Elio Delucchi
Luca e il nonno nelle terre
degli indiani d'America
2119
Luca e il nonno nelle terre
degli indiani d'America di Elio Delucchi
Edizioni Svizzere per la GioventĂš, Zurigo
NQ 2119
La cartina indica i tenitori delle grandi praterie degli indiani negli anni tra il 1800 e il 1900 e i luoghi toccati da Luca e il nonno nel loro viaggio nel Far West.
Luca e il nonno nelle terre
degli indiani d'America
Luca e il nonno ritornano a casa. Sono andati per tutto il po meriggio a passeggiare nel bosco, a godere un po' di frescura all'ombra dei faggi e dei castagni. Camminano piano, ciascu no assorto nei propri pensieri... -Nonno, questi quattro giorni non passano mai! Mi sembrano lunghi un'eternità. -Ancora un po' di pazienza Luca! Vedrai che passeranno ve locemente. Abbiamo ancora tante cose da fare prima di parti
re: preparare le valigie, ritirare i biglietti all'agenzia, salutare gli amici... ma poi, via con un bel Jumbo che ci porterà fino a Denver, nel Colorado. E' da lì che incominceremo il nostro viaggio alla scoperta del Far West1. -Ma nonno, troveremo davvero ancora i luoghi dove hanno
combattuto gli indiani? E i vecchi villaggi fondati dai pionieri con le case allineate lungo la via principale, i saloon e l'ufficio dello sceriffo? O, come dice la mamma, tutto sarà soffocato da nuove case e da nuove strade come da noi? -Non sarai deluso, vedrai! Certo, le grandi città sono diventa te popolose e moderne, con grattacieli altissimi e strade che vanno in tutte le direzioni... ma la prateria, al contrario, è ri masta com'era. Non è cambiata per nulla... ed è immensa, scon finata e ancora selvaggia, proprio come una volta, ai tempi di
Nuvola Rossa e di Toro Seduto, di Cavallo Pazzo e di Buffalo Bill. -Ah, nonno, come vorrei già essere lassù! - esclama il ragaz
zo indicando il cielo limpido.
I quattro giorni passano e finalmente arriva il momento della partenza. Mamma e papa li accompagnano in macchina fino alla Malpensa. Le ultime raccomandazioni, gli ultimi abbracci poi, puntuale, l'aereo si alza dall'aeroporto per portarsi sulla propria rotta, al di sopra delle poche nuvole sparse sulla cam pagna milanese.
Per un po' Luca guarda dal finestrino. A poco a poco però i suoi pensieri sono assorbiti dalla grande avventura che sta per cominciare; un viaggio nel Far West attraverso le terre che un
tempo furono il regno degli indiani e del bisonte, fino a quan do arrivò l'uomo bianco e ne fece terra di conquista. L'aereo pare fermo nel cielo. Sotto, attraverso la foschia delle nuvole, s'intravede il mare. Nient'altro, a parte la grande ala che ogni tanto s'illumina d'argento al riflesso del sole. 4
Dopo tredici ore di volo l'aereo atterra dolcemente sulla pista dell'aeroporto di Denver, nello Stato del Colorado. A causa del fuso orario è sabato sera e il giorno sta per finire. In Ticino è già domenica e un altro giorno sta per cominciare.
II mattino, dopo colazione, è dedicato al ritiro della vettura presso l'agenzia: un'auto americana con tanto di aria condi zionata, cambio automatico e servosterzo. Il nonno e Luca
percorrono la via principale della città in un caos di macchine e di corsie fino a portarsi alla congiunzione con l'autostrada che da Denver corre dritta verso lo Stato del Wyoming2. In poco tempo hanno lasciato la città e già si trovano in aperta prateria. Il paesaggio del Colorado è bello: a ovest, ma molto lontane, si possono scorgere le Montagne Rocciose. A sinistra e a de stra della strada la prateria si perde all'orizzonte, piatta e sel vaggia. Luca avverte d'un tratto di essere diretto verso una terra lonta
na: l'Ovest sognato dai pionieri che hanno fatto la storia del l'America, percorsa dai trapper3 che prima di loro hanno risa
lito i fiumi a caccia di castori e dagli indiani padroni del terri torio.
Il nonno diceva la verità: la vastità di ciò che lo sguardo può catturare suscita in Luca mille emozioni. Sente di essere in una terra rimasta selvaggia, poco abitata, una terra che è la medesima di cento anni fa, come l'hanno vista i primi esplora tori, come da sempre l'hanno percorsa gli indiani nelle loro
migrazioni sulla pista del bisonte. La sera, prima di coricarsi nel comodo letto di un Motel, Luca
prende il diario e riordina gli appunti presi durante la giornata.
Domenica, 25 agosto II nostro viaggio è incominciato. Dopo aver percorso non so quanti chilometri, un cartello ci avverte che siamo entrati nel
lo Stato del Wyoming, uno dei più belli per il verde dei suoi pascoli, i boschi di pini e di betulle, le grandi mandrie di bovi ni e di cavalli, i suoi cow-boy4. La distesa che ci circonda mi
ricorda il film Balla coi lupi: solo erba ondeggiante al vento che spira perennemente sulla prateria e un susseguirsi di dolci colline. Il nonno, che fino ad ora ha guidato a una velocità di crociera, a poco a poco rallenta l'andatura, accosta e posteggia l'auto in una piccola piazzetta a lato della strada. Ad una cinquantina di
metri di distanza vediamo quel che resta di una fattoria abban donata.
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Cow-boy al lavoro nella prateria.
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Nel West è facile imbattersi in case abbandonate come questa, trovata nelle praterie del Wyoming.
Andiamo a curiosare tra le pareti di legno ormai cadenti. Il nonno mi consiglia di fare uno sforzo e cercare di cancellare dalla mente la strada e l'auto con la quale siamo arrivati. Come per incanto mi trovo solo, sperduto in questa immensa distesa d'erba ondeggiante. La casa è la sola cosa che vedo e i miei pensieri corrono indietro nel tempo. Chissà chi l'avrà costrui ta, chissà perché l'avranno abbandonata. E' una bella costru zione, con la veranda e il portico che s'intravedono sul davan ti. Dietro ad essa si riconoscono i resti di una stalla e di un fienile. Qualche paletto indica ancora quello che doveva esse re un corrai, il recinto per i cavalli. Penso a chi l'ha costruita... pionieri arrivati fin lì con un carro trainato da cavalli... una donna... dei figli, magari della mia stessa età. Quanti anni avranno resistito in questa solitudine, quanti progetti andati in fumo, quante fatiche restate inutili... Pensieri senza risposta che porto via con me. Tutt'intorno solo spazio, cielo e silenzio.
LunedÏ, 26 agosto Stamattina il cielo è tutto colorato di rosa con strisce di blu chiarissimo. I colori dell'alba si riflettono sulla prateria anco ra assonnata. Una prateria immensa, diff icile da descrivere tanto è grandiosa. Sono due giorni che viaggiamo in questo mare d'erba su strade senza traff ico. Il nonno stamattina mi ha parlato delle carovane. Infatti stia mo percorrendo la stessa rotta che esse seguivano per recarsi in Oregon e in California. Intanto che lo sguardo spazia lontano come per misurarne la distanza, il mio pensiero corre a loro, alle famiglie che affron
tavano le fatiche della pista, forti solo del loro coraggio e sostenute dalla speranza di rifarsi una vita nuova in un paese ancora intatto e ricco di promesse.
Carri di pionieri, abbandonati lungo la pista verso l'Oregon e la California.
I nomi dei pionieri incisi sulla parete nei pressi di Guernsey. Accanto a quelli originali se ne sono aggiunti altri lasciati dai turisti.
Percorriamo ancora una settantina di chilometri poi il nonno abbandona la strada maestra e ne imbocca un'altra che condu ce a Guernsey5, un piccolo villaggio situato suĂŹVOregon-Trail6. Probabilmente al tempo della grande migrazione verso l'Ovest era soltanto un posto accogliente: giunte fin qui provenienti da Fort Laramie tutte le carovane si fermavano qualche giorno per riposare. Gli uomini provvedevano a riparare i danni subiti dai carri, prima di affrontare le Montagne Rocciose; le donne ne approfittavano per lavare panni e bambini nelle acque fre sche del fiume Piatte. Lasciamo l'auto al bordo della strada e camminiamo per una mezz'ora. Il nonno mi indica una roccia lunga circa duecento metri. Avvicinandomi scopro un'infinitĂ di firme, di nomi, di date, di frasi incise su di essa fino a un'altezza di quattro o cinque metri. Sono le testimonianze del passaggio dei pionie
ri. Ognuno era fiero di firmare! Una parte della lunga pista
era stata percorsa; più della metà del viaggio era fatto. Vicino alla roccia, in un luogo appartato, un piccolo cimitero ricorda anche coloro che non ce l'hanno fatta.
Il luogo tranquillo, protetto dai venti, il fiume Piatte che scor re lento tra gli alberi e la commozione del momento mi tra sportano quasi fisicamente tra la gente delle carovane, a vive re le loro stesse emozioni; vedo bambini che giocano a rincor rersi, carri coi teli bianchi messi a semicerchio e gente affaccendata in mille lavori. Profumo di pancetta arrostita,
odore di fumo che si alza dai fuochi di bivacco e tante voci che s'intrecciano, che si chiamano. E suoni di tutte le specie,
martelli che battono sull'incudine, nitriti di cavalli, legna che si spacca sotto i colpi delle asce...
Il nonno mi richiama alla realtà. -Vieni Luca, andiamo lassù. Ti mostrerò qualcosa che ti la
scerà di stucco! - mi dice, indicando la sommità di una collina che subito raggiungiamo a piedi. Lo sguardo spazia nella pianura di Laramie. Si può ancora intravedere la lunga linea serpeggiante della pista lasciata dal le carovane. Non avrei mai creduto che i miei occhi potessero
vedere il solco lasciato dalle ruote dei carri snodarsi pigra mente lungo il fiume, verso la collina, per poi proseguire a
nord oltre i monti del Big Horn. L'altura sulla quale ci siamo portati è completamente roccio sa.;
-Guarda! - mi dice il nonno - Osserva questi solchi incisi
nella roccia. Sono profondi più di settanta centimetri. I pionie ri spingevano i carri su per la salita gridando e spronando i cavalli per l'ultimo grande sforzo. Immagina quante fatiche,
quanti sacrifici è costata questa migrazione verso l'Ovest! io
Non posso nascondere l'emozione che mi assale. Guardando
meravigliato quei lunghi solchi, mi sembra di ritornare indie tro nel tempo. Cammino sulla pista tra una carreggiata e l'al tra. La roccia liscia è lÏ a raccontare la sua storia. Una storia dura ed eroica, che ha ispirato tanti romanzi e numerosi film. Grazie nonno, per avermi portato in un luogo cosÏ straordina
rio! il
Mercoledì, 28 agosto Ho dormito profondamente per tutta la notte. Il nonno mi ha svegliato verso le otto e a colazione mi ha fatto provare uova, pancetta e caffè, menu tipico degli americani. - Caro Luca, oggi per te sarà una giornata memorabile! - mi
dice - la strada che vedi ci porterà dritti dritti a Fort Laramie. Devi sapere che questo avamposto militare è stato di grande
importanza nei contatti con gli indiani delle Pianure! E' in questo forte infatti che sono stati stipulati diversi trattati di pace con le tribù Arapaho, Sioux e Cheyennes; trattati che si stematicamente non vennero poi osservati o addirittura furono annullati dal Governo americano. Fort Laramie è ancora esi stente. Lì non devi neanche chiudere gli occhi per compren derne la solitudine e la distanza dai centri abitati. L'unica sto natura è l'arrivarci in auto come facciamo noi, senza la soffe
renza della pista cotta dal sole, i timori del viaggio e la felicità di trovare finalmente la sicurezza di quattro mura amiche. Qualche costruzione è andata distrutta o è crollata, ma il resto,
dalle palazzine degli ufficiali, alle stalle, alle baracche delle diverse compagnie di soldati, alla piazza d'armi, alle prigioni, tutto è rimasto intatto, come allora.
Vi giungiamo attraversando un ponte di ferro sul fiume Laramie che, serpeggiando, circonda per metà il territorio dove è co struito il forte. - Ecco - mi indica il nonno - le carovane vi giungevano da sud, dalla pista ancora segnata che costeggia il fiume, mentre gli indiani che volevano commerciare piantavano le loro ten de nella pianura a nord-ovest del forte. 12
Lasciamo l'auto in un piazzale poco lontano e ci awiamo a piedi per una stradina in terra battuta per visitare le varie co struzioni che fanno quadrato attorno alla piazza d'esercitazio ne.
Nelle baracche dei soldati possiamo vedere il dormitorio: una
fila di letti con coperte militari. Dietro il letto le uniformi di lavoro e di parata; davanti, in bell'ordine, gli stivali, il fucile, la baionetta. Al piano inferiore c'è il refettorio con la cucina e
altri locali per le selle e la riparazione dei finimenti. Visitiamo le case in cui abitavano le famiglie degli ufficiali: sono confortevoli, arredate con bei mobili e tappeti di orso e di bisonte, con grandi stufe di ghisa per il riscaldamento. Al primo piano, sopra la cucina e il soggiorno, ci sono le camere,
comprese quelle dei bambini, e lo studio dell'ufficiale. Nel soggiorno l'immancabile pianoforte per le serate in allegria. Case comode, certamente, ma per i soldati la situazione era nettamente differente. Oggi nel forte una costruzione è stata adibita a museo: vi si trovano armi ed equipaggiamenti dei soldati, armi e vestiti in-
La palazzina principale di Fort Laramie (recentemente restaurata) situata proprio davanti alla piazza d'armi. Era destinata alla famiglia del comandante della guarnigione.
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La lunga caserma di una delle compagnie di soldati che presidiavano il forte.
diani, una grande quantità di libri e di documentazione stori ca. In una saletta adiacente viene continuamente proiettato un
film che mostra la vita del forte durante gli anni delle guerre contro gli indiani e ne racconta la storia. Il nonno mi conduce fuori, al centro del piazzale delle eserci tazioni e mi sussurra: -Adesso chiudi gli occhi per un momento e pensa ciò che
vuoi! È un esercizio che faccio volentieri... perché, isolandomi, vivo più intensamente i momenti importanti... e i miei pensieri pos sono concentrarsi su questo avamposto deserto, isolato e sper duto in una terra selvaggia. Mi par di udire le voci, i comandi, il rumore degli zoccoli, la tromba dell'adunata. Mi par di ve
dere il trambusto dei cavalli in movimento, gli uomini in uni forme, le donne degli ufficiali sulla veranda e laggiù... oltre il fiume, il lento avanzare di una carovana. -Sveglia Luca! - mi dice scherzosamente il nonno - che il
West non finisce qui! C'è un sole accecante e fa caldo. Facciamo un giro completo del forte e poi lasciamo Laramie. È vero... il West non finisce qui! 14
Giovedì, 29 agosto Siamo partiti presto stamattina. La pianura, davanti a noi, si stende a perdita d'occhio e lascia incantati. Da qualche ora ci stiamo dirigendo verso le riserve indiane. Il nonno mi fa notare che sono scomparsi tanti segnali strada li. Qualche carcassa d'auto è abbandonata ai lati della strada. - Sai Luca, le riserve sono le uniche terre rimaste agli indiani. Loro, che erano i padroni di queste grandi praterie, loro che vivevano in assoluto rispetto della natura che ritenevano sa cra, non hanno quasi più nulla. Ma proprio queste terre sulle quali viaggiamo ora sono le più famose. Qui vissero Cavallo Pazzo, Nuvola Rossa, Toro Seduto e altri grandi capi. Sono le terre che hanno visto le ultime battaglie per la sopravvivenza
degli indiani e l'inutile massacro della tribù di Piede Grosso che segnò poi la fine della loro resistenza.
La strada, dritta e deserta, taglia in due l'immensa distesa d'erba della prateria.
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La voce del nonno mi giunge debole. Sono assorto e triste. Il
mio sguardo vaga nella prateria: niente bisonti, niente villaggi indiani: solo una grande distesa d'erba senza vita. Come vorrei vedere un gruppo di cavalieri ornati con piume variopinte sfrecciare improvvisamente sui loro cavalli pezza ti, oppure una carovana indiana in trasferimento coi suoi tepeé7,
la lunga fila di cacciatori, dei guerrieri, delle donne seguite dai bambini e dai vecchi.
Lontano sull'orizzonte, colorate di una tenue luce azzurra, si
stagliano le Black Hills, le Colline Nere sacre agli indiani. -Eccole laggiù, Luca! Guarda come si alzano improvvise dalla prateria, nere di fitte pinete, simili a una grande isola al centro di un immenso mare d'erba! È veramente straordinario: mentre nella pianura in cui ci tro viamo la terra appare brulla e desolata, le Colline Nere sono percorse da fiumi, laghi e sorgenti, solcate da canyons8 sco
scesi, grandi pascoli e boschi ricchi di legname. Lassù, sulle cime più alte, leggendari stregoni Sioux, come Cavallo Pazzo, Toro Seduto e Alce Nero, si ritiravano in me
ditazione. Ancora oggi, per gli indiani, le Colline Nere restano sacre e la loro lotta per riaverle continua tuttora.
-Ma perché nonno? Perché non sono più proprietà degli in diani? - domando meravigliato e quasi arrabbiato. -AForte Laramie mi avevi detto che col trattato concluso proprio là,
nel 1868, nessun bianco avrebbe potuto stabilirsi od occupare qualsiasi parte del loro territorio! -E' vero — mi risponde il nonno - ma vedi, quattro anni dopo cominciò a correr voce che tra questi monti erano celate gran di quantità di oro... e allora una marea di gente vi si riversò senza tanti scrupoli. Le promesse fatte e firmate sul trattato si rivelarono fragili e senza importanza, come la carta sulla qua le erano state scritte. 16
Poi arrivò anche la cavalleria al comando del generale Custer
e le Colline Nere non furono più proprietà dei Sioux! - Ma nonno... è una tremenda ingiustizia, e tutto questo mi fa
una grande rabbia!
L'auto corre veloce sulla strada diritta che conduce ai piedi delle Colline Nere. Quando cominciamo a salire, subito il paesaggio cambia. Attraversiamo boschi e pascoli e costeg giamo laghi che sembrano angoli di Paradiso. All'orizzonte scorgiamo la montagna di Cavallo Pazzo, che sovrasta la prateria sottostante. Proprio lassù il grande capo dei Sioux Oglala, guerriero e uomo di medicina, era solito recarsi in cer
ca di visioni. Nella solitudine e nel digiuno egli trovava le risposte del Grande Spirito per guidare il suo popolo nella giu sta direzione.
r
Le Colline Nere sono oggi Parco Nazionale degli Stati Uniti e sono frequentate ogni anno da milioni di turisti.
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Alcuni grossi capi della mandria di bisonti che popola ancora i ricchi pascoli delle Colline Nere.
Continuando nel nostro giro ci imbattiamo in una mandria di bisonti, forse duecento o trecento, che pascolano indisturbati
nei prati ai lati della strada. Il nonno mi fa dei cenni con la mano: - Guarda quelli come sono grossi! Osserva la loro testa, la pelliccia, le corna, la loro imponenza. Adesso puoi capire come
per gli indiani rappresentassero tutto ciò di cui avevano biso gno. Questi animali erano la loro vita, la loro ricchezza! Le pelli diventavano coperte e teli per le tende; le ossa venivano trasformate in attrezzi, utensili, punte di frecce; i nervi in fili per cucire o corde per gli archi; la carne veniva mangiata cru da o cotta, oppure essiccata e trasformata in pemmican9; dagli zoccoli e dalle corna veniva ricavata una specie di colla per la confezione di oggetti o la costruzione di armi.
I bisonti pascolano tranquilli mangiando l'erba grassa della radura che si perde tra i boschi di larici e di pini. E' una scena calma, rilassante. Gli animali si muovono lentamente, alcuni 18
si accovacciano al sole, qualche piccolo tenta una breve corsa in cerca della madre. Restiamo un bel po' di tempo a osservar li e a godere la quiete del posto, ma ci teniamo a una certa distanza perchĂŠ potrebbero allarmarsi e diventare pericolosi. Scattiamo qualche fotografia poi, sempre salendo, abbando
niamo la vallata dei bisonti e ci addentriamo nel cuore delle Colline Nere. Mentre l'auto arranca verso la zona piĂš alta, il nonno mi spie ga: -Adesso che l'hai visto, puoi capire che importanza avesse questo posto per le tribĂš indiane. Qui si rifugiavano d'inver
no, al riparo dai venti freddi che spazzano la prateria e dalle tempeste di neve. In queste radure riparate dai monti, ogni tri bĂš trovava il posto ideale per costruire i suoi tepee. Legna e selvaggina erano abbondanti e gli indiani trascorrevano la brutta stagione cacciando e facendo scorte di legna per riscaldare le loro tende...
Poi, quando la primavera incominciava a rinverdire le prime gemme e le nevi si scioglievano, essi partivano dalle Colline Nere. Pazientemente smontavano i tepee, li caricavano sui travois10 e in lunghe carovane andavano incontro alla stagione
delle grandi cacce, sulla traccia delle mandrie di bisonti che ogni anno, come un sacro rito, percorrevano le stesse piste nella prateria. Prendo la mano del nonno e la stringo forte per l'emozione che mi assale. -Oh nonno! Ti ringrazio proprio di avermi mostrato questi
posti. Mi pare di tornare indietro nel tempo, quando gli indiani erano felici di vivere la loro vita.
Percorsi diversi chilometri, il nonno posteggia di nuovo l'auto
a lato della strada. Saliamo a piedi verso la cima di un pro montorio. Oggi fatico un po' a tenere il passo, ma me la cavo 19
abbastanza bene. In vetta giriamo tra rocce di granito simili a grandi dita protese verso il cielo. Da lassù il panorama lascia senza fiato. Ci sediamo tutti e due senza parlare. Sotto di noi la grande prateria si stende in tutte le direzioni... senza fine. Il sole tra monta mandando bagliori strani e un'insolita quiete avvolge
tutto il paesaggio. Non è difficile immaginare perché ancora oggi i giovani indiani vengono quassù a digiunare in cerca di visioni. Il nonno interrompe il lungo silenzio. - Ecco, Luca; abbiamo lasciato Fort Laramie e siamo arrivati fin qui, sulle Colline Nere. Ora, guardando verso le grandi montagne, possiamo scorgere le immense praterie dove sono state spinte le tribù indiane che non hanno mai accettato la sottomissione all'uomo bianco. Quelli che vedi sono gli ulti
mi tenitori di caccia, ormai privi delle grandi mandrie di bisonti, sterminate dai cacciatori bianchi.
Sopra il villaggio di Keystone si ergono le frastagliate guglie di granito sulle quali sono state scolpite le facce di quattro presidenti statunitensi: Washington, Jefferson, Lincoln e Roosevelt.
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Gli ultimi territori degli indiani Sioux Lakota si stendevano fino ai primi rilievi dei Monti Big Horn, in un'immensa distesa d'erba.
Braccati dalla cavalleria americana, gli indiani, armati ancora
di archi e frecce e pochi vecchi fucili, ridotti alla fame e alla disperazione, non avevano piĂš possibilitĂ di difesa. Forse solo pochi di essi se ne rendevano conto, ma il loro sistema di vita, la loro stessa cultura, stavano inesorabilmente per finire. Do mani andremo fino al Little Big Horn11, dove si svolse l'ulti
ma grande battaglia tra le tribĂš Sioux riunite e il Settimo Ca valleria guidato dal Generale Custer12. Il nonno indica con la mano un punto in lontananza dove la
prateria lambisce le prime alture che portano al parco dello Yellowstone.
- Certo che laggiĂš, al Little Big Horn, gli indiani si presero una bella rivincita! - esclama dandomi una pacca sulla spalla. Il sole allunga le ombre tingendole di rosso. Una leggera brez za soffia fra le macchie di ginepro e le rocce. Torniamo all'au to e lasciamo le Black Hills, con la sensazione di essere stati in un posto dove bellezza, pace, sicurezza quasi si possono toccare, tanto sono presenti. 21
Sabato, 31 agosto La macchina corre veloce sulla strada deserta che si perde sem pre dritta, tra il verde della prateria. - Dobbiamo ancora percorrere circa quattrocento chilometri
per arrivare al Little Big Horn. Guardati in giro perchĂŠ ne vale la pena.
Seguo il consiglio del nonno e mi immergo nei miei pensieri: la prateria è bellissima, forse la piÚ imponente vista finora, ricca di vallate e dolci promontori che si perdono lontano, uno dopo l'altro, in un paesaggio senza fine. Nelle vallate appaio
no boschetti di pioppi con i primi colori dell'autunno. Senza fatica riesco a immaginare come poteva essere stata la vita
degli indiani in questi luoghi stupendi. Avevano a disposizio ne tutto ciò che bastava alla loro esistenza: selvaggina, acqua, ombra e sole, pascoli a non finire. II nonno interrompe i miei pensieri.
Procedendo verso il luogo dove si svolse la battaglia, vediamo ancora in lontananza i rilievi delle Colline Nere.
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- Gli indiani si accampavano sempre vicino ai corsi d'acqua, a qualche lago o a qualche sorgente. In questa regione scorro
no tre fiumi: il Tongue13, il Powder14 e il Little Big Horn. Non sono tanto grossi per la verità, ma abbastanza per i bisogni
degli indiani e delle mandrie di cavalli che erano sempre con loro.
Al Little Big Horn, dove, nel giugno del 1876, ebbe luogo l'ul tima grande battaglia, i popoli indiani Sioux, Arapaho e Cheyennes, ormai senza più territori sicuri, ritenuti ostili e ri belli, sempre inseguiti dalla cavalleria, si erano radunati in un unico accampamento.
Una moltitudine di gente, di fuochi, di tende. Forse mille o duemila guerrieri con le loro famiglie, coi loro vecchi, cani e cavalli. Nessuno sa quanti. Tanti, soprattutto se paragonati ai normali campi indiani costituiti da trenta o quaranta tende.
Arriviamo al Little Big Horn verso mezzogiorno. Il nonno, dopo aver aggirato il caseggiato sede del museo, ferma l'auto in un'area di parcheggio.
A piedi raggiungiamo la sommità della collina dove un picco lo monumento ricorda la battaglia e il punto dove morì il ge nerale Custer.
Sul pendio, verso il basso, gruppi di basse lapidi di granito bianco segnano il posto dove furono trovati i corpi dei soldati caduti nello scontro. Ogni lapide un soldato, un nome scolpito nel sasso. Vi si può leggere, come in un libro, la storia della
battaglia. -Nonno, ti prego, raccontami ancora una volta il perché di tutto questo. -Ebbene Luca, occorre tornare indietro a quel tempo, anche se sono trascorsi appena cent'anni e vedere i fatti da due di verse angolazioni, da due modi diversi di pensare. Da una par23
GEORGE A.
CUSTER ilEUT. COEÒNEE BTT. "MA JOIT^ENEEÀE > ;.,7 B* $'* CAY*
UNE 2 5, Sulla sommità della collina un monumento in pietra ricorda la figura del generale Custer.
te gli americani: essi ritenevano loro diritto invadere questi territori senza confini, senza proprietari. Molta gente era sen za lavoro, pronta a qualsiasi tipo di avventura. C'era bisogno di qualcosa di eccitante. Una guerra contro gli indiani, pensa vano, non avrebbe poi fatto un gran danno, tanto prima o poi sarebbe arrivata...
Dall'altra un popolo orgoglioso, ridotto alla povertà e alla fame, sempre costretto a fuggire, ma risoluto a combattere fino alla
fine per difendere la propria terra e il proprio sistema di vita. Quando gli esploratori mandati in avanscoperta riferirono al generale Custer di aver avvistato il più grande campo indiano mai visto fino allora, egli pensò che l'occasione sognata da tanto tempo era finalmente arrivata. Un fulmineo attacco, il 24
valore e il coraggio dei suoi soldati, l'annientamento totale del nemico lo avrebbero coperto di gloria e di onori, aprendo gli tutte le strade per una vita di successo. Il nonno muove qualche passo poi continua il racconto. - Ecco, da qui puoi vedere bene dov'era situato il villaggio
indiano, laggiĂš, sulla riva destra del fiume. Un posto bellissi mo, nascosto dalle colline, ricco d'erba e legname per diversi
chilometri. Quando il generale lo individuò, divise il reggi mento in tre squadroni. Lasciò il primo, comandato dal capita no Benteen15, in una zona arretrata a una certa distanza dal campo, con le vettovaglie e le riserve di munizioni. Inviò il secondo, comandato dal maggiore Reno, a prendere posizione a sud del campo indiano e tenne il terzo direttamente ai suoi
ordini per attaccare il villaggio da nord, proprio da qui, dove siamo noi adesso.
Le lapidi, disseminate sulla collina, segnano i luoghi dove sono caduti i soldati del Settimo Cavalleria.
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Le ultime fasi della battaglia raffigurate in un quadro esposto nel museo del Big Horn. Al centro della mischia si intravede il generale Custer con la tipica giacca frangiata di pelle di daino.
Ma la manovra del maggiore Reno, per quanto distante dal campo, non passò inosservata. Gli indiani lo attaccarono in vicinanza del fiume, respingendolo fino al punto in cui stazio navano le truppe del maggiore Benteen. Poi strinsero d'asse dio entrambi gli squadroni, ormai isolati. Molti guerrieri tornarono poi al campo e affrontarono diretta mente lo squadrone di Custer che si accingeva ad assalire il villaggio da nord. Con poche, abili manovre lo circondarono, costringendolo a ritirarsi verso la cima di questa collina dalla
quale era impossibile fuggire. Soldati e cavalli non avevano piĂš scampo, e centinaia di frec ce venivano lanciate dal cerchio indiano che inesorabilmente si avvicinava e si stringeva come una morsa attorno a loro. A 26
uno a uno i 288 soldati dello squadrone del Settimo Cavalleria al comando del generale Custer caddero sotto i colpi dei Sioux, guidati da Toro Seduto e Cavallo Pazzo. L'assedio degli altri due squadroni durò ancora per qualche tempo, poi le tribù abbandonarono le posizioni e si dispersero come d'abitudine, seguendo ognuna un diverso destino. Toro Seduto e la sua gente si diressero verso il Canada, Cavallo Pazzo continuò per alcuni mesi la sua resistenza finché si arrese
a Forte Robinson, nel 1877. Le tribù Cheyennes guidate da Coltello Spuntato furono assalite dalla cavalleria del Generale Miles e costrette a rientrare nella riserva loro destinata. Ecco
come avvenne la battaglia del Little Big Horn, l'ultima della resistenza indiana! Rimango pensieroso a guardare il paesaggio. C'è un gran si lenzio attorno a noi. Una leggera brezza scuote le cime dei
pioppi, laggiù nel fondovalle. Qui, sulla collina, l'aria è quasi ferma.
Il nonno mi appoggia una mano sul capo, quasi volesse conso larmi. Il sole sta per tramontare.
Visitiamo il museo, dove sono state raccolte le testimonianze
della battaglia: divise di soldati, quella del generale Custer con le lunghe frange di pelle di daino, berretti, stivali, selle, pisto le, fucili, bonacce, coltelli d'ordinanza, proiettili. E poi anco ra copricapi indiani, vestiti, lance e archi, frecce e oggetti sa cri.
Su una parete è stata ricostruita, in un bellissimo plastico tridi mensionale, la dinamica della battaglia. Una storia che mi in segna che il più debole, anche se vince, è quasi sempre per dente. E questo mi rattrista.
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Lunedì, 2 settembre L'ultima tappa del nostro viaggio ci vede diretti verso Wounded Knee16, un piccolo villaggio nella riserva Sioux di Pine Ridge17 nel South Dakota18. Qui infatti finisce il nostro viaggio attra verso le grandi pianure e qui finì pure il sogno Sioux con l'ultimo feroce massacro di una tribù di indiani da parte del l'esercito degli Stati Uniti, il 29 dicembre del 1890. Un massa cro inutile, che diventò una vergogna per tutta l'America, ma
che cambiò ben poco i rapporti fra bianchi e pellerossa. A Pine Ridge entriamo in un negozio di artigianato locale. Il nonno mi compera una collana di perline con appesa una tar taruga di osso che mi metto subito al collo con una certa fie rezza. Non so, ma con la collana mi sembra di essere più vici no a questo popolo, di partecipare più intensamente a quanto
ha subito e di condividere l'orgoglio che lo ha sostenuto fino alla fine. —Adesso, Luca, andiamo a Wounded Knee, a circa una decina
di chilometri da qui. Sul posto ti racconterò tutto. Intanto im primiti questo scenario nella memoria, perché siamo in uno
dei luoghi più belli del South Dakota.
Il mio sguardo corre alle dolci colline che gradatamente mo dellano la prateria. Ogni tanto qualche macchia di alberi si staglia all'orizzonte, contro un cielo blu senza nuvole. Il pae saggio cambia continuamente, diventando sempre più armo nioso, privo di asperità. Il nonno intanto rallenta e ferma l'auto in un piazzale in terra battuta al centro del quale una targa commemorativa ricorda il massacro. Nuli'altro. Tutto è rimasto come allora, bello, ma tanto triste. Sembra che il tempo qui si sia fermato. 28
La semplice targa che ricorda i giorni del massacro è posta al centro del piazzale dove nel 1890 furono rizzate le tende della tribÚ di Piede Grosso.
Scendiamo dall'auto. Gironzolo un po', catturando con lo sguardo tutto quanto mi circonda. La storia del massacro la conosco. Il nonno me l'ha raccontata tante volte: la fuga della
tribĂš di Piede Grosso dalla riserva, l'inseguimento della ca valleria, il ritorno a Wounded Knee. Ho visto anche diverse
fotografie. Qui gli indiani, per la maggior parte donne, bambi ni e anziani, furono obbligati a rizzare le loro tende. Quel po meriggio un vento freddo spazzava la prateria a trenta gradi sotto zero, portando anche qualche fiocco di neve. Piede Grosso, malato di polmonite, fu deposto in un tepee cir
condato da soldati armati. Era l'immagine di un popolo sfinito dalle fatiche e dalla fame, distrutto nel morale.
Gli indiani stavano lĂŹ, immobili e tremanti, circondati da cin quecento soldati ben armati, ben nutriti, ben caldi sotto i loro
cappotti militari di lana blu. 29
I due pilastri bianchi e rossi sormontati da un arco di ferro segnano l'ingresso del cimitero di Wounded Knee.
La notte passò e al mattino del 29 dicembre i soldati circonda rono completamente il campo. Sulla collina vennero piazzati quattro cannoni con le bocche puntate sui tepee.
Dal posto di comando partì l'ordine di perquisire il campo alla ricerca di eventuali armi nascoste.
Poi si udì un colpo di fucile, partito da chissà dove, e si scate nò il finimondo. I soldati esplosero una prima raffica di colpi e una trentina di indiani si abbattè al suolo. Il fuoco continuò, incessante, fin che non un solo indiano rimase in piedi. Con temporaneamente anche i quattro cannoni cominciarono a spa rare. Saltarono in aria le tende con i teli squarciati, quindi i
proiettili si abbatterono sui pochi superstiti che tentavano di rifugiarsi negli anfratti del torrente. Improvvisamente tutto cessò. Il rumore delle armi tacque e solo il vento continuò a gemere tra quei trecento corpi senza vita sparsi sull'erba: guerrieri, vecchi, donne, bambini. - Nonno, ti prego, non dire nulla. Ho già visto tutto. So da dove hanno sparato, è tutto troppo evidente, troppo reale. Vie ni, saliamo al cimitero. 30
Il nonno mi prende per mano. Anche lui è rimasto pensieroso.
La strada sale verso la sommità della collina dove due pilastri sormontati da un arco di ferro segnano l'entrata del piccolo cimitero. Oltrepassiamo l'arco tenendoci per mano. Di fronte, circondata dalla rete metallica, c'è la fossa comune dove riposano le vittime del massacro. Un cippo al centro ne riporta fedelmente i nomi. Intorno al recinto sono disposte al tre tombe più recenti, con un contorno di assi o di sassi. E poi tanti nastri colorati di bianco, giallo, rosso e nero che signifi cano le Quattro Sacre Direzioni, sacchetti contenenti erbe medicinali, appesi un po' qui, un po' là, lungo il recinto e che il fruscio del vento fa svolazzare. Dall'alto della collina mi sembra di vedere tutto e nulla. E' strano, c'è qualcosa di vago e di anonimo nel luogo, qualcosa che sta a metà tra passato e presente, deprimente e confortante nello stesso tempo.
Legato alla rete metallica, appeso assieme ai nastri colorati, anche il mio braccialetto di cuoio tiene compagnia alle vittime del massacro.
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Cerco una risposta ma non la trovo, come se la natura avesse cospirato per cancellare ogni ricordo, per coprire ogni segno,
ogni dettaglio. Mentre discendo lentamente ho la sensazione di non poter par
tire senza aver lasciato lassĂš qualcosa che mi leghi a quel po polo. D'un tratto un'idea mi passa per la testa. Risalgo di corsa i pochi metri di strada in preda ad una forte emozione: devo
lasciare qualcosa di mio! Vicino al pilastro d'entrata mi slaccio il braccialetto di cuoio con inciso il mio nome e lo lego alla rete. Un colpo di brezza
lo solleva, mescolandolo alla moltitudine di nastri colorati che vibrano nell'aria. Rimango a guardarlo per un po', poi raggiungo l'auto. - Ora, nonno, possiamo partire.
Riprendiamo la strada che porta a Pine Ridge. Fra pochi giorni saremo a casa e ricomincerĂ la scuola.
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Elio Delucchi ha visitato di persona i luoghi di cui parla in questo racconto e ha vissuto le stesse emozioni di Luca. Le
fotografie, da lui scattate durante il viaggio, sono la testimo nianza di ciò che resta di un mondo cancellato dall'ingordigia dell'uomo bianco, nell'ingiusta lotta contro i nativi indiani. È una storia che purtroppo si ripete ancora oggi, in molte parti del mondo, quando gli interessi economici vengono posti al di sopra del rispetto dell'essere umano. È una guerra che non si fermerà fino a quando l'uomo continuerà a vedere nell'altro un ostacolo alle sue ambizioni.
Con "Gli indiani del bisonte" (ESG Ns 2068) l'Autore ci ha descritto il modo di vita degli indiani delle pianure, i primi abitanti delle immense distese dell'America del nord. Con questo racconto egli ci conduce nei luoghi più significativi della loro storia, una storia di promesse non mantenute che merita di essere ricordata.
Note: 1pronuncia "Far Uest"; significa lontano Ovest 2pronuncia "Uaiomingh" 3cacciatori di pellicce; tradotto letteralmente significa "colui che tende trappole" 4pronuncia "cao-boi"; significa mandriano, ragazzo (boy) delle mucche (cow) 5pronuncia "Goensi" 6strada, pista per l'Oregon 7tenda indiana originariamente coperta di pelli di bisonte; pronuncia "tipii" 8profonde e lunghe gole scavate dall'erosione dei fiumi 9il "pemmican" consisteva in fette di carne essiccate al sole e pestate con piccole mazze, mischiate con grasso, midollo e una pasta secca di ciliege selvatiche, schiacciate con tutti i semi; 10rudimentali slitte formate da due lunghi pali riuniti a "V" e trascinati da cavalli o da cani. 11pronuncia "Littel Bigh Horn" 12pronuncia "Caster" "pronuncia "Tongh" "pronuncia "Pooder" "pronuncia "Bentiin" "pronuncia "Vunded Nii" (ginocchio ferito) "pronuncia "Pain Rigg" (cresta di pino) "pronuncia "Saut Dakota" (sud del Dakota)
Elio Delucchi: Luca e il nonno nelle terreJ degli indiani d'America\ Serie: Narrativa1
Da 9 annij
Luca sta per cominciare un'avventura fantastica in compagnia del nonno: un viaggio nel Far West, attraverso le terre selvagge che un tempo furono
dominio incontrastato degli indiani, fino a quando l'uomo bianco impose la dura legge della violenza. Giorno dopo giorno Luca rivive le emozioni di un'epoca oramai scomparsa, durante la quale il Popolo Rosso oppose la piĂš strenua resistenza a un inutile e disumano sterminio. Attraverso le testimonianze che incontra, Luca impara a conoscere le usanze e i costumi degli
indiani d'America e capisce quali ingiustizie siano state commesse nei loro confronti.
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