Taras Tarentum Taranto

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MARIO GUADAGNOLO

Τ Α Ρ Α Σ ~ TA REN TU M

TA R A N TO

L’EVOLUZIONE URBANISTICA DALL’ETÀ GRECA AI NOSTRI GIORNI Immagini a confronto

Scorpione Editrice


Evoluzione urbanistica della Città di Taranto attraverso i suoi piani regolatori K

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primi insediamenti certi sul territorio dove in seguito sarebbe sorta la città di Taranto sono quelli di cui si sono rinvenuti i resti presso lo Scoglio del Tonno, l’attuale zona Croce, databili intorno al 2800-3000 a.C. Lo Scoglio del Tonno è quella parte della città nei pressi del cavalcavia che si estendeva dalla zona ove sorge attualmente la chiesetta della Croce, edificata alla fine del XVII secolo dal Beato Angelo da Acri venuto a predicare a Taranto per la Quaresima, fino al Ponte di Porta Napoli. Nel 1889 la zona fu tagliata per la costruzione della ferrovia ed ha assunto la configurazione attuale.

L’archeologo Quintino Quagliati per primo scoprì nella zona indizi di un abitato costituito da fondi di capanne con tombe a fossa scavate nella roccia e costruite con lastre di pietra locale riferibili al 2800-2300 a.C.

Lo Scoglio del Tonno, prospiciente Mar Piccolo e in posizione dominante rispetto alla rada esterna di Mar Grande, diventò un centro di traffici commerciali con il mondo miceneo; infatti sempre il Quagliati ritrovò nei livelli più alti dello scavo stratigrafico fondi circolari di capanne, oggetti metallici, idoletti, statuette e frammenti ceramici di età micenea. La dicitura Scoglio del Tonno non ha nulla a che vedere con la pesca dei tonni. Il nome Scoglio del Tonno deriverebbe da una storpiatura della dizione Scoglio Rotondo.

Scoglio del Tonno prima della demolizione nel 1889.

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La leggenda

La fondazione di Taranto

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iferiamo in maniera sintetica e per semplice informazione le notizie sulla fondazione della città di Taranto sulla quale si è scritto molto e in manierà più autorevole della nostra.

La leggenda parla di un mitico fondatore Taras partito dall’isola di Creta con alcune navi il quale, dopo molte peripezie, era approdato presso la foce del fiume che da lui prenderà il nome di Tara ad ovest della città a circa 6 Km da Massafra. Qui, mentre i suoi compagni offrivano sacrifici a Poseidone, gli apparve un delfino. Tale apparizione fu interpretata come segno di buon augurio e di esortazione degli dei a fermarsi e a fondare la città che da Taras avrebbe preso il nome di Taranto. Tutto ciò sarebbe avvenuto intorno al 2019 a. C.

In realtà i primi abitatori di cui si hanno notizie certe e precise sono gli Iapigi, di origine cretese, venuti in Italia al seguito del loro capostipite Japige che occupò la parte sud-est della Puglia, detta poi Japigia o anche Messapia o Calabria. Tali cretesi, durante il viaggio di ritorno a Creta dalla Sicilia dove avevano accompagnato il loro re Minosse che quivi era morto, furono sorpresi da una tempesta e sbattuti sulle nostre coste. Approdati alla baia di Saturo, furono affascinati dalla bellezza dei luoghi e dalla mitezza del clima e per questo decisero di rimanere e di fondare una città. La leggenda aggiunge anche che con Japige sarebbe venuta anche Saturia figlia di Minosse della quale si sarebbe invaghito Poseidone dio del mare.

Dalla unione tra Poseidone e Saturia sarebbe nato Taras che poi avrebbe fondato Taranto. Al di là della leggenda il dato storico che da essa va tratto è che certamente una città esisteva prima dell’arrivo dei greci.

La storia

Taranto Spartana

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econdo Antioco Siracusano, mentre Sparta era in guerra con i Messeni, una parte degli spartani non aveva partecipato alla guerra ed era rimasta in patria. Per questa ragione era stata dichiarata di condizione servile e ridotta allo stato di Iloti. Durante il conflitto ed in assenza degli Spartiati, dall’unione tra gli spartani rimasti in patria e le donne degli Spartiati in guerra nacquero dei figli che vennero chiamati in segno dispregiativo Parteni. Costoro mal sopportando tale ignominia e tale discriminazione si ribellarono e, guidati da Falanto, ordirono una congiura contro gli Spartiati. Scoperti furono costretti a fuggire. Dopo un lungo girovagare approdarono sulle nostre coste presso la baia di Saturo. Falanto vedeva in tal modo realizzarsi l’oracolo di Delfo che aveva interrogato prima di partire e che gli aveva predetto «A te io diedi di abitare Satirio e la pingue di Taranto campagna ed essere danno al popolo Japigio».

Sul quando ciò sarebbe accaduto si inserisce la leggenda. L’oracolo in merito al momento in cui Falanto si sarebbe dovuto fermare avrebbe

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sentenziato:”Quando vedrai piovere a ciel sereno”. Ora Falanto aveva una moglie che si chiamava Etra che in greco significa “cielo sereno”. Un giorno mentre Falanto e i suoi erano accampati nei pressi della baia di Saturo, Etra proruppe in lacrime. Da questo segno Falanto comprese che quella era la terra predetta dall’oracolo poichè le lacrime sgorgate dagli occhi di Etra altro non erano che la “pioggia che cadeva dal ciel sereno” predetta dall’oracolo. Falanto perciò si stabilì definitivamente su queste terre e, diretto alla volta di Taranto, abitata dagli Japigi di origine cretese, la conquistò non senza difficoltà poiché gli Japigi difesero strenuamente la loro terra. Sotto la guida di Falanto la città si ingrandì e assunse una grande importanza. Tutto ciò accadeva nel 706 a. C.

Sull’origine della città ci sono anche altre versioni, come quella di Eforo, Giustino e Strabone, delle quali non mette conto qui parlare poiché non è negli intenti del nostro lavoro occuparci delle origini della città. Tutte le versioni però confermano che la città, oltre agli insediamenti dell’età micenea, ha conosciuto due altri insediamenti quello japigio-cretese e quello greco-spartano che sono all’origine della fondazione storica della città.

La configurazione urbana della Città di Taranto in età greca

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a per rimanere agli aspetti più particolari riguardanti lo sviluppo urbanistico della città che è nell’intenzione del nostro lavoro indagare è utile preliminarmente chiederci qual’era la fisionomia urbana della Taranto greca.

La città, già intorno alla metà del V secolo si presentava spalmata su un territorio che andava ben oltre l’attuale centro storico per arrivare fino agli attuali Arsenale e Via Leonida e addirittura ancora oltre fino alle rive del Mar Piccolo come testimoniano gli innumerevoli reperti archeologici trovati durante la costruzione dell’Arsenale e catalogati da Luigi Viola. D’altro canto là dove nella seconda metà dell’Ottocento sarà costruito il Regio Arsenale Marina Militare, sulle rive del Mar Piccolo tra il Pizzone e l’attuale canale navigabile, sorgeva la bellissima rada (poi detta di Santa Lucia) nella quale era ubicato il porto della Taranto greca ricco di attività pescherecce e commerciali. Il porto, sicuro per la sua ubicazione, protetto naturalmente dalle incursioni esterne e commercialmente molto fiorente per la sua invidiabile posizione, faceva della città uno snodo commerciale importante per chi da occidente voleva raggiungere l’oriente e viceversa. Taranto era una città importante, capitale di una estesa repubblica che, secondo il De Vincentiis “era più vasta ed assai popolata di Atene, seconda dopo Siracusa e prima tra le città greche” 1. L’antica penisola su cui sorgeva la città, divenuta col taglio dell’istmo di est definitivamente isola, si estendeva su uno spuntone di roccia lungo circa 900 metri e largo mediamente 250 con un profilo longitudinalmente ondulato che raggiungeva il suo punto più alto rispetto al livello del mare, 16 metri, al centro della dorsale che lo attraversava, l’attuale via Duomo. La rocca era bagnata dal mare da tre lati, dominava i due specchi d’acqua che la circondavano ed era

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Pianta topografica di Taranto elaborata da Luigi Viola, 1881.

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Pianta topografica di Taranto in etĂ greca elaborata da Gino Lo Porto, 1970.

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collegata alla terraferma ad est da un piccolo istmo e ad ovest da un canale. La costa a sud lungo Mar Grande (l’odierno Corso Vittorio Emanale II o Ringhiera) cadeva a picco sul mare. Anche la costa a nord lungo Mar Piccolo era delimitata dalla roccia lambita dal mare. La parte bassa della città, l’attuale Marina, non c’era. Essa sarà costruita su sedime di materiale di risulta nel 967 dal magistros Niceforo Foca Hexakionites, omonimo dell’imperatore bizantino Niceforo Foca II, dal quale aveva ricevuto l’incarico di ricostruire e fortificare la città dopo la distruzione dei saraceni del 923. Per questa ragione Taranto era considerata nell’antichità una roccaforte inespugnabile. Già Luigi Viola a seguito di ricerche, sondaggi e sopralluoghi sugli scavi, era giunto ad una prima conclusione circa l’impianto topografico della città.

Il cuore della città era l’acropoli che aveva un impianto ortogonale il cui perimetro misurava 2000 metri con una superficie di non oltre 16 ettari.

Essa era solcata longitudinalmente da un’importante arteria, la platea magna, corrispondente all’attuale Via Duomo, fiancheggiata da strade minori trasversali. Lungo la direttrice di tale arteria, secondo Gino Lo Porto, dovevano sorgere diversi templi dedicati a dei pagani. La circostanza è confermata dagli scavi al di sotto delle attuali chiese cristiane che hanno rivelato la presenza di resti di fondazioni di antichi tempi pagani. Le ben note colonne doriche in piazza Castello sono per esempio i resti di un tempio arcaico che erano stati incorporati nella Chiesa della S.S.Trinità all’imbocco di Via Duomo e lo stereobate rinvenuto sotto le fondazioni della Chiesa di San Domenico, appartenente certamente ad un tempio greco di notevoli proporzioni, sono la testimonianza che quello che sostiene Lo Porto ha ottime probabilità di corrispondere al vero. “Si ha quindi la prova, scrive Lo Porto, che almeno alle due estremità, quella orientale e occidentale dell’acropoli, in corrispondenza di due chiese cristiane, sorgevano due imponenti templi e forse entrambi di età arcaica. Si può quindi supporre, in analogia con Siracusa e Agrigento, che altri templi possano trovarsi sotto le altre chiese allineate sull’altura di Taranto vecchia” 2. E sotto la cattedrale di San Cataldo, secondo il Wuilleumier, ci sarebbe un tempio dedicato ad Eracle nel quale doveva essere oggetto di culto la seconda colossale statua bronzea di Lisippo, (l’altra era quella di Zeus, alta 18 metri che probabilmente era collocata nell’agorà) raffigurante Eracle stanco dopo il combattimento. Perpendicolarmente all’attuale Via Duomo, si dipartivano diverse vie che degradavano verso il mare. In corrispondenza di tali vie in età greca e romana si aprivano sulle mura delle aperture denominate “portuale” che servivano per mettere in comunicazione la cittadella con il porto. La dimensione dell’Acropoli, se poteva risultare accettabile per i primi coloni del VI e VII secolo, era certamente insufficiente per una città destinata ad espandersi, cosa che puntualmente avvenne intorno al V scolo a.C. quando Taranto fu protagonista di una tumultuosa espansione in direzione est. A seguito di tale espansione il sistema di protezione della cinta muraria della città fu allargato. L’acropoli conservò le sue mura ma la cinta difensiva della città fu rafforzata con la costruzione di un sistema difensivo esteso per oltre 10 chilometri. La Taranto greca quindi, con i suoi 12 chilometri di perimetro e i suoi 560 ettari di superficie era considerata come una delle città più estese del mondo ellenico. Tale sistema di difesa, partendo dall’acropoli si biforcava seguendo la linea

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di costa a sud del Mar Grande e a nord del Mar Piccolo. Il muro, all’altezza del luogo dove attualmente sorge l’Arsenale, piegava verso sud lungo un percorso che seguiva grosso modo la direttrice dell’attuale Via Leonida, si modellava, seguendo un percorso ad angolo ottuso, sull’avvallamento già da allora detto della Salina Piccola per congiungersi con le mura che costeggiavano Mar Grande all’altezza di Montegranaro. Le mura avevano uno spessore di m. 2,60 ed erano costituite da due linee parallele di grossi blocchi di carparo riempite di terra e pietrame. Un fossato largo 11 metri e profondo 3,50 separava le mura dall’esterno. Tali mura furono distrutte quando Taranto nel 275 fu presa dai romani e furono ricostruite su ciò che rimaneva delle precedenti prima della seconda guerra punica.

Lungo la cinta muraria, scrive Gino Lo Porto, “dovevano aprirsi numerose porte, di cui alcune rese celebri nei testi antichi riguardanti l’occupazione romana e cartaginese” 3. Di esse non si hanno notizie dettagliate tranne che per due, la porta Temenide e la Porta Rinopila, (ce ne parla il Lenormand), la prima in zona detta Collepazzo l’altra nella zona Murivetere (Montegranaro). Questa imponente cinta difensiva proteggeva la città che si era sviluppata al di là dell’acropoli e che era disegnata su un impianto urbanistico a pianta di tipo ippodameo. E Gino Lo Porto, da cui abbiamo ripreso le notizie riferite all’impianto urbanistico della Taranto greca, dimostra la veridicità di tale asserzione con la “contemporaneità con la data della fondazione di Turi (444-443 a.C.) su disegno di Ippodamo di Mileto…La realizzazione di questo impianto che si riscontra quasi contemporaneamente a Heraclea di Lucania, (oggi Policoro), fondata da Turii e Tarantini nel 433-432 a. C. coincide del resto con l’introduzione di esso nelle colonie greche dell’Italia meridionale e della Sicilia“.4

La città bassa, secondo questo impianto urbanistico, era solcata da importanti arterie parallele orientate in direzione nord-sud che collegavano il Mar Piccolo con il Mar Grande. Tali vie non dovevano essere tutte importanti poiché alcune di esse sono risultate dagli scavi piuttosto strette mentre molto importanti, anche se meno numerose (distavano tra di loro oltre 142 metri), erano le tre arterie che le incrociavano ad angolo retto in direzione ovest-est. Quindi l’impianto urbanistico della città bassa era costituito da un reticolato viario quasi simile a quello attuale.

Scrive Lo Porto “Si ha quindi in Taranto una pianta della città a reticolato viario quasi coincidente con quello attuale il quale si inserisce perfettamente nell’area pianeggiante cinta dalle mura che abbiamo datato alla metà inoltrata del V secolo e con le quali esse si allineano parallele con assoluta precisione nel tratto est il più importante della cerchia. Ne consegue che mura e sistema di viabilità ortogonale sorgono contemporaneamente e costituiscono a Taranto un impianto urbanistico perfezionato a pianta di tipo ippodameo”.5 Questo quindi l’impianto urbanistico della Taranto del V secolo a.C. che rimarrà sostanzialmente invariato fino alla conquista romana.

In questo reticolato si inserivano le “insulae” (gli isolati), che probabilmente non avevano la precisione geometrica degli attuali isolati scandite com’erano da case per abitazione, templi e strutture per il tempo libero. Infatti in questa parte della città, che coincide grosso modo con l’attuale zona che dal canale si estende fino ad oltre Piazza Garibaldi, Strabone e Polibio localizzavano l’antica agorà alla

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Pianta topografica di Taranto in età greca secondo Gino Lo Porto, 1970.

Pianta topografica di Taranto in età classica secondo P. Wuilleumier, 1939.

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quale si accedeva tramite tre importanti arterie che servivano anche a delimitarla.

“Queste tre strade, scrive Lo Porto, certamente le più importanti della città, l’attraversavano per lungo e sfociavano in un’ampia area rettangolare compresa fra l’attuale canale navigabile e l’estremità orientale dell’odierna Piazza Garibaldi….Ne consegue che l’agorà di Taranto corrispondeva almeno allo spazio di sei isolati, occupava un’area di ben m. 213,12 x 284,16. Si trattava quindi di una piazza immensa… degna del colosso bronzeo di Zeus di Lisippo, celebrato da Plinio per le sue doti di equilibrio stabile e che vi si ergeva per circa 18 metri di altezza…”6.

Delle tre strade di penetrazione nell’agorà a cui fanno riferimento Strabone e Polibio, le due laterali, che la costeggiavano e la limitavano a sud e a nord, si fermavano ai piedi dell’acropoli (cioè all’altezza dell’attuale canale), la terza, quella centrale, continuava oltre l’agorà e la metteva in comunicazione, attraverso una porta aperta nelle mura, con l’acropoli. Le due strade laterali, quella a nord, detta Soteira così denominata secondo il Wuilleumier in onore di Poseidon Sotèr, e quella a sud detta Bateia, cioè via Bassa, non correvano lungo le linee di costa dei rispettivi Mar Piccolo e Mar Grande ma erano ortogonali rispetto all’agorà. E questa circostanza ha una rilevante importanza se Lo Porto ci tiene a sottolinearlo “Correvano rettilinee, parallele e interne e non come si era fin qui creduto, esterne e correnti lungo le coste divergenti e tortuose dei due mari”. 7

L’Agorà era adornata da marmi e sculture di grande pregio ed imponenti per dimensioni come le due statue in bronzo di Zeus e di Ercole opera di Lisippo.

La statua di Zeus si innalzava sull’Agorà ed era ritenuta per la sua altezza pari a 40 cubiti (18 metri) il colosso più grande del mondo antico dopo quello di Rodi, alto 70 metri, costruito nel III secolo A.C. da Carete, allievo di Lisippo, sul modello dello Zeus di Taranto. Lo Zeus di Lisippo era raffigurato in piedi con in mano le folgori in atteggiamento da combattimento. La statua di Ercole, anch’essa di dimensioni gigantesche che il Wuilleumier ritiene invece collocata nell’acropoli, nel tempio dedicato ad Ercole sulle vestigia del quale sarebbe stato costruito l’attuale duomo di San Cataldo, raffigurava l’eroe seduto e quindi era meno alta di quella di Zeus.

Tale statua nel 209 A.C. fu trasportata a Roma e collocata in Campidoglio da Quinto Fabio Massimo da dove nel 325 sarebbe stata trasferita al Circo di Costantinopoli.

Lì la statua venne ridotta in pezzi e fusa e di essa si persero definitivamente le tracce. Nell’agorà è presumibile sorgessero sontuosi ed importanti edifici pubblici dei quali però non disponiamo di testimonianze archeologiche ma solo di riferimenti letterari. Strabone ci parla di un bellissimo Ginnasio, Ateneo di un Pritaneo, luogo dove i Pritani amministravano a turno la giustizia, nel quale ardeva il celebre candelabro che Dionisio il Giovane aveva donato ai Tarantini e che aveva tanti bracci quanti erano i giorni dell’anno, Plutarco ci parla dei Peripatoi, giardini presumibilmente ubicati presso l’attuale villa Peripato, Polibio magnifica il Museion e Viola ci parla di un teatro. Taranto doveva avere due teatri dei quali il più importante, quello di Dioniso, ubicato nella parte bassa

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della città, era rivolto verso il mare.

Secondo Viola e Lenormand esso, in epoca romana sarà trasformato in quell’anfiteatro romano i cui resti si trovano nella zona alle spalle dell’ospedale vecchio sulla Via Anfiteatro sotto l’attuale mercato coperto del Borgo.

A proposito del Pritaneo occorre dire che la maggior parte degli storici lo colloca nell’Agorà, pressappoco nel luogo dove ora è ubicato il Palazzo degli Uffici, ma occorre riferire anche che D.L. De Vincentiis, storico che scrive nel 1878, è convinto che il Pritaneo fosse collocato nella parte alta della città, l’acropoli, sul posto dove ora è ubicato il Convento di San Domenico. De Vincentiis basa la sua convinzione sulla considerazione che le città greche, e Taranto era una città spartana, il loro Pritaneo lo avevano sempre collocato accanto all’acropoli. La città bassa conteneva entro il suo perimetro anche la necropoli.

I tarantini, anteriormente al V secolo, in età arcaica, avevano riservato un vasto territorio alla custodia dei loro morti seppellendoli all’esterno delle mura per cui, quando nel V secolo la città si espanse verso est, inglobò la preesistente necropoli primitiva e quella che era stata predisposta per il futuro. I greci arcaici non solevano seppellire i loro morti all’interno delle mura delle loro città, infatti all’interno dell’acropoli non sono state trovate tombe. Polibio giustifica la presenza di tombe all’interno delle mura della città bassa non con ragioni di tipo contingente quali quelle relative al fatto che al momento dell’espansione della città bassa la necropoli di età arcaica c’era già per cui fu giocoforza inglobarla all’interno delle mura, ma con la volontà dei tarantini di adeguarsi ad un oracolo che li voleva godere di ogni benessere qualora avessero sepolto i loro morti all’interno della città.

vivi.

Anche la città dei morti seguiva lo stesso impianto ortogonale di quella dei

La nuova necropoli infatti era attraversata dalle arterie principali della città. “L’esame dei numerosissimi rilevamenti tombali, scrive Lo Porto, ha senza alcun dubbio dimostrato che le sepolture, siano esse a semplice fossa o a camera ipogea con o senza dromos, sono, a partire dal V secolo allineate secondo assi ortogonali perfettamente orientati con l’impianto urbano della città bassa spesso raggruppandosi dentro isolati con ordine forse prestabilito…” 8. Fin qui le conclusioni sulla struttura urbanistica della Taranto greca che il professor Felice Gino Lo Porto ha esposto al X° Convegno di studi internazionali della Magna Grecia tenutosi a Taranto dal 4 all’11 ottobre 1970. Anche Attilio Stazio, archeologo di prestigio ed animatore dei Convegni di Studi sulla Magna Grecia, condivide le tesi di Lo Porto. Secondo Stazio la Taranto ellenistica e poi romana era distinta in tre zone: la prima era costituita dall’Acropoli, circondata da abitazioni ed edifici pubblici, corrispondente all’attuale parte alta della città vecchia, la seconda era costituita dalla zona di espansione verso est corrispondente all’estensione dell’attuale Borgo fino all’attuale Via Leonida delimitata dalle mura e la terza costituita dalla parte esterna al di là delle mura, un territorio pieno di paludi ed acquitrini. Questa terza zona grosso modo si estendeva dall’attuale Via Leonida fino alla Salina

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Piccola o Salinella per distinguerla dal più vasto ed esteso territorio ancora più ad est anch’esso paludoso chiamato Salina Grande 9. La città quindi, secondo Stazio, doveva avere una forma grosso modo triangolare. Di tale triangolo i lati correvano lungo le rive di Mar Grande e di Mar Piccolo col vertice nell’attuale centro storico (l’Acropoli) e i due angoli adiacenti alla base situati l’uno nella zona di Montegranaro, sul lato Mar Grande, e l’altro nella zona di Collepasso lato Mar Piccolo.

Queste in sintesi le notizie sulla struttura urbanistica della Taranto greca che ci hanno fornito gli archeologi e che sono state riferite nei Convegni di Studi sulla Magna Grecia negli anni 70.

Pare però che successivi scavi e ritrovamenti nel borgo della città condotti dallo stesso Lo Porto non abbiano confermato queste conclusioni.

“Questo scavo ed altri successivi, scrive Enzo Lippolis, non hanno messo in luce resti di strutture o tracce di qualsiasi sistemazione urbanistica, se si eccettuano le impronte di alcune carreggiate. Tra acropoli e polis può essere rimasta una zona libera, forse determinata da una topografia accidentata caratterizzata soprattutto dall’avvallamento in cui è stato ricavato l’attuale canale navigabile” 10 e più avanti “Il riconoscimento del quartiere ortogonale nell’area del Borgo risale al primo tentativo di comprensione organica del problema da parte del topografo tarantino Gino Lo Porto; in questo caso comunque la mancanza di una schedatura di dettaglio e di una specifica elaborazione dei dati rendeva estremamente generica la proposta ricostruttiva sia dal punto di vista planimetrico sia dal punto di vista cronologico, destando numerose perplessità”. 11

Sulla base delle informazioni certe fornite dagli scavi è possibile invece stabilire solo che le tracce sicure di cui disponiamo sono la testimonianza di un’organizzazione regolare dell’abitato riconducibile ad età tardo repubblicana ed imperiale, probabile sistemazione romana della città connessa alla deduzione della colonia Neptunia e alle successive trasformazioni dell’insediamento.

Ma più avanti lo steso Lippolis ammette “Si tratta comunque di elementi estremamente lacunosi che non permettono di ricostruire densità e caratteristiche della maglia urbana. È evidente, in ogni caso, che in tutta la zona esiste un impegno urbanistico programmato, di cui si definiscono prima alcuni assi, poi, forse proprio nel V secolo a.C., e poi si predispone una revisione integrale della suddivisione dello spazio con la costruzione di un nuovo quartiere a pianta regolare; su questa base si ristruttura l’insediamento di età romana per il quale possediamo le maggiori informazioni e di cui, nonostante le numerose lacune, si può ricostruire gran parte della maglia viaria”.12 La posizione del Lippolis, come si vede, è estremamente chiara: della pianta greca non ci sono le testimonianze certe che invece ci sono di quella romana, per cui è di questa che dobbiamo parlare. Questo il dibattito sulla struttura urbanistica della Taranto greca di cui abbiamo riferito solo qualche scampolo per completezza di informazione non possedendo né le competenze né l’autorità nella materia per dire una parola definitiva, anche se, lo confessiamo, l’ipotesi di Gino Lo Porto e di Attilio Stazio ci affascina.

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La questione comunque rimane aperta, le ricerche continuano e il dibattito promette di essere molto interessante. L’ultima parola spetta comunque agli archeologi di professione.

Al momento le conclusioni che possiamo trarre sono le stesse che ha tratto un illustre studioso francese, il Weilleumier, che così riassumeva la geografia della città: “…Taranto si caratterizza per un’acropoli poco elevata, ma assai dirupata, una città estesa, con solide fortificazioni, una grande agorà, larghe vie, numerosi templi ex voto, parecchi luoghi di distrazione e di passeggio, una immensa necropoli che copriva tutta la regione orientale della città”. 13

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D.L. DE VINCENTIIS, Storia di Taranto – Mandese Editore Taranto 1983 FELICE GINO LO PORTO, Topografia antica di Taranto in Taranto nella civiltà della Magna Grecia, Atti del X Convegno di Studi sulla Magna Grecia, Taranto 4-11 Ottobre 1970 Arte Tipografica Napoli 970 Ibidem pag. 365 Ibidem pag. 367 Ibidem Ibidem pag. 369 Ibidem pag. 371 Ibidem pag. 381 ATTILIO STAZIO, La documentazione archeologica in Puglia, Napoli 1968 ENZO LIPPOLIS, La discontinuità della romanizzazione - Il caso Taranto, in “Fra Taranto e Roma – Società e cultura urbana in Puglia tra Annibale e l’età imperiale”, Scorpione Editrice, Taranto 1977, pag. 47 Ibidem pag. 49, nota 63 PIERRE WUILLEUMIER, Taranto dalle origini alla conquista romana, Taranto 1987, pag. 250

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La configurazione urbana della Città di Taranto in età romana

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ella Taranto romana abbiamo testimonianze in Polibio e Strabone. La descrizione di Strabone, nato il 64 a.C. e morto il 20 D.C., è più dettagliata e maggiormente attendibile rispetto a quella di Polibio. Roma e Taranto nel periodo antecedente il III secolo a.C. non avevano avuto rapporti di una qualche importanza.

I destini delle due città cominciarono ad intrecciarsi in maniera definitiva con la lunga guerra durata dieci anni, (282-272 a.C.), conclusasi con la sconfitta di Taranto e con l’imposizione di un pesante trattato. Roma concesse a Taranto una libertà nominale autorizzandola a conservare le proprie leggi e conferendole il titolo di “città federata”. In realtà il foedus era piuttosto oneroso poiché imponeva ai tarantini la fornitura di navi e di truppe e il sostentamento di guarnigioni straniere. La situazione durò per oltre sessanta anni fino al 209 a.C. quando Taranto cadrà sotto l’assedio di Quinto Fabio Massimo e passerà stabilmente sotto il dominio di Roma. Nel corso di questi sessanta anni, malgrado non si sia in possesso di documenti d’archeologia certi, possiamo dire che non si registrarono eccessive trasformazioni del tessuto urbano della città.

D’altro canto i romani avevano lasciato che il vecchio ceppo greco della popolazione continuasse a dirigere la città e l’economia del territorio riconoscendo a Taranto un ruolo economico e militare di primaria importanza. Lo stesso porto mantenne inalterata la sua funzione di snodo commerciale tra il Mediterraneo e l’Oriente.

Le cose mutarono in peggio dopo la caduta della città nel 209 a.C. quando Quinto Fabio Massimo mise Taranto a sacco; gli eccidi, la confisca delle terre, la vendita come schiavi di trentamila tarantini, l’esilio misero a dura prova la città.

Sul destino della struttura urbana di Taranto a seguito della conquista romana le versioni non sono univoche.

Secondo una scuola di pensiero la struttura urbana della città non fu neanche toccata, secondo altri, F. Lenormand in testa, le fortificazioni della città furono rase al suolo e il resto andò ben presto in rovina. Da quel momento Taranto passò direttamente sotto il controllo di Roma per cui eventuali trasformazioni urbanistiche, e non furono poche, non possono che far data da quell’avvenimento. I tarantini, come scrive Tito Livio, persero la loro libertà politica e progressivamente anche la loro coscienza etnica.

Ma la definitiva romanizzazione fu accelerata con la deduzione della colonia Neptunia nel 123 a.C. Dopo le guerre annibaliche Roma si avviò a diventare una potenza imperialistica e Taranto venne ridotta al rango di un modesto centro di provincia abbandonato a se stesso che andò gradualmente ridimensionandosi e spopolandosi. Per questa ragione nel 123 A.C. Caio Sempronio Gracco, fratello di Tiberio, nell’ambito della legge agraria che aveva voluto il fratello e che, allo scopo di distribuire ai contadini poveri un certo numero di iugeri da coltivare, limitava il

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possesso dell’ager publicus a 100 iugeri di terreno (circa 200 ettari), decise di inviare anche a Taranto dei contadini nullatenenti ai quali furono assegnati dei territori da coltivare. L’insediamento di questi contadini diede luogo a quella che fu chiamata la Colonia Neptunia, successivamente denominata Tarentum Neptunia, poiché tali contadini si integrarono definitivamente con i tarantini.

Per quanto riguarda l’aspetto urbanistico della Taranto romana la testimonianza considerata più attendibile dagli storici e dagli archeologi, piuttosto che quella di Polibio, che riferisce la struttura della Taranto antecedente la conquista romana, è quella di Strabone poiché la sua descrizione di Taranto si riferisce al periodo posteriore alla fondazione della colonia Neptunia, quindi con le trasformazioni già operate dai romani. Strabone non ci parla più delle mura di età greca poiché queste erano state abbattute al tempo della guerra tra Roma e Cartagine.

La città era costituita da due nuclei urbanistici fondamentali l’arx (l’acropoli) e la zona del foro che confermano la distinzione tra acropoli e polis che già Polibio ci aveva riferito. Strabone conferma la presenza del colosso di Lisippo raffigurante Zeus, l’esistenza del ginnasio e dell’agorà. Tutto ciò confermerebbe il fatto che la costituzione della nuova Colonia Neptunia sia stata realizzata proprio nello stesso sito dove Polibio aveva collocato l’agorà.

“L’ubicazione proposta per la nuova Tarentum, scrive Enzo Lippolis, è pienamente confermata dai resti monumentali che si concentrano proprio nell’area dell’attuale Borgo Nuovo tra le Vie Cavour e Leonida. Anfiteatro, edifici pubblici, domus, sono la testimonianza di un’intensa storia edilizia…..L’impianto della colonia e lo sviluppo della successiva città romana si impostano dunque su una realtà preesistente caratterizzata da un aspetto monumentale e da una precisa organizzazione interna degli spazi, sia di quelli pubblici che di quelli privati di abitazione. È impossibile definire in quali termini sia stato risolto il problema urbanistico, se cioè siano stati integrati i due sistemi o sovrapposti. La fondazione di una colonia infatti con la sistemazione di un gruppo etnico del tutto nuovo comporta di conseguenza un’organizzazione nuova dello spazio…La cesura è abbastanza netta in quanto separa due culture che non permettono alcun tipo di continuità né politica, né istituzionale, né tanto meno etnica.” 1

A testimonianza di questa cesura Lippolis cita le stipi votive rinvenute che mostrano una definitiva interruzione del culto dei santuari greci e l’assenza di continuità tra la necropoli di tradizione greca e quella romana presente al di fuori della cinta difensiva greca della città. Dell’antica agorà si salvarono il Ginnasio e il teatro che vennero integrati nel nuovo assetto urbanistico. La vecchia polis greca, frutto dell’espansione del V Secolo, è quindi l’area più interessata ai mutamenti seguiti alla conquista romana.

L’Acropoli invece, ancorché depredata dei suoi arredi, risulta il quartiere urbanisticamente più risparmiato non essendoci stati ritrovamenti archeologici riferiti ad insediamenti pubblici o privati di una qualche rilevanza nell’area della parte alta del borgo antico.

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Un quadro preciso della situazione urbanistica della città dopo il sacco del 209 non è possibile. La città che ci descrive Strabone è una città decaduta nella quale gli antichi splendori dei tempi di Archita sono ormai un ricordo.

Da un lato le distruzioni e i saccheggi, dall’altro la contrazione demografica spingeranno l’aristocrazia locale, l’unica in grado di determinare in qualche modo a livello pubblico ed anche privato interventi di ristrutturazione urbanistica, a mettere in atto operazioni di ripristino edilizio estremamente modeste. L’analisi dei resti archeologici inducono gli storici e gli archeologi a pensare che i tarantini dell’età romana fino al II secolo a.C. non siano andati oltre la costruzione e il rifacimento di singole case, attività testimoniata da reperti di rifacimenti di tappeti pavimentati databili tra il II e il I secolo a.C.

Tra il I secolo a. C. e il II secolo d. C. le cose cambiarono poiché si registrò una rinnovata attenzione da parte dell’autorità centrale per la città.

Quali le ragioni di questo risveglio di interesse che ovviamente si concretizzò in una importante ripresa dell’attività edilizia ed urbanistica?

La ragione più importante fu il fatto nuovo che la Colonia Neptunia, diventata nel frattempo Neptunia Tarentum, cominciò ad integrarsi con la città vera e propria. Inizialmente le due comunità unificate rimasero tali sul piano sociale ma continuarono ad essere separate sul piano istituzionale fino a quando non venne creato il vero e proprio municipium.

Nella nuova istituzione politico-amministrativa prevalse ovviamente l’impostazione romana sul piano politico organizzativo mentre su quello più specificamente civile prevalsero la cultura e la storia della vecchia comunità originaria. Tutto ciò era favorito dal nuovo clima culturale creato da Augusto di interesse al recupero e alla restaurazione della storia e della cultura del passato. Infatti di Taranto, della sua storia e della sua cultura cominciarono a parlare Orazio e Virgilio che avevano soggiornato a Taranto e, come è noto, i due poeti avevano notevoli ed importanti frequentazioni con la corte di Augusto.

Nell’89 Taranto, nell’ambito della Lex Iulia che concedeva il diritto di cittadinanza romana alle città che erano rimaste fedeli a Roma e ai soldati, anche stranieri, che avevano combattuto lealmente a fianco di Roma, acquisì il titolo di “Municipium civium romanorum”. Fu la cosiddetta Lex Municipii Tarentini i cui frammenti furono scoperti da Luigi Viola nella contrada di Solito il 18 ottobre del 1896. I frammenti sono conservati nel Museo nazionale di Napoli, mentre un calco in bronzo fu collocato nel 1932, in epoca fascista, su un masso nella piazzetta del Lungomare prospiciente l’allora cinema Paisiello, oggi giardini “Caduti del Lavoro”. Per questa ragione “Il municipium tarantino, scrive Enzo Lippolis, viene dotato proprio in questo periodo di strutture rappresentative adeguate alla qualità della vita di un centro medio dell’Italia romana, attuando interventi che possono aver coinvolto probabilmente sia evergeti privati che la munificenza imperiale.” 2 Quindi non è esatto quanto è stato spesso sostenuto, anche da fonti autorevoli, cioè che la Taranto romana è una Taranto in decadenza che si è caratterizzata per assenza di sviluppo e modificazioni di tipo urbanistico.

“La città, sostiene Enzo Lippolis, contrariamnente a quanto si pensava ed è

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Planimetria urbana di Taranto in età romana secondo Enzo Lippolis, 1997.

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Taranto, giardini Caduti del Lavoro: reperti archeologici di età imperiale.

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stato a lungo sostenuto, non solo mantiene le dimensioni dell’insediamento preromano, anche aumentandole in alcune aree orientali, ma si concentra soprattutto nel grande quartiere aggiunto probabilmente nel V secolo a.C. che costituisce il cuore amministrativo e insediativo dell’abitato romano, mentre sull’acropoli rimangono funzioni rappresentative esclusivamente religiose.” 3

Il quartiere dell’acropoli infatti, come dimostrano le ricerche più recenti, non è stato in alcun modo toccato da interventi di età romana e quelle tracce di interventi romani che ivi si sono trovati, lo stereobate sotto San Domenico e altre modeste testimonianze romane, dimostrano che in epoca romana nell’Acropoli non si è avuto nulla che possa identificarsi con un intervento insediativo pubblico né tanto meno privato, avendo essa assunto in epoca romana, come dice Lippolis, “funzioni rappresentative esclusivamente religiose”.

Per quanto riguarda la collocazione dell’agorà e la sua coincidenza col foro dell’epoca romana, scartata l’ipotesi sostenuta da Lo Porto per via della mancata conferma alle sue tesi dagli scavi da esso stesso effettuati, Lippolis ritiene comunque incerta la localizzazione del centro politico e amministrativo della città. Alcuni ritrovamenti però fanno pensare ad una possibile identificazione dell’area su cui doveva essere collocato il foro. Nei giardini Caduti del Lavoro, sul Lungomare Vittorio Emanuele II, nell’area prospiciente l’ex cinema Paisiello, sono conservati e visibili frammenti architettonici di età romana imperiale provenienti da un grosso complesso monumentale rinvenuto fra Via Di Palma, Via Pupino e Via Nitti databile intorno al II sec. d.C. e insistente in un’area certamente a destinazione pubblica già fin dal I sec. a.C.

Di tali reperti una descrizione circostanziata e puntuale fa Antonietta Dell’Aglio.

”Fra questi, scrive la Dell’Aglia, un gruppo di quattro statue di marmo acefale e il ritratto dell’imperatore Augusto, rappresentato come Pontefice Massimo, con il capo velato, esposti nel Museo Nazionale di Taranto. Si tratta molto probabilmente di un ciclo scultoreo a carattere onorario della famiglia Giulio Claudia che doveva essere dedicato in uno dei monumenti dell’area pubblica identificata. Oltre ad elementi di cornici in marmo appartenenti ad un frontone di età imperiale (II secolo a.C.), oggi sostenuti da piastrini di tufo moderni rivolti verso il lungomare, si rinvennero strutture in opera quadrata (in blocchi regolari) e frammenti di architravi con iscrizioni di magistrati che ne curarono la posa in opera. Sulla base di recenti interpretazioni, tali reperti possono essere riferiti a più fasi di un edificio templare inserito in una piazza porticata. Gli altri elementi architettonici visibili nel giardino e nelle aiuole (tre spezzoni di colonne di granito, un fusto liscio di colonna in marmo bianco, un fusto scanalato di colonna in marmo bianco, un frammento di cornice modanata in marmo) provengono da monumenti dello stesso sito e sono ricollegabili a rifacimenti di epoche diverse.” 4

E ancora, una struttura teatrale minore i cui resti furono portati alla luce presso l’attuale chiesa di San Giovanni di Dio, all’incrocio tra Via De Cesare e Via Anfiteatro nel 1881 da Luigi Viola e da questi attribuiti erroneamente al periodo greco, e la stessa localizzazione del grande anfiteatro romano minuziosamente descritto dal Viola venuto fuori dagli scavi in Via Anfiteatro al di sotto dell’attuale mercato coperto, fanno pensare che la vecchia agorà coincidente col

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foro dell’epoca romana sia da collocarsi non già dove Gino Lo Porto l’aveva collocata cioè nell’ampio spazio tra il canale, Piazza Garibaldi e Via D’Aquino, ma nella zona compresa tra Mar Grande e Via Anfiteatro. E che in età augustea (inizi I secolo a.C. inizi I secolo d. C.) la città fosse in piena espansione verso est è testimoniato da numerosi altri interventi di ristrutturazione urbanistica che portarono tra l’altro anche alla costruzione dell’acquedotto dell’Aqua Nynphalis di cui si conservano i resti sullo spartitraffico di Corso Italia all’altezza del mercato di Via Lucania databili con molta probabilità proprio in età tardo augustea. L’acquedotto, come è noto, sostituiva il sistema di approvvigionamento idrico tramite sfruttamento dell’acqua di falda di cui sono testimonianza i resti di numerosi pozzi di epoca greca a volte comunicanti ricavati nel sottosuolo. Tali pozzi però vennero utilizzati anche nell’espansione seguita all’insediamento della Colonia Neptunia quindi anche in età dei Gracchi e probabilmente fino all’età augustea. Da Augusto in poi i pozzi furono sostituiti dagli acquedotti. L’opus reticolatum infatti, sistema col quale era stato costruito l’acquedotto, è un sistema di costruzione tipico dell’età claudio-neroniana ma non può essere escluso che esso fosse adottato anche in età augustea. L’acquedotto raccoglieva e canalizzava le acque sorgive del territorio sud orientale di Taranto e provvedeva all’approvvigionamento idrico della città. Partendo dalle sorgenti ubicate immediatamente a sud-est di Saturo, attraverso un tracciato in prevalenza ipogeo di circa 12 chilometri, dopo aver superato su arcate la depressione naturale della Salina, arrivava a Taranto emergendo. La struttura muraria era costituita da un’opera cementizia con rivestimento in opus reticulatum, così detta poiché era costituita da tufelli a base quadrata chiamati “cubilia” che formavano una trama a rete. L’opera era la parte terminale dell’impianto che, con pozzi e cisterne, soddisfaceva l’esigenza di approvvigionamento idrico. L’acquedotto confluiva nel castellum aquae rinvenuto in Via Umbria e da qui l’acqua veniva probabilmente incanalata in condotte secondarie verso le strutture pubbliche e private della città. L’impianto deve essere stato utilizzato a lungo dal momento che esso serviva ancora le Terme Pentascinensi nel IV secolo d. C.

La Taranto del I secolo d.C., malgrado la vivacità di interventi edilizi ed urbanistici di età augustea e malgrado successivamente Nerone nel ’60 abbia assegnato terre in agro di Taranto ai militari veterani di tante battaglie combattute anche in oriente per vivificare l’economia ed incrementare la popolazione di Taranto, non riconquisterà mai il ruolo che aveva ricoperto nel Mediterraneo in epoca greca. L’esperimento di Nerone non riuscì come quello dei Gracchi di età repubblicana. I veterani, gente di nazionalità e di razze diverse, abituati alla vita movimentata del soldato e catapultati in una realtà di provincia, non avvezzi alla vita sedentaria dei campi, ben presto vendettero i fondi avuti in dono e cambiarono vita e luogo.

Ne approfittarono gli speculatori che acquistarono a poco prezzo i fondi e costituirono vaste proprietà fondiarie. Taranto perse ruolo dal punto di vista economico e commerciale ma lo acquistò da quello “turistico” per la sua storia, la sua cultura e le sue bellezze naturali. Divenne famosa per il suo clima mite, le sue coste bagnate dal suo splendido mare, la raffinatezza dei costumi e la cultura che era sopravvissuta alla sottomissione di Roma. A Taranto, ancora nel I secolo d.C., si veniva per ammirare la splendida statua di Lisippo dedicata a Giove. La

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città diventò meta di soggiorni estivi quando non di trasferimenti veri e propri di intere famiglie dell’aristocrazia romana e di gente importante vicina alla corte dell’imperatore.

Sorgono sontuose ville nelle zone più belle, in riva al Mar Piccolo e nella zona di Saturo, Orazio e Virgilio vi soggiorneranno a lungo e ne decanteranno le bellezze nelle loro opere, lo stesso Seneca nel De Tranquillitate animi inviterà a venire a Taranto a godere della mitezza del suo clima “Andiamo a Taranto a godere il suo celebre porto e la dolcezza del suo inverno….” .

La città continuò a vivere di agricoltura, il latifondo favorì l’agricoltura e la pastorizia, si diffusero l’artigianato, le attività marinare, la coltivazione dei mitili e la produzione della porpora e del bisso. La lana penna che si ricavava dalla pinna nobilis e la porpora che si ricavava dalle murici la resero famosa in tutto il mondo romano. In agricoltura in particolare è fiorente l’olivicoltura e la viticoltura, la cerealicoltura, (frumento orzo e legumi) e l’apicoltura. Famoso il miele di Taranto decantato da Orazio. Il porto pur avendo perso l’importanza di snodo commerciale e di passaggio obbligato dei grandi commerci del Mediterraneo conservò una sua attività svolta su dimensione locale.

L’impianto urbanistico greco romano non subirà nessuna ulteriore espansione anzi la popolazione diminuirà.

Nel I secolo d.C. Taranto contava appena 10.000 abitanti, numero molto modesto se raffrontato per esempio a quello della popolazione della vicina Brindisi che arrivava a ben 40.000 abitanti.

“Le attività artigianali, scrive Giacinto Peluso, esercitate per la maggior parte da schiavi e liberti, sono molto varie e fiorenti. A Taranto ci sono ottimi sarcinatores cioè sarti rammendatori, bravissimi tectores (muratori), fabri (fabbri ferrai), naviculari (marinai e addetti alle attività marinaresche e pescherecce), argentari lavoratori del metallo e probabilmente cesellatori di monili d’argento”. 5 Taranto continuerà per diversi secoli a vivere la sua vita sonnacchiosa di dignitosa città di provincia senza grandi sconvolgimenti fino a metà Medioevo.

L’avvenimento che determinò lo sconvolgimento dell’impianto grecoromano della città fu la sua distruzione ad opera degli Arabi nel 927 quando i Saraceni, dopo aver raso al suolo Oria, cinsero d’assedio Taranto e la misero a sacco. All’eccidio dei tarantini corrispose la distruzione della città che fu ridotta ad un cumulo di macerie. Gli Arabi eserciteranno il loro indiscusso dominio sulla città per oltre venti anni fino alla conquista bizantina utilizzandola come testa di ponte per le loro scorrerie nell’Italia meridionale. N

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ENZO LIPPOLIS, La discontinuità della romanizzazione in Fra Taranto e Roma - Società e cultura urbana in Puglia tra Annibale e l’età imperiale-Scorpione Editrice, Taranto 1997 pp. 44-45 Ibidem pag. 135 Ibidem pag. 137 ANTONIETTA DELL’AGLIO, Frammenti architettonici-Taranto, giardini caduti sul lavoro in “Proposta di itinerari archeologici in Taranto e Provincia”, Amici dei Musei, Provincia di Taranto, EPT-C.R.S.E.C., Taranto 1953 GIACINTO PELUSO, Storia di Taranto, Scorpione Editrice 1991, pag. 155

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Modificazioni della struttura urbana della Città di Taranto in età bizantina: la ricostruzione di Niceforo Foca

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aranto rimarrà in queste condizioni per quaranta anni fino a quando, nel 967, in epoca bizantina, l’imperatore Niceforo Foca II, nipote di quel Niceforo Foca I che aveva cacciato gli Arabi e riconquistato ai Bizantini il Meridione e Taranto, salito al trono di Bisanzio, non si accorse dell’importanza strategica della posizione della città.

L‘imperatore temeva le mire di Ottone I di Germania sull’Italia meridionale. Questi, infatti, intendendo riconquistare all’impero i possedimenti meridionali sui quali intendeva esercitare i diritti imperiali, aveva dimostrato un accentuato interesse per il meridione d’Italia ed in particolare per la Puglia. E Taranto, che era uno dei punti strategici di maggiore importanza per la sua posizione geografica, correva per questo dei seri pericoli. Per questa ragione i bizantini mettevano nel conto, come poi di fatto avvenne, un’aperta ostilità militare imperiale che si concretizzò in vere e proprie spedizioni militari nel sud del paese. La guerriglia tra Ottone e i Bizantini, durata oltre sei anni, terminò in maniera incruenta col matrimonio del figlio di Ottone, Ottone II, con la principessa bizantina Teòfano. Ma non era solamente Ottone ad impensierire Niceforo. Ad Est c’erano anche gli Arabi della cui ferocia Taranto aveva fatto tragicamente l’esperienza nel 927. Ma stavolta c’èra in più il fatto che nella strategia araba tesa ad espandere i propri domini in tutto il Meridione la riconquista di Taranto rappresentava un elemento chiave.

L’imperatore bizantino quindi, perfettamente consapevole che gli arabi si apprestavano ad una nuova conquista di Taranto per fare di essa un avamposto nel sud e nel mediterraneo, punto di partenza per nuove scorribande e conquiste nei possedimenti bizantini dell’Italia meridionale, comprese che era indispensabile ricostruire e fortificare la città. Ciò avvenne nel 967 d.C. o nel 968. Ma la data che appare più accreditata, malgrado le discussioni degli storici, è il 967d.C.

L’incarico per la ricostruzione della città fu affidato ad un magistros (architetto), Niceforo Foca Hexakionites, che all’epoca era governatore dei Temi di Langobardia e Calabria, omonimo dell’imperatore, il quale può essere considerato a giusta ragione per un verso il vero rifondatore di Taranto per un altro, vista la coerenza e la lucidità del progetto, l’autore del primo vero piano regolatore della città. Il disegno di Niceforo era davvero degno di un urbanista moderno per lucidità e chiarezza di obiettivi. Elaborò un piano di espansione della città partendo dal suo punto più elevato, l’antica acropoli. Nel disegno della nuova città Niceforo fu costretto a seguire l’orografia del terreno, ma, come osserva Cosimo D’Angela, il magistros dovette certamente ispirarsi a modelli di fortificazione adottati nel mondo bizantino. Scrive D’Angela “La città, quindi, come già l’acropoli classica, si presentava con un impianto longitudinale in senso E-W ma piuttosto stretto in senso N-S. Un tale impianto, anche se a Taranto appare obbligato dalla orografia della

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Taranto nel Medioevo in una grafica di G. B. Pacichelli (Napoli 1703).

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Piazza Massari e la Chiesa del Carmi ne O

Ieri… Piazza Giuseppe Massari, 1921. Piazza Giuseppe Massari anno 1934. Si intravede il Monumento ai caduti in Piazza della Vittoria inaugurato nel 1930. La facciata della chiesa del Carmine è ancora quella originaria. Sarà rifatta nel 1936. Piazza Massari fine anni ’30.

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Piazza Massari e la Chiesa del Carmine O

…oggi. Piazza Giuseppe Massari, oggi Piazza Giovanni XXIII, e la Chiesa del Carmine.

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Piazza Massari e la Chiesa del Carmine O

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econdo Domenico Ludovico De Vincentiis 1 i Carmelitani sarebbero giunti a Taranto nel 1496 allorchè la città si era liberata dell’assedio degli Aragonesi. Secondo altri storici la data esatta dell’arrivo di quest’ordine a Taranto sarebbe collocabile nel 1494. I Carmelitani furono dapprima ospitati presso la chiesa della Madonna della Pace. L’ordine rimase in quella chiesa per oltre ottanta anni, fino cioè al 1577 quando ebbero inizio le demolizioni dei manufatti esistenti per consentire la realizzazione delle fortificazioni della città. Iniziarono così le demolizioni sul lato sud est di numerose chiese ed edifici che ostacolavano la realizzazione del progetto delle fortificazioni. Tra gli edifici che furono demoliti ci furono anche la chiesa di San Pietro della Porta e la chiesa della Madonna della Pace.

Per questa ragione i Padri Carmelitani furono costretti a trasferirsi al di là del Ponte di Porta Lecce, extra moenia, presso la chiesa di Santa Maria della Misericordia. Questa chiesa che più tardi sarà detta Chiesa del Carmine, sorgeva in piena campagna a 300 passi oltre la porta di Lecce. In verità la chiesa nella quale si sistemarono i carmelitani era forse una chiesa costruita nel 1400 dedicata a San Lazzaro e detta di Santa Maria Maddalena, come testimoniano gli atti della visita pastorale che l’Arcivescovo Lelio Brancaccio compì il 5 maggio del 1578 alle chiese extraurbane della diocesi. Nella cappella, che l’Arcivescovo Caracciolo aveva voluto che fosse dedicata a San Pietro, è incastrato nel muro il pezzo della colonna sulla quale, secondo la tradizione, il capo degli apostoli avrebbe celebrato messa. Il pezzo della colonna era stato trasferito dalla chiesa di San Pietro della Porta alla chiesa di San Lazzaro in occasione della demolizione della chiesa di San Pietro perché fosse esposta alla venerazione dei fedeli. Nella seconda metà del ‘600 il Convento crebbe di importanza tanto da ospitare oltre dodici persone.

Nel 1808 l’ordine dei Carmelitani a Taranto, come in altre città d’Italia, cessò di esistere per la generale soppressione degli ordini e i padri abbandonarono il convento che divenne un arsenale esterno di artiglieria.

Ma come e quando è nata la Confraternita del Carmine? La nascita della Confraternita è legata alla istituzione della processione dei misteri che, come è noto, la sera del venerdi santo esce dalla chiesa del Carmine. Tale processione nacque per iniziativa di Don Diego Calò, vissuto tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700. Calò aveva fatto costruire le statue di Gesù Morto e dell’Addolorata a Napoli, le aveva trasportate a Taranto e le aveva fatte collocare nella cappella gentilizia del suo palazzo a Vico Calò nei pressi della Strada Maggiore. Calò assunse l’iniziativa di portare in processione le due statue nell’intento di implorare la benevolenza di Dio a seguito della terribile carestia del 1703. I discendenti di Calò vollero perpetuare il rito della processione dei misteri e decisero di affidare alla Congrega del Carmine il compito di continuare la processione. Da quel momento sarà sempre e solo la Congrega del Carmine ad organizzare ed a gestire la processione dei misteri. Nel 1936, in piena era fascista, venne rifatta, per iniziativa della Curia guidata dall’Arcivescovo Bernardi, la facciata della chiesa prospiciente Piazza

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Piazza Massari e la Chiesa del Carmine O

Massari e quella laterale prospiciente Piazza della Vittoria. Il progetto della nuova facciata è firmato dall’architetto Cesare Bazzani che aveva progettato anche numerosi altri edifici importanti, l’adiacente Banco di Napoli, il Palazzo del Fascio, il Palazzo delle Poste, la Banca d’Italia. La nuova facciata della chiesa del Carmine venne inaugurata il 16 luglio 1936 dall’Arcivescovo Bernardi in occasione dell’80° compleanno di Pio XI.

La Piazza era intitolata originariamente a Giuseppe Massari, un patriota nato a Taranto nel 1821, appartenente ad una famiglia della buona borghesia barese. Il padre, Marino, era barese ma aveva sposato una tarantina. Fervente mazziniano aderì alla Giovane Italia e fu costretto dai Borboni all’esilio a Parigi. Fu amico di Guglielmo Pepe e di Vincenzo Gioberti. Fu deputato di Bari e per questo i baresi lo considerarono un loro concittadino. Autore di importanti biografie di personaggi storici come Cavour e Vittorio Emanuele II morì a Roma nel 1884. Col pontificato di Angelo Roncalli, dopo la morte del pontefice, la piazza fu dedicata a Giovanni XXIII

La Processione dei Misteri esce dalla Chiesa del Carmine.

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D. L. DE VINCENTIIS, op. cit.

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Gran Caffè La Sem O

Ieri… Gran Caffè La Sem in Via Giovinazzi angolo Via D’Aquino negli anni ‘30.

Durante la II Guerra Mondiale La Sem fu requisito dagli Alleati e trasformata in Circolo ufficiali.

Gran Caffè La Sem negli anni ’50.

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Gran Caffè La Sem O

Gran Caffè La Sem negli anni ’60.

…oggi.

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Gran Caffè La Sem oggi sede di una banca. La Sem chiuse i battenti il 29 ottobre del 1984.

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ra i bar e le pasticcerie di cui pullulava il centro della città ai primi anni del secolo scorso una citazione a parte merita il Gran Caffè La Sem. La vicenda di questo storico caffè tarantino è ricostruita in maniera esemplare da Nicola Caputo nel suo recente lavoro “Taranto com’era..” da cui abbiamo tratto le notizie che riportiamo. Il nome del locale, La Sem, è la fusione del cognome dei due fondatori, don Ciccio Messinese nato nel 1897 e don Mimì Semeraro nato nel 1900.

La Sem viene fuori dall’inizio del cognome Semeraro e da quello di Messinese letto all’inverso. Don Mimì faceva il capo pasticciere al bar Montera e conobbe quello che sarebbe stato per oltre mezzo secolo suo socio nel 1922. I due diventarono subito soci talchè un anno dopo, nel 1923, decisero di acquistare una fabbrica di cioccolato ubicata in Corso Umberto. Nel 1926 misero su in Via De Cesare per la somma di 9000 lire un locale specializzato nella degustazione di cioccolato caldo in tazza. Nel 1927 i due soci acquisteranno l’ex oreficeria Troncone e il suolo dove fino a qualche tempo prima sorgeva il cinema Internazionale che era stato distrutto da un incendio. Lì venne costruito il Gran Caffè La Sem. Caputo riferisce che l’articolo è stato aggiunto da un arguto ragioniere per non far confondere Sem con la S.E.M.-Società Elettrica Meridionale, una società che in quel tempo erogava energia elettrica. Nel 1932 i due soci impiantarono un altro locale sempre chiamato La Sem a Bari in Corso Vittorio Emanuele all’angolo con Via Cavour e nel 1937 decisero che Don Ciccio avrebbe gestito La Sem di Taranto mentre a Don Mimì sarebbe toccato gestire La Sem di Bari. 1)

Il Gran Caffè La Sem fu davvero per lunghissimi anni il caffè per antonomasia della città. Intorno ai suoi tavolini all’esterno, d’estate, e nei magnifici saloni d’inverno, la buona borghesia medio alta di Taranto si incontrava, chiacchierava, commentava gli avvenimenti politici e l’ultimo fatto del giorno. Tali incontri erano un rito, un appuntamento fisso. Prendere il caffè o l’aperitivo alla Sem è stato per oltre mezzo secolo uno status simbol, un segno di distinzione e di appartenenza. Alla Sem nascevano gli amori dei liceali del vicino Archita, si concludevano gli affari, si faceva conversazione e si parlava di politica, le signore della buona borghesia tarantina sfoggiavano l’ultimo cappellino alla moda e i rampolli dei ricchi borghesi facevano mostra dell’ultima rombante automobile che papà aveva comprato loro parcheggiandola lì davanti, all’angolo con Via D’Aquino. Oltre mezzo secolo dopo, nel 1984 però si intravidero i primi segni di difficoltà. Stanchezza, affari che non andavano bene, clientela che stava mutando pelle, fine di un’epoca, i pubs che iniziavano a sostituire i gran caffè? La Sem chiuse i battenti. In effetti i tempi erano cambiati, i gusti dei cittadini, specialmente quelli dei giovani, avevano preso direzioni diverse. Nacquero i pubs, le consumazioni mordi e fuggi che la fretta e la vita convulsa dell’era contemporanea imponevano. La Sem non poteva tenere il ritmo. La Sem era un caffè dove i ritmi erano più lenti, dove un caffè o un aperitivo venivano centellinati, sorseggiati, gustati e non tracannati in fretta. La Sem era nata per l’epoca delle carrozze e dei cavalli e tutt’al più per l’epoca delle cinquecento e delle Lancia. Era sorpassata e non ha retto al ritmo. E poi

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Gran Caffè La Sem O

l’abbandono del Borgo e l’inizio del suo progressivo spopolamento, forse anche la stanchezza dell’età dei proprietari, hanno fatto sì che un simbolo della Taranto del Novecento chiudesse i battenti e sparisse come sono sparite per altri versi e per altre ragioni tante testimonianze della nostra vecchia cara Taranto. Certo ci sono stati i tentativi di resuscitare quel locale al quale i tarantini si sono sentiti sempre legati. Ci ha provato finanche una multinazionale francese che ha rilevato e ristrutturato completamente il locale. Chi scrive,da sindaco, ha contribuito alla sua riapertura sperando in un suo ritorno in auge e l’ha inaugurata insieme ad una madrina d’eccezione, Gina Lollobrigida, il simbolo di un’epoca come appunto La Sem. Ma non c’è stato nulla da fare. Anche questo tentativo fallì come tanti altri che sono venuti dopo.

Ma la verità forse sta nel fatto molto semplice che i tarantini, tranne qualche nostalgico, al di là del loro dichiarato attaccamento ad una testimonianza della storia e del costume della loro città, non amavano più La Sem e non la frequentavano più preferendole altri locali. Oggi La Sem è sede di una banca.

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NICOLA CAPUTO, Taranto com’era…, Edizioni Cressati, Taranto 2001

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Il Mon umento ai Cad uti O

Ieri…

Monumento ai Caduti: bozzetto dello scultore Francesco Paolo Como.

Il Monumento ai Caduti in costruzione con l’impalcatura. Più a destra: il Monumento ai Caduti alla fine della costruzione.

Il Monumento ai Caduti visto da Corso Umberto.

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Il Monumento ai Caduti O

Il 4 novembre 1930 Re Vittorio Emanuele III inaugura il Monumento ai Caduti. Più in basso: i mosaici all’interno del sacello del monumento.

…oggi. Il Monumento ai Caduti oggi.

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Il Monumento ai Caduti O

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lla fine del primo conflitto mondiale, nel 1919, l’architetto Cesare Bazzani, che diventerà autore dei progetti del maggior numero di opere pubbliche nel ventennio fascista a Taranto, da buon nazionalista, aveva deciso di fare dono al Comune di un progetto per la costruzione di un grande monumento in onore dei caduti del primo conflitto mondiale. L’allora Sindaco di Taranto, Francesco Troilo, accolse l’offerta con grande entusiasmo e sottopose immediatamente al Consiglio Comunale la proposta.

In effetti Taranto non aveva un Monumento ai Caduti per cui il Consiglio Comunale, nella seduta del 1 marzo 1919 accolse con favore la proposta di Bazzani e deliberò lo stanziamento di lire 10.000 per la sua realizzazione. Fu all’uopo costituito un comitato col compito di seguire la realizzazione dell’opera e ne fu anche decisa la collocazione. La scelta cadde su Piazza Archita.

Malgrado l’iniziale buona volontà però le cose non andarono spedite come tutti si aspettavano. I primi problemi furono di ordine finanziario. Infatti i 10 milioni stanziati dal Comune si rivelarono subito insufficienti per cui fu necessario aprire una sottoscrizione tra i cittadini. La risposta fu entusiasmante. Furono organizzate manifestazioni teatrali e cinematografiche pubbliche, balli, mostre e lotterie, per raccogliere fondi e sul biglietto d’ingresso fu applicato un sovrapprezzo destinato alla costruzione del monumento ai caduti. Il Comune istituì la marca da bollo “Pro Monumento” da affiggere su ogni certificato. La Marina dal canto suo applicò una tassa di due soldi per ogni nave che attraversava il ponte girevole.

Per la realizzazione del monumento fu indetto un concorso nazionale di idee al quale parteciparono numerosi scultori di livello nazionale. Il concorso fu vinto dal bozzetto dello scultore tarantino Francesco Paolo Como. Como era nato a Taranto il 6 aprile del 1888. Il padre Pietro Luigi era capo mastro muratore, la madre Grazia D’Alessandro, sarta. Abitavano in Via D’Aquino al Palazzo Petruzzi. Dopo le elementari Francesco Paolo conseguì il diploma della scuola tecnica e frequentò i corsi della scuola serale di disegno ornato a Piazza Sant’Angelo sotto la guida del prof. Tommaso Antonucci. Entrò nelle Ferrovie dello Stato ma nel 1911 lasciò il suo impiego per trasferirsi a Roma dove studiò architettura con il prof. Cesare Bazzani. Partecipò alla prima guerra mondiale e, finita la guerra, conseguì il diploma di scultura all’Istituto di Belle Arti di Roma. Como fu autore di numerose altre opere oltre al Monumento ai caduti di Taranto. Fu insegnante per lunghi anni nella scuola di avviamento professionale Revel di Taranto. Partecipò al secondo conflitto mondiale. Da Taranto si trasferì a Roma dove morì nel 1973. Inizialmente si era pensato di collocare il monumento in Piazza Archita ma successivamente si mutò parere per cui dalla collocazione originaria si passò a quella definitiva, Piazza XX Settembre, alla quale si decise di dare il nome di Piazza della Vittoria.

L’inaugurazione del monumento avvenne con un’imponente cerimonia il 4 novembre 1930 alla presenza di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III e di tutte

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Il Monumento ai Caduti O

le autorità civili e militari della città. Il monumento inaugurato era però incompleto giacchè era mancante del gruppo scultoreo dell’aquilifero che ornava la parte rivolta verso Corso Umberto.

Il monumento fu lasciato così com’era stato inaugurato per oltre venti anni fino a quando, dopo il secondo conflitto mondiale nel 1950, non si ripropose il problema del completamento del monumento. Fu costituito un apposito comitato per il monumento sotto la presidenza dell’Ammiraglio Jannucci che affidò di nuovo allo scultore Como il compito di scolpire il gruppo bronzeo dell’aquilifero. Il gruppo era costituito da una trireme romana rostrata su cui si ergeva un aquilifero, custode dell’aquila insegna militare della legione romana, nell’atto di lanciare l’aquila verso il cielo.

Il 18 ottobre del 1953 il Monumento ai caduti, finalmente completo, fu inaugurato alla presenza di numerose autorità civili, militari e religiose e delle medaglie d’oro al valore militare Vincenzo Martellotta e Girolamo Manisco. Madrina della cerimonia fu la signora Giulia Buono, vedova della medaglia d’oro capitano di vascello Ignazio Castrogiovanni. La medaglia d’oro ammiraglio Araldo Fadin tenne l’orazione ufficiale. 1

Ma i guai per il glorioso e sfortunato monumento non finirono. Qualche anno dopo un fulmine colpì il gruppo scultoreo e l’aquila fu trovata ripiegata sul braccio dello stesso aquilifero. Il complesso attende ancora di essere riparato.

1 GIACINTO PELUSO, op. cit.

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Il Palazzo del Governo O

Il Palazzo del Governo secondo il progetto Bonavolta che poi sarà abbandonato per il nuovo progetto in stile coloniale di Armando Brasini .

Ieri… Quattro foto del Palazzo del Governo in costruzione, 1930-1934.

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Il Palazzo del Governo O

Sopra: altre immagini del Palazzo del Governo in costruzione.

Palazzo del Governo e Rotonda dopo l’inaugurazione avvenuta il 7 settembre 1934.

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…oggi. Il Palazzo del Governo oggi.

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Il Palazzo del Governo O

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ino al 1923 la città di Taranto faceva parte del circondario di Lecce. Amministrativamente infatti Taranto era una sottoprefettura. Questa posizione di subalternità al capoluogo salentino stava certamente stretta ai tarantini soprattutto dopo che la piazza di Taranto era stata dichiarata sede di Dipartimento Militare Marittimo e centro produttivo navalmeccanico di importanza strategica nazionale con la costruzione dell’Arsenale Marina Militare. Segni di un dibattito sulla necessità che Taranto diventasse capoluogo di Provincia si erano avuti fin dal 1866; il dibattito era continuato fino allo scoppio della prima guerra mondiale per riprendere più acceso ed infuocato subito dopo la guerra tra il 1919 e il 1923 anche a causa della feroce ed ovvia opposizione di Lecce. A tale dibattito parteciparono uomini politici, amministratori, intellettuali ed esso fu talmente acceso da arrivare fino a Roma, a Palazzo Venezia.

Accadde così che Mussolini in persona, ricevendo il 1 Marzo 1923 una delegazione di autorità tarantine guidata dal Sindaco Giovanni Spartera e della quale facevano parte anche Caradonna, Starace, l’onorevole Troilo e il Cavalier Ufficiale Stracca, Segretario del Comune di Taranto, risolse la questione delimitando con un tratto di matita rossa su una carta geografica della Puglia i confini della Provincia di Taranto. Così quel 1° Marzo del 1923 diventò l’atto di nascita della Provincia di Taranto.

Divenuta il quinto capoluogo di Provincia della Puglia occorreva che Taranto si attrezzasse per rispondere al nuovo ruolo e alle nuove funzioni che era chiamata a svolgere nella sua nuova veste amministrativa a cominciare dalla sede della nuova Istituzione. Si doveva quindi costruire un imponente ed importante edificio che contenesse gli uffici dell’Amministrazione Provinciale, la Prefettura, la Questura, gli alloggi del Prefetto e una foresteria adeguata alla bisogna per le visite ufficiali di ministri, delegazioni straniere, sovrani che avrebbero potuto capitare in visita nella città. Si individuò il suolo sul quale sarebbe stato costruito l’imponente edificio. Allo scopo furono acquistati 8000 metri quadrati di terreno di proprietà Tamborrino tra Via Anfiteatro e Via Massari al prezzo di lire 140 al metro quadro da pagarsi in cinque anni.

Il progetto fu affidato all’architetto Armando Brasini. Le dimensioni del Palazzo del Governo, sovradimensionato rispetto alla strada che costeggiava il mare, e soprattutto la sua altezza ponevano però dei problemi di carattere urbanistico e di impatto visivo ed architettonico tenuto conto della limitatezza spaziale della carreggiata piuttosto stretta rispetto all’altezza dell’edificio sulla quale la mole del Palazzo si sarebbe affacciata. Il problema fu risolto con la costruzione di un ampio slargo altrettanto imponente antistante il maestoso portone di ingresso dal lato sud con aggetto sul mare; nacque la Rotonda del Lungomare che avrebbe assunto la funzione di attutire l’impatto architettonico della mole del palazzo, esaltarne ed accentuarne l’imponenza, dargli maggiore respiro. La Rotonda inoltre avrebbe assunto anche la funzione pratica di contenitore per grandi adunate e manifestazioni pubbliche.

La costruzione della Rotonda del Lungomare fu iniziata nel 1931 e conclusa

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Il Palazzo del Governo O

mentre ancora erano in corso i lavori di costruzione del Palazzo del Governo. Fu inaugurata il 28 ottobre del 1932 in occasione del decennale della marcia su Roma. Altro ostacolo era rappresentato dalla presenza sul suolo Tamborrino del Politeama Alhambra, un prestigioso teatro che era molto frequentato e molto amato dai tarantini. Il teatro era stato costruito sulle ceneri di un altro teatro, il Livio Andronico, distrutto da un incendio il 20 ottobre del 1907. L’Alhambra fu demolito e al suo posto sorse l’attuale Palazzo del Governo. La costruzione dell’imponente palazzo fu affidata alle ditte Cataldo Orlando di Napoli che eseguì le opere di scavo e quelle in muratura, e alla ditta Francesco Desiderio di Castellammare di Stabia, che si occupò delle opere in legno. Il costo preventivato dell’opera era di 7.104.950, ma alla fine se ne spesero più del triplo. L’edificio occupa un’area di 4500 metri quadrati, è alto 52 metri per 4 piani e dispone di oltre 150 vani. Per la costruzione furono necessari 4 anni. Il Direttore dei lavori fu lo stesso progettista, Armando Brasini che percepì il 2,50% del costo complessivo dell’opera.

L’inaugurazione ufficiale avvenne il 7 settembre del 1934 ad opera dello stesso Benito Mussolini che venne a Taranto anche per dare il primo colpo di piccone col quale si dava avvio al programma di risanamento della città vecchia di Ferdinando Bonavolta. Fu una manifestazione memorabile. A Taranto vennero delegazioni dei fasci di gran parte delle città più importanti del Sud; il popolo proveniente da tutta la provincia, dalle altre province e anche dalle regioni limitrofe con treni speciali ed automezzi vari, affollava la Rotonda del Lungomare di fronte alla quale nella rada di Mar Grande erano schierate le unità della flotta navale italiana. Furono presenti alla cerimonia tutte le autorità cittadine, quelle civili, militari e religiose, il vescovo, Monsignor Orazio Mazzella, che benedì l’opera, il Commissario prefettizio dott. Speciale e Achille Starace, leccese, segretario nazionale del Partito Nazionale Fascista che presentò il Duce alla folla. Mussolini parlò alla folla strabocchevole assiepata sulla Rotonda. Usò l’adulazione e solleticò l’orgoglio fascista dei tarantini sottolineando l’importanza strategica di Taranto nel Mediterraneo. Fu il discorso del «vivere non è necessario, è necessario navigare».

Ancora oggi il Palazzo del Governo è sede della Prefettura, della Provincia e della Questura. Fino a qualche anno fa nei locali pedanei del lato ovest era collocata la biblioteca civica Pietro Acclavio.

Invito per il 7 settembre 1934 a partecipare, alla presenza di Benito Mussolini, all’inaugurazione del Palazzo del Governo.

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Chiesa d i San Pasquale e Convento dei Padri Alcantari n i O

Ieri… Chiesa di San Pasquale e Convento dei Padri Alcantarini, fine ‘800.

…oggi.

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Chiesa di San Pasquale e Museo Nazionale oggi, con le rispettive nuove facciate.

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Chiesa di San Pasquale e Convento dei Padri Alcantarini O

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à dove sono attualmente la Chiesa di San Pasquale e il Museo Archeologico Nazionale, su Corso Umberto di fronte a Piazza Garibaldi, sorgeva un tempo il Convento dei Padri Alcantarini.

Della fondazione di un Convento dei Padri Alcantarini a Taranto si incominciò a parlare già dal 1736 quando l’allora Sindaco Giovanni Delli Ponti, raccogliendo le sollecitazioni del popolo che chiedeva la presenza a Taranto di questo benemerito Ordine, fece istanza alla Congregazione dei Vescovi di autorizzare la istituzione a Taranto di un Convento dell’Ordine dei Padri Alcantarini che avevano la loro sede centrale a Napoli. L’accordo tra i Padri Alcantarini di Napoli e il Capitolo Vescovile di Taranto fu raggiunto non senza difficoltà poiché ad esso si opponevano i Padri Riformati che adducevano come ragione della loro opposizione la scarsezza di fondi per la costruzione del Convento. Arcivescovo era Monsignor Casimiro Rossi.

Passarono tre anni e il nuovo arcivescovo Monsignor Giovanni Rossi facendo proprie le insistenti richieste del popolo volte alla fondazione a Taranto del convento, non potè fare a meno di riproporre l’istanza dimostrando l’infondatezza delle obiezioni dei Padri Riformati. Fu così che nel 1744 il Capitolo vescovile di Taranto, contro il parere dei Padri Riformati, che all’interno del Capitolo ribadirono la loro opposizione, espresse parere favorevole alla venuta a Taranto dell’Ordine degli Alcantarini. Sulla base di tale parere favorevole e su richiesta di Re Carlo III e della Regina Maria Amalia, il 23 aprile del 1748 Papa Benedetto XIV concesse ufficialmente l’autorizzazione per la costituzione dell’Ordine a Taranto.

Il 27 luglio dello stesso anno un regio dispaccio a firma del Duca di Castropennano a nome del re ordinò al Regio Castellano di Taranto, colonnello D. Andrea Aurelio, di autorizzare la costruzione del Convento di San Pasquale. Subito dopo il Procuratore dell’Ordine degli Alcantarini Francesco Cotugno De Toledo, patrizio di Taranto, comprò da Francesco Troncone i tre tomoli di terreno su cui furono costruiti il Convento e il giardino, per 600 ducati ridotti a 570 poiché Troncone era un devoto. Nello stesso anno, 1748, iniziò la costruzione del Convento che fu inaugurato dall’Arcivescovo Monsignor Giovanni Rossi. L’anno successivo il canonico Cantore Giovan Domenico Capitignano fece dono ai Padri Alcantarini di un ulteriore appezzamento di terreno di due stoppelli e mezzo. 1 L’attività dei Padri Alcantarini fu molto importante nella vita religiosa della città e sarà sempre molto apprezzata da parte dei tarantini. Il convento rimase in piedi per oltre 50 anni fino a quando, in epoca napoleonica, fu trasformato in Ospedale. Napoleone infatti, in guerra con gli inglesi, intendendo bloccare l’iniziativa della marina britannica di stanza a Malta, comprendendo l’importanza strategica delle piazze di Bari, Brindisi e soprattutto di quella di Taranto, occupò con un esercito di 10.000 uomini la penisola salentina. Napoleone quindi ordinò al Generale Soult di occupare oltre a Lecce, Bari e Brindisi anche Taranto. Soult arrivò a Taranto il 27 Aprile del 1801 e dovendo acquartierare la sua Armèe d’observation du Midì, requisì tutti i conventi esistenti a Taranto. Il Convento dei Celestini a Piazza Castello diventò il quartier

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Chiesa di San Pasquale e Convento dei Padri Alcantarini O

generale dell’armata, gli altri conventi, San Domenico, San Francesco e quello dei Gesuiti a Monteoliveto diventarono alloggi per i soldati mentre il Convento dei Teresiani e quello degli Alcantarini furono trasformati in ospedale.

Tramontato Napoleone il Convento rientrò nella disponibilità degli Alcantarini che ripresero a gestirlo fino al 1866 quando, essendo stato soppresso l’Ordine, fu trasformato in carcere giudiziario funzione che mantenne fino al 1880, quando sarà trasformato in Museo. La Chiesa invece fu conservata e affidata alle cure di due padri alcantarini che ne continuarono il culto. Oggi la Chiesa è gestita dai padri francescani.

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Il Museo Nazionale Archeologi co O

Ieri… Il Museo Nazionale ai primi del ‘900 con la bella facciata del Calderini. Il Museo Nazionale negli anni ’30.

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Il Museo Nazionale Archeologico O

Il Museo Nazionale negli anni ’60.

…oggi.

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Il Museo Nazionale oggi.

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Il Museo Nazionale Archeologico O

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attuale Museo Nazionale Archeologico sorge là dove era il vecchio Convento dei Padri Alcantarini che aveva subito nel corso della sua storia alterne vicende di cui abbiamo già parlato.

Nel 1866 l’Ordine degli Alcantarini fu soppresso, il convento passò nella disponibilità del Demanio e fu trasformato in carcere giudiziario, funzione alla quale assolse fino al 1880 quando fu trasformato in Museo.

Nello stesso anno infatti era giunto a Taranto Luigi Viola, archeologo di origini salentine, nato a Galatina in provincia di Lecce, inviato dal Ministro della Pubblica Istruzione Baccelli su indicazione del senatore Luigi Fiorelli, direttore generale degli Scavi e Musei. Viola ebbe il compito di condurre un lavoro di ricognizione archeologica e acquisire dai privati i reperti archeologici che in quel periodo abbondavano a causa degli scavi che venivano condotti per la costruzione del canale navigabile e del regio arsenale marittimo. Viola raccolse, come da mandato del Ministro, una gran mole di reperti archeologici salvati dal trafugamento di privati e dalle ruspe e li sistemò proprio nell’antico convento dei Padri Alcantarini in Corso Umberto. Occupò tutto il primo piano dell’edificio che riempì di importantissimi reperti. Contemporaneamente fece istanza al Ministero della Pubblica Istruzione perché domandasse al Comune di Taranto la cessione dell’immobile per adibirlo a Museo.

Il Sindaco del tempo, Vincenzo Sebastio, fu ben felice di accogliere la richiesta del Ministero poiché intuì l’importanza della creazione a Taranto di un Museo Archeologico. In precedenza il Comune, poiché era prevista dal Piano Conversano una sistemazione più decorosa di Piazza Archita e di Piazza Garibaldi (la Piazza del Nuovo Borgo), aveva chiesto al Ministero degli interni di spostare il carcere dal convento degli Alcantarini al convento di Sant’Antonio, che era di proprietà del Comune e che era meno visibile e più adatto alle funzioni di carcere giudiziario. Quindi al momento in cui Viola fece la proposta di far acquisire allo Stato il convento degli Alcantarini questo era vuoto e quindi disponibile.

Certo era mal messo e cadente per cui erano necessarie notevoli opere di recupero e di ristrutturazione le cui spese il Comune non aveva alcuna intenzione di accollarsi. Per questa ragione il Sindaco Sebastio, pur accettando la proposta di cessione dell’immobile al Ministero della Pubblica Istruzione, pose le condizioni: 1, che il Comune non avrebbe assunto a proprio carico alcun onere finanziario necessario per il recupero e il riadattamento del vecchio convento a Museo; 2, che entro sei mesi il Governo avrebbe, con Regio Decreto, stabilito la istituzione del Museo a Taranto;

3, che entro tre anni la facciata esterna dell’edificio avrebbe dovuto essere rifatta adeguandola alle condizioni edilizie del nuovo Borgo. Le condizioni apparvero favorevoli al Ministero e furono accettate.

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Il Museo Nazionale Archeologico O

Il 3 aprile del 1883 con un decreto regio a firma di Umberto I venne ufficialmente istituito il Museo Nazionale di Taranto: Direttore fu nominato lo stesso Luigi Viola che vi impiantò immediatamente un Ufficio degli Scavi per raccogliervi e custodirvi i reperti fino a quel momento raccolti. Ma la gestione Viola fu disastrosa.

Per quindici anni il Museo fu lasciato nel più completo abbandono e fu corso addirittura il rischio che fosse soppresso. L’on. Raffaele De Cesare sollevò in Parlamento il problema dell’abbandono in cui versava il Museo di Taranto per cui fu deciso di sostituire il Viola con il giovane archeologo Quintino Quagliati.

Il 23 settembre 1898, inviato dal Ministero della Pubblica istruzione per sostituire Viola, giunse a Taranto Quintino Quagliati che, tra i primi obiettivi si pose quello della ristrutturazione del vecchio convento. Quagliati aveva in mente progetti grandiosi come quello di costruire, ristrutturando tutto intero l’isolato, un grande Museo della Magna Grecia. Ma il progetto cozzava da un lato con le difficoltà di reperimento dei fondi necessari dall’altro con la presenza della chiesa di San Pasquale che avrebbe dovuto essere demolita.

Nel 1902 Furono comunque iniziati i lavori di ristrutturazione interna dei locali dell’ex convento che vennero affidati alla ditta Raffo. Un elemento importante dei lavori di ristrutturazione era rappresentato dal rifacimento della facciata per la quale l’Amministrazione del Sindaco Sebastio venti anni prima aveva posto la condizione che fosse adattata agli altri manufatti che si affacciavano sulla piazza. Il progetto per il rifacimento della facciata fu affidato all’architetto Guglielmo Calderini, molto noto a livello nazionale, che ridisegnò l’esterno in stile neoclassico così come oggi lo vediamo. Gli interni furono trasformati e dalle vecchie celle furono creati ampi saloni espositivi mentre i soffitti vennero disegnati dal prof. Perazzo disegnatore del Museo.

I lavori vennero completati nel 1904 tant’è che alla fine dello stesso anno Quagliati potè sistemare le sale catalogando e sistemando i reperti nelle grandi vetrine e nei contenitori in legno costruiti dagli artigiani Presta e Sarra. Il 25 ottobre 1906 il Museo, ormai ristrutturato e completato ricevette la visita di Sua Maestà il Re Vittorio Emanuele III, venuto a Taranto per assistere alle manovre della flotta navale dello Jonio, che si complimentò con il Direttore Quagliati. Quagliati morì il 29 dicembre del 1932.

Nel luglio del 1933 il Ministero dell’Educazione Nazionale (questo era il nuovo nome che il regime aveva dato al Ministero della Pubblica Istruzione) affidò la Direzione del Museo di Taranto a Renato Bartoccini il quale pose tra i suoi primi impegni quello dell’ampliamento del Museo. Il progetto di ampliamento fu affidato all’architetto Carlo Ceschi, che oltre al raddoppio dei locali, aveva previsto anche il rifacimento della facciata adeguandola alla nuova architettura fascista. Fortunatamente ci fu una sollevazione di popolo guidata da due giornalisti Diego Gennarini e Dino Rizzo che dalle pagine della Voce del Popolo contrastarono veementemente le scelte del progetto Ceschi che avrebbero creato un contrasto stridente con le strutture neoclassiche dei palazzi umbertini

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Il Museo Nazionale Archeologico O

che si affacciavano sulla Piazza Mastronuzzi (Piazza Archita) a cominciare dal Palazzo degli Uffici. La battaglia fortunatamente fu vinta e la facciata del Calderini rimase intatta. Fu così risparmiata alla città un’altra opera del regime del tipo Palazzo del Fascio o Palazzo delle Poste.

A Bartoccini nel 1934 successe Ciro Drago, un archeologo siciliano, socialista, che, finita la guerra sarà nominato dal CLN Sindaco di Taranto succedendo ad Agilulfo Caramia. Durante la guerra i preziosi reperti di cui nel frattempo si era arricchito il Museo furono raccolti in contenitori e custoditi in altre parti ad evitare che fossero danneggiati dai bombardamenti.

Il 9 settembre del 43 gli alleati, sbarcati a Taranto, requisirono tutti i locali pubblici per alloggiare e sistemare le truppe. Furono requisiti il Palazzo degli Uffici, la Prefettura, le Poste. Stessa sorte toccò al Museo che fu trasformato in Comando inglese con reparto di vettovagliamento e mensa per ufficiali, ospedale per le truppe neozelandesi e ufficio toponomastico per quelle israeliane. Nel dopoguerra l’opera di ristrutturazione del Museo continuò fino a tutto il 1952. Nel 1953 a Ciro Drago, nella Direzione del Museo, subentrò Nevio Degrassi che tenne l’incarico per dieci anni fino al 1963 quando gli successe Attilio Stazio.

Attualmente il Museo è in un’ennesima fase di allargamento. Con i fondi della Comunità Europea, si sta realizzando un importante progetto che punta alla realizzazione del Polo Museale della Magna Grecia.

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Piazza Ebal ia O

Ieri… Piazza Ebalia negli anni ’20.

Piazza Ebalia, 1931.

In basso: Piazza Ebalia nel 1933. È stata costruita la Rotonda mentre il Palazzo del Governo è in costruzione.

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