Abbasce a Marine ha nnate ‘u Bammine
Š 2010 - Scorpione Editrice srl Tutte le foto di questo libro sono di Mario Chimienti, eccetto quelle delle pagine 16, 43, 46, 48, 50 e 100 che sono di Angelo Todaro.
Edito da: Scorpione Editrice srl Taranto, Via Istria, 65d Tel/fax 099 7369548 web: www.scorpioneeditrice.it e-mail: info@scorpioneeditrice.it
Grafica e impaginazione: Angelo R. Todaro Taranto Tel. 099 7775843 web: www.angelotodaro.it e-mail: info@angelotodaro.it
Stampa: StampaSud S.p.A. Mottola (Ta) Tel. 099 8865382 web: www.stampa-sud.it e-mail: info@stampa-sud.it
Rosa e Enzo Risolvo
Abbasce a Marine ha nnate ‘u Bammine
Scorpione Editrice
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Prefazione di Claudio Morbidelli Intervento di don Marco Morrone Intervento di Francesco Sebastio Intervento di Alfredo Cervellera Intervento di Filippo Casamassima Presentazione di Mario Guadagnolo Anteprima di Enzo Risolvo
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“Tarde de ‘na voTe” Le due porte di Taranto Marchetijdde Pittaggi e Pittaggere Necola Sapone
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“Sciueche de STraTe! Le sciueche d’abbasce ‘a marine ‘U curruchele (la trottola) Le mazzaredde A scareca uarrile Le 5 rapijdde Il salto con la corda A le 4 cantune A ‘nzicca parete Carle Magne ’U ‘ntrattijne Stave ‘na vote ‘A duane Usanze antiche
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SToria e Tradizioni TaranTine Il Natale tarantino L’Avvento Santa Cecilia Le Pettole e le sue leggende Ricetta: Le pettole Preghiera a Maria Vergine Le Pastorali Edicole votive Gli zampognari
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PreSePe: STorie, Tradizioni e credenze Il Presepe di san Francesco Il Presepe popolare napoletano Il Presepe tarantino
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albero di naTale: STorie, Tradizioni, leggende e credenze La storia dell’albero di Natale La leggenda dell’albero di Natale in Germania La leggenda dell’albero di Natale in Francia 1ª Credenza popolare 2ª Credenza popolare L’albero di Natale tarantino
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in cammino verSo la noTTe SanTa Tra fede, Tradizioni, credenze e nenie dialeTTali Santa Caterina La leggenda di santa Caterina Chiesa di Santa Caterina Gran caffè Moro e ’U furne de sanda Catarine Santa Barbara San Nicola L’Immacolata L’Immacolata di Brindisi La notte del terremoto Ricette: Cime di rape ’a stufate, Mugnele c’u lemone Ricette: Cavatijdde e mugnele, Chiancaredde e cime de rape Novena all’Immacolata Usanze culinarie Ricette: Pane all’acqua sale, Pane abbrustulite Le ricette della vigilia dell’Immacolata Ricetta: Stualette cu le cozze, Capetone all’agredosce Ricetta: Le sanacchiudde Santa Lucia Le calijnde de sanda Lucie
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naTale: fede, SToria e Tradizioni Dies Natalis
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uSanze culinarie e leggende naTalizie ’U strafueche da visciglie de Natale Ricette: Virmecijdde cu cozze, agghie, ogghie e putresine, Zuppe de pesce cu angijdde, scorfene e frutte de mare Ricetta: Capetune ‘o furne Ricette: Capetune arrustute, Cavulaffiure addelessate o fritte Ricetta: Baccalà indr’a frezzole (in pastella) Ricette: Mugnele cu ogghie e lemone, Le carteddate La leggenda del panettone Il pandolce L’usanza delle briciole ‘U sgranatorie da visciglie de Natale
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giochi Tradizionali, SuPerSTizioni, magie e leggende naTalizie Il gioco delle carte alla vigilia di Natale: A zzecchenette, Pepecchie ‘A tombele La storia del Lotto La smorfia Le credenze della notte santa La leggenda di Anastasia La leggenda del Bue e l’Asinello Le magie della notte santa Le superstizioni del giorno di Natale Pranzo di Natale Il pranzo del benestante, ‘U mangiare du fadiatore, ‘U mangiare du puverijdde senza case ‘A letterine sott’u piatte La processione de Gesù Bammine curcate Babbo Natale La festa di santo Stefano Tecla e la leggenda di santo Stefano Le tradizioni culinarie di santo Stefano Da Natale a Capodanno La strage degli Innocenti La leggenda della via Lattea San Silvestro La leggenda di san Silvestro Capodanno, notte di san Silvestro Cenone di san Silvestro Giano e il capodanno romano Usanze e credenze del Capodanno Pranzo del primo dell’anno ’U Bammine all’erte
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ePifania e re magi: SToria, Tradizioni e leggende L’Epifania La leggenda della dea Strenia La Befana tarantina La leggenda dei (quattro) re Magi e della stella Cometa La leggenda della Befana e dei re Magi La Befana e le sue leggende Usanze popolari della Befana Il Babbo Natale del Nord e la Befana del Sud La Befana giustiziera Abbasce ‘a marine, Pruvvedenza tarandine
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Bibliografia 6
PrefazIone
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e sensazioni, i rumori, i colori, i suoni, i sapori si rincorrono pagina dopo pagina, sfogliando questo ultimo lavoro di Enzo Risolvo e di sua figlia Rosa. Si entra in un passato che diviene presente, si fanno due passi fra i vicoli della città storica, della Taranto antica, della Taranto “vecchia”; senti l’anima della gente, ascolti il loro vociare, percepisci l’odore delle pettole, sei travolto dai “panarijdde” che si rincorrono giocando “cu a palla de pezza”. Le leggende, le storie e la storia, le credenze, le favole, le nenie e le pastorali diventano voci, infondono calore, danno certezze, addolciscono i sentimenti, fermano il tempo. Dopo le prime pagine ti senti preso per mano e, sfogliandole, entri nelle case dei pescatori, senti le nonne nei cortili che affascinano i bambini, e non solo loro, con le storie che vengono tramandate da nonna a nipote, arricchite, trasformate, colorate nel passaggio verbale. Come tutte le regioni del mondo, come tutte le culture di ogni latitudine e di ogni tempo, le tradizioni popolari, i modi di dire, i proverbi e i riti rappresentano non solo la saggezza ma soprattutto la spiritualità di un popolo. Nel raccontare, nel cantare, nel cucinare, nel piangere o nel ridere entra tutto il vissuto della città, si demarcano spazi, si ristabiliscono circostanze sociali ed umane, si certifica l’appartenenza ad un contesto sociale, e questo dà la sicurezza in ambiti ben definiti da quella filosofia popolare che si nutre dei sentimenti, delle paure, dei dolori delle gioie, della povertà dei singoli individui che si fanno collettività. Lo stile narrativo nella sua semplicità è efficace, l’esposizione lineare ed essenziale, la concatenazione degli argomenti naturale ed organica. I testi in dialetto costituiscono la colonna sonora del racconto, si integrano con lo svolgimento della narrazione e le danno forza, sottolineando quel sentimento popolare di cui è deliziosamente impregnato tutto il lavoro. Di tutto ciò è testimone questo libro, che si muove fra tradizioni, allegre o serie, sempre vivaci ed intriganti. Le tradizioni raccontate in questo libro non sono mero trattenimento, ma costituiscono un processo educativo e trasmettono all’interno della comunità norme e valori che non possono essere ignorati, se si vuole capire il presente e costruire il futuro. Claudio Morbidelli Docente 7
InterventI
H
o letto con interesse e attenzione “Abbasce a marine ha nnate 'u bammine” di Rosa ed Enzo Risolvo.
Sono stato accompagnato, con amore, nel grande Mistero del Natale nelle nostre tradizioni popolari. Ho fatto delle scoperte che mi hanno riempito il cuore di gioia. La gioia del nostro cuore è il sentimento più forte e più comune che scaturisce dal Natale. Ho ritrovato il “sapore” genuino ed autentico del Natale nelle nostre case e nelle nostre famiglie. Ho riscoperto il “gusto” e il “profumo” del Natale vissuto nella mia infanzia. Ho ammirato con interesse, la sapienza e la saggezza dei nostri Padri nei loro “detti”, nei loro “linguaggi”, nei loro “racconti”, nelle loro “tradizioni”. Mi è sembrato che la preoccupazione principale dei nostri Padri sia stata quella di coniugare bene la Fede con la vita quotidiana. Il “Mistero del Natale” celebrato, non solo, nelle Chiese, attraverso la Liturgia, ma vissuto nel focolare domestico con racconti e usanze che richiamassero il Mistero della Incarnazione di Gesù. Ringrazio di cuore Rosa ed Enzo per la loro ricerca appassionata. Ne è scaturito un frutto delizioso e delicato come è il Natale. Auguro che questo “frutto” sia mangiato e gustato da tutti coloro che leggeranno queste pagine. La celebrazione del Mistero del Natale, il Figlio di Dio che si fa uomo, possa aprire il nostro cuore alla speranza cristiana, per riempire i nostri giorni di GIOIA natalizia. Don Marco Morrone Parroco della Cattedrale
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InterventI
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itorna a scrivere di Taranto e per Taranto il nostro amico, e subito ci rituffiamo in questa nuova operina che, come le altre, ha il merito fondamentale di renderci presente il nostro passato e di farci tornare alla memoria scampoli di ricordi della giovinezza che inconsapevolmente ritenevamo perduti per sempre. E così le filastrocche che ci venivano ripetute dai nonni, i proverbi e i modi di dire tramandati di generazione in generazione, le piccole storie di ordinaria vita comune, magari intrise di quella saggezza popolare che poi era alla base di una società sopravvissuta fino a pochi decenni addietro e che, nella frenesia della vita attuale, si trasfigurano in una eternità impensabile. “Quantum mutatus ab illo”, quanto è cambiata oggi la nostra vita e la nostra società: a volte si ha quasi paura di uscire e di girare per le vie e per questa città, imbruttita da un’edilizia selvaggia soffocata dal traffico, inquinata da sostanze pestifere di ogni genere, eppure ancora così bella, nei suoi mari, nel suoi tramonti, nei suoi piccoli luoghi pur miracolosamente salvi, nel suo spirito che sempre sopravvive. È giusto, quindi, ringraziare il nostro autore per questa sua ennesima fatica, che ci regala un bagno di giovinezza e sentimento. Pablo Neruda dice, in una sua poesia, “Noi, quelli di allora, più non siamo gli stessi”, e magari non è vero, se accade che, anche grazie a questa fatica dell'amico Risolvo, riusciamo a ridestare quel “fanciullino” che credevamo scomparso e che, invece, è ancora lì, nel nostro animo.
Francesco Sebastio Magistrato in Taranto
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InterventI
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gni uomo porta nel cuore i luoghi della sua infanzia e gelosamente ne conserva i ricordi dei periodi più belli.
Enzo Risolvo, nato, come egli stesso orgogliosamente afferma, in vico Zippro, è il cantore della Città Vecchia, delle sue storie e delle sue tradizioni. Come un novello Omero si aggira nell’Isola e racconta, ai viandanti forestieri e cittadini, la storia di quelle pietre secolari, i fatti, fatterelli e leggende degli abitanti di quei luoghi, dei nostri progenitori. È uno straordinario affabulatore: rimarresti per ore ad ascoltarlo, affascinato dalla sua mirabile abilità di saper mescolare nella storia, che ti rappresenta con immagini vivide, il detto popolare, i proverbi dialettali, le antiche usanze, i giochi di strada dei bambini, le ricette culinarie del passato, i giochi tradizionali, le preghiere e le poesie in vernacolo. Una parte di questa miniera inesauribile è contenuta in questo libro straordinario scritto con la figlia Rosa. A loro va il merito di aver saputo dare sistematicità ai racconti, avvalendosi anche delle “memorie” scritte di uomini della cultura popolare tarantina, e di aver trattato un tema specifico, caro alla nostra infanzia: il Natale. È un affascinante percorso nella “Tarde de ‘na vote”: le sue immagini con le storie, le tradizioni, le leggende e le credenze popolari legate alle feste natalizie. Prima di questo libro, se volevi documentarti su questo tema in particolare, riscoprendo le nostre antiche radici, dovevi leggere una serie di autori e di poeti dialettali e selezionare quei testi che parlano del Natale e delle sue tradizioni popolari. Rosa ed Enzo Risolvo hanno assemblato sapientemente, tramite le loro accurate e doviziose ricerche, un ricco materiale, dandogli organicità e una godibile leggibilità. Agli Autori di questo lavoro saremo perennemente grati per aver saputo far riaffiorare in noi ricordi fantastici del nostro passato, legati al periodo natalizio, che ritenevamo per sempre sepolti nei nostri cuori, dandoci nuove emozioni e una consapevolezza: senza la conoscenza della nostra storia e della nostra identità culturale sarà molto difficile costruire un radioso futuro. Alfredo Cervellera Consigliere Regione Puglia
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InterventI
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remetto che ammiro moltissimo Enzo da molti anni perché è altruista e generoso, modesto e schivo ma al tempo stesso sempre positivo ed entusiasta: in sintesi un “galandome”. In questa sua opera, l’amico Enzo testimonia mirabilmente (qualora ce ne fosse ancora bisogno) il suo incontenibile amore per la nostra Città. Dico “nostra” perché, così come recita un detto barese che la mia nonna materna usava pronunciare in talune discussioni… (è mamma chi cresce, non chi partorisce!), io mi sento figlio di questa meravigliosa Città e tarantino a pieno titolo, visto che da oltre mezzo secolo vi risiedo con soddisfazione. Non sono un critico letterario ed il mio lessico è schematico ed essenziale come si addice agli “operativi”, quindi, probabilmente non riuscirò ad esprimere al meglio le sensazioni che provo; osservo però che questa ultima perla della sua saga su Taranto è la conferma che Enzo ci ha preso gusto e che il suo entusiasmo è ormai incontenibile così come la sua vena creativa. Questo, come gli scritti che lo hanno preceduto, è piacevolmente scorrevole ed al tempo stesso ricco di espressioni raffinate, impreziosito da richiami latini e greci, foto suggestive e curiosità storiche e non. Il Nostro ha saputo combinare sapientemente, da scrittore “navigato”, l'incomparabile esperienza maturata nel quotidiano relazionarsi con la gente (residenti, amici, turisti, curiosi, visitatori, ecc.) con la sua collaudata vena di “cantastorie”, alternando notizie seriose con curiosità ed aneddoti, ricordi, poesie, leggende, diete e ricette! Partendo da un simpatico “richiamo” sulla Taranto e sui giochi di un tempo, l'autore ci accompagna mirabilmente dall’inizio delle festività natalizie all’Epifania, richiamando nel nostro immaginario le sensazioni e le emozioni più tipiche di quel periodo. Enzo si conferma altresì un ricercatore infaticabile, perché molte delle cose da lui raccontate sono ben più datate di quanto riferibile all’esperienza diretta o acquisibili dai nostri anziani; ed anche questa non è una sorpresa! Buona lettura a tutti. Filippo Casamassima Contrammiraglio
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PresentazIone
I
l libro di Enzo e Rosa Risolvo è proprio bello e io l’ho letto con voracità in un pomeriggio, apprendendo sulla cultura e sulla tradizione del nostro popolo notizie che non conoscevo. Credo che, una volta o l’altra, bisognerà rendere merito a questi ricercatori fai da te, autodidatti, animati da una straordinaria curiosità intellettuale e da tanto amore per la nostra città ed affrancarli da quell’idea arrogante e presuntuosa di quegli intellettuali che, con la puzza sotto il naso, considerano questo tipo di ricerca come figlia di un dio minore. Non è assolutamente così, poiché la grande storia, o pretesa tale, è il frutto di tante piccole ricerche minori che rappresentano il terreno fertile su cui essa si può esercitare. Senza di questi ricercatori i grandi storici, o pretesi tali, andrebbero a spigolare. Enzo Risolvo appartiene a questa benemerita categoria di studiosi che hanno titolo a chiamarsi tali e che rappresentano una risorsa per chi voglia capire cosa è accaduto, nei secoli, a questa nostra città. Io in qualche modo devo riconoscermi un merito, e spero me lo riconosca anche Enzo, quello di averlo spinto a buttarsi tra i vicoli della città vecchia, in mezzo a nonnette, panarijdde, pescatori e mammaranne per regalarci le gustosità culturali, linguistiche, culinarie e della tradizione presenti in questo “Abbasce a Marine ha nnate ‘u bammine”. Quando per la prima volta Enzo mi interpellò sulla sua intenzione di pubblicare “Storie e culacchie di storie”, raccontandomi fatti, aneddoti, lepidezze linguistiche, filastrocche poi raccolte in quel bel libretto che Scorpione Editrice ha avuto la bella intuizione di pubblicare, io incoraggiai il suo entusiasmo dicendogli che la sua intenzione, quella di mettere per iscritto i segni della nostra storia popolare, era un suo dovere come tarantino, come ricercatore e come uomo innamorato della sua città. Fortunatamente Enzo ha seguito il mio consiglio, ed eccoci oggi alla terza fatica del nostro autore, che ci ha regalato il racconto di una Taranto che ci appartiene e che la maggior parte di noi non conosce. Enzo attinge le sue notizie in massima parte dalla tradizione orale. Ma pensate un po’ cosa accadrebbe se questa tradizione orale andasse perduta e se non ci fossero ricercatori come lui, che hanno la pazienza e l’amore per raccogliere e consegnare alla carta stampata racconti, aneddoti, filastrocche, tradizioni ludiche e manifestazioni religiose del nostro popolo. Essi seguirebbero la sorte dei custodi di quella tradizione orale e morirebbero con loro, andando irrimediabilmente perduti. Da questo libro di Enzo e Rosa Risolvo (il papà ha trasmesso il virus della curiosità per la ricerca di cose tarantine anche alla figlia, che lo ha accompagnato in questa sua seconda avventura editoriale) emerge una Taranto semplice, umile e po12
PresentazIone
vera che si accontenta di mangiare il pane “all’acqua sale con una croce d’olio”, che vive una sua vita comunitaria e solidale all’interno del vicolo nel quale una donna che deve sfaccendare in casa, non potendo badare ai propri figli, li affida alle cure della vecchietta dello slargo, “a mammaranne”, cioè la mamma grande, la quale dà ai bambini “nu stuezze de ‘ntrattijene”: un modo ingenuo per far passare il tempo ai bambini irrequieti. Ma in questo libretto di Risolvo c’è dell’altro. C’è la spiegazione dell’origine di alcune espressioni tipiche tarantine, come quella famosa ed usatissima ancora oggi “a ci tene nase tene crianze” (espressione auto consolatoria per chi ha il naso eccessivamente voluminoso), la spiegazione del nome di alcuni dolci tipici del Natale come “le sanacchiudde”, secondo le due versioni ufficiali, quella di Giacinto Peluso e quella di Angelo Fanelli (la più accreditata), “le carteddate” che secondo Gherard Rolfs, lo studioso dei dialetti meridionali, deriverebbe dal dialetto siciliano “cartidate”, cioè cesta di vimini, per la loro particolare forma rotonda appunto somigliante ad un piccolo cesto di vimini, che rappresenterebbe il giaciglio ove fu posto Gesù Bambino la notte di Natale. L’indagine di Risolvo poi si rivolge ai giochi che venivano praticati dai bambini “abbasce a marine”, come “u curruchele”, “le mazzaredde”, “a scareca varrile” ecc., e quelli delle carte, che le famiglie la sera della vigilia praticavano aspettando la mezzanotte, come “Pepecchie”, “A zzecchenette” e, soprattutto, l’immancabile “tombele”. Del Natale ci sono ovviamente anche le leggende sul presepe, sull’albero di Natale, su santi come Santa Cecilia, Santa Caterina e Santa Barbara. Ma il piatto forte (è proprio il caso di dirlo) del libro sono le ricette dei piatti tradizionali del Natale tarantino. In un’era nella quale la televisione ad ogni ora del giorno ci propina trasmissioni nelle quali non si parla d’altro che di cucina (La prova del cuoco, Mezzogiorno di cuoco, ecc.) e nella quale un tal Vissani è diventato un divo più ricercato di quelli del cinematografo, non potevano mancare nel libro di Risolvo le ricette della cucina tarantina. Minuziose, precise, descritte con dovizia di particolari, esse rappresentano un vademecum per tutti quei tarantini che vogliono rispettare le tradizioni natalizie in materia di cucina. E se lo fanno in televisione a buon diritto può farlo, in maniera utile e colta, Enzo Risolvo con le ricette del nostro Natale, che sono segni di una cultura e di una storia. In esse i tarantini possono riconoscere e leggere il proprio passato. E vai quindi con le ricette su “chiancaredde e cime de rape” (un classico!), “cavatjdde e mugnele”, “mugnele c’u lemone”, “capetone all’agrodosce” e tanti altri piatti gustosissimi. Questa varietà di pietanze ovviamente 13
PresentazIone
era riservata a chi poteva permetterselo, cioè ai signori che vivevano nelle loro sontuose abitazioni lungo la strada Maggiore (Via Duomo). Chi non poteva, cioè il popolino che abitava “abbasce alla Marina”, doveva accontentarsi di “pane all’acqua sale” al mattino, qualche zuppa di pesce a pranzo e una fettina di pane abbrustolito alla sera, con la solita croce d’olio, che era insieme un fatto devozionale e un modo per risparmiare, poiché così l’olio si espandeva meglio su tutto il pane. E le divisioni in classi, tra ricchi e poveri, di questa Taranto del passato, sono plasticamente rappresentate e raccontate nella bellissima poesia riportata nel libro del poeta tarantino Liborio Tebano, vissuto a cavallo tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900, che Risolvo è riuscito ad avere dal nipote di Tebano, Igino: “U sgranatorio da visciglie de Natale”, nella quale Tebano descrive le tre tavole relative alle tre diverse classi: “A taule de ci tene”, “A taule d’u fatiatore” e “A taule d’u puverijdde”. Questo racconto in versi vale più di un trattato politico-sociologico sulla disparità delle condizioni di vita della Taranto dell’Ottocento. Naturalmente Risolvo ci dà queste notizie non limitandosi al solo Natale, ma parlando anche del Capodanno e dell’Epifania con notizie preziosissime sulle processioni de “U Bammine curcate” e “U bammine all’erte”, delle origini della figura della Befana e di Babbo Natale. È un libro, quindi, che si lascia divorare e che si riprende a leggere daccapo subito dopo, perché ci rimane impressa una filastrocca, una poesia, un detto, un’espressione che vorremmo tenere a memoria, per poi magari insegnarla ai nostri figli e permettere loro, attraverso la rivisitazione della tradizione dei loro padri, di piantare le radici nel proprio passato. E già, perché una persona senza radici è una persona senza identità. Il libro di Risolvo, con le notizie che ci comunica, contribuisce in qualche modo ad evitare questo pericolo e a costruire, e mantenere, la nostra identità di tarantini. Mario Guadagnolo Già Sindaco di Taranto
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antePrIma
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overo, era il Natale tarantino di un tempo: c’era tanta miseria e pochissimi soldi.
Vi era, però, anche tanta ricchezza: di solidarietà e aiuto reciproco. Erano i tempi in cui la gente viveva con le porte aperte e i ragazzi potevano giocare per strada. Certo non vi era la cosiddetta privacy, e tutti si facevano i fatti degli altri (le “pittaggere” diventati “pitteddare”, o viceversa), ma questo metteva nelle condizioni di vivere una vita in comune, in cui ciascuno si sentiva impegnato ad aiutare l’altro, chi aveva bisogno; da questo nasce l’usanza di portare il “presente” quando si visitava un’ammalato: un aiuto, oltre che morale, soprattutto materiale. Erano queste le “ricchezze” dei nostri padri: valori veri, valori morali e di mutuo soccorso. Ancora validi se ci soffermiamo a riflettere e diamo senso alla vita. Vi racconteremo, in questo nostro scritto, storie legate al Natale di un tempo, usanze e credenze, giochi della strada, preghiere e poesie in vernacolo, racchiuse nella città vecchia (il Borgo fu iniziato subito dopo l’unità d’Italia), ma anche leggende e miti della religiosità popolare presenti in tutta l’Italia, con lo scopo di tramandarle affinché, riscoprendo le nostre antiche radici, riscopriamo il gusto dello stare insieme condividendo, attraverso l’amore verso il Bambinello, l’amore verso il prossimo. Col Natale, riscoprendo le radici, riscopriamo anche la natura, riscopriamo la vita: una gioia infinita! Quello che i lettori troveranno in questo libro è frutto delle ricerche effettuate da me e da mia figlia Rosa, avvalendoci anche degli scritti di uomini di cultura e di cultura popolare, come Alfredo Majorano, Liborio Tebano, Giacinto Peluso, Angelo Fanelli, Diego Marturano, gli Acquaviva, Pasquale Di Giacomo, Nicola Caputo, Francesco Durante (di Castellaneta) e tanti altri, nati anche fuori dal nostro territorio provinciale. Il grazie e la riconoscenza, di noi modesti appassionati, va soprattutto a loro. Enzo Risolvo
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Taranto, il molo S. Eligio agli inizi del ’900.
“Tarde de ‘na vote” Le due porte di Taranto Per circa nove secoli la nostra Taranto fu costituita soltanto dalla città vecchia (ricostruita dai Bizantini alla fine del X secolo, dopo la distruzione operata dai Saraceni nel 927): l’espansione verso il “Borgo umbertino” e i “Tamburi” avvenne subito dopo l’Unità d’Italia.
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rosa e enzo rIsolvo
“Abbasce a’ Marine”
Vi erano due porte nella Taranto preunità: porta Lecce, che si trovava nei pressi dell’attuale ponte Girevole, e porta Napoli, vicina all’attuale ponte Sant’Egidio. Tutto intorno, la città era “munita e turrita” (circondata da mura e torri), come tutte le città medievali.
Marchetijdde Adiacente a porta Napoli, in uno stanzone, vi era un grosso recipiente (‘u cadarone), nel quale venivano messi a bollire gli scarti di carne che i macellai, giunti nel grande mercato di piazza Fontana, avevano l’obbligo di lasciare come pagamento di dazio: frattaglie che servivano per sfamare i poveri della città. Questa caldaia, sempre accesa, non veniva mai pulita ed emanava un fetore indicibile, tant’è che a Taranto, quando si incontravano persone che “litigavano” col sapone, si diceva: Quidde puzze cum’u cadarone de porta Napele. A gestire questo poco profumato cadarone era adibito un dipendente comunale di nome Marco, che tutti chiamavano Marchetijdde, un tipo scorbutico ma anche scanzonato e buono. E quando, verso merverate (mezzogiorno), i poveri diseredati, affamati, si avvicinavano timorosi 18
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a ‘u cadarone lui, come se nulla fosse, diceva loro: “Quann’a vendre jè vacande, no’ se sone e no’ se cande; quann’a vendre te l’enghiute, tutte le uaje è scunnute!”. Nel settembre del 1871, a seguito di un violento temporale, cadde uno dei battenti di porta Napoli, spezzando i cardini del Bastione della Catena e distruggendo così anche lo stanzone. Eliminata la Porta e lo stanzone, fu eliminato anche ’u cadarone.
Vicoletto Ss. Medici.
Pittaggi e Pittaggere La città (vecchia, s’intende) aveva quattro rioni, che all’epoca venivano chiamati Pittaggi (da pittacium, cioè papiri, sui quali si annotavano i nati, i morti, gli sposati, gli ammalati, gli assistiti: una specie di ufficio anagrafe). I rioni erano così chiamati: S. Pietro, Baglio, Ponte e Turripenne. Nei primi due pittaggi (la parte alta della città vecchia), abitava la nobiltà e la ricca borghesia; negli altri due, prospicienti il mar Piccolo, 19
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Vico Zippro.
Postierla SS. Medici, la pi첫 suggestiva delle postierle tarantine. 20
abbasce a marIne ha nnate ‘u bammIne
abitava il popolino (nel Turripenna, verso la discesa Vasto, furono relegati gli ebrei: il ghetto). Ciascun pittaggio era legato ad una chiesa (Cattedrale, Sant’Agostino, San Domenico, San Giuseppe), il cui vice parroco veniva definito ’u pittaggere: una forma di rispetto verso la sapienza, verso la persona che aveva studiato (un tempo non c’era la scuola dell’obbligo e potevano studiare solo i possidenti; purtroppo vi era un tasso d’analfabetismo che toccava punte del 97 %). In riferimento alla nomea data ai vice parroci, il popolino apportò una storpiatura dialettale del termine e, riferito non più ai sapienti sacerdoti ma ai “saputelli” tarantini, li apostrofava con: muerse de pittaggere, perchè, intrufolandosi negli affari degli altri, spettegolavano (tipico vizio nostrano). Insomma muerse de pittaggere era riferito ai pettegoli.
Necola Sapone Tra i più acuti pittaggeri, vi era un certo Nicola Sapone (che, per via del suo naso lungo, veniva chiamato Necola Nasone), il quale, dal suo Discesa Via Nuova, un tempo discesa S. Costantino.
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rosa e enzo rIsolvo
balconcino a piano terra in piazza San Costantino, ascoltava i fatti degli altri e poi li riferiva, a modo suo. I Tarantini, per questo, lo chiamavano: “Necola Nasone, cu ‘u cule da ijndre e ‘a cape da fore”. E, a proposito di naso lungo, si diceva: “A ci tene nase tene crianze”. Questo modo di dire, di epoca medievale, era riferito ai delinquenti e ai lenoni, ai quali, per le loro malefatte, veniva mozzato il naso. Per cui, chi aveva il naso sano era persona perbene, chi il naso lo aveva mozzato era un poco di buono.
La fontana di Piazza Fontana e la Torre dell’Orologio. 22
“Sciueche de strate” Le sciueche d’abbasce ‘a marine Quando le auto erano pochissime, la televisione non ancora presente e gli elettrodomestici al di là da venire, i giochi dei ragazzi da fare in mezzo alla strada erano: ‘u curruchele, le mazzaredde, a scareca uarrile, a le 5 rapidde, il salto con la corda, a le 4 cantune, a ‘nzicca parete, Carle Magne, ecc.
‘U curruchele (la trottola) Era una trottola di legno a forma di pera scanalata a spirale e con una punta metallica infissa alla estremità. La si faceva girare avvolgendo nella spirale una cordicina (’u cuenze) e poi la si lanciava con forza verso terra, trattenendo il cordellino. Con una mano si cercava quindi di prendere la trottola, cercando di farla ancora trottolare sul palmo della mano. Vinceva colui che riusciva a far saltare più volte il currucolo nella mano. Ma il gioco aveva diverse altre tecniche; ad esempio cu l’azzugne prevedeva dei colpi da infliggere sul currucolo avversario. Il termine curruchele potrebbe derivare da curru – culu, cioè piccola ruota (ma le ipotesi etimologiche sono diverse).
Le mazzaredde La conta destinava colui che, addossato ad una parete e con le mani a coprirsi gli occhi, doveva contare fino a 50 (ma il numero poteva variare) per consentire agli altri ragazzi partecipanti al gioco di nascondersi. Finita la conta doveva andare a scovarli e, una volta individuati, 23
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Arco San Martino.
correre alla parete ove aveva fatto la conta e battere per tre volte il muro, ripetendo il nome dello scovato, il quale avrebbe preso il suo posto dopo aver trovato gli altri. Se, però, lo scovato raggiungeva e batteva egli stesso per primo la parete restava libero. Così continuava il gioco fino all’ultimo dei ragazzi da scovare, il quale ultimo, se arrivava per primo a battere la mano alla parete, liberava tutti coloro che erano stati scovati e battuti precedentemente. In tal caso il ragazzo della conta (che chiameremo a mamme), continuava a stare alla parete fino a che non faceva “prigioniero” almeno uno dei partecipanti. Ovviamente c’erano tante varianti, sia a Taranto che nei comuni limitrofi.
A scareca uarrile Due ragazzi, mettendosi spalla contro spalla e incatenatisi braccia con braccia, si sobbarcavano il peso dell’altro dicendo: “– Zi’ pre(vete)…, – zi’ mo(neche)…, – ce stè face? – n’ore de suenne. Uezete tu ca me corche ije”. Quindi si scambiavano le posizioni. 24
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Le 5 rapijdde Era un gioco prevalentemente femminile, al quale potevano partecipare anche i maschietti. Il numero dei partecipanti non era fisso. Il giocatore iniziava sparpagliando le cinque pietre per terra, ne raccoglieva una e la lanciava in aria; nel frattempo ne prendeva un’altra da terra e con la stessa mano doveva riprendere quella lanciata in aria; continuava così fino a raccogliere nella mano tutte le pietre da terra. Rilanciava poi le cinque pietre per terra, ne riprendeva una e la lanciava come la volta precedente in aria, ma questa volta di pietre doveva raccoglierne due per volta, poi 3 più 1, quindi 4 e, infine, le doveva lanciare in aria tutte e 5, raccoglierle sul dorso della mano, rilanciarle in aria e riprenderle, possibilmente tutte, col palmo della stessa mano: le pietre che restavano sulla mano diventavano punti. Vinceva chi per primo raggiungeva il numero massimo stabilito di punti, ad esempio 50.
Il salto con la corda Era un gioco prettamente femminile e potevano giocare da 3 a più fanciulle. Due ragazze, tenendo la corda alle estremità, la facevano girare. La terza fanciulla, ogni volta che la corda passava per terra, doveva saltarla dicendo: «arance, pere e limone» (per farlo diventare più difficile, si potevano aggiungere altri “frutti”); la corda girava sempre più velocemente, finché la “saltatrice” non restava impigliata in essa sbagliando; passava, così, a saltellare un’altra ragazzina.
A le 4 cantune Si giocava in 5. Era un gioco prevalentemente maschile, ma potevano giocare anche le femmine. Quattro dei partecipanti si mettevano ai lati; il quinto, scelto come “penitente”, doveva posizionarsi al centro. I ragazzi posti ai quattro angoli si scambiavano velocemente di posto, mentre il ragazzo penitente doveva essere più veloce di uno di essi andando ad occupare la sua postazione vuota. Colui che si era fatto spodestare dal proprio angolo diventava il nuovo penitente.
A ‘nzicca parete Si giocava tra maschietti. L’estratto a sorte lanciava per primo una moneta contro il muro. A seguire, tutti i giocatori lanciavano la loro moneta. Quello che faceva avvicinare maggiormente la propria moneta 25
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alla prima lanciata vinceva tutte le monete.
Carle Magne Era un altro gioco infantile del tempo, composto di parole; facendo riferimento a re Carlo Magno si diceva: “Carle Magne, rre de Spagne vè indr’ a l’acque e no’ se vagne vè indr’u fueche e no’ se vuscke pigghie l’acque e se ne fusce”. E quando la sera al tramonto, stanchi, ci si ritirava a casa, il più avvilito dei ragazzi, quasi senza fiato, diceva: “– Ci ste ‘ngijele? – ‘a Madonne! – E sus’a terre? – ‘u carvone! – E ognedune cu se ne veje a casa sove!”. Ovviamente i giochi della strada dei fanciulli di un tempo erano tantissimi, e questi summenzionati sono solo un esempio. Purtroppo, per via delle auto, dell’inquinamento e del bullismo, i ragazzi è meglio che facciano gli attuali giochi in casa o in luoghi protetti (ad es. i giardini pubblici).
Antica fontanella. 26
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Panorama de “abbasce ‘a marine”.
’U ‘ntrattijne Anche qui, ricordi d’infanzia: da piccolo, a volte, mia madre mi mandava da una vicina di casa che si trovava nello slargo del vicoletto ove sono nato (viche Zippre) a prendere nu stuezze de ‘ntrattijne. La vecchietta veniva chiamata a mammaranne, cioè la mamma grande, la nonna dello slargo (che non necessariamente doveva essere la nonna vera, ma la nonna di tutto il vicinio). La nonnina mi dava qualche caramellina, l’anesine e subito dopo mi raccontava una favola: “Stave na vote, nu ciucce e na melote, ca sus’u ponte faceva rota – rota, ‘u vuè ditte n’otra vote?”. Io, ingenuamente, rispondevo sì, e la vecchietta continuava la tiritera, e il tempo passava. Poi, mi prendeva la mano e mi diceva: “Mijnze a questa fundanedde, vonn’a bevene le paparedde: quiste l’accedime (pollice), 27
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quiste ‘u scanname (indice), quiste ‘u cucename (medio), quiste ‘u mangiame (anulare), e quiste: cicericchie cicericchie” (il mignolo che la vechietta stropicciava fra le sue mani). Erano le prime conoscenze sulla differenziazioni delle dita della mano che, poi, a scuola, si nomineranno “pollice”, “indice”, ecc.. Un altro gioco che faceva ‘a mammaranne: mi metteva a cavalluccio sulle proprie gambe, dicendo: “Nije, nnije e nnare, stu piccinne ‘u scett’a mmare, ‘u scette cu tutt’u scanne, le romb’a cape e le fazze ‘u sanghe: ‘u sanghe chiame a mammese, a mammese chiame l’attane, l’attane chiame ‘u mijdeche, pè sanà sta cucuzzelle”. Facendomi toccare con la testa il pavimento. Questo gioco, apparentemente sciocchino, diventava il primo esercizio ginnico per i fanciulli. E, per farmi stare un poco fermo, accarezzandomi il viso, mi faceva un altro innocente e divertente gioco: “Vangaredduzze” (il mento), “bedda vuccuzze” (la bocca), “do’ pertusidde” (le narici), “do’ mele melodde” (le goti), “do’ fenestrodde” (le palpebre), “e do’ chiangeluse” (gli occhi). Poi, mi faceva giocare con gli altri bambini cu ‘a palle de pezze. Tra gli stessi bambini ci si faceva ‘a cagnavole: “Zza, zza, zza, ‘u lemone t’ha mangià”. (il dispettuccio). Ai quali dispettucci si rispondeva: 28
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“Pippi, lollo, aijere jevene trè e mò so dò”. (la vita dei fanciulli di un tempo). Insomma, ‘u ‘ntrattijene altro non era che un intrattenimento, affinché la mamma potesse svolgere quelle attività casalinghe (es. il bucato, che era tutto particolare, fatto a mano, cu ‘u stricature, ‘a cenere e ‘a cirnature, perché ancora non c’era la lavatrice) che, altrimenti, con la presenza dei figli, non poteva svolgere tranquillamente.
Stave ‘na vote Questa poesia, scritta tanti anni fa da Diego Marturano, dedicata alla sua nonna, ci fa assaporare uno spaccato di vita del tempo che fu. “Stave ‘na vote… E ‘a nannaredda meje ‘mbacce ‘u lijtte, come ogne ssere me stè conde ‘u cunde. Come fuce ‘u tiimbe…! ‘A vite n’a sfigghiazze a fogghie a fogghie sus’a nu calannarie ca ne strusce. Stave ‘na vote…! E già… stave ‘na vote… settand’anne arrete!.... Mo ‘a nannaredde ste ‘ngiele apprisse all’Angele vestute da Befane com’a sunnamme de Pasche e Bufanije. Ma ‘a nannaredda meje ‘a tegne ‘mbijtte piccè ogne ggiurne jè Pasche e Bufanije. 29
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E ‘ndande ‘u suenne jè bedde… Sus’a ‘nu tramenzane stè l’aneme c’u trone da vicchiaredda meje. nu drappe, damaschine e spruscenate, ammandate de polvere e de peluscene ste tene custudite ‘na pultruncina vecchie tarlate e zuppecanne c’u funne d’u cuscine ca stè chiange da quanne ‘a nannaredde l’ha lassate. ma no’ le manghe ‘a fede magare ce da ‘u tijmbe jè cunnannate. mo ca se strusce ‘u chiande e ccade ‘u trone l’attocche ‘u fucarile …e tutte spicce… ‘na ‘ngartate de fume do’facijdde ‘na vambe ca vè spire sott’a cappe po’ ‘a luce ca se stute e se l’accogghie… d’a cimenere ‘u suenne ‘nghiane suse cu sende ancore ‘u cunde ca me cundave tanne ‘a nonna meje”.
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Pensilina in stile liberty.
‘A duane In riferimento alla pensilina in stile Liberty, ove un tempo i pescatori erano obbligati a sbarcare per pagare le gabelle prima di ritirarsi a casa, trascrivo una bella poesia di un caro amico che non c’è più: Pasquale Di Giacomo:
Abbasce a’ duane “Cu ‘a lucie vasce cume a nu lambione, stè nu nassare ret’a fenestrodde… C’u frische ca restore sta marine, ‘ndertogghie cu nu sciunghe’na nassodde. C’u sicchie chine e cu le rime ‘nguedde, s’ha mmise cunge cunge ‘u piscatore… ‘u figghie tene ‘mmane do’ panedde, cunzate cu l’alice e pummedore.
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‘Nu cuzzarule ‘nnanze ‘o purtecate, s’aggarbe a megghie a megghie le stuale… Pure a ijdde se ve ‘ngegne ‘na sciurnate, mijnze a le zoke, atturne a chidde pale. Indr’a luggette, n’ogna cchiu lundane, ste ‘na trezze d’agghie e ‘u melone appise… ‘Na nonne ste tremende su ‘a duane, po’ s’addurmesce, dosce dosce, azzise. Jè quiste ca rumane a Tarde vecchie… Do luce appezzecate e a receddije… Ci vide mò ‘a marine e mijtte recchie, ‘a sjjnd’angore quedda nustalgije!!!
Vico Ospizio. 32
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Usanze antiche Un tempo, quando il bambino starnutiva, bisognava rispondere: “bbona sorte”; se sbadigliava: “crisce sand’e ricche”; se faceva il rutto: “mele, zucchere e cannelle”. Se non si facevano queste invocazioni, il bambino prendeva il malocchio, ed allora bisognava porre subito rimedio dicendo: “Benediche, benediche, ca ci no ddice benediche, fin’a ‘ngape ‘a ‘mbbidie arrive”. Mentre, per far mangiare i bambini, c’era questa tiritera: “Luna lune, tre piatte de maccarrune; mocc’a tte, mocc’a mme, mocc’o fìgghie de mest’andre’; mest’andre’ ste’ malate, e vocchianne a ciucculate; ciucculate none ste’, e vva vide ‘a pute’; ‘a pute’ ste’ achiuse, ficc’u dicete e ‘nghiane suse”. Il bambino apriva la bocca, incantato dalla tiritera, e immediatamente la mamma lo imboccava. L’ho fatto coi miei figli, lo sto facendo coi miei nipoti: funziona! Quando, invece, si doveva far dormire il bambino, si intonava questa nenia: “Nenna nanne, nennaredde, ‘u lupe s’ha mangiate ‘a pecheredde; oh pecheredda meje cume faciste, quanne mocche a nu lupe te vediste; oh pecheredda meje cume lucculaste, quanne mocche a nu lupe tu t’acchiaste”.
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Piazza Fontana.
Storia e tradizioni natalizie Il Natale tarantino Parlando del Natale in città vecchia va ricordato che le feste natalizie tarantine sono tra le più lunghe, poiché durano 46 giorni: si comincia il 22 di novembre, giorno di santa Cecilia, e terminano il 6 gennaio, giorno dell’Epifania. In Sicilia, invece, le feste natalizie un tempo iniziavano addirittura il 2 di novembre, giorno della Commemorazione dei defunti. Proprio in quel giorno i bambini ricevevano dei doni (modesti, ovviamente, commisurati alle possibilità economiche del tempo). I regali venivano fatti dagli adulti ai bambini in ricordo dei cari estinti. Mentre in alcune regioni dell’Europa del Nord i festeggiamenti del santo Natale hanno inizio l’11 di novembre, festa di san Martino.
L’Avvento La domenica successiva al 22 novembre, per la Chiesa inizia il periodo dell’Avvento, cioè dell’Attesa, che precede la ricorrenza del santo Natale.
Santa Cecilia “Ci Natale bbuene vuè ccu face, de sanda Cecilie ha ’ccuminciare!”. Cecilia, nome dolcissimo, secondo le scritture antiche nacque in una famiglia patrizia di Roma intorno al III secolo. La fanciulla, educata cristianamente dalla madre, desiderava consa35
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crare la propria vita al Signore Dio. Il padre, però, l’aveva promessa in sposa ad un pagano di nome Valerio. Costretta a sposarsi, Cecilia confidò al marito di aver consacrato il suo corpo e la sua anima a Dio, convincendolo a non tentarla e a consacrarsi anche lui alla fede cristiana, battezzandosi. Chiamata in tribunale con l’accusa di diffondere il Cristianesimo fu condannata alla pena estrema. E, dopo vari tentativi per ucciderla mediante il fuoco e poi l’impiccagione, morì decapitata, dopo aver chiesto di incontrare per l’ultima volta il papa. Nel IX secolo, papa san Pasquale I fece traslare le reliquie della santa in Trastevere nella chiesa ad essa dedicata. Nel 1599, in occasione dei restauri della chiesa, il corpo di santa Cecilia, riesumato, fu trovato intatto. Santa Cecilia è protettrice di cantori, cantanti, musicisti e fabbricanti di strumenti musicali.
Santa Cecilia, che si venera nella cattedrale di Taranto. 36
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Le Pettole e le sue leggende La mattina del 22 di novembre, a Taranto le mamme di un tempo facevano le pettole e le portavano ai bambini ancora a letto, dando loro un dolce risveglio (grazie al cielo lo fanno anche molte mamme d’oggi). La tradizione delle pettole è antichissima, e viene fatta risalire alla presunta venuta a Taranto di san Francesco nel 1224, quando il pio fraticello, girando per la Puglia, faceva edificare conventi che, in seguito, furono a lui dedicati. Era il 22 novembre quando venne anche a Taranto (?) per individuare un luogo ove edificare un convento. Francesco, già in odore di santità, camminando per ’a strata Maggiore, benediceva le folli che l’attorniavano per ricevere anche una parola di conforto. Addirittura c’era chi gli tagliuzzava il saio (come, in seguito, avverrà anche col nostro sant’Egidio). Una nonnina, saputo che il frate stava per passare sotto il suo balcone, si affacciò per ricevere anche lei la benedizione, ma così facendo trascurò la lievitazione dell’impasto di farina che aveva approntato per fare il pane. L’impasto lievitato cominciò a gonfiare, divenne molliccio e prese a debordare (‘a spetterrare) dal contenitore. Alcuni dei pezzi fuoriusciti caddero in un tegame (indr’a frezzole), suscitando l’ilarità di tutti i bambini, che incominciarono a sfottere la vecchietta; la quale, per zittirli, mise altri “pezzi” nel tegame, friggendo delle frittelle (le pettele) che poi zuccherò e distribuì a quei panarijdde (ragazzi di strada): nacque così la pettola, e con essa il culto e la tradizione di santa Cecilia. Un’altra leggenda, ambientata nel leccese, riporta che la pettola nacque in un convento femminile che era a pochi chilometri dalla città di Lecce, vicino a Galatina. Si racconta che, per l’inizio dell’Avvento, i fedeli facessero un pellegrinaggio in quel pio luogo. Un anno di molti secoli fa, mentre i viandanti pellegrini stavano per intraprendere la strada del ritorno, un forte temporale bloccò il loro rientro a casa, costringendoli a rimanere nel convento. Le suore riuscirono a trovare un giaciglio per tutti all’interno del convento per la forzata sosta notturna, ma non avendo da offrire molto da mangiare, soprattutto ai tanti bambini presenti, utilizzarono quel poco di farina che avevano per cuocere delle frittelle (ai bambini fu aggiunto un po’ di zucchero): così nacque, nel leccese, la pittula. Un’altra leggenda, ancora, è legata alla visita che Maria fece ad Eli37
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sabetta: la trovò che stava impastando la farina per fare il pane. Ma fu così eclatante la notizia della maternità di Maria, che Elisabetta dimenticò che l’impasto stava intanto lievitando e così quella divenne molliccia; per non disperdere il lievito e la farina, utilizzò quell’impasto per cuocere delle frittelle, chiamate “pettole della Natività”. In realtà, questo misero dolce natalizio, potrebbe rappresentare il pasto di un tempo della gente povera.
Chiesa San Michele: “La visitazione di Elisabetta”, secolo XVIII, di autore ignoto.
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La ricetta delle pettole Dal Ricettario della cucina tradizionale tarantina realizzato dalla scuola media Galilei in città vecchia. Ingredienti: 1 chilo di farina, un lievito di birra, 1 cucchiaio raso di sale, acqua q. b. Impastare la farina col lievito di birra e il sale sciolto nell’acqua, lavorarla fino ad ottenere un impasto semiliquido (aggiungere ulteriore acqua se la pasta dovesse risultare compatta) e lasciare lievitare per circa un’ora; mettere sul fuoco una padella con abbondante olio d’oliva; immergere la mano nell’impasto, stringendola a pugno: tra il pollice e l’indice si formerà una pallina, che dovrà essere staccata con l’altra mano e lasciarla cadere nell’olio; continuare questa operazione finché la padella non si sarà riempita di pettole. È molto più facile servirsi di un cucchiaio inumidito per versare nell’olio i piccoli quantitativi di pasta. Si possono condire le pettole con zucchero, con miele o vincotto.
Preghiera a Maria Vergine Legata all’Annunciazione di Maria Vergine vi un’antica laude: “Marije, indr‘a camere ste prijave, totta cundegnose de vergenetate; ‘u sblendore asseve da tutte le vanne, cu le fiure a canistre da l’arcate; l’angelicchie faceren‘a candate: scennì ‘u Spirete sande, Ave Mmarije: – ije no’ sacce ci site, bedde mije, – ije so’ l’Angele mannate da Ddije; – ije no’ sso’ degne de tanda putenze; – Tu si degne ca no’ fface fallenze!” 39
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Chiesa san Michele: “L’annunciazione”, secolo XVIII, autore ignoto.
Le Pastorali Con santa Cecilia inizia ’a nuele (la novena), le pastorali, nenie dolcissime e antiche (ma non antichissime, la prima pastorale fu incisa nel 1870 dal capitano d’Artiglieria Giovanni Ippolito). Ecco un elenco, non completo, dei tanti musicisti che hanno scritto pastorali. Caggiani Gennaro direttore della Banda municipale, compose molta musica sacra e sinfonica, una pastorale e una marcia funebre. Morì nel 1906. Carducci Carlo Agustini Tarantino, nato nel 1871 e morto nel 1959, fu direttore di varie filarmoniche religiose da lui stesso costituite. Compose una pastorale ed 40
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una marcia funebre. Colucci Domenico nacque a Ostuni (Br) nel 1874, morì a Taranto nel 1931. Maestro e direttore d’orchestra, si diplomò presso il conservatorio di San Pietro alla Maiella di Napoli. Nel 1921 fu chiamato a Taranto per dirigere il concerto municipale Giovanni Paisiello, posto che occupò fino alla sua dipartita. Compose una pastorale e una marcia funebre. De Benedictis Francesco nacque a Taranto nel 1855, morì nella stessa città il 14 gennaio 1933. Studiò al Conservatorio di San Pietro alla Maiella di Napoli, diventando un famoso musicista. Fu direttore delle Bande musicali Giovanni Paisiello (nel 1895) e Giuseppe Verdi (nel 1905). Delle sue produzioni musicali, oltre alle marce sinfoniche e i ballabili, vi furono una pastorale e alcune marce funebri. Ippolito Giovanni Con delibera comunale n. 7 del 22 novembre 1875 fu approvato il regolamento della nuova Banda municipale (un tempo Banda Guardia Nazionale), e con essa la nomina ufficiale del nuovo direttore, individuato nella persona dell’ex capitano d’artiglieria, Giovanni Ippolito. In seguito la stessa Banda si chiamò Banda Municipale. Giovanni Ippolito fu autore della prima e famosissima pastorale, intitolata La Pastorale di Ippolito. Morì a Taranto nel 1893. Lacerenza Giacomo nacque a Trinitapoli nel 1885, morì nel 1952 a Roma. Tarantino d’adozione, è considerato ancora oggi il miglior solista di flicorno soprano delle Bande cittadine di tutte le epoche. Fu compositore di molte opere sinfoniche, ballabili e marce funebri, tra cui si ricorda Tristezza. Scrisse le Pastorali natalizie distinte con N° 1 e N° 2. Latagliata Davide Nicola nacque a Taranto nel 1899, morì a Roma nel 1977. Diresse i concerti bandistici di Venosa, Laterza, Serradifalco e Taranto. Compose tantissime musiche, 2 pastorali natalizie e alcune marce funebri. Nella città vecchia c’è Largo Latagliata. 41
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Edicole votive Io, figlio dello “Scoglio” (la città vecchia), ricordo quelle pastorali, musiche che venivano suonate indr’a le strittele davanti a delle edicole votive: erano piccoli altarini ricavati nei muri che ancora esistono, anzi “resistono” all’incuria e all’abbandono. Ad ogni edicola votiva, davanti alla quale si sostava, ai musicisti ve-
Sopra: edicola votiva in Salita tre Scalini e in Vico Mezzobusto. In basso: edicola votiva in Via di Mezzo e in Via Garibaldi (rappresenta Sant’Irene).
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niva offerto ‘u resolie (il rosolio), liquore che un tempo veniva prodotto in casa dalle massaie. Alla fine della serata la Banda musicale, mezza ubriaca, per accontentare le panarijdde che l’avevano accompagnata in ogni vicolo, suonavano una pizzica: “Sciatevennite, sciatevennite, ca ‘u tiatre s’ha fenite!” (A cui si rispondeva): “Abbasce a marine, ha nnate ‘u bammine ci jè ricche a denare… …no jè marenare…”
Gli zampognari Un’altra attrattiva molto bella, per i ragazzi dell’epoca, erano gli zampognari, che di buon mattino, dalle campagne lontane, venivano a suonare con le loro zampogne nei vicoletti di città vecchia: poveri fra i poveri, si accontentavano di pochi spiccioli e qualcosa da mangiare.
Zampognari in una strada di Taranto. 43
Presepe allestito nella cripta della Cattedrale di Taranto.
Presepe dell’Associazione Taranto Centro Storico.
Presepe: storie, tradizioni e credenze Il Presepe di san Francesco La parola presepe deriva da praesepium, cioè mangiatoia, stalla. Ufficialmente il presepe (quello vivente) nacque nel 1223 a Greggio, provincia di Rieti, per iniziativa di san Francesco, che voleva rappresentare così il mistero della Natività alla popolazione del luogo che, essendo quasi completamente analfabeta, non comprendeva il parlare forbito. «Voglio testimoniare praticamente i disagi in cui è nato il Figlio di Dio, e il freddo sofferto in una mangiatoia riscaldata dall’alitare del bue e l’asinello»: così confidava Francesco a Giovanni Vellita, un possidente del luogo che lo aiutò nell’allestimento del primo presepe. Il frate chiese l’autorizzazione al pontefice Onorio III per allestire il presepe in una grotta situata nel bosco vicino al suo convento, mettendoci dentro anche un bue ed un asinello. La notte santa il frate condusse alla grotta le genti del luogo, alle quali tenne una importante predica. Rese, così, comprensibile la Natività di Gesù Bambino. Nella Cappella Sistina di Santa Maria Maggiore in Roma si può ammirare un antico presepe realizzato in alabastro nel 1289 da Arnolfo da Cambio, a forma di una casetta. La cultura del presepe, incominciò a espandersi nel 1400. Mentre, nel XVI secolo, san Gaetano da Thiene lo diffuse in tutte le chiese.
Il Presepe popolare napoletano Nel XVIII secolo l’allestimento del presepe divenne popolare, dif45
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Negozio di presepi a Napoli in Via San Gregorio Armeno.
fondendosi nelle famiglie soprattutto a Napoli ai tempi del regno di Carlo III di Borbone. Da allora, i presepi non furono più scolpiti sulla pietra, come nel periodo di san Gaetano da Thiene, la cui realizzazione richiedeva troppo tempo (in terra d’Otranto, in quell’epoca, si usava la “pietra leccese”; a Taranto, il carparo). Il nuovo sistema, più economico, prevedeva all’esterno l’uso del legno, con all’interno una “anima” di ferro, e la terracotta. Nel tempo, sempre in Terra d’Otranto, fu usata un’altra tecnica: la cartapesta, ancora molto usata nel leccese per realizzare le statue. Fu chiamato “presepe popolare” perché vennero rappresentati, oltre la Madonna, san Giuseppe, il bue e l’asinello, anche altri personaggi del ciclo della vita (il pastore, il contadino, le pecorelle, il fornaio e tutti quelli impegnati nei mestieri artigianali e domestici dell’epoca). Oggi, il presepe napoletano è un’attrazione culturale e turistica molto sentita. 46
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Un caratteristico presepe rupestre.
Il Presepe tarantino Sempre il 22 novembre nelle case tarantine si inizia a fare il presepe. Ma a Taranto, quando i presepi incominciarono a farsi in ogni casa, data la povertĂ , non erano cosĂŹ imponenti come lo sono oggi: le statuette venivano realizzate manipolando la mollica del pane e rivestite, poi, con ritagli di giornali: un presepe povero in un territorio molto desolato, qual era la Taranto borbonica.
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