Santino il guerriero

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Santino il guerriero Testo di Fausta Ghirlanda Copertina e illustrazioni di Anna Pacchin

ESG Edizioni Svizzere per la GioventĂš Zurigo

No 1895



Stavo leggendo il giornale che tenevo spiegato sul tavolo. Dalla finestra aperta è entrato il mio gatto. Senza esitare un istante, è saltato sul

tavolo, ha inarcato la coda, si è gonfiato il pelo ed è venuto a strofinarsi contro il mio viso.

Il mio bel gatto bianco e nero si chiama San tino. Con me si prende troppe confidenze. Ma la colpa è mia: gli ho sempre lasciato fare tutto quel che voleva. Per spingerlo sul bordo del tavolo, ho faticato non poco. Si è deciso a saltare sul pavi mento quando stava per perdere l'equilibrio. Per dimostrarmi che era indispettito, ha fatto un balzo sulla credenza. Lui avrebbe voluto stare accanto a me, ma allora tanto valeva che smet

tessi di leggere. Usando una zampina ben fornita di unghie, chi sa quante volte avrebbe tentato di sforacchiare la pagina del giornale, preso dal desiderio di veder buchi al posto delle parole. Con le sue belle maniere, lui crede di riuscire sempre a ottenere tutto. Stavolta, invece, le sue moine, le sue amorevoli zuccate non hanno sor tito l'effetto sperato.

Dalla credenza, Santino si è gettato sul ripiano di una mensola e ha infilato la finestra. Andrà sicuramente a cercarsi altri svaghi. Se uscissi in giardino, con molta probabilità lo tro verei intento a spiccare salti per tentare di acchiappare una farfalla che vola a mezz'aria, o

forse lo scoprirei seminascosto ai piedi di un cespuglio in paziente attesa che un merlo o un passero gli passi via sotto il naso.


L'età di Santino, quando io sono diventata la sua nuova padrona, era di circa un anno. Prima di venir accolto in casa mia, non avendo più nes suno su cui contare, il povero gatto era stato costretto a vagare solo per parecchi mesi. Senza

farsi scrupolo di abbandonarlo, la ragazza che si prendeva cura di lui, un brutto giorno, aveva chiuso porte e finestre ed era partita.

Dal momento in cui Santino è diventato mio ospite sono trascorsi tre anni. Con il passare del

tempo, la mia situazione famigliare è andata sensibilmente modificandosi: se non proprio tutte, molte cose le faccio tenendo soprattutto

conto delle esigenze del gatto. Rimane però vero che, ora, la sua presenza mi è diventata quasi

indispensabile.


Diventai la padrona di Santino in un modo davvero inconsueto.

Stavo tornando dalla passeggiata che ero solita fare tutte le sere dopo cena. Era già quasi buio quando giunsi davanti alla porta di casa. Mentre spingevo l'uscio, udii alle mie spalle un leggero miagolìo. Mi volsi sorpresa. Da dove proveniva quella vocina? Alla scarsa luce che mandava la lampada appesa sopra l'architrave,

intravidi, a pochi metri di distanza, un piccolo gatto che non osava avvicinarsi.

La bestiola tornò a miagolare. Non stentai a capire che aveva fame. Usando un po' di pa zienza, la convinsi a entrare in cucina. Non ci voleva un occhio molto esperto per accorgersi che aveva l'aspetto stento e l'aria mortificata. Le zampe magre e la schiena aguzza dicevano chia ramente che aveva patito la fame.

Benché fragile e lamentoso, mi resi subito conto che il mio piccolo ospite era bello. Un lucido pelo nero lo ricopriva dalla testa alla coda con una nota luminosa che riscattava la severità

del mantello: da tutto quel buio emergeva un musino bianco disegnato con tale precisione da parer opera della mano esperta di un pittore.

Bianco era pure il petto e bianche erano le zampe; quelle anteriori sembravano fornite di guanti; quelle posteriori parevano infilate in sti valetti candidi. Il gatto bianco e nero emise altri miagolìi. Si capiva che avrebbe mangiato non so che cosa,


tanto era affamato. Mi affrettai a cercare nel fri gorifero una fettina di carne. Dopo averla immersa nell'acqua calda per intiepidirla, la ridussi in pezzetti. Il gatto affamato divorò i pezzetti in men che non si dica. Finito di mangiare, con una zampina si pulì il muso, e poi stette lì a guardarmi, aspettando ordini. Mi guardava tranquillo, senza il malumore di quando aveva una fame che non ci vedeva. Non sapevo cosa

fare. Dovevo mostrargli la finestra e invitarlo a uscire? Per guadagnare tempo mi sedetti accanto al fuoco che mandava gli ultimi guizzi. Un momento dopo anche il gatto si stese accanto a me sul pavimento, tenendosi stretta la coda tra le zampe. Aveva le sue buone ragioni per compor tarsi così. Che la sua presenza non mi fosse sgra dita, non aveva stentato a capirlo. Fu questo suo

atteggiamento fiducioso che contribuì a farmi prendere la decisione della quale mi rallegro ancora oggi. Questo gatto pensai diventerà mio. Non è di nessuno: l'ho sentito dire da molti. Con me, però, dovrà imparare a dimenticare i topi, perché in autunno lo porterò nel mio appartamento in città. Dovrà abituarsi a man giare cibi in scatola per gatti e biscotti secchi. Farà i suoi bisogni non più raspando la terra dove gli capita, ma su un miscuglio di sabbia e pietrisco che si compera in certi negozi. Soddisfatta della decisione presa, mi chinai a ravvivare il fuoco. Fu allora che mi venne un

dubbio: Ma come farà questo gatto a dimenti-



care i topi? Non c'è il pericolo che diventi infe

lice? Mentre facevo questi ragionamenti, il gatto bianco e nero si alzò. Pensavo volesse addirittura venire a sedersi sulle mie ginocchia, invece saltò su una sedia e vi si accovacciò. Allungai una mano ad accarezzarlo e lui si mise subito a fare le fusa. E' contento, pensavo ha dimenticato i brutti mesi passati senza che nessuno si occu passe di lui. Non occorreva nemmeno tendere l'orecchio per accorgersi che il suo ron ron

andava facendosi sempre più intenso. Io conosco per filo e per segno le peripezie del mio gatto. Ho sentito parlarne in parecchie occasioni. Posso garantire che non sono dicerie.

Sebbene intessuta di fantasia, credo proprio che la sua storia non si scosti molto dal vero. Ora prendo a narrarla.

La ragazza Tina, che aveva portato via il gat tino alla sua mamma in primavera, quando si nutriva ancora di solo latte, non c'era più. Il poverino l'aveva cercata dappertutto: nell'orto,

nel cortile, dietro la casa, per le stradine del vil laggio. Non l'aveva trovata in nessun posto. La casa, che riteneva sua, non dava più segni di vita.

La povera bestia spiava le finestre anche di notte per vedere di scoprire un filo di luce che filtrasse dalle imposte sprangate. Ma dovette persuadersi che la casa, dove in passato veniva accolto con voci festose, era davvero disabitata.

Lo stimolo della fame non dava pace al gatto8


rimasto solo. Qualche topo di tanto in tanto, che ingoiava per intero, pelle, zampe e coda com presa, riempiva il gran vuoto che sentiva nello stomaco. Ma i topi erano disponibili in misura molto ridotta. Doveva stare notti intere ad aspet tare che uno di loro uscisse dal suo nascondiglio per vedere di trovare lui pure qualche cosa da mettere sotto i denti.

Il gatto abbandonato volle illudersi di poter rivedere Tina verso la fine di ottobre. In quei giorni tutti vanno in cimitero a portare fiori sulle tombe dei loro morti, ma lui mancava di informazioni precise: non sapeva che la ragazza non aveva tombe da ornare, perchĂŠ lei non aveva perso nemmeno un nonno. CosĂŹ non vide arri vare nessuno. E allora non ebbe altro da fare che

persuadersi di essere stato davvero abbandonato. Da quel momento la sua tristezza non fece altro che aumentare.

Avesse almeno potuto dimenticarla, la sua padroncina! Le aveva voluto troppo bene, e non ci riusciva. Non bastava che andasse ancora cer

candola qua e lĂ : qualche volta gli doveva acca dere di vederla perfino in sogno. Dopo un pasto, per un caso fortuito, abbondante, al riparo in qualche fienile, si addormentava come un sasso. Allora sognava cose che erano in aperto contra

sto con la realtĂ . Sognava di stare sulle ginocchia della ragazza che aveva avuto il coraggio di abbandonarlo. Quando si destava, per la rabbia si sarebbe morso una zampa. Si diceva: Se non


riesci a persuaderti che la ragazza che ti ha abbandonato non ha un briciolo di cuore, sei veramente stupido. Le giornate si accorciavano a vista d'occhio. Il

sole non si faceva quasi più vedere. Quando si levava il vento, il povero animale stava intirizzito

a guardare le foglie secche che volteggiavano allegre. Quella loro allegria era inconciliabile con la tristezza che lui sentiva nel cuore. Ai gatti

felici piace rincorrere ciò che si muove, ma a lui il volteggiare delle foglie secche non faceva altro che rabbia. Molto spesso la nebbia non riusciva a dissi parsi. Qualche volta essa diventava pioggia. Allora il gatto andava a cercare un angolo buio per vedere di assopirsi e di non pensare più a niente. In quelle giornate piene di rumori attu titi, gli pareva di essere in un altro mondo. Dov'era la spensieratezza dei ragazzi, il loro gri dare, il loro ridere per cose da niente? Nemmeno

il suono delle campane bastava a fare allegria in quelle umide giornate di novembre. Per colpa della fame che lo tormentava, il povero animale fu costretto a diventare un vero accattone. Aspettava che scendesse la notte. Usciva guardingo, perché oltre tutto aveva paura

di incontrare la volpe che gironzolava spesso lì intorno alla ricerca di qualche preda, e andava a rompere con le unghie i sacchi della spazzatura che la gente, certe sere, ammucchiava alla rinfusa

ai margini della strada principale. Spesso tro-

io


vava un osso che mordeva mordeva illudendosi di riuscire a far tacere la fame che gli sconvolgeva 10stomaco. Gli capitò anche di entrare in qual che pollaio a sottrarre cibo alle galline, le quali, per fortuna, lo lasciavano fare senza arrabbiarsi.

Ma un mattino, nel pollaio di Letizia, le cose non andarono lisce nemmeno per le galline. Durante la notte era piovuto e una pentola che

conteneva lunghi nastri bianchi, che risultarono essere tagliatelle, si era quasi riempita d'acqua. Le galline non avevano il becco abbastanza lungo per farcela a pescare sul fondo. Giravano

intorno alla pentola con aria sconsolata. Allora 11bravo animale, vincendo l'avversità che tutti i gatti nutrono per l'elemento acqua, immerse

una, due, tre volte la zampa in quel liquido gri giastro e riuscì a tirar fuori molti nastri bianchi, che però le galline gli portarono via di sotto il naso senza dargli il tempo di reagire. Lui finì per mangiare una sola strisciolina di pasta che per il suo stomaco vuoto risultò una miseria.

Una mattina, nel fienile dove era solito pas sare la notte, il gatto fu sorpreso di vedere uno

strano chiarore filtrare dalle fessure della porta. Uscì carponi dal pertugio che un topo, tempo addietro, aveva rosicchiato adattandolo quasi esattamente alle sue misure.

Fuori era tutto bianco. Dal cielo continua vano a scendere migliaia di stelline candide che si ammucchiavano silenziose per terra, sui muri,

11sui tetti, sugli alberi. Lo spettacolo era davvero


bello, ma lui aveva fame e si affrettò a dare una leccata a uno di quei fiocchi sperando fosse cibo. Si accorse subito che non era roba da mangiare e che, anzi, gli faceva rizzare il pelo tanto era fredda. Insomma, gli capitava una disgrazia dietro l'altra. Dov'era l'erba verde che calpestava felice

quando rincorreva i suoi fratellini? Dov'era l'estate? Tutti quei fiocchi bianchi, che conti nuavano a scendere lentamente, a lui non piace vano per niente. Penso sia un'impresa ardua per

chiunque riuscire ad apprezzare uno spettacolo bello a stomaco vuoto.

Arrivò la notte di Natale. Di prima sera, men tre le campane suonavano a festa, il gatto si addormentò e sognò un topo bianco. No, non era un topo. Guardando meglio, si accorse che era

un piccolo angelo con due alucce candide che battevano mollemente l'aria. Gli sembrò morto

di freddo e se lo strinse al petto. Questo sogno è molto bello, soprattutto se si considera che è il sogno di un gatto. Natural mente, l'ho inventato io. Mi è piaciuto immagi nare che la notte di Natale anche un gatto potesse avere il cuore buono. Più tardi, mentre le campane suonavano a

doppio, il gatto uscì dal suo solito rifugio e si avviò verso il centro del paese. Dovette fermarsi

più volte perché c'era gente che andava in fretta verso la chiesa, e parlottava tra il bavero del cap potto.12


C'era un cielo stellato. Soffiava una brezza cruda. Non c'era la luna, ma il biancore della neve faceva lume al paese.

Benché facesse freddo, il gatto si sentiva a suo agio. A un certo punto, sentì odore di pane appena sfornato. Qualcuno doveva aver messo

un pane fresco sul davanzale di una finestra per permettere a Gesù Bambino di ristorarsi le forze quando fosse passato a lasciare i suoi doni ai bambini di quella casa. Senza doverlo a lungo cercare, trovò il davanzale che una mano gentile

aveva ornato con rametti di agrifoglio. Sul ripiano, a destra, c'era un bel cartoccio di sale destinato all'asinelio; a sinistra, c'era un pane, neppure tanto piccolo, che mandava intorno un

profumo delizioso. Il gatto affamato addentò il pane, convinto che qualcuno l'avesse messo sul davanzale appo sta per lui.

Quella notte dormì benissimo: lo stomaco pieno gli aveva conciliato immediatamente il sonno.

La mattina, quando si destò, c'era già il sole nell'aria. Ingenuo com'era, pensò che da allora

in poi, avrebbe trovato tutte le sere il pane sul medesimo davanzale.

Quella stessa sera, giunse davanti alla finestra ben nota quasi di corsa. Non riusciva a riaversi:

le imposte erano chiuse. Dovette dire addio alla piccola felicità appena intravista. 13Ci fu ancora freddo, neve, pioggia, vento vio-



lento che scoteva la porta del fienile dove il pic colo gatto stava acquattato.

Un pomeriggio accadde qualcosa di nuovo. Il gatto vide passare davanti al suo rifugio alcuni bambini mascherati. Felici di indossare abiti variopinti e di mostrare visini tinti di carbone, essi andavano in giro per le strade fangose del villaggio gridando a tutti che era carnevale e che si doveva stare allegri. Ma il piccolo gatto allegro non era, anzi, quelle voci festose lo facevano sen tire ancora più solo. A rallegrarlo un momento

fu un bambino rimasto indietro, mascherato da gatto, che si mise a correre per paura di perdere di vista i compagni. Passò altro tempo. Finalmente, arrivò la pri mavera. Il nostro gatto non immaginava che con

l'arrivo della bella stagione la sua vita di gatto randagio avrebbe avuto termine. Lui sapeva solo

che in primavera le giornate diventavano più lunghe e che il sole riusciva quasi sempre a scac ciare la nuvolaglia dal cielo. Non aveva la minima idea della fortuna che gli sarebbe capi tata una sera d'aprile. Era già buio quando, sulla porta di una casa che non si trovava molto lon tana dal suo rifugio, incontrò una persona che

intendeva occuparsi seriamente di lui. Conside rato che moriva di fame, alla vista di quella per sona mandò fuori un miagolìo che assomigliava al pianto sommesso di un bambino. Fu proprio il pianto sommesso del piccolo 15

gatto che mi indusse, quella stessa sera, a diven-


tare la sua nuova padrona. Convinsi la povera

bestia a entrare in cucina. Le diedi da mangiare i pezzetti di carne di cui ho già parlato, e le permisi di accoccolarsi accanto al fuoco a goderne il tepore.

A partire da quella sera il gatto randagio diventò mio. Gli trovai un nome che giudicai adatto a lui: lo chiamai Santino. Siccome cono scevo a fondo le sue peripezie, ci tenevo che

potesse godere subito di qualche agio. Soprat tutto, non volevo che continuasse ad andare a

dormire nei fienili. Desideravo che passasse la notte in casa, per cui mi detti da fare per prepa rargli in fretta un giaciglio che fosse più confor tevole del suo abituale. In solaio trovai una cesta intessuta di vimini che faceva al caso mio. Rinvenni in un cassettone

un piumino della grandezza che desideravo. Por tai la cesta, nella quale avevo sistemato con cura

il piumino, in un locale che ci serviva da riposti glio e che aveva una porta che dava sul giardino. A questa porta feci praticare una piccola aper tura, così che il gatto potesse andare e venire a suo piacimento.

Quel che mi stupì, fu la rapidità con la quale il gatto decise di dormire nella cesta. Temevo che il lettino morbido e pulito che gli avevo prepa rato non gli andasse a genio, invece, già a partire dalla prima sera, vi si rannicchiò senza titubanze, come fosse stato il suo covo di sempre.

Santino prese subito alcune buone abitudini.

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La mattina, per fare un esempio, veniva, quasi

sempre alla stessa ora, alla finestra della cucina a chiedere la sua colazione. Poi, se non gli andava di rimanere in giardino, saltava un muretto e scompariva tra i cespugli che costeggiavano una fila di orti. In quelle occasioni, stava assente tutta la mattinata. Riappariva puntualmente verso mezzogiorno. Gli era tornata, a quell'ora,

la voglia di mangiare. Se la finestra della cucina era chiusa, si metteva a grattare i vetri aspettando che qualcuno venisse ad aprirgli. Il pomeriggio, invece, Santino era solito pas sarlo in giardino. Pareva che avesse sempre un gran sonno. Stava, con gli occhi chiusi, ora acco

vacciato ai piedi di un cespuglio, ora lungo di steso sulla catasta della legna. Ma le sue erano tutte finzioni. Bastava che un passero venisse a

posarsi su un ramo basso della siepe di lauro per chĂŠ fosse subito in piedi, piĂš sveglio che mai, pronto a spiccare salti come un acrobata.

Non avevo rimproveri veri e propri da muo vere a Santino. Mi pareva, anzi, che tutto proce

desse per il meglio. La nostra vita in comune si svolgeva tranquilla, senza motivi di disaccordo di qualche rilievo. Ma, quando meno me l'aspettavo, Santino mi

combinò un guaio: portò via il mio orologio da polso.

Prima di lavare la lattuga per il nostro desi nare, avevo levato l'orologio e l'avevo posato su 17

uno scrigno che stava accostato al muro dall'ai-


tra parte del lavandino. Santino, allegro e spen sierato, era andato innanzi e indietro dalla fine stra aperta non so quante volte. Dopo un po' non

si era più fatto vedere. Quand'ebbi finito di lavare la lattuga, mi accorsi che il mio orologio non c'era più. Que sto misfatto è di sicuro opera di Santino, pensai. Uscii in giardino. Il gatto non c'era. Percorsi

lo spiazzo verde in lungo e in largo parecchie volte. Guardai tra i fiori delle aiuole. Mi chinai a dare un'occhiata sotto i cespugli. Finalmente trovai il mio orologio abbandonato ai piedi del rosmarino. Aveva il cinturino, che era bianco,

sporco di terra e mezzo mordicchiato. Però il vetro era intatto e le lancette proseguivano, senza danno apparente, il loro cammino.

Ci misi poco a capire quale fosse stato l'in tento di Santino: voleva esaminare a fondo quel piccolo oggetto lucente che non si stancava di fare tic tac. Qui dentro c'è qualcosa di vivo, deve aver pensato. Con quel piccolo oggetto

immaginava di potersi divertire tutto il pome riggio, senza dover cercare altri espedienti.

Per fortuna, disponevo di una buona dose di indulgenza. Per il suo dispetto, il mio gatto era già perdonato. Da alcuni giorni, avevo notato che nei prati intorno a casa vagava un coniglio nero. Le sue

orecchie lunghe e diritte scomparivano soltanto quando si abbassava a rosicchiare il trifoglio. Visto da vicino, pareva sempre che ridesse: sco-

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priva i due incisivi con ritmo svelto e regolare. Un pomeriggio il coniglio nero passò attra verso le sbarre del cancello e venne nel nostro giardino. Santino, che sonnecchiava sotto un


cespuglio, si alzò e gli andò incontro. Non mi aspettavo che gli facesse un'accoglienza tanto

calorosa. Lo annusò lungo il dorso e gli dette una leccatina sulla testa. Poi, con gran calma, gli

misurò le orecchie. Appoggiò il suo naso alla base della prima e salì, annusando piano piano, su su fino alla punta. Rifece puntualmente la stessa operazione con la seconda. Poi stette lì in

ammirazione di quelle strane orecchie tanto diverse dalle sue.

Il coniglio si era lasciato esaminare senza mostrare malumore. A un certo punto, anche lui

volle approfondire la conoscenza del suo nuovo amico. Ma cominciò in maniera sbagliata. Ebbe la malaugurata idea di annusarlo sotto la coda.

Santino ritenne di star subendo un esame oltrag gioso. Gli girò stizzito la schiena e si allontanò. Il coniglietto non dette importanza all'im provviso farsi indietro del gatto. Con alcuni salti, raggiunse la porta che dava all'interno.

Invece di fermarsi sulla soglia, la oltrepassò di sinvolto. Santino si mostrò sorpreso. Quel pic colo intruso nero entrava in casa sua? Prese una

rapida decisione: corse a mettersi a lato dell'u scio. Il suo atteggiamento diceva chiaramente: Ora ti aggiusto io. Infatti, quando il coniglio tornò indietro, lo sfiorò con una zampata. Credo di non sbagliare se interpreto la sua reazione nel modo seguente: Caro mio, in giardino ti per metto di venire, ma entrare in casa significa comportarsi da vero prepotente. Cosa credi? La

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casa è mia. Tu, da qualche parte, avrai pure la tua

gabbia. Il coniglietto, per niente offeso, tornò altre volte a far visita a Santino. A partire da un certo momento, non lo vedemmo piÚ. Qualcuno ci

disse che il poverino era finito in bocca alla volpe. Venne l'estate. Santino, essendo di pelo nero,

pativa facilmente il caldo, per cui non si stendeva piĂš al sole come era solito fare in primavera. A leccarsi il pelo, stava sotto la tettoia, ai piedi della catasta della legna. Di mattina, prima che il sole si mettesse a scottare, faceva un salto in

fondo al giardino a mangiare certi fili d'erba che,

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a giudicare dall'avidità con cui se ne cibava, dovevano essere di gusto delizioso. Prima di riti rarsi di nuovo al fresco sotto la tettoia, non per

deva l'occasione di dare la caccia a qualche pic cola cavalletta verde che saltellava, ignara del pericolo a cui andava incontro, tra l'erba del nostro giardino. Santino non si faceva il minimo scrupolo a uccidere quelle minuscole creature.

Benché le poverine avessero la possibilità di spiccare qualche piccolo volo, per loro non c'era

scampo: finivano inesorabilmente sotto i suoi denti.

Non sempre il comportamento di Santino era immune da critiche. Capitava abbastanza spesso che il mio caro gatto mi procurasse qualche vera delusione. Un pomeriggio lottai a lungo con lui per sottrargli un povero topino. Il briccone si divertiva a rincorrerlo. Quando riusciva a sco varlo tra l'erba, lo buttava per aria come una

palla. Un altro giorno aiutai una piccola lucer tola a mettersi in salvo: faceva pena vederla cor rere qua e là alla disperata ricerca di un nascon diglio. Priva ormai della coda, riuscì finalmente a ficcarsi in un buco. Mi capitò anche di dover portare aiuto a un uccellino caduto dal nido, che i suoi genitori avevano costruito sotto la gronda.

Dopo ognuna di queste prodezze, davo a San tino una lavata di capo, che però non serviva a niente. Bastava che un animaletto si movesse tra

l'erba per far sì che il gatto spiccasse un salto. Il gioco crudele cominciava immediatamente.22


Santino, certo, si sarebbe giustificato asse rendo: Sono, o non sono, un gatto? Se tu

riuscissi a soffocare i miei istinti, di un gatto a me non rimarrebbe che il pelo. Che piacere provere sti ad accarezzare un animale che non avesse piĂš la sua vera anima? Quand'ero una ragazzina amavo moltissimo i

festeggiamenti che si svolgevano il primo di agosto per ricordare il natale della patria. Con i miei compagni, percorrevo la pineta in lungo e in largo alla ricerca di rami secchi, che la sera sarebbero stati allegramente travolti dalle fiamme del falò che veniva acceso in mezzo alla piazza del villaggio. Finito di trascinare rami, era inevitabile che le gambe di noi ragazzi mostras sero qualche graffio, ma nessuno pensava a


lamentarsi. Dal divertente trambusto il nostro

entusiasmo per i festeggiamenti imminenti usciva rafforzato. Contribuiva a eccitarci anche

l'odore di resina che le nostre mani e i nostri abiti conservavano a lungo.

Quando poi venivano accesi i fuochi d'artifi cio, noi piccoli ci sentivamo invadere da un tale senso di leggerezza da farci immaginare di poter quasi volare. Cantavamo tutti insieme l'Inno

patrio con lo slancio che a scuola la maestra non riusciva a infonderci.

Ora io non amo più i festeggiamenti del primo di agosto. Gli scoppi, soprattutto, mi scuotono, mi turbano. Non è che il mio senti

mento patriottico risulti incrinato, tuttavia, quando le bandiere ritornano nei loro ripostigli, tiro un sospiro di sollievo. La colpa di questo mutamento è tutta di Santino. Dopo gli affanni che il mio gatto mi procurò il giorno del natale della patria, la penultima estate, fosse in mio potere, proibirei almeno gli scoppi e gli spari. Quel giorno Santino partì, come gli accade va di fare di tanto in tanto, subito dopo cola zione. Nessuno immaginava che già nel corso

della mattinata alcuni ragazzi, miei vicini di casa, impazienti come sono tutti i ragazzi a quel l'età, dessero inizio a sonore esplosioni, con il bel risultato di ferirci le orecchie innanzi tempo. Di solito Santino tornava a casa verso mezzo giorno. In quell'occasione non si fece vedere.

La sera, dopo il suono delle campane, gli

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scoppi e gli spari aumentarono di intensitĂ e finirono per riempire di frastuono la valle. Si capisce che il gatto non osasse uscire allo sco perto. E se qualcuno gli avesse sparato a tradi mento? Non aveva nessuna voglia, lui, di farsi ammazzare. Meglio valeva passare la notte fuori di casa. Mi coricai verso mezzanotte dopo aver allun

gato il collo dalla finestra innumerevoli volte. Mi infastidiva l'idea che Santino fosse tanto spa ventato da non avere il coraggio di scavalcare qualche muretto e di percorrere le solite stradine. A letto, non riuscivo a prendere sonno. Nel corso della notte scesi in cucina almeno tre volte. La finestra era sempre aperta, ma del mio gatto non c'era nemmeno l'ombra. Cominciavo a

temere che gli fosse capitata una disgrazia. Mi alzai verso le sette. Santino non era ancora tornato. Finalmente, alle otto, annunciò il suo ritorno con un miagolÏo lamentoso. Penso che

quella insolita miagolata significasse: Ho avuto tanta paura. Le montagne tremavano. Il

cielo si incendiava come durante i temporali. Il frastuono era tale che mi costringeva a tapparmi le orecchie. Mi è mancato il coraggio di abban donare il mio rifugio. Ero certo che qualcuno avesse intenzione di ammazzarmi. Perfino i pipi strelli, appesi a una trave sopra il mio capo, rinunciarono all'idea di uscire in cerca di cibo. Di aver fame, io mi accorgo soltanto ora.

25Per alcune settimane Santino non mi dette


preoccupazioni di sorta. Stava volentieri in giar dino a leccarsi il pelo e a mordicchiarsi le zampe. Ma una mattina, con mia grande sorpresa, si

esibÏ in uno spettacolo sensazionale: portò in cucina, trattenendolo con i denti per la pelle del dorso, un grosso topo. Lo depose nel piatto che

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Tutto cominciò cosÏ: una gattinà di color bianco-argento si innamorò di Santino. Veniva a trovarlo ogni sera. I due gatti passavano insieme la notte in giardino. Le loro miagolate, piÚ che a dialoghi fra innamorati, facevano pensare a sonori litigi. La musica poco gradevole conti nuava per buona parte della notte. Solo verso

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l'alba subentrava la calma che favoriva, final mente, il nostro riposo.

Certe volte la gattinĂ veniva a trovare Santino anche di giorno. In quel periodo, in cielo volava spesso un grande elicottero, che aveva il compito di portare materiale da costruzione su un monte

le cui rocce scendevano a lambire il paese. Il gran rombo che mandava la macchina volante scĂłteva

la valle. Santino, con un balzo, si rifugiava in casa. La gattinĂ non si moveva. Stava immobile nella sua abituale posa seducente. Innamorata com'era, il rombo dell'elicottero, lei, non lo sen tiva nemmeno.

Un pomeriggio irruppe in giardino un gatto del vicinato. Era un maschio dal pelame grigionerastro chiazzato qua e lĂ di rossiccio. Il suo muso, mezzo chiaro e mezzo scuro, aveva un che


di nemico. La micia di color bianco-argento

finse di non vederlo: continuò a leccarsi la zampa destra con esemplare diligenza. Santino, che seguiva, con qualche fremito, il chiacchiericcio dei passeri saltellanti sui fili della luce elettrica, balzò in piedi e, per niente impressionato, affrontò l'intruso. Cosa si permetteva? Veniva a importunare la sua compagna? Il gattaccio, un po' sorpreso, ritenne opportuno tornar via senza mettersi a litigare. Santino, di parere contrario, lo seguì.

I due gatti si affrontarono in un prato poco distante. Non si trattò di uno scontro da burla. A

giudicare dai miagolìi rabbiosi che si udirono, dovettero fioccare botte da orbi. Quando ricomparve, Santino aveva l'aria

soddisfatta. Il duello si era concluso riservando a lui la vittoria. Sulla punta del suo orecchio sini stro brillava però una gocciolina di sangue. Risultava evidente che nell'animo del mio gatto andava maturando una passione nuova, niente affatto rassicurante.

Certe volte pareva che Santino dormisse di un sonno profondo. All'improvviso dava in smanie: si gonfiava il pelo, scuoteva i baffi, estraeva le unghie, mostrava i denti come se volesse avven tarsi contro qualcuno. Sognava certamente di avere di fronte un nemico.

Passai davanti alla dimora del gatto che si era battuto in duello con Santino il pomeriggio del giorno successivo allo scontro. Il maschio dal

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pelame scuro riposava a lato della porta di casa.

Benché mi sembrasse svagato, gli lanciai ugualmente uno scherzoso Ciao, gatto! Ma mi

sbagliavo: svagato non era. Ebbi appena il tempo di volgergli le spalle che sentii un morso rabbioso trafiggermi il polpaccio destro e una graffiata lacerarmi la caviglia. Vidi la bestiaccia sgattaiolare via e svanire tra i cespugli del suo giardino. Il furfante si era vendicato su di me della sconfitta che Santino gli aveva inflitto il giorno prima.

Tornai di corsa a casa con la gamba che gron dava sangue. Disinfettai con cura le ferite e le avvolsi con bende sterili. Siccome alcuni mesi prima ero stata vaccinata contro il tetano,

almeno in rapporto a un'infezione di questo genere ero tranquilla. Ma ero in ansia, anzi, tre

pidavo per un'altra ragione. E se il gatto fosse stato idrofobo? Il veterinario, al quale telefonai subito, disse: In valle non c'è stato finora nessun caso di rabbia. Occorre, in ogni modo, prudenza.

Innanzi tutto è necessario tener d'occhio il gatto responsabile dell'aggressione: se entro otto o dieci giorni dovesse morire, questo significhe rebbe che l'animale era senz'altro idrofobo. Dentro di me l'ansia aumentava con il passare

dei giorni. Di aver paura, mi rendevo conto soprattutto di notte. Non riuscivo a dormire. Mi assopivo un momento, ma bastava uno scric

chiolìo da niente per farmi ritornare più sveglia di prima.


Che la mia fosse una situazione di grave disa gio, lo seppe tutto il paese. L'unico a non

accorgersi di niente fu Santino. Dopo dieci giorni di affannosa incertezza, tirai un sospiro di sollievo: il gattaccio con chiazze rossicce sul dorso era sempre vivo.

Fu allora che un pensiero tutt'altro che alle gro mi attraversò la mente: Al mondo ci sono gatti buoni e gatti cattivi, proprio come c'è gente buona e gente cattiva. Sarebbe certamente più facile vivere se tutti gli animali e tutti gli uomini fossero buoni.

Per parecchi giorni mantenni con Santino un atteggiamento riservato. Cercavo di schivarlo. Per colpa sua avevo ancora la gamba destra

fasciata. La ferita al polpaccio stentava a rimar ginarsi. Di notte mi faceva male, così che, invece

di chiudere gli occhi lambita dal sonno, mi struggevo a contare le ore che l'orologio del campanile scandiva con calma irritante.

Infine la ferita guarì. La cicatrice, al contra rio, continuava a mostrare brutti margini blua stri. Essi, ora, si sono schiariti, ma la cicatrice

rimane ben visibile. Probabilmente questo segno non scomparirà più. Non mi riuscì di ignorare a lungo Santino. Svanito il mio malumore insieme con il dolore provocato dal morso alla gamba, tornai a prodi gare al mio gatto carezze e complimenti, ma lui, contrariamente al desiderio di effusioni che mostrava in passato, si affrettava a svincolarsi

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dalle mie strette. Non stentai a capire quale fosse la ragione di tanta fretta: aveva il tempo contato. Dopo la gattinĂ di color bianco-argento, vidi arrivare in giardino una bellissima micia rossic cia. Con quest'ultima capitava anche che San tino si assentasse per giornate intere.

Non contento delle gattine che lo attornia vano, il nostro furbacchione, faceva, ogni tanto,

una scappata all'asilo per i gatti, che sorgeva un po' fuori del paese. Quando riuscivo a scoprire le sue intenzioni, lo seguivo per tentare di fargli cambiare direzione. Mi faceva dispetto che andasse a ficcare il suo muso tra i fili intrecciati della rete metallica che circondava il rifugio. I poveri gatti rinchiusi lo guardavano con occhi pieni di invidia.


Benché certe volte facesse cose che io non

approvavo, devo però dire che, in fondo, Santino non era cattivo. Si capisce che non potesse rifiu

tare la lotta quando si trattava di impedire a un rivale di portargli via la compagna: l'avesse fatto, avrebbe perso la reputazione di gatto coraggioso. Ciò che contava era che, all'occorrenza, sapeva mostrarsi addirittura buono. Con mia grande sorpresa, una mattina permise a un

gatto sconosciuto di mangiare il cibo rimasto nel suo piatto. Capitò infatti che dalla finestra aperta balzasse in cucina un giovane maschio

affamato. Santino si fece in disparte. Stette tran quillo a vedere il gatto sconosciuto riempirsi lo stomaco con gli avanzi della sua colazione.

La bestiola si rifece viva il giorno seguente. Alla presenza di Santino mangiò ancora una volta, con una fame da lupi, il cibo rimasto nel piatto del suo ospite. Che il povero animale si fosse smarrito, lo venni presto a sapere. Giovane com'era, non trovava più la strada per recarsi

all'estremità del paese dove stava di casa con i suoi padroni, i quali furono lieti di ritrovarlo, sano e salvo, nel nostro giardino. Un giorno d'autunno, ancora luminoso di

sole, infilai Santino in una gabbia di vimini, che posai sul sedile dell'automobile accanto al mio. Avevo deciso di portarlo in città. Il povero gatto miagolò lungo tutto il percorso. Sembrava che piangesse. Avevo un bel dirgli: Non piangere, siamo quasi arrivati. Non c'era verso di farlo

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smettere. Forse piangeva perché aveva capito che

lo portavo lontano dai luoghi che amava. Soprattutto credo avesse intuito che doveva dire addio alla sconfinata libertà di cui aveva goduto fino a quel momento.

In città trattai Santino come un signore. Oltre ai buoni bocconi che gli davo per consolarlo, andai subito a comperargli un recipiente di ter racotta nel quale era cresciuta un'erba di un

verde così intenso da sembrare dipinta. Con mio disappunto, alla povera erba voltò le spalle senza neppure annusarla. Per tentare di svagarlo, gli regalai una palla di stoffa. Non ebbi successo: con un colpetto svogliato la mandò

subito a finire sotto un mobile. Mostrò invece di gradire moltissimo una cassetta, che gli conve niva come dimensioni, nella quale entrava

spesso a graffiarne energicamente il fondo. Per Natale riportai Santino al paese. Il tempo era mite. In cielo non vagavano nuvole. Le cime dei monti apparivano appena spruzzolate di neve. Nelle selve, accanto ai castagni che mostravano i

rami quasi nudi, si vedeva ancora qualche albero tinto di rosso e di giallo, che l'autunno non era riuscito a spogliare. Negli spacchi degli alberi, i ghiri rosicchiavano spensierati noci e castagne, convinti che il freddo non sarebbe venuto.

Il nostro giardino, ormai privo di fiori, faceva però sfoggio delle belle bacche vermiglie di cui erano zeppi alcuni agrifogli. 35Santino riallacciò subito i legami amorosi


con la gatta rossa che veniva ogni giorno a tro varlo prima che partisse. I due innamorati pas savano buona parte della notte in giardino a intrecciare i loro miagolÏi al chiaro di luna. Di giorno li vedevo spesso dormire di gusto, spro fondati nel piumino della cesta. Si capisce: dove vano rifarsi le forze consumate nelle ore di veglia. Dopo l'Epifania riportai Santino in città . La vita in comune nel nostro appartamento tornò a

svolgersi con il ritmo regolare di prima. All'inizio fui un po' in disaccordo con il mio gatto per via delle poltrone. Lui avrebbe voluto disporre a suo piacimento di tutte, mentre io avevo deciso che ne usasse una sola. Per quella

che gli avevo destinato, chiesi al tappezziere di cucirmi una copertina di velluto. Un tessuto piĂš morbido al tatto Santino non poteva desiderarlo, tuttavia ebbi qualche difficoltĂ a insegnargli su quale poltrona volevo che si mettesse a schiac ciare i suoi sonnellini. Per amore di Santino si dovette sopportare qualche piccolo incomodo: fu necessario lasciare semichiusa la porta di un locale di servizio, dal quale, saltando attraverso una finestra, il gatto poteva raggiungere il terrazzo. Nessuno ebbe a

lagnarsi del filo di aria fredda che entrava dalla finestra non bene accostata. Il risultato fu che nei

locali non si sentirono mai odori sgradevoli. Santino amava la vista che si godeva dal ter razzo. Stava ore accoccolato sul cuscino di una

poltroncina di vimini a guardarsi in giro. Vedeva

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il lago con le onde che si rincorrevano; i battelli che solcavano la distesa azzurra; le montagne con

le cime coperte di neve. Di sera, le luci della città lo incantavano.

Un altro vantaggio, che il gatto mostrava di tenere in gran conto, era quello di potersi sten dere in terrazzo, in pieno inverno, a godere il

tepore del sole. Quando rientrava nell'apparta mento, il suo pelo, oltre a essere più del solito morbido al tatto, scaldava anche la dita di chi lo accarezzava.

Tornammo nella casa di campagna all'inizio della primavera. Santino fu felice di ritrovare per intero la sua libertà. In giardino non si accorse neppure che l'erba era rispuntata verdissima e che certe aiuole erano piene di primule e di viole. Andò in giro con il muso basso ad annusare qua e là. Annusò insospettito un ceppo che sporgeva dalla catasta, un ramoscello secco staccatosi dal

prugno, un sasso arrivato in giardino chi sa da dove. Voleva sapere quanti gatti erano venuti a cercarlo durante la sua assenza. Finito l'esame,

alzò gli occhi ai passeri che saltellavano sulla grondaia. La malizia, che i poverini lesserò in quell'occhiata, li fece rabbrividire: era ritornato l'animale che, di tanto in tanto, osava attentare alla loro vita.

La gatta rossa, che amava Santino già da alcuni mesi, si rifece viva immediatamente. Tor-

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nò subito a dormire nella cesta insieme con lui.



Per non irritare troppo il suo padrone, andava però sempre a mangiare a casa sua.

Anche nella vita dei gatti capita ogni tanto un avvenimento lieto. Il mio stupore fu grande il mattino in cui scoprii, nella cesta dove erano soliti passare la notte la Rossina (questo era il nome della gatta) e Santino, due micini appena nati. Benché ne avessi vivo il desiderio, non li potei guardare da vicino: la loro mamma si mise a soffiare stizzosa intimandomi di non acco starmi.

Dopo la nascita dei due gattini, non riuscii a sapere dove Santino passasse la notte. Per un po'

di tempo fui certa che la Rossina potè disporre dell'intera cesta per sé e per i nuovi nati. I due animaletti crescevano a vista d'occhio.

Un giorno che la Rossina era uscita, li potei esaminare da vicino. Erano gattini tigrati a stri sce alterne di tinta chiara e scura.

Non capita spesso di vedere animaletti tanto graziosi. Si movevano con leggerezza aerea.

Quando chiamavano la mamma, le loro vocine sembravano uscire dalle corde di un violino. La Rossina me li lasciò presto accarezzare. Mi per mise anche di far loro bere il latte da uno scodel lino. Era divertente stare a osservarli: di tanto in tanto lasciavano cadere il musino nel latte; si affrettavano a rialzarlo e a dargli una scrollatina, spruzzando liquido da tutte le parti. Una sera Santino tornò a dormire nella cesta insieme con la Rossina. Siccome ebbi modo di


accorgermene, entrai nel locale riservato ai gatti con cautela, badando di non fare rumore. San tino e la gatta, stesi sul piumino l'uno accanto

all'altra, tenevano i due gattini stretti tra le loro zampe. La scena era davvero lieta. Se in tutte le

famiglie degli uomini regnasse questa pace, al mondo ci sarebbero solo bambini felici, pensai. Tornai via rallegrata.

Ma la felicità non è duratura nemmeno per i gatti. Un giorno la Rossina decise di portare a spasso i due micini. Uscita dalle sbarre del can cello, stava avviandosi per un sentierino che si

perdeva nei prati, quando la vidi ritornare in fretta sui suoi passi. In fondo al sentiero era apparso un gatto bianco che aveva la trista fama di essere un assassino. La gente diceva che negli ultimi tempi aveva ucciso, con vera ferocia, una mezza dozzina di gattini. Non so come facesse la

Rossina a sapere queste cose. Il fatto è che riportò subito i due micini nella cesta. Prima di tornar fuori, raccomandò certamente loro di non muo versi per nessuna ragione. Uscì in giardino con il pelo irto e le orecchie ritte. Per fortuna, a fron

teggiare il gatto crudele c'era già Santino. Il gatto bianco non aveva intenzione di liti gare: il suo scopo era un altro. Uscì svelto dalle

sbarre del cancello. Santino lo seguì. Corsi sulla strada per vedere dove sarebbero andati i due gatti a saldare la partita. Il primo si dirigeva verso un gruppo di stalle, il secondo lo seguiva minaccioso. Non era il momento di scherzare. Il

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procedere ardito di Santino diceva chiaramente: Se ti volti, sei morto.

Sotto la spinta della paura, la Rossina agÏ con prontezza: uno per volta, portò via i due gattini

tenendoli delicatamente con i denti per la pelle del dorso. Andò a nasconderli nell'incavo di un 41

albero. Scoprii il luogo dove si trovavano se-


guendo la Rossina che percorreva guardinga una stradina solitària. Aveva scelto il rifugio, che riteneva sicuro, in una selva molto folta distante un centinaio di metri da casa. Per circa una settimana nella cesta non dormì

più nessuno. Mi rincresceva che, per colpa del gattaccio bianco, i miei ospiti fossero stati co stretti ad abbandonare il loro comodo alloggio. Una sera fui contenta di trovare l'intera fami glia di nuovo riunita. Per farsi caldo, nella cesta dormivano, stretti l'uno all'altro, Santino, la

Rossina e i due figli. Tutto procedette bene per parecchi giorni. Con le pupille più luminose del solito, Santino, agile e flessuoso, giocava volentieri con i micini, che risultarono essere due femminucce. La Ros

sina si sentiva sollevata nelle sue incombenze di madre.

Per un po' di tempo il gattaccio bianco non si fece più vedere dalle nostre parti. Pareva quasi che i miei gatti l'avessero dimenticato. Corre vano innanzi e indietro spensierati: a brutte sor prese, non pensavano affatto.

Un pomeriggio la Rossina portò di nuovo a spasso le sue due femminucce. Purtroppo non

sapeva che dietro la prima stalla che le comparve davanti ci fosse in agguato il gatto assassino. Una micina svoltò l'angolo della stalla prima della mamma. Venne immediatamente assalita dalla bestiaccia. Quando la Rossina la rag giunse, era morente: aveva la gola lacerata. Che

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cosa abbia provato la povera mamma alla vista della sua figlioletta morente, non lo sa nessuno. I gatti non usano lamentarsi a gran voce. La pove

rina tornò però più di una volta dietro l'angolo della stalla ad annusare la pietra sulla quale la micina era stata uccisa.

Ritenni che non si dovesse lasciare impunito anche l'ultimo crimine del gatto bianco. Se non si fosse intervenuti, non avrebbe più smesso di compiere le sue stragi.

Sapevo che il padrone della Rossina era un abile tiratore. Possedeva un fucile con il quale, quando sparava, non mancava mai il bersaglio.

Quello stesso giorno gli parlai dell'accaduto. Poco tempo dopo il gatto sanguinario tornò a girare dalle nostre parti alla ricerca di una nuova vittima. Un colpo di fucile lo fulminò proprio mentre stava attentando a un'altra giovane vita.

Il fragore dello sparo portò a tutti i gatti del vil laggio la notizia che il gatto malvagio aveva finito di compiere le sue stragi. I giorni tornarono a passare con il ritmo di sempre. Arrivò l'autunno. Dopo il lieve aumento

di temperatura, dovuto alla breve apparizione dell'estate di San Martino, il tempo volse al brutto. Ci fu un susseguirsi di giornate piovose e fredde. Forse fu questa la ragione per la quale tutto non andò come avrebbe dovuto andare. I

miei gatti caddero ammalati. Santino fu il primo ad ammalarsi. Un mat tino che la Rossina era andata a casa sua a man-


giare insieme con la figlia esso rifiutò il cibo. Fece altrettanto la sera. Non mangiò neppure il mattino seguente. Passava tutto il tempo disteso

nella cesta. Quando c'era la Rossina a tenergli compagnia, le posava sempre la testa sul petto. Tossiva e starnutiva continuamente. Doveva

avere la febbre alta, perché si lasciò coprire con uno scialletto come conveniva a un malato. La

Rossina, ogni tanto, gli dava una leccata sul muso. Forse gli vedeva gli occhi imbrattati di brutti sogni, e voleva distrarlo. In seguito si ammalò la micina. La stessa tosse di Santino la scuoteva da capo a piedi. Faceva pena a vederla. E infine si ammalò la Rossina. Benché febbricitante, alzava il capo ogni volta che sentiva tossire la figlia. Tenni tutti e tre i gatti al caldo per qualche giorno, poi li portai dal veterinario, il quale iniettò loro un antibiotico che li fece guarire. Tornarono vispi e allegri come prima. Era giunto il momento di portare Santino in città. Richiesto da me, il padrone della Rossina fu d'accordo di ospitare la mamma e la figlia nella sua cucina calda durante la notte.

Un pomeriggio gelido i tre gatti si salutarono. Si sarebbero rivisti in primavera. Facile sarebbe stato, a partire da quel momento, ricominciare a volersi bene.


Fausta Ghirlanda ha lavorato presso la Scuola Pratica, annessa alla Magistrale di Locamo, dal

1938 al 1977. Attualmente è in pensione. Dopo GurÚ, piccolo corvo e Storia di una adolescente, ha scritto con il consueto entu

siasmo questo Santino il guerriero, che dedica ai suoi lettori preferiti: i ragazzi. Anna Pacchin: vive a Lugano, dove sta per con

cludere i suoi studi presso il Centro scolastico industrie artistiche (CSIA) nella Sezione grafica illustrativa.


Fausta Ghirlanda: Santino il guerriero

Serie: Letture Secondo ciclo

Prendete Esopo o La Fontaine, due tra i più grandi favolisti di tutti i tempi che ci hanno presentato gli animali in veste umana; aggiungeteci Konrad Lorenz, il famoso etologo (studioso del comportamento animale, recentemente scomparso) e otterrete qualcosa di stupendamente nuovo. Un modo di descrivere e far vivere l'animale secondo la sua natura e i suoi presumibili sentimenti. L'operazione è perfettamente riuscita a Fausta Ghirlanda, che anche in altre occasioni ha dimostrato di essere una sensibilissima e attenta scrittrice per l'infanzia. L'appassionante storia dei suo micio Santino è ben più di un semplice racconto di avvenimenti di vita animale!

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