Chopin vs Liszt: La Battaglia

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2013/14

XXXIII STAGIONE CONCERTISTICA

MICHELE CAMPANELLA pianoforte


MICHELE CAMPANELLA pianoforte

CHOPIN vs LISZT: La Battaglia FRYDERYK CHOPIN 3 Grandes Valses Brillantes op.34 n°1 in la bemolle maggiore n°2 in la minore n°3 in fa maggiore Ballata in la bemolle maggiore op.47 Ballata in sol minore op.23

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FRANZ LISZT Valse-Impromptu Ballata n°2 in si minore Quatrième Mephisto Valse Quatrième Valse Oubliée Valse de l’opéra Faust de Gounod

GIOVEDÌ 13 FEBBRAIO 2014

Pisa, Teatro Verdi ore 21.00


MICHELE CAMPANELLA

Pianista, direttore e solista, docente di spicco, direttore artistico di rassegne importanti e anche scrittore (Il mio Liszt, Bompiani 2011). Conosciuto in tutto il mondo come uno dei maggiori virtuosi e interpreti di

Franz Liszt, spazia da Scarlatti a Poulenc, da Clementi a Ravel, passando per Beethoven, Mozart, e Brahms. Artista dal temperamento assai versatile è amante della musica in ogni sua sfaccettatura. Vincitore di numerosi premi quali Gran Prix du Disque della Società “F.Liszt” di Budapest (1976, 1977, 1998), Premio Scanno per la Musica 2012 e molti altri. Nel 2013, l’anno del bicentenario della nascita di Richard Wagner e Giuseppe Verdi, Michele Campanella è stato impegnato in una lunga serie di concerti dedicati alle Parafrasi di Franz Liszt, in Italia, Ungheria, Spagna, Russia, Germania e Cina a conferma del suo importante ruolo di Ambasciatore della Musica nel Mondo; la Brilliant Classics ha dedicato a queste composizioni un cofanetto di tre cd – Special Edition. Nel 2014, la poliedrica attività di Michele Campanella lo porterà in tour negli Stati Uniti con il Fine Arts Quartet, in Sud America con il violinista Boris Belkin e lo vedrà impegnato nella realizzazione di un cd, edito da Cam Jazz per un interessante e divertente progetto sull’improvvisazione jazz con Javier Girotto. Ospite frequente all’ORT, sarà inoltre solista e direttore in Italia nell’esecuzione dell’ultimo concerto di Mozart K.595, oltre ad esibirsi nelle più importanti istituzioni concertistiche in una pacifica battaglia tra due dei massimi compositori per la letteratura pianistica, Fryderych Chopin e Franz Liszt nel recital “Chopin vs Liszt: La Battaglia”. Michele Campanella è Artista Yamaha.


CHOPIN vs LISZT: La Battaglia Note di Gregorio Moppi

FRYDERYK CHOPIN

(Salisburgo 1756 – Vienna 1791)

FRANZ LISZT

(Raiding 1811 – Bayreuth 1886)

Ormai da qualche tempo Fryderyk Chopin non viene più dipinto come un essere tutto istinto e natura capace di far zampillare la sua musica dal nulla: l’agiografia di matrice ottocentesca ha lasciato il posto all’analisi oggettiva dell’opera. Soltanto un esame di questo tipo, infatti, permette di intendere appieno la produzione del musicista polacco, le sue ragioni poetiche, le radici storico-culturali, la sua particolare collocazione nell’alveo del romanticismo. Giacché, a differenza di Robert Schumann e di altri colleghi della stessa generazione, Chopin ha sempre rifiutato di glossare il proprio lavoro con manifesti estetici, dichiarazioni di principio, rigettando (almeno pubblicamente) i significati extramusicali che si volevano attribuire a molti suoi pezzi. Come a dire che la musica non è riconducibile a nient’altro che a se stessa, che i motivi e la sostanza di una composizione sono già racchiusi al suo interno e non vi è alcun bisogno di esplicitarli a parole. Certo, magari la scintilla creativa poteva avergliela fornita una lettura, un moto psicologico, un ricordo, un accadimento quotidiano. Fatto sta, però, che Chopin trasfigurava

tutto quanto in forme salde, rigorose. In ciò risiede il suo aspetto classicista: una forma mentis assimilata durante gli anni di studio nella natia Polonia, terra musicalmente periferica che allora si nutriva della triade viennese (Haydn, Mozart, Beethoven) e di Biedermeier. Ovverosia di quel repertorio brillante, colloquiale, di facile ascolto che, scaturito dalla semplificazione del linguaggio classico, spopolava nei salotti della Restaurazione. Stile alla moda a cui ogni compositore-esecutore primottocentesco doveva adeguarsi se voleva ottenere il favore degli ascoltatori. Pure Chopin, che dapprincipio pensava di farsi strada come pianista concertista ma che, trasferitosi definitivamente a Parigi negli anni Trenta, abbandonò ogni ambizione in tal senso ripiegando su una lucrosa attività didattica e concedendosi al pubblico di rado, per giunta in ambienti piccoli e sui prediletti pianoforti Pleyel, delicati e malleabili. I Valzer op.34, che della danza conservano il nome e il passo in tre ma non sono più concepiti per il ballo bensì per l’intrattenimento concertistico, vennero stampati abusivamente nel 1838, quando le pubblicazioni di Chopin andavano a ruba e le signorine della Parigi-bene facevano la fila per diventare sue allieve. I tre pezzi non vanno intesi quale ciclo organico poiché scritti in epoche differenti come pagine sciolte. L’autore non poté nemmeno correggerne le bozze e la titolazione di «brillanti» attribuita loro dall’editore Schlesinger è un falso. Anche perché se potrebbe adattarsi al primo e al terzo, di sicuro non sta bene al secondo in tonalità minore, definito da Chopin «valse


mélancolique». Questo è il più antico della raccolta, risale al mesto soggiorno viennese del 1831, e si dice che Chopin lo preferisse a ogni altro suo valzer. Il primo Valzer op.34 data invece al 1835: venne donato alla contessina Josephine de Thun-Hohenstein, sul cui album privato il compositore copiò una prima versione della pagina, più tardi rielaborata. Il terzo, del 1838, si presenta come un rapido, volteggiante sfarfallio. Quando Schumann ascoltò per la prima volta un’opera di Chopin, la salutò dalle pagine della sua rivista di critica musicale con un’espressione rimasta memorabile, «Giù il cappello, signori, un genio!». Ed è proprio Schumann a testimoniarci come Chopin gli avesse una volta confessato, a proposito delle Ballate, di aver tratto ispirazione dai poemi del connazionale Adam Mickiewicz. Qualcuno in seguito ha perfino cercato di scoprire da quali, senza conclusioni convincenti. In effetti in queste pagine dal carattere cavalleresco pare davvero di avvertire echi di battaglie, afflati nazionalistici e libertari (da tener presente che nel 1830-31 la Polonia si ribellò, invano, alla dominazione russa). Innegabile che nelle quattro Ballate vengano portate in scena storie di fierezza e malinconica, affidandone però la rappresentazione soltanto al linguaggio e alla logica formale della musica: così il loro andamento è scandito dal metro discorsivo, fluido, di 6/4 o 6/8, e la costruzione ha energica evidenza plastica grazie all’accostamento di episodi contrastanti per intenzioni espressive, per dinamica, per timbro. Del resto la stessa denominazione

di «ballata», termine di derivazione letteraria o musical-letteraria mai però prima d’allora impiegato per indicare composizioni soltanto strumentali, si riferisce da sempre a un genere apertamente narrativo. La Ballata in sol minore op. 23 ebbe lunga gestazione, dal 1831 al 1835: ciò che tuttavia non ha lasciato traccia nella struttura generale del pezzo che si sviluppa con studiata organicità attraverso un percorso tonale simmetrico inscritto entro una formasonata. Ossia entro quell’architettura forgiata da Haydn, Mozart e Beethoven che i romantici maneggiarono sempre con cautela per il timore di confrontarsi con tali giganti del passato. La Ballata comincia con una introduzione erratica, appena sette battute: un sipario che pare schiudersi su uno scenario da leggenda popolare, tra il reale e l’irreale, traboccante di rapinosa esaltazione. Vi sono disseminate, come del resto accade sovente in Chopin, arditezze armoniche dalla saporosa funzione coloristica. Da queste, con il tempo, germinerà la modernità fantasmatica dell’ultimo Liszt e il pianismo di puri effetti timbrici di Debussy. Oggi il nostro orecchio non ci fa più caso, ma allora colpirono molto gli ascoltatori, Schumann compreso. Un po’ come nella prima, anche nella terza Ballata in la bemolle maggiore op.47 del 1841 Chopin inserisce la domestica solarità cullante della materia musicale in una sorta di forma-sonata, sia pure poco ortodossa e al limite della riconoscibilità; ma vale, questa, soprattutto come pilastro portante attorno a cui avviluppare i temi del pezzo modificati di continuo in ogni


loro lineamento. Tant’è che qui Chopin potrebbe perfino avere impiegato la forma-sonata in maniera inconsapevole, tessendone istintivamente la trama per non abbandonarsi a un discorso troppo frammentario. Dato che la sua arte rifugge la genialità sregolata e preferisce piuttosto inscriversi nella limpida certezza di salde cornici architettoniche. Franz Liszt, cittadino del mondo nato in Ungheria nel 1811 (dunque d’un anno più giovane di Chopin, scomparso però quasi quarant’anni dopo di lui, nel 1886), non fu solo un concertista di pianoforte, uno che per il suo strumento scriveva pezzi chiassosi con troppe note (come spesso dice chi ne conosce solo superficialmente l’ampia produzione), ma un’intelligenza musicale visionaria, fiammeggiante, avveniristica. Aveva modi aristocratici che gli consentivano di trattare da pari a pari con la nobiltà europea, ciononostante in concerto sfoderava una gestualità disinvolta da fascinoso showman della tastiera che sapeva surriscaldare le platee scassando perlomeno un paio di pianoforti a serata e giocava a improvvisare sui temi più bislacchi che l’uditorio gli proponeva; e quando, abbandonata la carriera di pianista globetrotter, divenne abate, ostentava in pubblico la sua tonaca con una sorta di licenziosa devozione. Aneddotica a parte, Liszt fu comunque un musicista di cultura enciclopedica, curioso, stilisticamente sincretico, in grado di balzare con la stessa disinvoltura dal piano alla scrittura orchestrale, al podio, all’insegnamento, dalla chiesa al teatro, dall’organo alla

polifonia vocale, dal contrappunto arcaizzante al melos ungherese e alla scale zingare, dalla purezza del diatonismo ai turgori cromatici, alle scale per toni interi, all’atonalità. Le sue pagine possiedono conformazioni fluttuanti come le nuvole del cielo. Perché la sua creatività (esasperazione di quell’anelito metamorfico perseguito soprattutto da Schumann) predilige la disomogeneità e la disarticolazione all’equilibrio e alla congruenza. Autore di opere sempre aperte, ansiose di riscritture, che rifuggono la finitezza e, capaci come sono di ritornare costantemente su se stesse modificando magari struttura e organico, si offrono in fasi successive nella loro compiutezza e incompiutezza allo stesso tempo. L’intera produzione lisztiana si caratterizza per brama di esplorazione timbrica e insofferenza per le architetture codificate. «Chiedo soltanto il permesso di stabilire le forme attraverso il contenuto, e se anche questo permesso mi fosse negato dalla critica più lodevole, continuerei egualmente con fiducia per la mia modesta strada», scriveva Liszt nel 1856, intendendo dire che la ricerca del nuovo nella forma e nell’espressione vagheggiata nell’Ottocento è diretta conseguenza del messaggio da comunicare. A lui forniscono alimento perpetuo la poesia, la letteratura, l’arte figurativa, la natura, la fede cattolica non meno che gli eventi di un’esistenza intensa, di esemplare condotta romantica nella perpetua oscillazione tra carnalità e misticismo, San Francesco e Mefistofele, Saint-Simon e Lamennais, tra scandalo e apoteosi.


La Valse-Impromptu, frutto di diversi ripensamenti e versioni alternative che accompagnano Liszt per quarant’anni, è una pagina brillante e sofisticata da salotto signorile. Sul ritmo del valzer, che il compositore una volta ammise di non aver quasi mail ballato in vita sua (ma chissà se diceva sul serio), si innesta la vitalità capricciosa dell’improvviso. Il pezzo fu annotato la prima volta nel 1842 a San Pietroburgo sull’album della zarina di Russia, pubblicato un decennio dopo senza l’approvazione dell’autore, il quale poi continuerà per lungo tempo a lavorarci su. La Ballata n.2 in si minore venne alla luce nel 1853, poco dopo la Sonata con cui condivide la tonalità. Vi sono evocate immagini vivide e brucianti da saga epica. C’è chi vi ha riconosciuto la raffigurazione in note del mito classico di Ero e Leandro. Che racconta di come il giovane Leandro, innamorato di Ero, sacerdotessa di Afrodite sulla costa opposta dell’Ellesponto, tutte le notti affrontasse il mare (le ribollenti scale cromatiche alla mano sinistra rappresenterebbero i flutti) per poterla abbracciare. Ogni volta la fanciulla accendeva un lume dalla sua parte per favorire l’orientamento dell’ardito nuotatore; solo che una sera il vento spense la lanterna e Leandro affogò. Quando Ero ne vide il corpo senza vita sulla spiaggia, si gettò da una torre per disperazione. Il soggetto di Faust è tra i più cari a Liszt: lo dimostra il fatto che vi si è dedicato diverse volte, per esempio nella Sinfonia Faust e con i quattro Mefisto-Valzer. E pure prendendo a prestito il valzer

dall’opera Faust di Charles Gounod per rielaborarlo in maniera brillante, a due anni dalla première parigina avvenuta nel 1859, intrecciandovi assieme anche il duetto d’amore del secondo atto tra il protagonista e Margherita, Ô nuit d’amour. Del resto di parafrasi, trascrizioni, fantasie dalle opere più popolari e intriganti del passato e del presente (da Mozart a Donizetti, Meyerbeer, Verdi, Wagner) è zeppo il catalogo lisztiano al pari di quelli di ogni altro concertista-virtuoso dell’epoca. Invece il quarto Mefisto-Valzer, ennesima riflessione di Liszt sul poema Faust dell’austriaco Nikolaus Lenau, e i quattro Valses oubliées appartengono all’ultimo periodo creativo del compositore, gli anni ‘80: non finito il Mefisto-Valzer a causa della morte dell’autore, scarnificato nella scrittura l’ultimo errabondo, elusivo Valse oubliée, stampato postumo. Ma riguardo alle opere estreme di Liszt è illuminante quanto scrive Michele Campanella nel suo fondamentale volume Il mio Liszt. Considerazioni di un interprete (Bompiani, 2011): «La musica di Liszt negli anni ottanta riesce a recuperare l’astrazione, il gioco delle perle di vetro (per dirla con Hermann Hesse), che pareva perduta in piena burrasca di contenuti extramusicali. La musica non trasmette più immagini, drammi, ritratti: i nostri occhi vedono uno schermo bianco. Essa comunica suoni puri, ritmi, lacerti di melodie semplici e ipnotiche, silenzi intensi, spazi infiniti della libera immaginazione».


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