mai successo niente. Però quella volta lì, quando mi sono rialzato ho fatto per aprire la porta, ma era chiusa. Ho chiamato ma, con il ristorante, non hanno sentito, niente. Allora sono risalito sul letto e ho guardato dentro alla cappa del camino. —Sono prigioniero! — ho gridato. —Come prigioniero? — hanno risposto. —Eh, sì, sono chiuso nella sua camera. Sono qui a fare la ninna-nanna! E' arrivata su la padrona e mi ha chiesto cosa ho combinato. —Eh, il muro era debole e sono caduto giù. —Ma si poteva far male anche lei ! —Sì, se non c'era il letto m'inciodavi7. Ho bucato anche le lenzuola! Sono sceso e mi hanno dato da mangiare e da bere. Ce n'erano lì sette o otto che scoppiavano dal ridere! Del resto non mi è mai capitato niente. —E di qualche suo compagno? Non si ricorda se a qualcuno è capi tato qualche cosa? —No... Sì, nel Piemonte. In un negozio. Sette piani, uno di quei grattacieli! Sono andato su, solamente che la giacca mi si è arrotolata e, ad un certo punto, non potevo più andare né in su, né in giù. Non potevo più tirarmi né in avanti, né indietro. Hanno dovuto spaccare il muro per tirarmi fuori, in una camera. Ad ogni piano venivano ad ascoltare. Io picchiavo con il raspino fino a che, al quarto piano, mi hanno trovato. Ho dovuto scendere a testa in giù. Dopo i padroni erano lì: — Eh, povero spazafurnèl! Ti sei fatto male? —No, niente male. Altrimenti non mi è mai capitato niente.

i Dormivamo bene e sono qui ancora 2 Mancia 3 Ti muovi o non ti muovi...! 4 Mi vedi qui o là? 5 Intascava 6 Vieni qui, povero bambi no! 7 Mi ammazzavo

16


Ho fatto cinquantun anni di fabbrica

A. C, nata a Stabio, classe 1904. (Testimonianza raccolta da Giuliana Baroni, ottobre 1977). A cinque anni andavo all'asilo cun un cavagnòò da paia con dentro una fettina di pane e una mezza riga di cioccolata, una mela, oppure se era la stagione della frutta due o tre ciliege. A mezzogiorno mi da vano una minestra che non era né condita né salata, una brodaglia lunga. Eravamo una quarantina, uscivamo con la suora in cortile, gio cavamo alla palla, giocavamo a ttipuli1. Ci facevano fare anche un sonnellino nel pomeriggio, poi alle tre e mezza prendevamo su il nostro cavagnòò e andavamo a casa. Alle elementari eravamo una quarantina (eravamo due classi assieme, prima e seconda, sempre due classi assie me). La maestra ci faceva fare le aste, cominciavamo a scrivere le vo cali e sudavamo, sudavamo! E io avevo il brutto difetto di scrivere mancina, così tutte le volte che la maestra mi vedeva scrivere mancina, mi pestava giù sulle dita con la riga. Io aspettavo solo il momento che la maestra andava fuori e che venisse su qualcuno a chiamarla, per cambiare la mano. La maestra ci spiegava bene ed aveva tanta pazien za, sta pora dona. Eravamo tanti mancini, e allora ci picchiavano le dita, così ho dovuto imparare a scrivere con la destra. Noi non abbiamo mai potuto andare a fare una passeggiata scola stica. L'unica che facevamo in quarta, in quinta, in sesta, era una volta all'anno al Museo Vela di Ligornetto. Oppure andavamo al confine, a Clivio, bevevamo una gazzosa che costava quindici centesimi. Non abbiamo mai visto il treno, il Mendrisiotto, il Ticino, mai nemmeno alle maggiori. A scuola ci andavamo quando nevicava cui zucurun, gli altri giorni avevamo gli zoccoli. Per la festa i nostri genitori ci facevano i patin da velii2 orlate con il passamano, e la festa sa stimavum tiitt cun i pa tin anche se navum in funziùn, andavamo a messa, al vespero. Stava mo sul piazzale della chiesa un po' a parlare o in piazza, ma non anda vamo mai in giro né di qua né di là. La bicicletta non sapevamo nem meno cos'era. Quando eravamo ragazze alla domenica andavamo in chiesa, ma del resto eravamo sempre a casa. Ci si trovava alla strada nuova a giocare a tombola, o ci si trovava in famiglia a giocare a carte o a tombola nelle corti, alla sera lo stesso. Spesso i giovanotti e le ra gazze facevano il teatro e allora qualche volta andavamo all'asilo. Poi 17


c'era l'oratorio dove andavamo alla festa a giocare a palla, saltavamo la corda; tante volte c'erano le suore che ci facevano lezione di dottri na. Alle cinque andavamo a casa e poi non si usciva più. Non come adesso che sono sempre in giro. Poi dovevamo lavorare, bisognava vultàs indré la sera, dare una mano ai genitori, aiutare nei campi, la vare. Alle maggiori c'erano tre classi assieme, prima, seconda, terza, una quarantina, non ci hanno mai insegnato né francese né niente. Io ho sal tato una classe; dopo la settima sono andata da un professore che fa ceva come una prima ginnasio, e lì ho cominciato a imparare un po' di francese. A giugno ho finito le scuole, a agosto ho compiuto quattor dici anni e a settembre sono andata in fabbrica. I primi sei mesi pren devo un franco al giorno a cucire a macchina, e lavoravo dalle sette di mattina fino alle dodici, poi dalla una e mezza fino alle sette; al sabato alla mattina fino a mezzogiorno, e tante volte, quando c'era tanto la voro, fino alle cinque del pomeriggio. Poi alla domenica c'erano tutti i mestieri da fare. Se si stava al sabato pomeriggio non ci pagavano nessun straordinario, bisognava lavorare dalle sette alle dodici ed era no lì dietro con l'orologio in mano, bisognava produrre, bisognava fare i pezzi, bisognava! Si lavorava a catena. Se non lavoravi quell'altra non poteva lavorare, non aveva il lavoro da fare. Non ci si poteva fermare, non si poteva andare più di una volta al gabinetto. Alla sera venivano a vedere quanti pezzi avevamo fatto e prendevano nota e pagavano in base ai pezzi: si lavorava a cottimo. Se per caso si incep pava la macchina o si rompeva l'ago, si perdeva tempo, non si poteva continuare il lavoro, e ci sgridavano. E non sempre il lavoro era bello, ci sgridavano e abbiamo così pianto! E dovevamo lavorare a rota da can3. -Avevate vacanze a Natale e a Pasqua? —Dopo, quando è venuta l'organizzazione, abbiamo cominciato a migliorare, perché hanno obbligato il padrone a darci le vacanze, per ché prima non ce le facevano fare, ci facevano sempre lavorare. Dato che il padrone aveva comperato un posto a Airolo, ci mandavano a fare quindici giorni di vacanze al Mulino d'Airolo. Ci portavano su con l'autobus, stavamo su quindici giorni: mangiavamo e dormivamo sen za pagare niente. Lassù facevamo proprio vacanza. C'era la cuoca che ci preparava il mangiare e noi facevamo la pura stanza. Andavamo sempre a spasso, andavamo sul Gottardo. Quando è venuta l'organiz zazione ci hanno pagato le vacanze, perché prima non abbiamo mai

18


goduto niente, abbiamo sempre dovuto lavorare. Quando capitava che eravamo a casa d'agosto, fino alla Madonna (quindici agosto) non ci pagavano niente, perché non c'era l'organizzazione. Adagio adagio sono aumentate le tariffe e le ore sn diminuite un pochino e abbiamo cominciato a star meglio. Però portavamo a casa trentacinque franchi per quindicina e non c'era tanto da vultà fora. Si mangiava patate arrostite che evan piisée imbriigaa che rusctii e una fetta di pane di mistura, perché allora si faceva il pane in casa che durava quindici giorni, ul pan da carlùn*. E la nostra soddisfazione era quella di andare con il gerlo: -Gh'è da nà a tò ul pan a San Pedru — ci dicevano e la nostra con solazione era che il panettiere ci faceva la busiiròla, che era nient'altro che una fiigasceta5 con sopra un po' di confettura. Chi andava a pren dere il pane con il gerlo aveva la busiiròla. Per quindici giorni aveva mo quel pane duro. Gli ultimi giorni era perfino verde e duro, tanto

che bisognava metterlo nel caffè o nella zuppa par fall nà fora. Poi ci davano tanto pane e formaggio e qualche uovo arrostito. La carne la vedevamo una volta al mese, quando la vedevamo!... -A Natale e a Pasqua era diverso però... -A Natale e a Pasqua si ammazzava qualche gallina delle nostre, allora era differente. Poi se c'era il maiale, allora sì; si faceva la maza9 e si viveva un po' meglio, ma se no erano: patate, cornetti, pomodori, insalata; se l'èva vultada, l'èva quela: o erano patate arrostite, o insa lata o patate e salamino alla festa, o un po' di risotto; e lì cominciava e lì finiva. Non c'era né merenda né mia merenda. Allora si faceva la minestra di verdura e se avanzava ci alzavamo presto alla mattina per mangiarne un po', perché di solito ci facevano mangiare la zuppa di cipolle per colazione. Compravamo un pestuninèl7 d'olio e aceto insie me, compravamo un etto di caffè, un po' di zucchero, un etto di burro. Un franco rendeva, allora! Avevamo una fortuna: non eravamo mai malati. Se avevamo mal di pancia ci davano la camomilla, non potevamo andare dal farmacista, perché allora era roba cara. Se pro prio ci faceva male la pancia, andavamo dalla signora Carlotta che ci dava un po' di cassia per farci passare il male. -Il dottore c'era? -Il dottore non c'era sempre, perché a quei tempi aveva due o tre paesi. Poi quando è venuto il dottor Maggi, c'era tutti i giorni. Mi ri cordo che da ragazza avevo mangiato delle mele acerbe e avevo fatto come una gastrica e il dottore veniva solo ogni tanto perché aveva due

19


o tre paesi. Poi la situazione è migliorata in paese e abbiamo avuto il nostro dottore in condotta. Una volta sono caduta con delle tazzine, non avevo visto lo scalino, sono caduta e ho tagliato il naso. Il dottore me l'ha ricucito e mi ha dato due punti. Se ci faceva male un dente, ce lo strappava lui con un tenaglino. Certe volte eravamo là in fabbrica e non ne potevamo più dal male, allora si andava da lui perché non si poteva andare a Mendrisio a stuccare i denti. Lavoravamo sempre, dalla mattina buon'ora alla sera. Bisognava dar da mangiare alle gal line, c'erano i conigli, bisognava aiutare a far fieno, a zappare. Non come adesso, che fanno tutti i sciuri, tutti vestiti eleganti, noi avevamo sempre lo stesso grembiule. Quando ho fatto la cresima e avevo dodici anni, avevo un grembiule di cotone e i patin da velii. A quei tempi nessuno aveva le scarpe. Andavamo a San Martino, faceva già freddo



per San Martino di novembre, ma con lo scialle, non c'era da discutere di avere il mantello. C'erano quii mezz sciurett che venivano a scuola con il paltò; le guardavamo e dicevamo: - Guarda quella lì che ha su il paltò e le scarpe. - Noi avevamo sempre lo scialletto. -E la casa, com'era? -La casa aveva il camino. Quelle poche pentole (caziròll) di rame erano fuori; c'era la scanzia, il tavolo, ul sòl da quadrell che ogni tan to lavavamo con un po' d'acqua, c'era il lavandino, ma non smaltato 0in alluminio come adesso, era di sasso, fatto dai picapreda8. Le pen tole fuori erano nere dal fuoco e dal fumo; non si poteva mai pulirle. 1letti non avevano i piumini, c'erano le prepunte9; erano di ferro con l'elastico e il materasso, perché io non avevo la rete metallica. C'erano sempre i nostri cuscini di piume. Quando si ammazzavano oche o gal line si tenevano da conto le piume. -Acqua calda e servizi igienici non c'erano... -Ma sì, non ce n'era di acqua nei gabinetti! C'era il suo tubo e an dava giù lo sporco e basta. Si buttava un secchio d'acqua e basta. Ac qua calda non ce n'era. Bisognava scaldare quella fredda per averne un po'. Ci siamo sempre lavati estate e inverno con acqua fredda. Per lavare i capelli andavamo a prendere ortiche che facevamo bollire e usavamo questo infuso. Del resto li insaponavamo col sapone solito, li risciacquavamo e diu. Scaldavamo l'acqua, se era d'inverno, d'estate li insaponavamo e li risciacquavamo direttamente sotto il rubinetto. Per asciugarli, d'estate li asciugavamo al sole, d'inverno, dato che non c'era né ul fònich^ né quelle cose moderne che ci sono oggi, li lavava mo raramente o mai. Di bagno non c'era neanche da discuterne. Che l'avevano erano soltanto i primm sciuri. D'inverno ci venivano sempre i geloni a letto, perché le camere non erano riscaldate. Alla sera quando ci toglievamo le calze, ci restavano sempre attaccate, perché i geloni facevano la piaga. A scuola la mae stra ci diceva di toglierci le calze e di andare a piedi nudi nella neve, per scaldarceli un po'. Avevamo sempre i calcagni feriti e le mani ge late per il freddo, non c'erano i guanti, non sapevamo neanche cosa erano. Avevo quindici anni ed ero già andata via a lavorare e avevo fatto come una piccola pleurite. Sono guarita al mese di marzo e il dottore mi ha detto così: — E' meglio che vada a cambiare un po' aria. — E a andare via a cambiare aria, ga vureva na mota da danee. Allora sono andata al sanatorio di^mt^a lavorare. Lassù prendevamo cinquanta 22


franchi al mese; facevamo pulizia nelle stanze, ma eravamo trattati bene. Certo che eravamo a contatto con i malati, e tante volte biso gnava aver coraggio e andar là ad asciugare le sputacchiere, anche se c'erano dentro i bacilli. Ma sono sempre stata sana e sono rimasta ad Ambrì tre anni. Sono venuta a casa e sono andata di nuovo in fabbri ca. Allora ero già una giovine e mi hanno messo alla macchina degli occhielli; e bisognava fare tremila occhielli al giorno. Avevo la gamba, alla sera, che si veniva a casa e non si poteva più muoverla; perché bisognava pesta già per montare la macchina, che era una macchina pesante e c'era attaccato un suo apparecchio che contava gli occhielli che si facevano. Non si scappava; bisognava lavorare: metter sotto ca micie, metter sotto camicie e fare occhielli. Ma era la nostra vita sem plice così. Sempre tutto il giorno dalla mattina alla sera prender cami cie, metterle sotto e fare occhielli e din. -E in casa cosa facevate? —In casa c'erano le calze da fare, bisognava aggiustare le cose che si rompevano. C'era da arrivare a casa alla sera, prender su magari la cavagna dei panni e andare al fontanone, dopo il lavoro d'estate, altri menti d'inverno andavamo al sabato pomeriggio, a lavare. C'era il fratello che mandava a casa il cesto da via (Svizzera inter na), c'era il padre; c'erano sempre tante cose da lavare, aggiustare, sti rare. Avevo il padte che era gendarme, è stato a Ponte Tresa, a Luga no, a Faido dove era capoposto. Quando è morto era capoposto a Faido. Veniva a casa una volta al mese, stava a casa tre giorni ed eravamo tutti contenti quando arrivava. Io andavo sempre a piedi alla stazione di Mendrisio a prenderlo per aiutarlo a portare il cesto che portava a casa con la biancheria da lavare. A piedi, eh!, sempre avanti e indietro da Mendrisio a piedi! Non sapevamo nemmeno cosa fosse l'automo bile. E poi ce n'erano poche di automobili e le corse erano poche e care. Ho fatto cinquantun anni di fabbrica. —Cosa facevate per le feste, per Pasqua, Natale, i Morti, Santa Lucia, la Madonna di Caravaggio,...? -Per la festa di Santa Lucia eravamo tutti contenti perché si anda va a San Pietro e c'erano i banchitt cun na mota da strafalari11, fiori, orsetti di pelo, il topolino bianco che tirava fuori il bigliettino con l'avyenire. E andavamo su a Santa Lucia, c'era una sala da ballo e am davamo a vedere ballare, solo vedere, perché non ho mai imparato a ballare. E poi a San Pietro facevano sempre dei bei teatri per Santa Lucia. Anche a Stabio per Santo Stefano, per il primo dell'anno i gio-

23


vanotti facevano dei gran bei teatri. Ah, recitavano proprio bene! Avevamo qui un prete che valeva qualcosa per tirar fuori i giovanotti. Alla vigilia di Santa Lucia andavamo - quando c'era scuola con il maestro, e quando andavamo a lavorare, dopo il lavoro - a prendere una michetta benedetta. C'era il sacrista alla sera ad aspettarci per darcela. Allora il pane bianco c'era già; era forse un lascito che era stato fatto. Per i Re Magi ci dicevano: - Figlioli, mettete fuori ul cavagnòó che passano i Re Magi. - Ci mettevano dentro tre spagnolette, due manda rini, due caramelle, qualche cioccolatino da dieci centesimi ed eravamo tutti contenti, ci sedevamo nel cantuccio del fuoco a vedere cosa ci avevano portato i Re Magi. Un anno ci hanno fatto uno scherzo (m'an fai sturba) e invece delle cose che aspettavamo, c'erano le zampe della gallina (che era stata uccisa per le feste) nel cestino e noi piangevamo. Dopo abbiamo scoperto che erano stati dei ragazzi più grandi che ci avevano preso in giro. Ma dopo la mamma ci ha dato noci, nocciole, spagnolette, quei corni di un tempo con dentro biscotti, caramelle, la sorpresa: un anello, qualche bambolina, allora vendevano il sapone a casse e davano una pupuleta12 in regalo per un anno. La mamma la nascondeva e poi ce la dava per i Re Magi. Per i Morti andavamo alla novena. C'era l'ufficiatura e tutto il paese era presente alle cinque e mezza. Il prete ci diceva che di morti ne abbiamo tutti e che bisognava quindi andare. Pregare per i morti era una tradizione. Il giorno dei Santi andavamo al cimitero dove ac cendevamo i dar quando arrivava la funziùn. Allora non c'erano quei crisantemi grossi che ci sono adesso; i nostri erano miseri e noi ci sfor zavamo di farli ingrossare nei giardini e portavamo quelli. Alla sera dei Santi andavamo al cimitero a dire il rosario ed era bello vedere il cimitero con le luci delle candele. E intanto suonavano le famose cam pane a martello perché alla mattina c'era l'ufficiatura in grande, alle sei eravamo a casa e non uscivamo più. Alla sera dei Morti si mette vano le castagne bollite per i morti dentro una scodella. Poi i bambini poveri passavano casa per casa e gridavano: — Carità da mort, carità da mort! — Gli si dava una brancata di castagne, qualcuno anche qual che dieci centesimi. Per Pasqua: cominciavamo una settimana prima a far pulizie in grande, a lustrare il rame, a lavare su il portico, la cucina, perché ve niva il prete a benedire la casa. Mettevamo la tovaglia, una tazza con le uova e un bicchiere d'acqua che bevevamo una volta benedetta. Alle

24


dieci di mattina del sabato santo, anche se eravamo in fabbrica a finire il lavoro (il venerdì eravamo di solito a casa) quando suonavano le campane che il Signore era risorto correvamo alla fontana a bagnarci

gli occhi. Per la Madonna di Caravaggio era come una fiera, eravamo a casa da scuola. Si tirava in piazza un grande telone perché il ventisei mag gio scottava sempre il sole, c'era la messa e il vespero e veniva un ora tore a far la predica. C'erano i banchitt dove vendevano qualcosa per i bambini (non c'erano ancora i ricordini di Caravaggio). C'erano tanti forestieri che arrivavano in giardiniera con i cavalli, perché l'ap parizione a quel tempo si faceva solo qui. Anche allora si benedivano

i bambini. La festa della Madonna di Caravaggio era la più bella del paese ed era il giorno in cui si riunivano le famiglie. Venivano i vendi tori di stoffe, di cappelli d'estate per andare in campagna, di scarpe. -• Come erano i negozi? — I negozi erano delle piccole botteghe dove si trovava di tutto. Noi andavamo a comprare dieci centesimi di roba. Allora con dieci cente simi si comprava tutto: dieci centesimi di zucchero, dieci centesimi di burro. Prendevamo da casa una bottiglia e compravamo l'olio. A Stabio avevamo la fortuna di avere un negozietto dove si vendevano i quaderni, le matite, ecc, e noi dovevamo cercare i cinque centesimi ai nostri genitori per comprarli e li tenevamo da conto. Quando un pen nino si rovinava e scrivevamo male, ci picchiavano se chiedevamo cin que centesimi per comperare un altro quaderno o un altro pennino. Se avevamo qualche soldo andavamo a Clivio a prendere qualche qua derno. Allora il palancone serviva sia qua che là. Alla sera d'inverno andavamo nelle stalle a scaldarci e giocavamo al criiscbett: nascondevamo una palanca nella paglia e chi la trovava, era sua, a tombola, alle carte e veniva tardi; la mamma ci diceva: — La sira, titura e titara, e la matina, paiaza cara! A Stabio c'erano tanti alberi da frutta, vigneti, tanti fichi. In au tunno andavamo a prender frutta e al ventinove settembre, per San Michele, se ci vedeva il proprietario ci diceva: - Oh, ragazzi, cosa fate, prendete i fichi? — e noi gli dicevamo: - Sì, l'è San Michee, la pianta l'è tua, i fich in mee. Lui non poteva reclamare, perché la stagione era già inoltrata e aveva già raccolto prima i fichi. Ognuno aveva il suo bosco, faceva la sua legna e d'inverno la ta gliava e se si veniva sorpresi nel bosco d'altri, si veniva denunciati in


municipio e si doveva pagare la multa. Quando non volevamo obbe dire ai nostri genitori, ci dicevano: - Bufett, bofa pian, bofa fort, bofum in dal ciiii quand sum mort. — Cioè, non aspettate quando saremo morti a obbedirci. Quando moriva uno in famiglia, l'essenziale era mettergli il vestito più bello e prepararlo bene e alla sera tutto il paese veniva in casa e si rispondeva il rosario. Poi andavamo tutti nella camera del defunto, ogni persona faceva il segno della croce davanti al morto con un ra moscello d'ulivo e l'acqua santa che era in un bicchiere sul comò. Le donne morte avevano il fazzoletto in testa. A quei tempi veniva la processione con il curato in casa; preparavamo da basso il morto su un tavolo, il curato recitava il Miserere e si avviava la processione. Ades so si deve andare in chiesa. Prima però bisognava andare dal dottore per il certificato di morte, poi si andava dal prete per l'orario del fu nerale e dal sacrista per dirgli di suonare i bòtt13 e l'Ave Maria.

i A nascondino 2 Zoccoli con la parte superiore di velluto 3 A rotta di collo 4 Pane di farina di granoturco 5 Focaccetta 6 Si ammazzava il maiale 7 Piccolo recipiente 8 Scalpellini 9 Coperte da letto imbottite di lana io Fohn, asciugacapelli 11 Le bancarelle con tante cianfrusaglie 12 Una bambolina 13 Suonare a morto

z6


Tutto tenevano da conto

TERESA QUADRI, nata a Coldrerio, classe 1905. (Testimonianza raccolta da Elia Quadri, aprile 1978). D'estate i contadini si alzavano alla mattina alle quattro e se era il tempo del fieno facevano il fieno, oppure zappavano ul carlùn, rasarivan i patati1. Ci si alzava presto per non avere il grande calore che c'è alla mattina. Verso le otto e mezza, nove, andava là qualche ra gazzo con la regiura2 nel prato o nel campo, portava in un secchiello la minestra riscaldata del giorno prima, o una zuppa con le cipolle, o caffelatte. (Ma il caffelatte era raro, perché ci tenevano di più a ven derlo, il latte). Si teneva un po' di latte per i figli, ma era misurato. Il brodo della zuppa si teneva da bere. Alle undici il contadino tornava a casa e aspettava il desinare che era sempre polenta con insalata, ci coria, o qualche uovo indurito, (anche l'uovo compariva raramente perché con un uovo si compravano due saracch, che è un pesce sotto sale, forse anche affumicato, non so, perché era una cosa che detesta vo). Puciavan là la pulenta in dal saracch. D'inverno si mangiavano patate bollite o patate arrostite, con una qualche formaggella fatta in casa: si coagulava il latte, si metteva il latte quagiaa3 nei balziti*, si lasciava lì un giorno o due, poi si man giava con olio e aceto. Se ne avanzava un po' si faceva il zincarlin con


quagiada (che era diventata formaggella), pepe e sale, si faceva un pasturi, poi si lasciava lì sette o otto giorni, si mangiava polenta e zincarlin finché ce n'era. Il bene principale era il prato, perché c'erano le bestie da mantene re; poi il frumento, perché si pagava a mezzadria: invece di pagare in soldi l'affitto del campo si pagava con una parte del raccolto. Si stabi liva prima di lavorare il campo la quantità di frumento da pagare. (In base alle pertiche5, a volte si doveva pagare con tutto il raccolto, se era misero). Poi a Pasqua si pagavano due o tre dozzine di uova, a Natale quattro capponi, due pollastri, cento fascine di legno (fatte di vidasc9 che raccoglievano quando facevano la vigna e ci mettevano dentro un po' di frasche di murun1). Inoltre avevano i cavalee9. Quan do era il tempo di cavalee ci tenevano tutti a fare bella figura queste donne e questi paisdn: uscivano dalla cucina e andavano a vivere sotto il portico, mettevano i cavalee non solo in bigatèra9 ma anche in cuci na, per averne tanti. Così avevano da lavorare per tre settimane fin ché mandavan al bosch i cavalee19. Dopo, una volta andati al bosco facevano la galeta u, così i contadini cominciavano a fiatare. In giugno c'era il frumento, che era tanto, andavano là a mundàl, dovevano strappare i vesc12 e le erbacce. Poi avevano il carlùn; più tardi per non toccare il fieno il contadino andava là cui seghéz19 e l barldsc1* a prendere la stubia19 da dare alle bestie. Non c'era un filo d'erba in un campo che non era utilizzato: tutto tenevano da conto. Coltivavano anche il lino che era uno spettacolo, quando fioriva era tutto celeste, facevano la linusa18 e l'olio che non si comperava. Schiacciavano il lino in un mulino a Balerna dal Girulin e facevano l'olio. L'olio che usciva per primo lo vendevano perché era ben pagato: era chiamato olio vergine. L'olio della seconda torchiata cioè quello più scadente lo tenevano loro, per pagare la torchiatura gli lasciavano l'olio, ma quello vergine. Si facevano delle fosse, in particolare a Corteglia dove c'erano tan te muiàch11 (perché la collina di Corteglia è invasa d'acqua). In que ste fosse si mettevano gli arbusti di lino sotto dei sassi, dopo un po' di giorni portavano a casa il lino e lo lavoravano con la maialaie (si ta gliava la giiseta19 dalla pianta) con un arnese pieno di chiodi lo raspa vano tutto (il lino). Facevano i cavezz20. Di sera nelle stalle, questo succedeva d'inverno, tutte le donne filavano con la rocca i mazzetti di lino. Con questo lino le ragazze facevano la schèrpa, tutti sapevano filare.

28


D'inverno nelle stalle c'era tutta la famiglia: ul regiuu, la regiura e i bambini. I bambini giocavano fino a un certo orario alla tombola, poi quando glielo diceva la regiura, andavano tutti a letto. Erano mandati a letto perchĂŠ volevano dire il rosario e i bambini ridevano, scherzavano, disturbavano. Bisognava andare a letto subito, non si


poteva dire di no. Al primo segnale ci si doveva alzare in piedi e par tire. Nella stalla c'era una liirn21 con dentro uno stoppino con olio: si metteva da parte l'olio già cotto. Mi chiedo come facevano a vederci: era come accendere un fiammifero. Alle undici andavano a letto. Alla mattina le ragazze quasi tutte da Stabio, Genestrerio, Ligornetto e Rancate andavano tutte a Chiasso a piedi nella fabbrica di si gari, l'unica industria che c'era. E qui sul piano di Villa cambiavano i tapèll22 con degli zoccoli nuovi: per far bella figura ad andare a Chiasso. Partivano da Stabio alle cinque per arrivare alle sette a Chiasso. La sera, quando tornavano indietro, le ragazze camminavano a braccetto e cantavano, anche perché avevano paura a passare da vanti al cimitero di Genestrerio, tutte contente. Le ragazze aspettavano il ritorno dei giovanotti che lavoravano in Svizzera interna con la speranza di trovarne qualcuno in cerca di ma trimonio (...) Una volta c'erano molte superstizioni : c'era chi credeva che se arri vava la civetta che cadeva nei camini non si poteva più tirarla fuori. Guai se si sentiva la civetta o l'allocco di notte. Oh, gente, muore qualcuno. Adesso che hai rovesciato il sale succede una disgrazia. Poi c'erano quelli che non credevano alle stre ghe e alle superstizioni e facevano scherzi a quelli che ci credevano. Una sera d'estate, due fidanzati erano seduti sotto un pioppo. Un altro giovane per fare loro uno scherzo ha preso una scaletta, è salito su un tetto e gettava dei sassi ai due giovani: Oh, gente, ci sono in giro le streghe, è perché siamo venuti nel prato che non sono cose che si pos sono fare, è un segnale che dobbiamo andare via subito. Questi fidanzati hanno messo sul fuoco un pentolino con un po' di caffè. Il giovane, avendo sentito il discorso, ha messo in saccoccia un po' di sassi ed è salito sul tetto.

Nel bello e nel buono che il caffè bolliva: sgiun giù un sasso, giù il pignattino e giù caffè dappertutto; e gli altri: Sono le streghe, avvisiamo il sindaco e i gendarmi che qui succede qualcosa, scappiamo.

,

(...) Una volta chi aveva la puntura spentegada23 era destinato a morire. A chi dolevano i denti si metteva un pizzico di polvere di ta bacco, che avevano nelle tasche mescolata con scaglie di fiammiferi e p^zzetti di pane. A chi si tagliava si metteva sulla ferita un po' di ragnina24 che faceva da benda. Una volta c'erano molti casi di tisia perché non avevano abbastan-

3


za vitamine e nutrimento adeguato alla vita di quei tempi, lavoravano da stelle a stelle. La visita del medico costava un franco e pareva già tanto. Quando si aveva mal di testa si mettevano su delle fettine di limone e poi si legavano. Quando si aveva la febbre si prendeva olio di ricino che era il ter rore di tutti i bambini. Altrimenti si faceva uno stupin che erano delle pezze imbevute di aceto bollente. A chi aveva mal di schiena nella zona dei polmoni si metteva la mosca da Milàn che era come un visigant25. (...) Gli attrezzi che usavano i contadini per lavorare non erano come quelli d'oggi: c'era l'aratro tirato dai buoi, l'erpas2" (per strito lare i pezzi di terra dura). Il contadino vangava attorno al campo e al vigneto, faceva i cavedàgn21 dove l'aratro non arrivava. Il frumento si seminava prima di San Gallo, 16 ottobre. Per mantenere fertile il terreno non si usavano concimi chimici, solo letame e colaticcio. Ora si usano troppi concimi chimici che fanno scomparire diversi animali. Il trattamento delle vigne era fatto con verderame e zolfo (...) Ai prati si buttava là la cenere, perché tutti avevano il camino, non ne esiste vano di stufe, tenevano da conto la cenere anche per il bucato. Si metteva acqua e cenere in una mutena2% a bollire, qui si metteva no i panni. Le lenzuola avevano un profumino di rose, oggi le lenzuo la, anche se sono pulite, di profumi non ne hanno assolutamente. I detersivi di oggi corrodono le lenzuola. Non ce ne sono più di len zuola che durano cento anni. Io ho ancora un lenzuolo di mia nonna che è morta nel 1923.


i Sarchiavano, rincalzavano la terra attorno alle patate 2 La donna piĂš anziana e autorevole della famiglia 3 Cagliato 4 Forme di legno per i formaggini 5 Una pertica = 600 metri quadrati (circa) 6 Resti di tralci di vite secchi 7 Gelsi 8 Bachi da seta 9 Locale dove si tenevano i bachi da seta io Quando i bachi erano maturi per avvolgersi nei bozzoli, biso gnava preparare, con ramoscelli, felci, steli, il bosco. Sul bosco, appoggiati sulla parte posteriore (come cavalieri in sella: donde probabilmente il nome di cavalĂŠr) cominciavano a avvolgersi nel bozzolo coi sottili fili di seta che mandavano fuori dalla bocca: operazione che si compiva in circa otto giorni, dopo i quali i bozzoli pendevano immobili dai rami del bosco. (Vocabola rio dei dialetti della Svizzera italiana alla voce bigatt) 11 Bozzolo 12 Piante rampicanti che rovinano il frumento 13 Falcetto 14 Gerla a stecche rade 15 Residui di fusti di frumento o granoturco mischiati con erba 16 Lino schiacciato da dare al bestiame, usato anche come medicinale per cataplasmi 17 Buche dalle quali usciva l'acqua, nelle zone acquitrinose 18 Strumento che serviva a battere i fusti delle piante di lino per ottenere le fibre che venivano poi ripulite e filate 19 Corteccia che veniva staccata dal fusto 20 Tele di lino larghe ottanta centimetri e lunghe circa sette, otto metri. / cavezz si davano in dote alle spose 21 Piccola lampada ad olio 22 Zoccoli consumati, vecchi 23 Polmonite 24 Ragnatela 25 Specie di cerotto 26 Erpice 27 Strisce di terreno non arate e incolte che limitano le testate del campo 28 Tinozza



Allievi di Alberto Nessi: Le vite che abbiamo fatto Serie: II nostro paese Secondo/Terzo ciclo Da cinque testimonianze, raccolte con il re gistratore e trascritte con fedeltĂ , emergono i temi dell'emigrazione, della povertĂ , della durezza delle condizioni di lavoro, del mon do rurale con le sue usanze. Sono temi che ci aprono una finestra sul passato prossimo del Ticino, che purtroppo nel corso degli anni ha perduto la sua vera fisionomia. Le ESG pubblicano opuscoli in lingua tede sca, francese, italiana e romancia. Tutti i titoli degli opuscoli ancora disponibili figu rano nel relativo elenco.

Schweizerisches Jugendschriftenwerk (Euvre Suisse des Lectures pour la Jeunesse Ouvra Svizra da LectĂšra per la Giuventiina '" '


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.