AREE DI CONFINE Periferia o nuovo centro urbano? Atti del Convegno
San Giovanni Valdarno 13 febbraio 2013 A cura di
Massimo Gennari I Simone Tellini I Ilaria Burzi Introduzione di
Paola Gigli Presidente dell’Ordine degli Architetti PPC di Arezzo Interventi di Marco Romano | Annick Magnier | Paolo Bellenzier Claudio Saragosa | Isotta Cortesi | Boris Podrecca Contributi di Sandro Antichi | Francesco Forzoni | Andrea Naldini
In copertina Fronte: Attraversamento ph Francesco Forzoni 2013 Verso: Dosso ph Massimo Gennari 2013 elaborazione grafica M. Gennari
immagini e fotografie: Bande inferiori Archivio S. Antichi, F. Forzoni, M. Gennari Sandro Antichi pag. 10-12-38-39-42-43-91 Francesco Forzoni pag. 35-44-57-59-65-77-83-98-110 Massimo Gennari pag. 16-25
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Ilaria Burzi pag. 94 Simone Tellini pag. 107
di
AREE
CONFINE
Interventi di
Marco Romano Annick Magnier Paolo Bellenzier Claudio Saragosa Isotta Cortesi Boris Podrecca
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Ringraziamenti Per l’organizzazione e la pubblicazione: La Commissione Territoriale del Valdarno Aretino nasce come commissione di vallata dell’Ordine APPC della Provincia di Arezzo nel 2003 con la denominazione di Osservatorio Urbanistico del Valdarno Aretino (OVA). Dal 2006 assume la denominazione attuale (CTV). Ne fanno parte gli iscritti che operano in questa Valle e si interessano al dibattito urbanistico e culturale di questi territori. Hanno fattivamente partecipato i colleghi: Sandro Antichi, Davide Benedetti, Claudio Calosci, Elisabetta Dreassi, Francesco Forzoni, Massimo Gennari, Andrea Naldini, Luciano Nosi, Marco Sacconi, Simone Tellini. Museo della Collegiata di Montevarchi per la documentazione O rg anizzazi o n e : M a s s i m o G e n n a r i ( c o o r d i n ato r e ) Ilaria Burzi, Simone Tellini P rog et to grafi c o : Ilaria Burzi, Rodolfo J M Pieri 4
Ordine APPC Arezzo via V Veneto 5 52100 Arezzo +39 0575 350022 www.architettiarezzo.it tutti i diritti sono riservati finito di stampare in Italia Maggio 2017
ISBN 978-88-942564-1-3
Per il convegno: Per la grafica e il sito web: Alessandro Tommasi , Torelli srl Immagini fotografiche: Sandro Antichi e Francesco Forzoni Segreteria e accoglienza: Martina Gardeschi e Erika Sestini Auditorium: Banca del Valdarno San Giovanni Valdarno Patrocinio: Regione Toscana Provincia di Arezzo Comune Montevarchi Comune San Giovanni V.no Comune Terranuova B.ni i C on trib u ti -Cent ro Ser vizi Am biente Impia nt i Sp a -Consorzio Terra nuova -Power- One Spa -Cionc ol ini Srl -Carresi & C Srl -Ermini Srl -F.ll i Ghiori Sn c -Luc e 5 -Romei Srl -Simon’s Ar t Sn c -Tosc ana Legna m i S rl -Cent ro Vendite Te c nolog ich e -Faliero Grafic a -Tek no Cost ruzion i
Terra nuova B ra c ciol i n i Terra nuova B ra c ciol i n i Terra nuova B ra c ciol i n i Terra nuova B ra c ciol i n i M onteva rch i M onteva rch i M onteva rch i M onteva rch i M onteva rch i M onteva rch i M onteva rch i M onteva rch i M onteva rch i Sa n Giova n n i V. no
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I NTRODUZIONE 8 Paola Gigli Aree di Confine
PREME SSA 11 Massimo Gennari Antefatti e territori
PRE SENTAZIONE 17 Andrea Naldini PotenzialitĂ della pianificazione unitaria 25 Massimo Gennari Margine (note a) 29 Simone Tellini La costruzione del convegno
G IORNATA 35 Marco Romano Le terre nuove 45 Annick Magnier Progetti comuni e sociologia 6
59 Paolo Bellenzier Concorso di progettazione 65 Claudio Saragosa Nuovi orizzonti della pianificazione 77 Isotta Cortesi Il sistema dello spazio aperto 85 Boris Podrecca Architettura come oltrepassamento del confine
Sommario VALLE 93 Sandro Antichi In volo 95 Ilaria Burzi A terra 99 Francesco Forzoni In acqua
AMM I N I STR ATORI 98 Sindaco di Montevarchi Sindaco di Terranuova Bracciolini Sindaco di San Giovani Valdarno
MOB I LITA’
105 Massimo Gennari Ilaria Burzi Simone Tellini
ASCIONE
111 Massimo Gennari
Aree di Confine Paola Gigli
introduzione
Gli architetti lavorano a vario titolo e con diversi ruoli sul territorio coordinando processi complessi. Il lavoro svolto in questi anni dalla Commissione Territoriale Valdarno dell’Ordine degli Architetti PPC della provincia di Arezzo ha sviluppato un ampio dibattito che ha por tato ad un convegno pubblico nel febbraio 2013 ed ora alla pubblicazione degli atti di quel convegno con l’intento di lasciare traccia della riflessione sviluppata sulle Aree di confine. Si parla dunque del tema dell’identità dei territori, della specificità delle aree di confine e dei territori marginali attraverso un confronto tra esperienze di respiro “glocale”, una rete di saperi che può aiutare a tracciare scenari futuri, rispetto ai quali chiedere l’impegno delle comunità e soprattutto delle amministrazioni pubbliche. Si parla di strategie di pianificazione e delle ricadute sociali ed economiche del governo del territorio, di condivisione, di riconoscibilità, di sostenibilità, del ruolo degli spazi pubblici nella costruzione delle relazioni sociali, di inclusione sociale. Si chiede alle amministrazioni pubbliche, ed in par ticolare ai Comuni come prima interfaccia con i cittadini, di cogliere la sfida, anche in tempi di durissima crisi e con l’obbiettivo di un cambia mento paradigmatico, mostrando capacità di delineare scenari futuri attraverso trasformazioni dei sistemi territoriali ed urbani che por tino a luoghi aderenti all’identità socio -economica ed alle propensioni della comunità in termini di nuovi modi di abitare, di lavorare, di vivere sul territorio. Si chiede alle amministrazioni pubbliche, con l’impegno dell’Ordine degli Architetti PPC della provincia di Arezzo, di promuovere la par tecipazione reale ai processi di lettura, analisi e go verno del territorio anche attraverso la nascita di un Urban Center del Valdarno, di fare ricorso a concorsi di architettura (di idee e di progettazione) , di promuovere l’utilizzo dei Fondi europei 2014 -2020, di agevolare l’attivazione di risorse anche private per inter venti di riqualificazione e di rigenerazione urbana (vedi per esempio UrbanPro Arezzo) . Si chiede un impegno delle amministrazioni pubbliche, in questo caso soprattutto di livello regiona le, verso una nuova generazione di strumenti urbanistici e di normative in cui prevalga la semplifi cazione, la richiesta di prestazioni e non la mera prescrittività, dove il contenimento di consumo di suolo, anche in termini di densificazione, sia un valore e non uno slogan demagogico; strumenti e norme quindi in grado di definire strategie, promuovere processi vir tuosi, costruire il futuro.
premessa
Massimo Gennari
Antefatti in pillole “I l V aldarno A retino ,
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tre pi ù grandi sono individuate nel f ondovalle dove si concentrano la gran parte delle attivit à umane e dei tra f f ici produttivi e commerciali ”.
Q u est i o n i s u l l a c i t t à d i f f u sa d e l V a l da r n o OVA, pag . 33, AAA, A r e z zo 2004
Ponte sull’Arno e zona industriale Le Coste
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“Per trovare gli uffici dell’Associazione Intercomunale tra i (10) comuni del Valdarno Aretino bisogna recarsi a San Giovanni Valdarno e percorrere la strada principale Corso Italia. Al civico settantanove si trova un portone di legno di quercia consunto dal tempo e protetto da eleganti voltine a sbalzo su mensoloni in pietra. Non importa suonare che è sempre aperto “… tutti i giorni escluso i festivi”. Adesso sali un gradino, percorri il corridoio e svolti a sinistra salendone un altro. Una ripida rampa di pietra serena con bastone scalpellato e corrimano di cipresso ti accompagna al primo livello che si trova a circa quattro metri e quarantacinque centimetri più in alto del marciapiede. Ma non sei arrivato. Per giungere infine al bancone della ricezione occorre salirne ancora un’altra. Questa è se possibile ancor più ripida e di faticosa ascesa. E alla fine stai al secondo piano. Qui ci sono gli uffici amministrativi, la contabilità e la direzione. Se invece hai bisogno di consultare carte topografiche, mappe catastali, aerofotogrammetrie, piani regolatori e roba simile ti devi sorbire un’altra arrampicata fino a giungere, sono altri diciotto scalini con alzata centimetri ventidue, alle soffitte del palazzo. Lo stanzone è il luogo delle ricerche. La fotocopiatrice è nella stanza della segreteria ma l’ambiente è talmente informale che le fotocopie te le puoi fare da solo. Scendendo le scale al piano terra dovresti notare una targa in lingua ebraica che racconta come questo edificio sia stato sede, dal secolo sedicesimo, di un banco di pegni”1. Questo modesto resoconto, datato 15 febbraio millenovecentosettantotto, è stato vergato con grafia incerta e penna a sfera di colore nero su foglietto a quadretti strappato dal 1 Appunti. Foglietto a quadretti strappato da quaderno, l’autore. San Giovanni Valdarno,15 febbraio 1978.
quaderno d’ordinanza dell’aspirante architetto. Racconta, in prima persona, la mia prima visita in quel luogo alla ricerca di materiale grafico e documenti per l’esame di Composizione Uno. L’ho scoperto per caso nascosto in mezzo alle pagine di un libercolo sulle prospettive della pianificazione urbanistica della Valle. Stavo cercando informazioni per l’articolo ed è caduto il biglietto piegato in quattro. Ricordo che sulle prime ho fatto apprezzamenti sconvenienti sul redattore del pezzo. Poi ho riconosciuto l’inconfondibile stile “a zampe di gallina” e allora ho deciso di adoprarlo come esordio per il brano che racconta in sintesi le vicende degli ultimi quarant’anni di tentata pianificazione condivisa delle terre lungo l’Arno. L’Associazione Intercomunale dei comuni del Valdarno Aretino nasce negli anni settanta per condividere le necessità di coordinamento delle politiche territoriali del comprensorio. Quegli anni battezzano la nascita di quest’organismo per sperimentare i primi tentativi di pianificazione condivisa sovra-comunale introducendo la strumento del Piano Intercomunale del Valdarno che funziona, però, a regime ridotto per le resistenze di politiche territoriali sostanzialmente diverse e contrastanti. E alla fine, una ventina d’anni dopo la costituzione, l’Associazione si scioglie senza troppo clamore. L’unico atto amministrativo, di evidente consistenza e di grande rilievo urbano, che la politica locale riesce a proporre verso la fine degli ottanta è il nuovo Ospedale unico del Valdarno di Santa Maria alla Gruccia. Le dieci Amministrazioni riunite riuscirono ad ottenere i finanziamenti che consentirono l’insediamento del plesso sanitario nell’arco dei dieci successivi. La scelta del luogo fu un tiro alla fune tra le varie amministrazioni locali. Ogni municipalità pare che potesse avere il terreno giusto per una struttura a servizio di ottanta - centomila utenti. Chi proponeva la collina esposta al sole e chi metteva a disposizione un’area in vicinanza del casello autostradale. Vinse la visione salomonica di urbanizzare un grande appezzamento agricolo in prossimità dell’Arno. Terreno di frequenti esondazioni ma con il grande vantaggio di essere sul confine tra le due amministrazioni politicamente più influenti così che si poteva avere il privilegio di nascere in un comune e di morire nell’altro. Intanto il territorio del Valdarno Superiore compreso all’interno della figura geometrica che si forma unendo le piazze centrali dei tre centri maggiori: Montevarchi, San Giovanni Valdarno e Terranuova Bracciolini subisce un intenso ed esteso sviluppo che trasforma un insieme di piccole municipalità in un’unica città diffusa ove vivono e lavorano circa sessantamila persone. Se si studiano le carte e l’orto foto del periodo la città è già presente. Quello che manca è una visione politica unitaria e un disegno urbano condiviso. Alcuni anni più tardi e più in precisione nel 1997 la Provincia di Arezzo termina le operazioni relative al Piano Territoriale di Coordinamento (PTC) che si dimostrerà in seguito solo uno strumento di buoni propositi senza concrete possibilità di coordinamento e pianificazione territoriale. Si trattava in sostanza di un Piano di raccomandazioni e buone regole che sono state in gran parte disattese. In quello stesso anno si tenne un importante seminario internazionale denominato “Synoikismos, la trasfor-
mazione urbana del Valdarno”2 con un programma di conferenze, workshop e attività culturali proposte per aprire un dialogo sulla questione della nuova forma urbana del Valdarno. Lo studio fu patrocinato dall’Amministrazione Provinciale e dalle tre città limitrofe di fondovalle. L’idea fondamentale del corso post universitario, tenuto da qualificati docenti europei e nord americani, della durata di tre settimane con esposizione del materiale direttamente ogni volta che si produceva, fu quella di promuovere il concetto di “vivere insieme” in un contesto postmoderno. L’organizzazione delle attività del seminario fu una sfida al modo di trattare le tre città come luoghi autonomi. Fu un’iniziativa univoca e molteplice per le tre città in questione, che solitamente programmavano eventi del genere separatamente. Questa ricerca non ebbe un seguito normativo nei successivi strumenti di programmazione del territorio.
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Nel 2003 un gruppo di architetti, facenti parte dell’Ordine degli APPC della provincia di Arezzo, riuniti in commissione territoriale sotto l’acronimo OVA “Osservatorio Urbanistico del Valdarno Aretino”, si mise in mente di promuovere ed effettuare uno studio sui luoghi in questione. La compagnia si adoperò in un lungo lavoro di archivio per recuperare carte, documenti, immagini, planimetrie, pubblicazioni, piani regolatori, studi di settore e altro. Le carte e le immagini furono unite. I disegni della pianificazione furono stampati, ritagliati lungo i confini amministrativi e messi insieme a formare un collage territoriale che raccontò graficamente la distanza di programmazione urbanistica tra Amministrazioni limitrofe. L’esperienza fu raccolta l’anno successivo nelle pagine di un volume a stampa titolato significativamente “Questioni sulla città diffusa del Valdarno”3 e presentata a Montevarchi nel maggio del 2005. Lo stesso anno prendono la scena le istituzioni. Durante il 2004 i comuni di Bucine, Cavriglia, Montevarchi, San Giovanni Valdarno e Terranuova Bracciolini cominciano l’attuazione di un processo condiviso e si costituisco in “Forum Valdarno” aderendo alle iniziative promosse dalla Regione Toscana nell’ambito dell’Agenda 21 regionale. L’obiettivo primario è la costituzione, tra le città aderenti, di una rete per la ricerca di approcci e soluzioni innovative, condivise e partecipate, nel settore delle politiche ambientali. La
2 Richard Ingersoll Synoikismos, la trasformazione urbana del Valdarno, in AA.VV. “Questioni sulla città diffusa del Valdarno”, Agenzia Architetti Arezzo srl uni personale, Arezzo 2004, pag. 14-31. 3 Osservatorio urbanistico del Valdarno Aretino, Considerazione sulla formazione degli strumenti pianificatori del Valdarno Aretino, in AA.VV. “Questioni sulla città diffusa del Valdarno”, Agenzia Architetti Arezzo srl uni personale, Arezzo 2004, pag. 32-35.
parola d’ordine “lavorare insieme” battezza il titolo del forum “Qualità urbana e mobilità sostenibile”4. Gli enti cercano il coinvolgimento di tutti gli attori che prendono parte ai processi di trasformazione compreso i semplici cittadini. Si svolgono incontri e seminari, si scelgono gli specifici argomenti che si dibattono poi all’interno dei gruppi di lavoro. E infine si prefigura uno scenario comune ai dieci anni successivi. Secondo le previsioni il 2015 vedrà nella coordinazione politica e nella gestione integrata del territorio l’elemento fondamentale per il funzionamento dell’intero sistema. Anche questa iniziativa, come le precedenti, non lascia segni evidenti nei Piani urbanistici in essere. E ancora nel 2012 le tre Amministrazioni maggiori si domandano: “Perché trova così tanti ostacoli una politica di tutela e di trasformazione del territorio che vada oltre gli stretti confini dei singoli Comuni, mentre è naturale pensare e vivere il territorio come un sistema continuo e aperto?”. La risposta fu rimessa al convegno “I Comuni del Valdarno aretino per una pianificazione territoriale sovracomunale”5, dove furono presentate, sotto la regia dell’ANCI Toscana, esperienze di pianificazione sovracomunale rispettivamente della Val di Cornia e del Chianti Senese con interventi di politici locali e regionali. Intanto la Commissione Territoriale del Valdarno (CTV) ha continuato a studiare la Valle e i territori bagnati dal Fiume. Dal 2012 ha promosso e organizzato una giornata di studi per affrontare la questione del progetto di questi luoghi sotto le ali della strategia urbana e i profili della concertazione, della sostenibilità e della partecipazione. Si accetta che le aree a confine tra varie entità territoriali siano generalmente percepite come terre marginali, nelle quali insediare le funzioni meno pregiate o incongrue o che, nella migliore delle ipotesi, siano prive di una qualsiasi idea progettuale di utilizzazione collettiva. In previsione di una sempre maggiore aggregazione amministrativa dei vari comuni, queste aree assumono in modo sempre più marcato il ruolo di aree centrali deputate a connotare un’identità territoriale condivisa e riconoscibile. Le aree a margine tra le Amministrazioni in questione contengono già oggi, anche se in forma embrionale, gli elementi necessari per assumere il ruolo di luoghi essenziali di un vasto sistema territoriale. Il convegno che titola “Aree di confine, periferia o nuovo centro urbano?”6 si è tenuto all’inizio dell’anno seguente con relatori specializzati nelle più diverse discipline dell’arte di costruire la città. Questo volume ne raccoglie le testimonianze.
4 Agenda 21 Locale, Forum Intercomunale Valdarno 21, Qualità urbana e mobilità sostenibile, Laboratorio di partecipazione EASW. 5 ANCI Toscana, I Comuni del Valdarno aretino per una pianificazione territoriale sovracomunale, in AA.VV. “Presentazione del convegno pubblico”, San Giovanni Valdarno, 2012. 6 Aree di confine, periferia o nuovo centro urbano? Esperienze a confronto, scenari futuri per il Valdarno, in AA.VV. “Presentazione del convegno pubblico”, San Giovanni Valdarno, 2013.
presentazione
PotenzialitĂ della pia n i fic az ione Andrea unitaria Naldini
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La disciplina urbanistica in Italia è oggi in una fase di profonda mutazione e ripensamento. I concetti di riuso, di riqualificazione e di rigenerazione urbana stanno sostituendo i concetti di crescita, di sviluppo indiscriminato e di espansione.n In questo modo la disciplina urbanistica sta prendendo coscienza dei profondi mutamenti che la situazione economica e sociale che stiamo attraversando hanno provocato nel settore dell’edilizia e, in modo particolarmente cruento, nel settore delle nuove costruzioni e, di conseguenza, si sta concentrando sulla ricerca delle modalità più efficaci di recupero del patrimonio edilizio esistente e della sua riqualificazione. Questo nuovo modello di concepire la pianificazione scaturisce anche dall’evidente incongruenza delle nostre città rispetto ai temi sempre più attuali dell’ottimizzazione energetica, della dotazione infrastrutturale, della salvaguardia ambientale. Inoltre si è ormai compreso che una città che cresce in modo indefinito è profondamente anti economica, soprattutto per quanto riguarda la gestione delle aree pubbliche da parte degli enti locali, in tempi di notevoli ristrettezze economiche. Anche a livello legislativo nazionale si sta affermando una tendenza a limitare l’espansione delle città e il consumo di suolo per l’edificazione di nuove aree urbane, come testimonia il “Disegno di Legge quadro in materia di valorizzazione delle aree agricole e di contenimento del consumo del suolo” del settembre 2012. Ciò è ancora più vero in Toscana, regione da sempre all’avanguardia nella pianificazione urbanistica a livello nazionale, dove si sta sempre più affermando la tendenza a concepire piani urbanistici “a crescita zero”, basati cioè in prevalenza su meccanismi di trasformazione della città mirati alla rigenerazione urbana, con i quali la crescita avviene prevalentemente attraverso operazioni di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente in termini energetici, ambientali e di qualità architettonica che, al contempo, portano ad un incremento e ad una ottimizzazione delle dotazioni di aree per standard urbanistici all’interno della città costruita. Esemplificando, si può affermare che la città che deriva da questo modello si sviluppa al suo interno, senza ampliare i suoi perimetri. In uno slogan: sviluppo senza espansione. Questi nuovi concetti, e le modalità di gestione di questo modo innovativo di concepire l’urbanistica, costituiscono la filosofia di fondo e l’ossatura portante della bozza della nuova legge urbanistica regionale. Tralasciando l’esposizione dei vari aspetti della bozza di legge e i rilievi critici che si possono sollevare su alcuni contenuti, che di fatto appaiono come un passo indietro rispetto alle posizioni di autonomia pianificatoria delle amministrazioni locali rispetto al governo centrale della Regione, ci preme qui evidenziare come la legge incentiva con forza la formazione di piani strutturali intercomunali, promuovendo di fatto l’aggregazione fra i comuni per la fase di pianificazione urbanistica e di gestione del territorio. Questo è un aspetto che ci interessa in modo particolare. Quali rappresentanti dell’Ordine degli Architetti, Paesaggisti, Pianificatori e Consevatori della Provincia di Arezzo, infatti, abbiamo più volte e con varie modalità sensibilizzato i responsabili delle amministrazioni locali affinché venisse avviato un percorso comune di co-pianificazione che riguardasse almeno quelle aree
che hanno una evidente valenza sovracomunale e che ci sembra ormai ineluttabile che siano progettate in modo unitario e condiviso dai comuni interessati. Infatti ci sembra ormai maturo il momento di cominciare a pensare al nostro territorio come ad un unico agglomerato urbano che, seppure diviso in varie municipalità, è indiscutibilmente un ambito territoriale omogeneo dal punto di vista paesaggistico, ambientale, infrastrutturale e che, nei fatti e nella realtà quotidiana, è vissuto dai cittadini come un’unica città (si va a scuola a Montevarchi o a S.Giovanni, si va a fare la spesa nei centri commerciali di Montevarchi e nelle aree commerciali di Terranuova, si va al cinema a Montevarchi, si pedala o si corre lungo l’Arno a S. Giovanni). Queste sono le ragioni di fondo per le quali emerge forte la necessità di una condivisione delle scelte strategiche di sviluppo e di gestione del territorio, attraverso le quali si possano riconoscere e governare le specificità di ciascun Comune evitando inutili “doppioni” nelle scelte urbanistiche. Siamo infatti sicuri che ogni Comune abbia effettivamente bisogno di prevedere ulteriori aree industriali, nuove aree di espansione residenziale o commerciale, altri cinema e teatri, circonvallazioni e nuove arterie stradali? Oppure sarebbe più corretto perseguire un progetto unitario di vallata dove, nel riconoscimento delle potenzialità di ciascun territorio, si possano individuare senza localismi e particolarismi quelle aree nelle quali è sia oggettivamente opportuno insediare determinate funzioni, a prescindere dal Comune di riferimento ma basandosi sull’effettiva vocazione locale? Questo percorso può sembrare faticoso e futuribile, ma in realtà e per molti aspetti rilevanti, è già stato effettuato per definire alcune scelte strategiche. Basti pensare alla variante alla SS69 attualmente in corso di realizzazione, con la localizzazione del nuovo ponte sull’Arno tra Montevarchi e Terranuova, o alla realizzazione dell’ospedale unico a cavallo tra Montevarchi e S.Giovanni o, come accennato sopra, alla dislocazione delle scuole secondarie superiori che determina lo spostamento degli studenti da un comune all’altro con i mezzi pubblici, come avviene quotidianamente in ogni grande città. Nei fatti pertanto il Valdarno è già vissuto come una realtà unitaria mentre le scelte di pianificazione urbanistica rimangono ancora frammentate e, senza essere inquadrate in una visione più ampia, generano distorsioni evidenti. Sarebbe invece opportuno che si cominciasse finalmente a parlare lo stesso linguaggio urbanistico (in parte questo aspetto è superato con l’introduzione dell’unificazione dei parametri urbanistici ed edilizi per il governo del territorio effettuato dalla Regione. Speriamo che tali parametri non vengano sub-articolati da ciascun Comune secondo le proprie esigenze particolari), che si cominciasse a fare un serio ragionamento su una omogeneizzazione degli oneri di urbanizzazione, che si definissero omogenee modalità di attuazione delle previsioni urbanistiche e, infine, che si operassero alcune scelte localizzative strategiche condivise e partecipate.
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Pensiamo a scelte condivise sull’assetto infrastrutturale, sugli insediamenti commerciali e produttivi, sulle politiche per il social housing. Questo comporterebbe indubbi vantaggi operativi e, di conseguenza, una sicura attrattività per investimenti anche da operatori esterni. Inoltre avremmo una “spersonalizzazione” delle scelte e delle decisioni che consentirebbe sicuramente una migliore gestione ed attuazione degli strumenti urbanistici, anche da parte dei tecnici comunali. Altri ambiti territoriali, sia nella nostra Regione che in altre parti di Italia e in Europa, hanno già affrontato e sviluppato esperienze analoghe a quella che ci auguriamo possa essere intrapresa quanto prima anche nel nostro territorio.
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L’esempio più calzante è il Piano Strutturale del Circondario della Val di Cornia (Comuni di Campiglia Marittina, Piombino e Suvereto) redatto nel 2007 con il quale i Comuni interessati si sono impegnati a coordinare tra loro il processo di pianificazione per giungere a un unico piano strutturale d’area. La formazione del piano strutturale d’area e del successivo regolamento urbanistico della Val di Cornia è stato concepito come un processo di pianificazione complessivo e unitario, gestito attraverso un gruppo di direzione politica (costituito da esponenti politici dei vari Comuni), un gruppo di coordinamento (costituito dai responsabili scientifici incaricati della redazione del piano e dai dirigenti e funzionari dei settori urbanistica dei vari Comuni) e da un gruppo operativo (ufficio di piano e consulenti esterni). Questa significativa ed originale esperienza di co-pianificazione ha però avuto un esito infelice, dato che i Comuni di Campiglia e Suvereto hanno approvato i regolamenti urbanistici quattro anni dopo l’approvazione del piano strutturale, mentre il Comune di Piombino ha invece ritenuto di effettuare diverse varianti al precedente piano regolatore, alcune delle quali di grande rilevanza urbanistica, prima della redazione del suo regolamento urbanistico. Tra queste la variante relativa al porto, alla nautica, alle aree industriali e alle infrastrutture che ha comportato sostanziali modifiche al piano strutturale d’area. Nessuna discussione è mai stata svolta nei Consigli Comunali di Campiglia e Suvereto, nonostante le norme avessero stabilito che modifiche del piano strutturale (ovunque si determinassero) dovevano essere approvate contestualmente dai tre Comuni. Nel frattempo il Comune di Piombino ha adottato il proprio regolamento urbanistico sulla base del piano strutturale, modificato autonomamente nel 2009. Nel 2010 è stato sciolto il Circondario. È così venuto meno l’organismo che aveva la funzione di occuparsi della verifica di coerenza con gli altri piani e di promuovere l’ag-
Piano Strutturale d’area della Val di Cornia,
giornamento e la redazione di nuovi strumenti urbanistici d’area, vanificando di fatto tutto il lavoro svolto fino ad allora. Ad oggi i Comuni della Val di Cornia stanno autonomamente procedendo alla redazione di nuovi strumenti urbanistici comunali. Un altro esempio di co-pianificazione è il Regolamento edilizio intercomunale dei Comuni di Gaiole in Chianti, Castelnuovo Berardenga, Castellina in Chianti e Radda in Chianti, approvato nel marzo di 2014. L’atto è stato voluto per garantire a cittadini e imprese residenti sulla stessa area territoriale le stesse regole dal punto di vista urbanistico e paesaggistico. I Comuni del Chianti hanno lavorato per offrire alla comunità uno strumento di gestione e di governo del territorio omogeneo ed elaborato secondo le caratteristiche economiche, sociali e culturali dell’area. I cittadini e le imprese potranno consultare le norme esistenti all’interno di un solo strumento, rendendo più semplice e più veloce la presentazione delle pratiche amministrative e la comprensione dei valori culturali e ambientali del Chianti. Rimane comunque da rimarcare come un fatto estremamente positivo che svariati Co-
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muni si siano uniti e siano riusciti ad elaborare un importante strumento gestionale, quale è il Regolamento Edilizio, superando i propri interessi particolari per tendere verso un più ampio interesse generale. In ambito Europeo, interessanti esempi di governo del territorio, coordinato e partecipato, arrivano dalla Germania, la quale grazie alle ultime esperienze IBA, ha portato avanti efficaci politiche di riqualificazione che hanno coinvolto anche estese aree geografiche1. L’Internationale Bauausstellung IBA, letteralmente: esposizione internazionale dell’edilizia, non è tanto una mostra nel senso tradizionale del termine (anche se inizialmente era un vero e proprio salone), ma piuttosto un programma di sviluppo che ha lo scopo di promuovere nuove idee e progetti per lo sviluppo sociale e la ripresa economica. Le esposizioni internazionali sono una tradizione che dura da oltre un secolo con l’intento di risolvere i problemi legati all’abitare e allo sviluppo urbano attraverso grandi innovazioni costruttive, dove l’architettura è sempre stata la protagonista. Si ricordano le ultime esperienze IBA che hanno interessato varie aree della Germania, da Ruhrgebiet 1899 – 1999 nella Ruhr appunto, a IBA Sachsen-Anhalt dal titolo ‘Rinnovo urbano come progetto civile’, che ha coinvolto molte città della regione, fino alla rivoluzionaria Iba Fürst Pückler Land, o Iba.see, 2000 – 2010 che si è occupata di riqualificare e rilanciare un’area che era stata completamente sconvolta e snaturata da enormi miniere a cielo aperto. L’esempio più conosciuto, diventato un riferimento storico per le tematiche di riqualificazione, programmazione e gestione del territorio, è l’IBA Emscher Park del bacino della Ruhr, durante la quale si è passati da una dimensione urbana, ad una di tipo regionale che ha coinvolto numerosi amministrazioni comunali, e che ha portato ad eleggere per la prima volta nella storia, una regione come capitale europea della cultura nel 2010. Il riscatto di quest’area della Germania era stato già sognato da Willy Brandt che, nel 1961, nel pieno dell’industrialismo europeo, pronunciò una famosa frase: “Il cielo sopra la Ruhr deve tornare ad essere di nuovo blu!”. Con il successivo declino delle industrie minerarie e delle acciaierie degli anni ‘70-’80, tutto sembrava compromesso da un punto di vista economico e ambientale. Il fiume Emscher, che conforma la valle tedesca era stato trasformato in un lungo scarico a cielo aperto. Negli anni ‘90, i problemi della regione della Ruhr sono stati affrontati con grande coraggio dal governo regionale del Nordrhein-Westfalen che ha appoggiato e finanziato l’Internationale Bauausstellung Emscher Park, una società composta da più organi, tra cui un comitato scientifico ed un consiglio d’amministrazione composto da importanti esponenti, non solo della sfera politica, ma dell’economia, della progettazione, dei 1
Testo e immagini tratte da I. Burzi Nuovi paesaggi e aree minerarie dismesse, Fup, Firenze 2013
sindacati e delle associazioni ambientaliste. L’IBA concentrava la propria attività sull’idea che la riqualificazione dell’intera regione potesse passare attraverso una profonda azione di miglioramento ambientale e di riqualificazione paesaggistica del territorio lungo il fiume Emscher. L’idea riprende il concetto di fasce verdi regionali ipotizzate per la prima volta nel 1968 con funzione di regolazione delle condizioni climatiche, di dotazione di aree ricreative e separazione degli insediamenti. Garantendo al sistema di corridoi verdi lo status di parco regionale, con una serie di percorsi tematici che si inseriscono in un tessuto produttivo intensivo, in realtà poco accessibile, si è realizzato un disegno connotato da una parziale frammentazione ma comunque capace di consentire una continuità di fruizione attraverso percorsi già esistenti utilizzati per le attività agricole. Questi regionalen grünzüge liberi da edificazione previsti dal masterplan di IBA Emscher Park, sono stati poi confermati e accolti nel piano regolatore di Francoforte, che ha introdotto la categoria di “area verde ecologicamente significativa”, orientando di fatto la crescita della città. Nella Ruhr il progetto di sistemi verdi lineari è legato ad un importante processo di riqualificazione ambientale, sociale e culturale messo in atto alla fine degli anni Ottanta
L’area della Rhur ed il piano di IBA Emscher parkcon il fiume Emscher e il progetto delle cinture verdi.
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attraverso l’Internazionale Bauaustellung (IBA) riuscendo a creare una nuova valenza turistica al territorio ex-industriale del bacino carbonifero. Questo intervento si fonda su una solida tradizione. In questa concezione urbanistica il progetto degli spazi verdi ha ruolo di orientare lo sviluppo urbano in quanto la costruzione dei nuovi quartieri residenziali, sul modello delle città giardino, deve legarsi in modo sistematico alla pianificazione delle aree verdi. Le sette fasce verdi regionali con andamento Nord-Sud diventano la struttura portante del paesaggio urbano policentrico. Di fatto la presenza dei corridoi verdi rimane una costante nella pianificazione della regione dimostrandosi un efficace strumento di orientamento della crescita urbana. Inoltre la riqualificazione paesistica non si attua solamente attraverso politiche di tutela degli spazi aperti esistenti, ma anche mediante il recupero delle aree lasciate libere dalla dismissione dell’attività industriale. La progettazione pilota dell’Emscher Landschaftspark si è conclusa nel 1992 con la stesura di linee direttive per la predisposizione dei sei progetti base. I corridoi verdi sono sviluppati nella forma di parchi regionali da vari gruppi di lavoro intercomunali, ai quali partecipano i singoli Comuni o Circoscrizioni interessati. L’Iba con le sue azioni si muove all’interno del quadro delineato, effettuando anche interventi a breve termine - come rimboschimenti nelle aree acquisite al demanio, cura dei biotopi, realizzazione di percorsi – accanto alla promozione di progetti di trasformazione più complessi. Tra questi è ormai noto il parco di oltre duecento ettari di Duisburg-Nord, progettato da Peter Latz, dove l’archeologia industriale - altiforni, acciaierie, impianti minerari – diventa protagonista di un percorso esperenziale e i materiali e le strutture delle antiche lavorazioni sono oggetto di un processo di naturalizzazione.
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Sopra: corso d’acqua bonificato e le strutture industriali mantenute all’interno del paesaggio riqualificato. Parco del quartiere di Recklinghausen II A fianco: Peter Latz, impianto industriale recuperato a parco giochi, Duisburg Nord
Catalogo di oggetti in pietra, terracotta e marmo. Copertina, 1985
Margine (note a) “L’architetto professionista infatti si trova oggi quasi sempre, e salvo casi eccezionalissimi, costretto a realizzare non ciò che egli, pur nella chiara consapevolezza dell’utilità della propria missione nel concreto mondo in cui vive ed opera, suole vagheggiare in termini di poesia, ma ciò di cui la società ha bisogno è ciò che essa gli chiede, imponendogli condizioni e limiti ferrei e invalicabili”. Mostra del Nucleo Senese per l’Architettura Catalogo, Introduzione, Enzo Carli, Soprintendente Pinacoteca Nazionale, Siena 1954
MassimoGennari
Impresa di Teseo a Creta (particolare), Maestro dei Cassoni Campana, inizio XV sec. Musée du Petit Palais, Avignone
Recinto urbano, 1979, Acquarello, cm. 25x25. Massimo Scolari.
Son sempre stato affascinato dal paradosso che recita: “È nato prima l’uovo o la gallina?” Questa frase, ormai entrata a far parte dell’immaginario collettivo, trova risposte controverse asseconda delle discipline che l’analizzano. Secondo alcuni studiosi di scienza l’uovo ha di sicuro il diritto di primogenitura. Se invece la risposta è richiesta alla filosofia, magari meglio se di fede Aristotelica, è la gallina che vince la sfida. E naturalmente esistono ricercatori che sono pronti a ribaltare la classifica con argomenti i più fantasiosi e diversi. Logici e no. Questo ragionamento circolare ricorda l’immagine del cane che si morde la coda. O ancora e meglio, se si lasciano da parte fuorvianti simboli alchemici o esoterici, la figura del serpente che forma un cerchio. Se invece spostiamo il rompicapo al disegno e all’architettura non ci possiamo esimere da rammentare il signor Escher1 e le sue costruzioni impossibili, i suoi straordinari giochi ottici, le prospettive invertite, i paesaggi illusionistici e l’acqua che, invece di scendere, sale verso l’alto. Ma torniamo a l’oggetto del paradosso: l’uovo che può essere di gallina e di altri volatili come oca, anatra, quaglia, struzzo, passero e via. O ancora di pesce: lompo, caviale, bottarga oppure di rettile tipo tartaruga, serpente o dinosauro. In un film, di alcuni anni fa, del francese Besson2 ne ho ammirato uno di Pterodattilo, rettile volante vissuto nel Giurassico superiore, dalle dimensioni eccezionali come gigantesco è l’animale che rompe il guscio e se ne vola a caccia di prede nella Parigi di inizio novecento. E se per analogia spostiamo il ragionamento dalla biologia all’arte che organizza lo spazio si possono rilevare, per analogia, alcune corrispondenze. Il guscio è l’elemento di separazione tra un dentro caldo e protettivo e un fuori sconosciuto e ostile. Lo sanno bene i cugini di Titti quando incontrano il Silvestro di turno. Lo sa a memoria la coppia Clarke e Kubrick3 quando fanno uscire l’astronauta dalla nave nel vuoto assoluto, dal bozzolo bianco al nero assoluto del cosmo. L’involucro è in sostanza un separatore di mondi. Da una parte la civiltà, i fucili e le feste da ballo. Dall’altra la barbarie, le frecce e la danza del bufalo. E come nel “Massacro di Fort Apache”4 li separa solamente una recinzione. Il recinto separa due realtà a volte molto diverse. Secondo lo Zingarelli5 è uno “Spazio cinto all’intorno da case, muraglie, tavole e siepi”. Massimo Scolari ne da una semplice ed efficace interpretazione grafica che resiste al passare del tempo. Un piccolo acquarello quadrato, di venticinque centimetri di lato, ne racconta Uno. C’è un alto muro con due aperture contrapposte che danno accesso ad un cortile quadrato. Ci sono dieci piccole case dal tetto a capanna. Le abitazioni hanno due ingressi. Uno dal fuori e l’altro dal
dentro tramite altrettanti porticine. E tanto basta. Un perfetta architettura laconica che l’autore titola “Recinto urbano”6. Sono recinti: gli orti conclusi e i chiostri, i cimiteri e le città murate, i castelli e gli stadi, la grande muraglia e il labirinto. Quest’ultimo è un particolare modello di recinzione. Ci spiega J. L. Borges che: “Un labirinto è un edificio costruito per confondere gli uomini; la sua architettura, ricca di simmetrie, è subordinata a tale fine”7. Il mito ci racconta del primo di questi modelli. Del palazzo reale di Cnosso e del suo mostruoso abitante che si nutre di fanciulli; dell’eroe senza macchia e neanche un briciolo di paura e della figlia del re che se ne innamora. E soprattutto ci parla del filo rosso che serve a ritrovare l’uscita dopo che il buono ha trucidato il cattivo. Questo è il labirinto che ho visto per primo. L’ho veduto a Lucca dove “Sotto l’esonartece occidentale del duomo fu murata sulla parete nord del campanile una lastra in pietra raffigurante un labirinto”8. L’ho guardato e toccato al tempo degli studi quando ero in giro per la Garfagnana a studiare paesi e città, fiumi e ponti del diavolo, paesaggi e piani regolatori. L’ho fotografato e stampato, ricalcato, disegnato e anche calcato col gesso. Ho studiato per anni il suo negativo. E poi l’ho usato per il progetto del tavolo di pietra, marmo e terracotta che adesso riposa in pace sotto il Salice lungo il confine. Il confine è una linea. Molto spesso, specialmente se stiamo fuori dal recinto, è un tracciato virtuale e altre volte è un solco sul terreno. Un fosso che delimita due possedimenti. Un limite ben definito tra chi sta dentro e chi sta fuori. Così che Romolo uccide Remo dal momento che ha osato scavalcare il solco appena tracciato che segna il limite della città fondata9. Il confine, il limes10, nell’immagine storica della città richiama la difesa dal forestiero mentre il centro urbano evoca sicurezza e adesione ai valori della cittadinanza. Fuori della città ci sono i territori liberi. C’è la frontiera e tutto quello che comunemente chiamiamo paesaggio. Il “Paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”10. In principio la terra era piatta. Il confine del mondo antico era situato, con buona approssimazione, poco al di là delle colonne d’Ercole. Ne erano estremamente convinti i primi popoli della Mesopotamia e via via gli altri fino a tutto il Medioevo. Solo dopo la circumnavigazione di Magellano si dimostrò inevitabilmente la sua sfericità. I concetti e le sicurezze cambiano con lo scorrere del tempo, con l’acquisizione di nuove consapevolezze
Questioni sulle servitù prediali, Giuseppe Antonio Castelli, Milano, 1840.
e il conseguimento di nuove scoperte. Cambia così anche il concetto stesso di margine. Il margine è l’estremità di una superficie o anche quella zona estrema di un territorio o di un organizzazione di persone. Si dice “il tale o il tal’altro … vive ai margini della società” per significare ad esempio la sua estraneità alla vita sociale. Nel campo della grafica è quella zona bianca non occupata da testo o immagine che si trova ai lati del foglio. Che si trova sul bordo. È anche, e questo mi pare estremamente interessante, quel luogo del documento dove si possono riportare appunti e note. Si tratta adesso di lavorare sul bordo dei territori. Sulle aree di margine e sulle terre di mezzo delle nostre città. Dove queste diventano confine tra organizzazioni territoriali stabili ed elementi in continua trasformazione. Si tratta di scrivere in maniera consapevole gli elementi che compongono il paesaggio, l’ambiente e il territorio. Che tutto questo possa configurarsi come il l’architettura della città? •
1 Maurits Cornelis Escher, 1898–1972. Incisore e grafico olandese conosciuto principalmente per le sue incisioni su legno, litografie e mezzetinte che tendono a presentare costruzioni impossibili, esplorazioni dell'infinito, tassellature del piano e dello spazio e motivi a geometrie interconnesse che cambiano gradualmente in forme mano a mano differenti. E molto altro. Le sue opere sono molto amate da scienziati, matematici e da schiere di architetti.
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2 Luc Besson, 1959. Produttore cinematografico, regista e scrittore francese. La pellicola in questione titola: Les Aventures extraordinaires d'Adèle Blanc-Secè, 2010.
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3 Stanley Kubrick,1928–1999. Regista, sceneggiatore, e fotografo statunitense. Uno dei più grandi cineasti della storia del cinema. Film: “2001, a space odyssey”, 1969.
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Sir Arthur Charles Clarke, 1917–2008. Scrittore di fantascienza, sceneggiatore e inventore britannico. Racconto: “The sentinel”, 1951.
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4 John Ford, 1894–1973. Regista e attore statunitense. Imponente la sua produzione di film western. Il film, uscito nel 1948, si avvale di attori del calibro di Henry Fonda, Shirley Temple e John Wayne.
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5 Vocabolario della lingua italiana compilato da Nicola Zingarelli. Novissima edizione (IX). Zanichelli editore, Bologna 1968.
Waterfall,1961. Maurits Cornelis Escher.
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6 Articolo: “Principi compositivi”, Massimo Scolari, Pag. 41-44.
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AA.VV. Rassegna - Recinti (rivista), anno 1, n. 1, Milano, 1979.
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7 Racconto: “L'immortale”(1949).
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Jorge Louis Borges. L’aleph. VII edizione. Feltrinelli editore. Milano, 1981.
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8Hermann Kern. Labirinti. Feltrinelli editore. Milano, 1981.
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Lucca, Duomo di San Martino. Fine XII o inizio XIII secolo. Pag. 206-207
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Diametro cinquanta centimetri. Un’iscrizione in latino spiega che: “Questo è il labirinto di Creta co struito da Dedalo, dal quale una volta entratovi, nessuno può uscire, se non Teseo, grazie all’aiuto del filo di Arianna”.
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9 Theodor Mommsen. Storia di Roma antica. Sansoni editore. Firenze, 1972.
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10 Cfr. Convenzione Europea del Paesaggio. Documento adottato dal Comitato dei Ministri della Cultura e dell'Ambiente del Consiglio d'Europa. Firenze, 2000. “Paesaggio” (definizione) Capitolo 1, art. 1 lettera a.
Simone Tellini
La costruzione del convegno
“Aree di confine”. Il titolo indica di per sé il tema attorno al quale è stato pensato e costruito il convegno e sul quale si è dibattuto in occasione della giornata di studio. Questa specifica iniziativa è nata dalla volontà dell’Ordine degli Architetti P.P.C. della Provincia di Arezzo, ed in particolar modo della CTV (Commissione Territoriale Valdarno), di indagare ed analizzare in modo approfondito il processo estremamente complesso - che si potrebbe definire evolutivo - che da anni si sta consolidando e sta trasformando il nostro territorio e la percezione che si ha dello stesso. Stiamo assistendo da tempo all’evoluzione dei sistemi sovracomunali inerenti la mobilità e la componente ambientale e contemporaneamente allo sviluppo del tessuto edificato, figlio però delle singole pianificazioni urbanistiche comunali. Quest’ultimo processo ha generato un organismo urbano che non è la mera sommatoria dei tre centri (seppur cresciuti ed evolutisi) presenti nell’estremità nord del Valdarno Aretino. È indubbiamente qualcosa di diverso, di più relazionato, integrato e interdipendente. La spiccata reciproca dipendenza, per la distribuzione dei servizi, dei luoghi del lavoro e dell’abitare, è caratteristica peculiare di questa nuova “città diffusa”. Le relazioni e i flussi tra le parti si sono però purtroppo sviluppati – come accennato sopra - senza una comune strategia e senza il necessario ed opportuno coordinamento tra gli strumenti comunali di governo del territorio. La volontà di proporre il completamento di questo processo di integrazione, e soprattutto la gestione dello stesso attraverso una progettualità comune alle tre entità amministrative (Montevarchi, San Giovanni Valdarno e Terranuova Bracciolini), è il tema che ci interessava affrontare e sul quale abbiamo, al nostro interno, lungamente dibattuto. Il primo punto che è emerso dal nostro lavoro è stato che una strategia complessiva di integrazione è attuabile solo attraverso la valorizzazione delle aree, che oggi potremmo definire “di margine”. Aree che hanno, per le loro caratteristiche intrinseche, la straordinaria forza di essere potenziale elemento di raccordo tra i sistemi sovracomunali, tra cui quello ambientale, e i sistemi dell’edificato. Spazi che si sono trasformati nel tempo da confini amministrativi in luoghi di comunità, in ambiti a volte vissuti o comunque non più percepiti come lontani e residuali.
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Non è solamente una questione legata alla statica percezione Lynchiana1 della città che potrebbe avere un qualsiasi residente: qui “margini, percorsi e nodi” si sono generati ed evoluti in una logica di semplice avvicinamento e non di dialogo o di costruzione. Questo è un ulteriore aspetto che ci interessava approfondire: indagare una possibile interazione tra le parti, capire come ribaltare – concettualmente - la logica della prossimità non governata. Ci premeva poi comprendere le potenziali future interazioni tra i sistemi naturali e naturalistici ed un ipotetico sviluppo di città unitaria, diffusa, policentrica, relazionata. Sulla base di tali premesse è stato studiato e costruito il convegno: con un approccio volutamente multidisciplinare che permettesse, da un lato di leggere il territorio in maniera diversificata, dall’altro, in maniera diversificata di “fare proposte”. Secondo noi queste ultime, avrebbero dovuto essere, in questa fase, più metodologiche che concrete. Un ulteriore stimolo per la comunità e per le Amministrazioni Comunali che svolgono un ruolo fondamentale, in questo ambito. Abbiamo voluto fornire quindi, da Architetti, uno strumento aperto, stimolo per una riflessione più approfondita e consapevole. Non ci interessava parlare di Comune unico, ma ci premeva evidenziare i potenziali sviluppi e le possibili interconnessioni in questa nostra Città multipolare. Lo “strumento” convegno, per quanto spiegato sopra, ci è sembrato quindi il più adatto per riportare questi temi all’attenzione dei diversi soggetti interessati come fruitori, come portatori di interesse, idee e contenuti, o come attuatori dei processi decisionali e di trasformazione. Fino a questo momento non c’è stata (se non per la realizzazione dell’Ospedale del Valdarno o in alcuni atti di indirizzo o protocolli di intesa) una vera e propria comunità di intenti nello sviluppo e nella progettazione di queste zone di contatto tra i singoli territori comunali, così come non vi è mai stata una vera idea di Valdarno in termini di mobilità interna, relazioni, integrazione e distribuzione dei servizi. I confini poi sono un tema progettuale dal potenziale incredibile: ci è sembrato fin da subito chiaro che le letture ed i contributi di personalità che su questi ambiti hanno svolto importanti attività di ricerca potevano fornire una visione di più ampio respiro che fosse da stimolo a riflessioni più “alte”, seppur concretamente realizzabili. Il concetto che volevamo sviluppare, in termini generali e tornando alle schematizzazioni di Lynch, è l’eliminazione e la trasformazione del “margine” a favore di qualcosa di propositivo, vivo e connettivo. L’approccio multidisciplinare poi è stato fondamentale per approfondire alcuni aspetti della conoscenza del territorio, come per dare “visioni” che avessero differenti sensibilità e che potessero essere prese tout court, mischiate, criticate, calibrate, comunque messe sul piatto per le future scelte strategiche e di indirizzo, che saranno fatte (probabilmente) su queste aree. La scelta dei relatori, che ringraziamo nuovamente per la disponibilità e per il loro prezioso contributo, è stata fatta valutando la loro esperienza accademica e professionale in termini di ricerca sui temi della città, sulle aree di margine, sulle interrelazioni dei sistemi naturali e costruiti. Il Prof. Marco Romano ci è sembrata la personalità più adatta a dare, appunto, una lettura-visione di que1
Kevin Lynch, L’ immagine della città, 2006, Marsilio, Venezia
sto nostro territorio. Attraverso la sua indagine ha illustrato i temi della città storica e delle sue espansioni, della sua estetica, della sua struttura, della interrelazione dei vari sistemi che la compongono e la fanno vivere come organismo complesso, oltre a proporci una visione di ciò che potrà essere. La Prof.ssa Annick Magnier, come pensavamo, ci ha permesso di apprezzare da un punto di vista sociologico tutte le uniformità e le divergenze che - storicamente e ad oggi - hanno caratterizzato e caratterizzano i nostri abitati. Tutto ciò analizzando anche gli strumenti di governo territoriale e facendo così emergere sia le criticità che le potenzialità di una pianificazione condivisa. L’Arch. Paolo Bellenzier ci ha raccontato la straordinaria esperienza della Provincia Autonoma di Bolzano nel riuscire a guidare dinamiche territoriali complesse che hanno trovato nella Pubblica Amministrazione un gestore di processi virtuosi. Ci ha spiegato e motivato la scelta di attivare, in Alto Adige, percorsi partecipati e trasparenti attraverso i concorsi di progettazione come strumento per poter ottenere “il miglior risultato possibile”, che dia risposte alle aspettative delle popolazioni coinvolte. Il Prof. Claudio Saragosa, personalità che sapevamo essere estremamente appassionata e competente, ci ha regalato una lettura attenta delle interazioni tra normativa, pianificazione e i suoi effetti sul territorio. Ci ha mostrato degli incredibili esempi di trasformazione di quelle che sono le caratteristiche peculiari di un territorio in risorse per costruire sistemi vitali per una città. Tutte tematiche attualissime, da cui non può prescindere l’urbanistica contemporanea. La Prof.ssa Isotta Cortesi ci aveva colpito per la sua capacità di raccontare esperienze di paesaggisti contemporanei, oltre che per la sua attività accademica e professionale. Ha portato con il suo intervento un approccio assolutamente diverso e se vogliamo “sconvolgente” dove ha mostrato, con un taglio veramente critico, le potenzialità dei sistemi naturali come sistemi connettivi e inclusivi. Lo spazio aperto che non si caratterizza come vuoto ma si trasforma e si mostra per tutte le sue potenzialità e per le sue ricchezze. Il Prof. Boris Podrecca abbiamo deciso di coinvolgerlo - in particolare - per alcuni suoi lavori. Lavori, tra l’altro, molto diversi in termini di scala e di oggetto, interessantissimi per la maestria con la quale vengono ricucite trame e sistemi all’interno di ambiti urbani. Nuove connessioni che nascono riutilizzando elementi esistenti nella stessa città, sia vuoti che pieni, riletti in chiave contemporanea e integrati nel contesto. Il suo lavoro mostra molti esempi di progetti pensati e realizzati in aree che originariamente si caratterizzavano per il loro essere margine, vuoto o elemento di cesura, di discontinuità. Questa è una sintesi del percorso e delle motivazioni che hanno portato al convegno, così come lo avete visto. Ringraziamo i Sig.ri Sindaci dei Comuni di Montevarchi, San Giovanni Valdarno e Terranuova Bracciolini per il loro contributo e per il loro intervento all’interno della giornata studio. Speriamo di aver lasciato una viva testimonianza e qualche valida idea, anche solo per quello che concerne la gestione dei processi, che possa portare in questa realtà territoriale una strategica, condivisa ed integrata, trasformazione delle aree di margine. Auspichiamo che tali aree possano diventare nuovo tessuto connettivo, necessario completamento di una città diffusa e policentrica, ad oggi già fortemente interdipendente.
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giornata
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Le Terre Nuove Marco Romano
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Ho amato molto le tre Terre Nuove fondate nel Valdarno dai fiorentini nel Trecento, e ne ho tracciato poi il ritratto per un libro del TCI, e ho amato anche Montevarchi, che ho visto con un occhio nuovo proprio per l’occasione di questo convegno, sicché anche di Montevarchi ho tracciato il ritratto. Ma di Arezzo no, che pure l’ho amata fin da quando andavo a dormire sulla piazza San Francesco all’albergo Le chiavi d’oro, e il campanile mi svegliava sempre troppo presto al mattino: un giorno mi vedranno ancora una volta per le sue strade a raccontarle anche queste in un ritratto. Queste città erano state tutte fondate sull’onda di quanto chiedevano gli abitanti dei villaggi vicini, non tanto per trovare riparo dalle angherie dei signorotti locali quanto perché già a quei tempi la vita aveva un senso se realizzare i propri desideri diventava un progetto immaginabile da tutti i suoi cittadini, e se la città rende liberi - recitava un detto di quei tempi - questa libertà era proprio quella di poter legittimamente avere qualsiasi desiderio, desiderio che in campagna sarebbe stato invece difficile vedere esaudito. Così una città sarà prima di tutto una strada principale, dove i negozianti schierano le loro botteghe con tutte quelle merci che soddisfano i desideri dei cittadini, e questa strada principale è così importante che andrà consolidandosi dalla porta più importante - quella verso Firenze - alla piazza principale, una sequenza che consapevolmente contribuisce in modo fondamentale al decoro della città. Ma poi esistono altri desideri che vengono accontentati piuttosto nella piazza del mercato che nella strada principale, e così dietro al palazzo municipale c’è a San Giovanni la piazza del mercato: tuttavia, in una società fondata sul desiderio, il suo vero tempio sarà proprio la piazza del mercato, e quando i senesi avranno finito di costruire il Campo, con la torre del palazzo dei Priori, ne faranno da subito non soltanto il cuore politico della civitas ma anche la piazza del mercato, il cuore dei suoi desideri. E quando qualche tempo fa a San Giovanni tracceranno una nuova strada di là del ponte dedicato a Ipazia la renderanno trionfale con la veduta sullo sfondo di un modernissimo supermercato al centro di una piazza a sua volta cinta di edifici simmetrici: sul modello della piazza dell’Annunziata a Firenze. E poi tutte le nostre città avranno un grande spiazzo libero per quella fiera periodica, una o due volte all’anno, dove mercanti intraprendenti arriveranno con prodotti nuovi che accenderanno altri e imprevisti desideri, anche questo consapevole ornamento della
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città: uno spiazzo fuori delle mura a Montevarchi sottolineato oggi da un portico monumentale.
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Poi, certo, ci saranno altre manifestazioni dell’orgoglio civico e del desiderio collettivo di confrontarsi con le altre città nella sfera del decoro, le mura con le loro torri, i giardini pubblici, i teatri, i boulevard, e tutti quegli altri temi che la vostra stessa esperienza di cittadini di una città vi consente di riconoscere: ma poi a San Giovanni Valdarno, a rendere trionfale la nuova strada di là dell’Arno, al posto della veduta sul fondo dell’Opera a Parigi o della chiesa dei Servi a Firenze, vedremo un supermercato, avveduta consapevolezza che il sogno del desiderio prende corpo nel palazzo contemporaneo del mercato. Come una volta gli abitanti dei villaggi hanno chiesto un tempo la fondazione delle Terre Nuove e di Montevarchi, così ora i loro abitanti percepiscono il vago sospetto che il loro confronto, anima della loro vicenda nel passato, non li aiuti a costruire un versante più articolato della loro identità: saranno certo fierissimi di appartenere prima di tutto alla loro civtas e molto meno consapevolmente alla Toscana e meno ancora all’Italia, ma forse in qualche modo di costituire tutti insieme una Valdarno alla ricerca tuttavia di una sua riconoscibilità.
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Sul versante di quella forma materiale dell’urbs che abbiamo visto costituire la manifestazione leggibile e clamorosa della sua riconoscibilità in quella sfera estetica del decoro che costituisce il legame sul quale ogni cittadino costruisce il sentimento della propria appartenenza civica, la sua identità di persona, l’urbanistica contemporanea, esplicitamente fondata sul principio che le città siano prima di tutto costituite da funzioni, non ha nulla da dire, ha dato luogo a quei mostruosi ed estesissimi deserti del senso che costituiscono le periferie e le banlieu delle grandi città.
La piazza della tavola di Urbino, autore sconosciuto, Galleria di Palazzo Ducale, Urbino; la piazza di San Giovanni Valdarno
Se dovessimo affidare il desiderio di una integrazione di queste città al legame tra i loro piani regolatori, costruiti tutti nel presupposto che le città siano un aggregato di funzioni, non riusciremmo mai a rispondere a quel vago sentimento di stringere tra loro un legame su quel terreno simbolico che ha animato nei secoli ciascuna di esse. 40
Occorrerà percorrere una strada diversa, una strada innestata sui loro specifici caratteri, sul sogno dei loro desideri, che sono prima di tutto desiderio di quel genius loci che le hanno animate per sette secoli su cui poi ciascun cittadino fonda e ancora la propria identità. A questa introduzione nel convegno ha fatto seguito il commento di molte slide che mostrava il ritratti di queste città, ma in questa sede, gli atti di quel medesimo convegno, chiunque lo desideri potrà rileggerli con tutta calma stampandoli dal mio sito: www.esteticadellacitta.it
Veduta di Montevarchi, particolare del Miracolo di San Cesareo, Autore ignoto, XVII sec. Museo di Arte sacra, Insigne Collegiata di San Lorenzo, Montevarchi.
Il quadro risale al XVII secolo; l’autore è ignoto; il pittore ha rappresentato un miracolo di cui sarebbe stato artefice, nel 1666, S.Cesareo: in pieno periodo estivo il santo avrebbe limitato gli effetti di una violenta grandinata al solo abitato di Montevarchi preservando le campagne circostanti dalla rovina dei raccolti. Tipico prodotto dell’arte devozionale, il dipinto, fino a tutto l’Ottocento ed ai primi decenni del Novecento, veniva esposto nel giorno dedicato a S.Cesareo, sulla facciata dell’Insigne Collegiata di S.Lorenzo in Montevarchi poi veniva ricollocato nella sua sede tradizionale cioè all’interno della stessa chiesa, nella sagrestia. Attualmente è visibile nel Museo di arte sacra allestito sempre nella stessa chiesa. Il valore dell’opera, oltre che religioso-devozionale, è storico in quanto essa costituisce una sorta di “fotografia” di Montevarchi nella seconda metà del Seicento.
Queste ed altre notizie sul dipinto possono essere acquisite nei seguenti volumi: Ugo Leone Masini, “Montevarchi attraverso i secoli”,Firenze, Bemporad-Marzocco, 1960; Grazia Gobbi, Montevarchi. Profilo di storia urbana,Firenze, Alinea, 1986.
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Progetti comuni e sociologia Annick Magnier
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Perché stiamo qui riflettendo su e per una pianificazione congiunta di quel triangolo di fondovalle comune ai tre comuni di Montevarchi, San Giovanni Valdarno, Terranuova Bracciolini? In premessa a qualunque ragionamento sociologico sul tema oggetto del nostro incontro dobbiamo dar forma compiuta a questa domanda, e tentare di rispondervi. L’invito al convegno suggerisce che vi siano problemi e risorse comuni. Lo si può senz’altro ammettere, sì. Ma quali, tra questi problemi, intendono affrontare in priorità i tre Comuni? A che cosa deve servire l’unicità di progettazione? Su quale progetto urbano convergono i decisori? Si può presumere che se la questione non è compiutamente posta è perché implicitamente negli ultimi anni vi si è dato qualche inizio di risposta. Conviene nondimeno esplicitare i tratti già definiti di questo progetto comune, di modo anche a chiarire le scelte tuttora da compiere, inserendo l’analisi del progetto pubblico in fieri in una riflessione sul contesto nel quale si colloca e sul quale intende intervenire, ossia, in termini sociologici, sul sistema territoriale di cui è componente. Nell’analisi sociologica, un sistema territoriale è insieme di attori, di pratiche, di meccanismi di controllo attivi entro confini geografici (spesso labili). I meccanismi di controllo che ci interessano sono di varia natura, in particolare simbolica (attribuzione di significati tramite narrazione dello spazio), oggettiva (trasformazione materiale dello spazio), giuridica (controllo organizzativo dello spazio). Il triangolo di fondovalle è segmento importante del sistema urbano del Valdarno aretino, sistema “urbano” policentrico, parte della “città policentrica” toscana. Non solo per i tre comuni confinanti ma più in generale per l’intero sistema urbano, sotto il profilo simbolico esso si configura come area della produzione (industriale, agricola), area degli accessi (alle sedi della produzione, in parte alla città consolidata e storica) e area di espansione residenziale. A tale interpretazione corrispondono meccanismi di controllo oggettivo e giuridico inscritti nei documenti e nelle decisioni fondamentali di pianificazione territoriale che concernono i tre comuni o più generalmente il Valdarno superiore aretino. Propongono immagini del suo possibile divenire già ben delineate, seppur a volte non esplicite. Quali sono gli indirizzi di progettazione sui quali convergono i tre comuni e che interessano l’area? Principalmente tre: si ambisce a prolungare la tendenza all’edificazione, a consolidare e potenziare la capacità produttiva, a realizzare progetti ormai antichi di ristrutturazione della rete viaria. Le previsioni di edificazione nei tre comuni sono legate ad ipotesi di prolungata espansione della popolazione residente: i piani, contrariamente a quanto avviene in altre parti
Evoluzione della popolazione residente 2001-2010. 2001=100
della Toscana, non puntano ad espansione intensa ma non esprimono tensione verso l’”urbanizzazione zero”. Recepiscono in primo luogo il movimento demografico avvenuto negli ultimi decenni. Se complessivamente la popolazione di San Giovanni Valdarno rimane ormai stabile, malgrado un aumento relativo del peso del fondovalle, a Terranuova Bracciolini l’intento è di assecondare il movimento lungo di aumento della popolazione di 100 ab. all’anno negli ultimi 20 anni, indirizzandolo prevalentemente verso la piana, i “luoghi” 1 e 4, e accessoriamente 3. L’aumento della popolazione, anche a Montevarchi, è nettamente superiore alla media toscana e le scelte di piano, anche lì, recepiscono questo movimento. La composizione per età della popolazione residente, pur con qualche variazione da un comune all’altro (più anziani a San Giovanni Valdarno) corrisponde piuttosto alla media toscana; ben diversa è la situazione sotto il profilo della struttura familiare. San Giovanni, nel numero medio di componenti per famiglia, in questo caso si discosta dagli altri due comuni, allineandosi da più anni su una media regionale appena superiore a 2,3 ed in regolare declino. Montevarchi, ma soprattutto Terranuova Bracciolini, mostrano valori medi molto più alti e non più in significativo declino. Si tratta quindi di territori che attraggono oggi famiglie larghe in grado di mantenere la media del numero di componenti familiari su livelli piuttosto eccezionali nello scenario regionale. Dall’afflusso di queste famiglie risulta, secondo le valutazioni dell’Irpet un notevole con-
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La popolazione residente
sumo del suolo per edificazione residenziale. Il fenomeno va inquadrato nello scenario complessivo del consumo del suolo come misurato a livello della provincia di Arezzo, un consumo intenso determinato dall’espansione residenziale molto più che dall’espansione industriale: le aree residenziali dal 1996 al 2007 hanno visto la loro superficie crescere di più del 30%, quelle industriali e commerciali di meno del 10%. Al ribaltamento della tendenza nella ricerca di nuove opportunità di lavoro e di ricchezza, o comunque alla tutela del conquistato, punta quindi anche il progetto intercomunale.
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Il triangolo di fondovalle è il segmento del sistema formato dai tre comuni che con più chiarezza esprime queste tendenze di mutamento. Vi si afferma una combinazione residenziale-produttivo di tipo particolare anche nel contesto regionale, che ruota attorno ad aziende industriali e di servizio medio-grandi, spesso altamente specializzate e concorrenziali sul mercato internazionale, la cui qualità architettonica è spesso ben migliore di quella delle residenze recenti. Queste aziende sono grandi attrattori di flussi di traffico, da cui la percezione acuta di dipendere per qualunque miglioramento della qualità da progetti, sempre rimandati nell’attuazione, di modifica-potenziamento della rete viaria; tali progetti che tendono a scaricare dal peso del traffico settori della città più consolidata, potranno anche non caricare altre aree periferiche del triangolo. Questa è la mappa complessa degli attori interessati al “triangolo”, che vi siano o no collocate la loro residenza o la loro attività. I meccanismi di controllo del sistema territoriale sono meno evidenti. Sotto il profilo simbolico, di fronte alla ricchezza e alla varietà dei riferimenti offerti dai centri storici vicini per una popolazione regionale ampia, il triangolo costituisce un valore soltanto per chi lofrequenta. Per la popolazione, l’abbiamo visto tuttavia ampia, di chi vi è interessato
Componenti per famiglia In basso a sinistra: crescita pesata delle aree urbanizzate 1996-2007 fonte: elaborazione su dati servizio geografico regionale In basso a destra: variazione delle aree residenziali nei comuni toscani 1996-2007, valori in %
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Variazione delle aree residenziali e delle aree industriali, commerciali e dei servizi nelle province toscane 1996-2007, valori in % fonte: elaborazione su dati servizio geografico regionale
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nella sua attività e in generale nella sua vita quotidiana, questo triangolo è oggi leggibile per le sue funzioni, non per la residenza (salvo ovviamente per i suoi residenti). Il paesaggio stesso vi è definito dall’orizzonte collinare, dagli assi di circolazione, dalle emergenze costituite dalle imprese - industria e servizi – e dai servizi pubblici, dal fiume e dall’attività agricola. Guardando agli altri meccanismi di controllo sociale del territorio, quelli oggettivi e giuridici, vediamo che l’idea di lavorare congiuntamente sul triangolo di frontiera di fondovalle si lega nelle tre amministrazioni locali alla percezione di una difficoltà a controllare la trasformazione territoriale tramite gli strumenti e gli stessi indirizzi urbanistici finora definiti per l’area; ciò mentre in parallelo progrediva la cooperazione per lo sviluppo locale. Questa insoddisfazione verso le proprie capacità di “controllo” si legge nelle parti di analisi introduttiva e negli studi preparatori ai piani strutturali e regolamenti urbanistici. Vi si elencano le difficoltà incontrate per il recupero del patrimonio storico centrale, per il riuso dei contenitori pubblici centrali, per promuovere un’edificazione più concentrata (lamentata sia a Terranova Bracciolini che a San Giovanni Valdarno), nonché le difficoltà a veder realizzare, malgrado i protocolli di intesa, gli studi coordinati sulla viabilità, i diversi progetti di miglioramento della rete viaria. Non mancano, specialmente nei documenti di Terranova Bracciolini, le espressioni di consapevolezza della scarsa capacità a proteggere l’attività agricola e il patrimonio rurale, ma anche gli spazi pubblici storici. Dalla lettura di questi documenti appare in breve che nei tre comuni si vuole oggi acquisire maggiore capacità di indirizzare la trasformazione territoriale, ed in particolare sotto tre profili. Si vuole in primo luogo migliorare la qualità della residenza periferica, controllando meglio i flussi di traffico automobilistico mediante una diversa distribuzione dell’e-
spansione ad uso industriale (ad esempio promuovendo una struttura a pettine contro la pratica dell’edificazione di lungo strada); ma anche densificando le aree di espansione. Finora la frammentazione delle opportunità di edificazione nelle aree ancora aperte e la naturale propensione di tutti a cercare per gli insediamenti la facilità di accesso rendono difficile di imporre ad aziende e famiglie le logiche di piano che potevano essere incluse nei documenti. Si vuole in secondo luogo riuscire davvero a valorizzare il parco fluviale e il verde ad uso ludico. Si vuole infine con più efficacia contrastare l’erosione della superficie agricola. Questi sono intenti che nel triangolo di fondovalle possono trovare un’opportunità di ulteriore e, si spera, migliore illustrazione. Le peculiarità della mappa degli attori locali acuiscono senz’altro quella sensazione di inadeguatezza della strumentazione (d’altra parte ormai diffusa nella cultura amministrativa nazionale). Le logiche di edificazione provengono da una molteplicità di attori sociali, molto diversi: imprenditori locali e internazionali, famiglie di lavoratori della zona e/o dell’area metropolitana, catene commerciali, imprese edili, poteri pubblici, che hanno come sfera di riferimento ambiti locali, regionali o internazionali. Gli attori pubblici devono interagire, oltre che con i cittadini, con la compagine degli attori economici tipica del Distretto Industriale Pelli Cuoio e Calzature del Valdarno Superiore. Vi sono presenti una fitta rete di aziende di medie dimensioni, produttivamente legate ai grandi gruppi con radici toscane e alle griffe internazionali che, pur avendo i centri direzionali all’estero, hanno scelto il Distretto fiorentino per insediare laboratori di progettazione e produzione, portando con sé risorse ed attese dalla soddisfazione delle quali dipende il destino economico dell’area. Si percepisce allora come condannato all’inefficacia un progetto la cui realizzazione si fondi sulla regolazione. Solo un mix di strumenti che tenga conto delle poche opportunità di investimento e della scarsa capacità fondiaria dell’ente pubblico, e che associ gli imprenditori nella definizione del progetto appare suscettibile di messa in atto. L’unicità delle regole tra comuni confinanti di per sé non può che essere favorevole alla realizzazione della volontà pubblica comune, è chiaro però che in tale contesto in particolare non sarebbe sufficiente: le imprese come le famiglie “votano coi piedi” e devono essere soddisfatte dalle scelte territoriali. Sono poi improponibili in questo contesto le ricette per la ricucitura del tessuto urbano delle periferie a vocazione mista adottabili in molte città italiane. Ciò vale per quelle più banali (come quelle promosse nei PRU), ossia che si fondano sull’intensificazione dei servizi, ma anche per quelle più raffinate che all’inserimento di una rete nuova di servizi associano tentativi di ricostruzione di un paesaggio interno che rispecchi le logiche di insediamento non pianificato. Le logiche di insediamento sono qui negli ultimi decenni
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provenuti da una molteplicità di attori sociali, tra loro molto diversi: imprenditori locali e internazionali, famiglie di lavoratori della zona e/o dell’area metropolitana, catene commerciali, imprese edili, poteri pubblici, che hanno come sfera di riferimento ambiti locali, regionali o internazionali. Il progetto comune dovrà quindi partire da un’analisi delle aspirazioni degli attori, che può assumere diversi gradi di sistematicità, ma dovrà riferirsi alle informazioni raccolte presso gli attori locali nonché alle tendenze dominanti nella società occidentale (anche per verificare eventuali differenze locali). Molte delle tendenze che più di altre incideranno nel determinare il successo del progetto politico che si delinea per questo triangolo di fondovalle sono evocate nella letteratura “grigia” dei tre comuni. Conviene però ricordarle sinteticamente, enucleando nel contempo gli snodi problematici sotto il profilo sociologico che appaiono nelle descrizioni di progetto finora prodotte dai tre comuni. La crescita demografica nell’area è portata da quel combinarsi nella scelta della residenza della ricerca di un costo contenuto e dalla percezione della sostenibilità del tragitto verso il lavoro che determina l’ex-urbanizzazione nella città contemporanea. La necessità o la propensione all’acquisto dell’abitazione , intensi nel contesto italiano e toscano, acuiscono il fenomeno. La dipendenza delle famiglie dalla macchina per la loro vita quotidiana, quindi la forte conflittualità legata all’infrastrutturazione viaria, ne sono corollari: sotto questo profilo, i tre comuni offrono attraverso il loro tasso di motorizzazione, un’immagine corrispondente allo scenario medio toscano. Nella scelta residenziale che in Toscana si indirizza verso aree simili a quelle dei tre comuni, l’attenzione per l’accessibilità in macchina non è ovviamente unica determinante. Conta anche in primo luogo quell’aspirazione a vivere intensamente il proprio tempo libero tipica dei “cittadini” contemporanei, quindi il desiderio di ritrovare il contatto con un ambiente più “naturale” nel quale in particolare svolgere attività sportive o ludiche. In queste aree si ricerca spazio aperto (non soltanto spazi ampi all’interno della propria abitazione) e privacy, ma nel contempo si aspira a trovare nelle vicinanze quei servizi commerciali e quelle occasioni di incontrare altri tradizionalmente tipici dei centri storici. Ciò suggerisce ovviamente di applicare le ricette ormai in uso in tutta Europa per la riqualificazione delle aree periferiche volte a densificare la residenza esistente; di creare quindi qualche centralità minore nuova nelle aree già urbanizzate (che possa offrire luoghi e servizi di incontro); di subordinare le eventuali espansioni ad un ragionamento sulle centralità; ma anche e forse, soprattutto in un contesto di storica e densa urbanizzazione, di lavorare sui collegamenti con i centri. La storica qualità della rete di centri locali è minacciata dalle difficoltà del recupero della residenza del centro e della città consoli-
data ben diagnosticate nei documenti di pianificazione; opera di ripristino che non può essere scollegata da un lavoro intenso sugli spazi di sosta nei centri, sugli accessi alla rete regionale di treni. Ma la mobilità, nelle aspirazioni sociali e nelle pratiche locali, è anche mobilità naturale, che assume oggi un valore simbolico forte legandosi al piacere del tempo libero. Aspirazioni incoraggiano a migliorare i percorsi pedo-ciclistici verdi, in una prospettiva integrata; vale a dire evitando le interruzioni delle piste, creando un’ unità di triangolo con passerelle pedonali. Rimangono poi da decifrare meglio le attese di quella parte importante di cittadini residenti di origine straniera, la cui composizione nazionale è ben diversa da un comune all’altro, e che è particolarmente presente a Montevarchi. Lavorare sull’attrattiva dell’area per insediamenti produttivi significa non soltanto migliorare l’accessibilità degli insediamenti, nonché i collegamenti del personale con Arezzo e con il centro dell’area metropolitana, per la quale si spendono tradizionalmente nell’area sforzi intensi; ma anche migliorare la qualità della vita per i dipendenti, i servizi e il paesaggio, la ricchezza quindi la varietà del tessuto sociale, infine la formazione scolastica e non della manodopera. Indirizzi che sono stati intrapresi con l’inserimento locale di strutture universitarie, promuovendo in alcuni documenti urbanistici la mixité sociale. In questo ambito gli stessi documenti rilevano la carenza di alcune forme tipologiche e in particolare la carenza di abitazioni in affitto, settore che richiede ormai di regola un attuatore pubblico. attenzione all’inquinamento, alla qualità delle nuove costruzioni in riferimento in particolare alla bioarchitettura sono ben presenti in alcuni di questi docu53
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menti insieme con gli indirizzi di tutela delle colline e di creazione di continuità degli spazi verdi dalla città alla collina, da garantire mediante la valorizzazione delle aree fluviali ma non soltanto. Meno chiari appaiono le scelte strumentali già compiute per la tutela delle aree agricole e in particolare la localizzazione degli sforzi e le forme di sostegno o perequazione ipotizzate per l’incoraggiamento al proseguimento e allo sviluppo di una selezione di attività agricole nell’area o di una multifunzionalità non sempre facile da definire al di là degli slogan. Sempre dalla lettura dei documenti pubblici si conferma il contrasto tra la costanza della pratica di programmazione solidale tra i tre enti comunali (nel quadro di accordi dai confini variabili, che possono includere soltanto due di loro o possono allargarsi ad altri comuni vicini), e alcune disarmonie nelle impostazioni della costruzione degli strumenti di pianificazione pianificazione territoriale. Da una parte numerosi esempi di accordi di inclusione in progetti sovra locali di sviluppo o di programmazione sovra comunale, per la gestione integrata di servizi, per la salvaguardia del settore delle energie rinnovabili, per la realizzazione dell’ospedale, progetti comuni di viabilità (variante di Levane; Ponte a Sud; spostamento della SR 69 su riva destra, nuovo casello autostradale), il Nuovo Patto per lo sviluppo produttivo, i passi compiuti verso l’Unione di Comuni con Bucine, Cavriglia, Laterina, Pergine Valdarno, il Contratto di Fiume da diga di Levane a Incisa, la delibera di giunta regionale 440 del 21.5.2012 sull’“Area integrata di sviluppo pilota” del Val d’Arno aretino e fiorentino per la valorizzazione e l’attrazione di nuove imprese e il miglioramento della sostenibilità ambientale; che tutti testimoniano l’unicità di intenti sulle grandi linee di sviluppo e tutela per il sistema urbano locale, non soltanto per il trian-
golo oggetto di questo incontro. Dall’altra persistenti incoerenze nel lessico urbanistico che mal traducono tale unicità, indebolendo la capacità degli enti pubblici di imporre una lettura simbolica e strumentale dei luoghi agli attori locali suoi interlocutori. Ad illustrazione perfetta della diversità di letture comunali del territorio, effetto perverso dell’incoraggiamento all’innovazione culturale locale insito nella legislazione regionale, manca in primo luogo una tipologia comune dei sistemi o “luoghi” (secondo la terminologia scelta a Terranova Bracciolini) . Nella lettura proposta a Terranuova Bracciolini, il territorio è suddiviso in modo predominante a partire dalle tradizioni di uso: i “luoghi” che costituiscono il territorio comunale sono il fondovalle antropico, le valli a bassa antropizzazione, gli insediamenti 7 ponti, i piani del fronte est, le colline della valle dell’Arno, suddivisi ognuno in da 1 a 5 utoe. A Montevarchi invece, a partire dalle caratteristiche insediative e funzionali. Così il fondovalle vi costituisce un unico “sistema” diviso in sottoinsiemi a) insediativo (città storica/consolidata/da consolidare/della produzione/ambito del parco dei Capuccini), b) ambientale (aree agricole, aree dell’ortofiorovivaismo, c) delle connessioni (area parco fluviale dell’Arno, ambito delle reti di connessione lungo l’Arno, ambito delle reti di connessione con la collina). A San Giovanni Valdarno i “sistemi” sono categorie di programmazione: sono a) ambientale (risorse fondamentali, idrogeologia, paesaggio ed ecosistemi); b) insediativo (urbano, di fondovalle, di versante); c) dei servizi; d) infrastrutturale. Tale diversità di nomenclatura costituiscono anche divergenze nella strumentazione che rendono poco leggibili gli intenti delle amministrazioni locali. Un solo esempio: il prevedere una Utoe “aree agricole di pianura e ortovivaismo” (è il caso a Montevarchi), limitando lo sforzo di protezione a questa area ma indicando la volontà di dedicarvi qualche sforzo è una delle strategie possibili per la realizzazione dell’ intento comune di tutela di questo tipo di attività. Negli altri due comuni i documenti non definiscono aree a prevalente funzione agricola: ciò potrebbe indicare la volontà di allargare la tutela all’insieme del territorio, anche se i processi avvenuti dimostrano, come ricordato in qualche documento urbanistico, che l’edificazione per residenza tende ad avvenire su aree agricole. Per creare un progetto comune di triangolo, un linguaggio comune, che consenta la comunicazione con i cittadini e le imprese interessate dovrà essere ricostruito. Il successo di questo progetto, già in fondo ben delineato nei suoi indirizzi principali (miglioramento della viabilità, controllo del consumo del suolo nel quadro di un edificazione ragionata, riqualificazione della residenza, sostegno alla vita sociale, sostegno alla tutela e allo sviluppo delle attività economiche, valorizzazione del fiume) sembra in
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Pagina a fianco, l’Arno all’altezza di San Giovanni V.no
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effetti essere condizionato ad un suo più evidente radicamento simbolico nelle aspirazioni dei cittadini residenti (italiani e stranieri) e delle imprese. Dovrà essere precisato per adeguarsi il più possibile agli stili di vita emergenti, anche precisando il contributo che nella riqualificazione della residenza periferica possono dare il recupero delle aree storiche, il sostegno alle centralità minori più recenti, il parco fluviale nelle sue connessioni da ricostruire con le aree collinari. L’immagine del triangolo non può essere capovolta: rimarrà area della produzione industriale e agricola, area di accesso agli insediamenti produttivi, alla città consolidata e storica, ai commerci e area di espansione residenziale. Può tuttavia diventare emblema di una ricostruzione condivisa del paesaggio in aree periferiche e diventare più leggibile. La progettazione del triangolo di fondovalle può così costituire anche un primo passo per una affermazione simbolica e strumentale del progetto complessivo già ben delineato per il sistema territoriale più ampio. Gli sviluppi della pianificazione nella direzione “paesaggistica” offrono un inquadramento utile per rinforzare le capacità degli attori pubblici. Al parco fluviale non può essere attribuita, come troppo spesso si fa, la capacità taumaturgica di strumento sufficiente per riqualificare il paesaggio dell’area; può diventare segmento importante di una ricostruzione di paesaggio che, appoggiandosi su una rinnovata capacità culturale e giuridica di zonizzare per la tutela, si fondi sui collegamenti fisici e visivi tra i punti qualificanti del territorio. Concepito come “progetto di paesaggio”, il triangolo di fondovalle è occasione per ricucire oggettivamente e simbolicamente, lavorando sulle prospettive e sui percorsi, le relazioni tra fondovalle e collina, tra fiume e città, tra spazi vuoti e pieni e per affinare in collaborazione con cittadini ed attori privati l’individuazione delle risorse del territorio; affrontando in concreto i due grandi temi ancora poco precisati nella pianificazione paesaggistica regionale, della qualità delle aree di produzione industriali, e della relazione paesaggistica dei fondovalle intensamente urbanizzati con il “patrimonio collinare”.
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Concorso di progettazione Paolo Bellenzier
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Sotto sezione del progetto presentato al concorso. A fianco il plastico del progetto definitivo
Il tema del mio intervento è “Il concorso di progettazione: opportunità e strumento per la sensibilizzazione e lo sviluppo dell’architettura moderna e contemporanea”, con riferimento all’esempio dell’Alto Adige. Come Provincia Autonoma abbiamo certamente avuto delle agevolazioni, avevamo una nostra normativa per quanto riguarda i lavori pubblici. Oggi infatti anche l’Alto Adige si è dovuto adeguare alla normativa nazionale del codice degli appalti e questo ha prodotto grosse difficoltà nell’organizzazione e nella esecuzione dei concorsi di progettazione. Comunque la normativa da sola non è sufficiente, bisogna avere anche delle persone che riescono a capire le possibilitá della normativa e la mettano in pratica, che riescano in modo flessibile a realizzare cose veramente innovative, a vedere più lontano del proprio piccolo giardino. Alcuni cenni storici sui concorsi di progettazione in Alto Adige. Possiamo di dire che noi abbiamo iniziato a promuovere i concorsi di progettazione già nel ‘75. Chiaramente i primi tentativi erano un po’ goffi, magari non ben riusciti, però parliamo di trentaquattro anni fa, dal ‘90 in poi abbiamo un’apertura verso l’Europa, sia perché previsto dalla normativa, sia per la volontà di aprirsi a nuovi concetti e a nuove forme. Il concorso di progettazione oggi è diventato prassi comune per le opere del Dipartimento dei Lavori pubblici e questo fa sì che anche molte altre Amministrazioni, i Comuni, i Comprensori, Aziende sanitarie, ma anche i privati, seguano questa strada, perché hanno capito che effettivamente il concorso di progettazione permette al committente di scegliere tra diverse possibilità architettoniche e di trovare la soluzione più idonea, sia alle proprie necessità, sia a quelle dell’architettura. Diciamo che siamo stati di buon esempio. I concorsi di progettazione sono necessari perché garantiscono innanzitutto trasparenza e correttezza nell’assegnazione degli incarichi professionali; inoltre, essi permettono, teoricamente, ai giovani talenti di ottenere incarichi importanti. I concorsi di progettazione forniscono al committente proposte diverse, come già detto prima, permettendo la scelta della soluzione architettonica migliore. Essi offrono ai parte-
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cipanti la possibilità di migliorarsi e di confrontarsi a livello locale e anche a livello internazionale. Un altro fatto importante è che il concorso di progettazione diffonde tra la popolazione una discussione sull’architettura moderna e contemporanea, una discussione che può essere positiva ma anche negativa, nel senso che si possono accettare le critiche, però sempre con un fine: la sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Dopo l’assegnazione dei premi, viene sempre tenuta una presentazione delle opere che hanno partecipato al concorso alla quale viene invitata tutta la circoscrizione o la popolazione, a seconda del grado di intervento, e anche la popolazione viene sentita. Fino ad oggi siamo riusciti a far sì che la giuria prendesse delle giuste decisioni, corrispondenti alle attese dell’opinione pubblica. Il progetto deve essere realizzato e non deve essere messo in un cassetto, ovviamente, perché altrimenti non ci sarebbe più l’interesse a partecipare da parte di tantissimi architetti. La giuria poi è un punto centrale del concorso di progettazione. Essa deve essere composta da membri che diano fiducia ai concorrenti, perciò deve essere già chiaro ai concorrenti chi la comporrà. Per quanto possibile, la giuria deve essere formata da rappresentanti locali ed esperti internazionali qualificati. Di regola la maggior parte dei membri della giuria devono essere dei tecnici, il che per noi significa architetti, ci sarà l’assessore, ci sarà il sindaco, ci sarà un rappresentante dell’utenza…ecc. E’ importante che ci siano esperti internazionali anche per garantire l’interesse dei partecipanti, cioè nomi affermati sulla scena dell’architettura mondiale. Infine, è nostra abitudine predisporre un catalogo da distribuire alle persone e alle istituzioni interessate.
Concludendo vi presento alcune delle opere realizzate su progetti di concorsi di progettazione. Si tratta di opere esclusivamente realizzate su committenza della Provincia Autonoma di Bolzano, cioè del Dipartimento dei Lavori pubblici. Particolare rilievo avrà, nella presentazione, il concorso per il “Polo scientifico e tecnologico di Bolzano“ che ha come oggetto le aree Ex Alumix ed Ex Magniesio e che è ad oggi in fase di attuazione. Tale concorso, che ha visto premiato il progetto degli architetti John Norman Leslie Oldrige, Claudio Lucchin, Andrea Cattacin, Mauro Dell’Orco, è particolarmente significativo in relazione al tema del convegno per la sua intrinseca capacità nel dare vita a dinamiche positive, mirate alla riqualificazione e alla trasformazione di aree, se vogliamo all’epoca marginali, in un Polo Tecnologico assolutamente all’avanguardia, fortemente integrato e radicato nel territorio. Questo, tra l’altro, sviluppando sinergie positive tra la Provincia Autonoma di Bolzano e una importante compagine di “attori” sia pubblici che privati, fortemente interessati e motivati a stare all’interno di questo Contenitore, per dare vita ad un Polo altamente sinergico assolutamente vocato alla ricerca e all’innovazione tecnologica. L’autore ringrazia i progettisti dell’area Ex Alumix: Studio Chapman Taylor (Alessandro Stroligo), Studio CL&aa (Claudio Lucchin), Mauro Dell’Orco e Andrea Cattacin
Sezione del progetto definitvo pagina precedente ed in basso viste del progetto definitivo
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Nuovi orizzonti della pianificazione territoriale patrimoniale. Claudio Saragosa
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Questo è un momento interessante per l’urbanistica e la pianificazione del territorio. I temi che siamo portati a valutare (e che effettivamente si stanno approfondendo in tante esperienze europee) sono particolarmente coinvolgenti. Credo che la Regione Toscana, con la sua legge di Governo del Territorio (la legge n. 1/2005) si sia data degli obiettivi alti che in parte, nella prassi locale della produzione di piani, siano stati disattesi. Infatti, in molti nuovi Piani Regolatori Generali (chiamiamoli così, di prima generazione toscana), gran parte dei principi generali statuiti nelle norme di governo territoriale, sono inapplicati. Sembra che nella produzione pianistica vi sia una confusione nel declinare i termini fondamentali della legge regionale e nella pianificazione gestionale emerga ancora, con potenza, il vecchio approccio razional-funzionalista. Parole come standard, zonizzazione, indice, rapporto di copertura, ecc. riappaiono con tanta e tale forza che il nuovo modello di pianificazione stenta ad essere riconosciuto. Talvolta i termini del nuovo e vecchio linguaggio si mescolano a tal punto che i nuovi strumenti di piano risultano, ai più, ambigui se non incomprensibili. La legge regionale toscana 1/2005, invece, ci proporrebbe modalità molto innovative per operare che, se ben gestite, ci permetterebbero di affrontare con più determinazione i temi che il XXI secolo ci offre come sfide ineludibili. Il mondo occidentale (almeno) si pone oggi di fronte a una serie di crisi, una di queste si chiama crisi ecologica. Siamo di fronte al problema della sostenibilità ambientale dei nostri insediamenti e non è un caso che la legge 1/2005 ponga come uno dei primi obiettivi da perseguire proprio la sostenibilità del territorio. La legge ci spinge alla costruzione di Quadri Conoscitivi molto dettagliati e alla loro interpretazione al fine di costruire un insediamento umano più adeguato nella gestione dei flussi ecologici in rapporto al proprio
ambiente locale di riferimento. In alcuni piani strutturali questo tema è totalmente eluso e talvolta, il concetto di sistema ambientale, viene erroneamente trasformato in sistema rurale, contribuendo a confondere i termini profondamente diversi di ambiente e territorio. L’ambientale locale di riferimento non è un sistema rurale, la campagna, il non-urbano. L’ambiente è un concetto relazionale che lega un sistema (un insediamento umano in questo caso) al proprio intorno (l’ambiente locale appunto) da cui il sistema trae risorse (flussi di materia-energia) con le quali attiva il proprio metabolismo (la propria vita). Insomma sull’ambiente locale di riferimento (concetto da declinare con l’individuazione di mille sistemi ambientali concreti) si fonda l’insediamento umano nella propria capacità di gestire in equilibrio dinamico proprio i flussi di materia-energia con cui attiva il proprio metabolismo. Flussi in equilibrio dinamico perchè proprio nella capacità di comprensione della attitudine a rigenerarsi nel tempo di tali flussi che si fonda la sostenibilità ambientale. Quindi, sistema ambientale, non è una porzione di territorio, non è una zonizzazione con un nuovo nome, più moderno. Guardando un’immagine dal satellite delle tre città del Valdarno Superiore (San Giovanni, Montevarchi, Terranova Bracciolini), vediamo come queste città fondate non avevano solo un progetto urbano molto interessante, soprattutto erano immerse in un adeguato ambiente locale da cui traevano i flussi di materia-energia per alimentare il proprio metabolismo, erano cioè immerse in un’ampia area di cui mettevano a frutto (fra le tante cose) la capacità locale di produzione biologica. Il progetto urbanistico non era solo quello della fondazione della città e l’organizzazione dello spazio urbano, comprendeva anche la definizione degli equilibri fra sistema insediativo e base ambientale locale per la costruzione di un’economia durevole. Quanto è durata questa economia? Seicento anni, forse più. Tanto di cappello ad Arnolfo di Cambio, se è stato lui a fare il progetto urbano territoriale. La tensione a costruire equilibri fra insediamento e ambiente è uno dei punti nodali della legge 1/2005 e dovrebbe farsi sentire con forza nelle politiche con cui vogliamo pensare a riorganizzare i nostri territori e le nostre città. Il problema della sostenibilità, infatti, non è soltanto un problema intergenerazionale (dobbiamo garantire alle generazioni che verranno le stesse quantità e qualità di risorse che oggi conosciamo), ma è anche un problema interregionale (dobbiamo garantire che la nostra capacità di carico non gravi su altre porzioni della Terra e tolga diritti ad altri popoli). Insomma bisogna iniziare a misurarci con quella che definiamo la nostra impronta ecologica, anche perché se scoprissimo (come del resto stiamo scoprendo) che l’impronta ecologica dell’intera umanità fosse superiore alla capacità di produzione ecologica della Terra intera il pro-
Patterns tratti da Alexander, C., Ishikawa, S., Silverstein, M. 1977 A Pattern Language, Oxford University Press, New York.
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Un fotogramma del film di James Cameron, Avatar.
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blema diverrebbe di una serietà inaudita. Anche se non vogliamo porci problemi etici, dobbiamo pensare una politica più corretta fra i popoli della Terra (relazioni pericolose tra popoli produttori o meglio sfruttati e popoli consumatori o meglio dissipatori), dobbiamo aver chiaro che il problema della sostenibilità non è un problema astratto ma è soprattutto (certo, non soltanto) un problema di equilibrio dinamico territoriale: è insomma problema da architetti e urbanisti. Ma il portato innovativo della legge 1/2005 è legato anche ad un altro tema di prospettiva per il nostro vivere alle soglie del XXI secolo; riguarda il passaggio fra la società chiamata industriale e le società che si prospettano per l’avvenire. La produzione nelle società industriali era basata sul modo di produzione tayloristico: la catena di montaggio. Il territorio che abbiamo ereditato rispecchia questa concezione rigida di organizzazione della produzione. Nella catena di montaggio, ad ogni tappa del percorso si svolgeva solo una attività (da qui i temi dell’alienazione), nella città ogni sua parte doveva svolgere prevalentemente (se non esclusivamente) una sola funzione (da qui i temi della zonizzazione). Oggi quel modo di produrre si è sostanzialmente ridotto. Tutti ci proiettiamo nella definizione, un po’ ambigua, di mondo post-industriale. Ambigua per diverse ragioni (che certo non possiamo approfondire) ma che riguardano il fatto che la produzione non si è ridotta ma semplicemente molecolarizzata; che la produzione del bisogno di consumo diviene un fattore della produzione più pesante della produzione stessa dei beni materiali; che i beni che consumiamo sono sempre più immateriali e che la distribuzione assume più rilevanza che non la produzione stessa; che le nuove tecnologie informatiche prefigurano un multiverso complesso e variegato con molte contraddizioni che vanno ancora messe a fuoco, ecc. Relativamente a questo ultimo punto c’è chi addirittura prefigura un mondo post-fisico innervato dalle reti del cyberspazio che costituirebbe sostanzialmente la ragione del vivere.
Una coltura idroponica.
Prima però di prefigurare una società di tale tipo, è ancora opportuno riflettere sulla fisicità della nostra presenza nel mondo e sul concetto del prendersi cura dello spazio che abitiamo. Prima di pensare ad una vita smaterializzata che si svolge nell’intricata rete delle fibre ottiche e delle comunicazioni satellitari, forse, conviene ancora riflettere sulla fisicità dello spazio che ospita il nostro corpo (legato in maniera indissolubile dalle connessioni sensoriali a ciò che ci circonda): la nostra esistenza nel mondo fenomenologico in cui siamo immersi. Da ciò nascono una serie di problemi il primo dei quali è che lo spazio che si è configurato attorno a noi durante il secolo XX, alimentato dalla ideologia meccanicistica del modo di produzione tayloristico, è uno spazio povero, poco denso, segmentato. Il problema della configurazione dello spazio misero prodotto dalla società industriale, come vedremo, ha comunque una sua inerzia: i modelli urbanistici del XX secolo continuano a coprire il nostro territorio con la loro forza e la loro inconsistenza spaziale. La legge 1/2005 invita a riflettere su questo tema definendo uno strumento di notevole spessore: lo Statuto del Territorio. Questo è uno strumento per iniziare a ripensare lo spazio, ma come? Innanzitutto dobbiamo definire una modalità di valutazione delle qualità spaziali. Uno degli studiosi che ha affrontato recentemente questo tema è Christopher Alexander, nella sua ultima, enciclopedica, opera intitolata The Nature of Order. Alexander (a cui si rimanda) ci porta, detto in estrema sintesi, a riflettere sul fatto che la configurazione dello spazio può aiutare gli uomini ad abitare in modo migliore: detto con sue parole lo spazio è quella vitamina che aiuta lo spirito a crescere. Oggi siamo circondati da configurazioni spaziali che abbrutiscono, disorientano, non ci appartengono e non alimentano il nostro senso di appartenenza ad un luogo. Marco Romano, nel suo testo Ascesa e declino della città europea, direbbe che la civitas (la cittadinanza) non trova più nell’urbs (la città fisica) il proprio punto di riferimento spaziale, il suo punto di riconoscimento, di identi-
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Le quindici proprietà dello spazio in natura di Christopher Alexander.
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tà. Günther Anders direbbe che l’uomo è antiquato rispetto al mondo che le macchine stanno affollando: «non è del tutto escluso che noi, che fabbrichiamo questi prodotti, siamo sul punto di edificare un mondo con cui non siamo capaci di mantenerci al passo e, per “afferrare” il quale, si pongono esigenze assolutamente esorbitanti dalle capacità della nostra fantasia, delle nostre emozioni e della nostra responsabilità. Chissà, forse abbiamo già edificato un mondo del genere. In fin dei conti, a parte la sua illimitata capacità formale di produrre, l’uomo, per il resto, è un tipo morfologico più o meno determinato, quindi di un’adattabilità più o meno limitata: un essere dunque che non può venir rimodellato a piacere né da altre forze né da lui stesso, un essere la cui elasticità non si lascia strapazzare ad libitum. È altresì evidente che nella sua qualità di attore che trasforma se stesso gode di molta minore libertà e si trova molto più presto di fronte a una barriera invalicabile che non nella sua qualità di “libero creatore” dell’allestimento o degli accessori scenici del suo mondo storico». Insomma può darsi che per il mondo abbiamo costruito gli uomini non siano più adatti. Forse bisogna di nuovo, in una società in movimento verso il futuro, ritrovare i valori per rimettere l’uomo (nella sua complessità e limitatetezza) e i suoi bisogni al centro della nostra tensione operativa. Per quanto riguarda la nostra problematica (di architetti e urbanisti) cioè quella di configurare uno spazio che aiuti l’uomo (nella sua complessità e limitatetezza) a vivere meglio, ci sono dei termini della legge 1/2005 che, se ben declinati, ci spingono ad una riflessione interessante. Uno di questi termini è Invariante Strutturale. Nella pianificazione corrente, molte volte, il termine è stato utilizzato in maniera poco edificante se non, addirittura, travisato completamente. Quando ha assunto un ruolo meno nocivo, è stato utilizzato per identificare nuovi vincoli nella pianificazione. Ora la vincolistica, seppur necessaria, non si è rivelata capace di riprodurre complessità spaziale. La sua operatività, al limite, agisce sulla conservazione dello stato fisico della città e del territorio rescindendo i legami relazionali che garantiscono la vitalità dei vari organismi (per esempio la relazione città-bioregione). Il vincolismo è un modo meccanico per salvare la nostra coscienza verso un mondo particolarmente denso la cui perdita rappresenterebbe un danno incalcolabile, ma è anche il viatico per massacrare quell’altra parte di mondo (comunque relazionato con il primo) in cui, dato che non c’è vincolo, è possibile attivare qualsiasi possibile trasformazione. Se le Invarianti Strutturali servono a precisare e dettagliare le aree e gli immobili che debbono essere congelate, mummificate, vetrificate, sulle quali, insomma, debbono essere impedite trasformazioni che ne farebbero perdere quella qualità che apprezziamo, allora non sono molto utili (eppure molti Piani
Strutturali definiscono questo strumento come un nuovo vincolo). Le Invarianti Strutturali dovrebbero, al contrario, definire i caratteri descrittivi dei processi generativi dello spazio: quelle regole, maturate nel lungo rapporto coevolutivo uomoambiente in un Luogo della Terra, che dispiegate mi risolvono i problemi di equilibrio dinamico dei flussi e di carattere identitario dello spazio. Queste regole non valgono solo nel territorio della storia profonda, ma ovunque: sono i processi, fortemente culturalizzati, di morfogenesi; ovvero le trasformazioni che conservando la qualità della struttura vitale della Terra la adeguano continuamente alle mutanti e fluttuanti esigenze della vita. Allora lasciamo stare i vincoli. Si deve invece sviluppare l’idea legata alla ricerca di quei processi che garantiscono equilibrio ecologico nel tempo e configurazione dello spazio del mio insediamento, tenendo conto del fatto che sebbene le Invarianti Strutturali abbiano un sottofondo di universalità (archetipico), non sono così universali: sono infatti prodotte dal continuo processo di adattamento (a tentativi, errori e correzioni) dell’uomo a un particolare Luogo della Terra. Non esiste un modo di abitare universale: esistono tutti i modi sviluppati nei lunghi processi di territorializzazione prodottisi negli infiniti luoghi del nostro pianeta (vedi per questo tema i testi territorialisti di Alberto Magnaghi). Queste regole di gestione dei flussi e di configurazione dello spazio sono il patrimonio genetico di una città o di un territorio. Il nostro tentativo è di decifrare questo patrimonio genetico e di renderlo di nuovo operante, capace cioè di generare (nel presente con lo sguardo volto, non al passato, ma necessariamente al futuro) nuova complessità urbana e territoriale. Questo processo si oppone al meccanicismo funzionalista che non agisce appunto per generazione di spazio (processo alimentato dalla nuova cultura legata alla biologia e all’ecologia, cultura profondamente olistica), ma per fabbricazione di spazio (processo alimentato dalla vecchia cultura legata alla fisica, cultura che agisce per sezionamenti, frammentazioni, quantificazioni). La legge 1/2005 quindi ci invita a pensare alla generazione e soprattutto alla rigenerazione delle nostre città e territori con una coscienza diversa, affrontando i problemi che il nostro tempo ci consegna (fra i quali la sostenibilità e il recupero dello spazio povero e decontestualizzato che abbiamo ereditato dal funzionalismo novecentesco). Ci invita a farlo cercando di superare un approccio disciplinare e dei modelli che alla prova dei fatti sembrano non avere funzionato bene. E’ per questo che la legge 1/2005 ci invita a non fare più zonizzazioni (anche se abbiamo continuato a farle), ma a pensare a Statuti del Territorio entro i quali riporre gelosamente le Invarianti Strutturali che regolano e governavano la morfogenesi dello spazio. Ecco la grande sfida: affrontare di nuovo la complessità dell’urbano. La città non è infatti fatta solo dalla viabilità, dalla zona a parcheggi, dal verde pubblico di standard, dalle aree omogenee per l’edificazione. Le città sono qualcosa di più complicato, sono: la piazza centrale (che non è uno spiazzo), ma è una relazione fra una dimensione lineare, una superficie e le altezze degli edifici che ci prospettano davanti, edifici che ospitano diverse attività degli uomini. Piazza che sta all’interno di un tessuto, con una configurazione spaziale particolare che organizza le proprie aree residenza atte a sviluppare modi di abitare sempre più ricchi. Tessuti innervati da gerarchie di strade opportunamente definite. Strade arricchite da soluzioni eco-
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logiche speciali atte a risolvere e gestire, per esempio, il problema delle acque (da allontanare o utilizzare variamente) o la regolazione del rapporto con il sole gestendo le alberature, ecc., ecc., ecc. La città è fatta da una complessa catena di configurazioni spaziali (piazze, strade, tessuti, ecc.; patterns, come direbbe Alexander) che collegate fra loro, annidan dosi e sovrapponendosi, non semplicemente accostandosi, vanno a comporre quegli spazi densi che gestiscono lo svolgimento delle attività umane e il soddisfacimento dei bisogni formali legate alla psicologia degli uomini. La legge 1/2005 ci porta a ragionare in questo modo nella lettura della struttura profonda che costituisce la città e il territorio. Due metafore aiutano a pensare diversamente città e territorio. La prima è la Città Albero, la seconda è la Città come Opera d’Arte. La Città Albero è una città che ha la propria struttura insediativa con radici profondamente immerse nell’ambiente locale di riferimento. Non si può pensare che l’insediamento umano sostenibile si ottenga semplicemente zonizzando la superficie terrestre come se fosse spazio isotropo, senza qualità speciali. Le città invece devono costruire una relazione profonda proprio con le qualità dei diversi Luoghi della Terra, con l’ambiente locale. Le città devono organizzare il proprio accoppiamento strutturale (per dirlo con i due americani H. R. Maturana e F. J. Varela quando trattano de L’albero della conoscenza), tra la propria struttura e l’ambiente che la sorregge, appunto come fa l’albero immergendo le proprie radici nel suolo fertile. Costruendo queste metaforiche radici immerse nell’ambiente, la città costruisce continuamente (nella lunga durata) il territorio (come il territorio aveva fatto sbocciare da un nucleo, un seme, la città). Territorio che è cosa viva, cioè ambiente interpretato e trasformato con cui ci si lega con relazioni di flusso in equilibrio dinamico per garantire durevolezza (non è paesaggio mummificato e vincolato). L’ambiente trasformato in territorio, nel quale la città mette le proprie radici, è fatto di acqua che scorre, è fatto di cicli autorigenerativi, è fatto di energie fluenti che lo attraversano, è fatto di materie composte che si disgregano e ridivengono sostanze semplici, ecc. La città interpreta empaticamente questa complessità e vi si connette. La interpreta dal punto di vista della riconnessione, potremo dire ecologica, ma all’interno di un processo di morfogenesi che dà una propria identità al territorio. Questo ultimo tema non è secondario. Oggi infatti disponiamo di conoscenze modi di gestire le qualità dell’ambiente che nel passato non possedevamo. Ma queste tecniche possono essere utilizzate con modalità meccanicistiche innescando il consumo del patrimonio genetico territoriale, di cui abbiamo parlato in precedenza. Avere la capacità di trasformare il flusso energetico solare in energia elettrica utilizzabile in mille attività diverse è una fortuna che l’umanità ha ricevuto di recente, ma questa opportunità va utilizzata per dare più complessità al territorio, non per distruggerne le caratteristiche formali, le proporzioni, i caratteri identitari. Lo sforzo da compiere è quello di prendere una tecnologia che può aiutarci a gestire i nostri problemi dell’abitare un Luogo della Terra e trasformarla in cultura insediativa locale, come la tecnologia del mattone (terra confezionata in volume di una certa dimensione gestibile dalle mani dell’uomo e cotta in maniera da ottenere una consistenza durevole) ha dato vita alle più disparate architetture e più diversi processi edilizi. Fra
il mattone e il pannello solare vi è una diversa capacità dell’uomo di contestualizzare la tecnologia, rendere territoriale l’innovazione. Non apriamo questo capitolo, ma è evidente che oggi vi è una rinuncia dell’operatore della produzione della morfologia urbana-territoriale (l’architetto e l’urbanista) a svolgere il proprio compito supinamente adattandosi ai processi meccanici industriali. Pensiamo al modo di sfruttare l’energia eolica nella storia: come è possibile confondere un molino olandese con un molino toscano (un molino di Orbetello per esempio)? C’è sempre stato uno sforzo di contestualizzare la tecnologia. La gestione dei flussi ambientali è sempre stata legata alla morfogenesi urbana, è sempre stato un problema da architetto. La città tradizionale, da questo punto di vista, può insegnare molto. Vediamo Venezia, una città d’acqua che non sapeva come dissetarsi (vedi il racconto magistrale di F. Braudel), la soluzione del problema idrico si è avuta con la configurazione dello spazio urbano: la costruzione di piccole piazzette (i campielli) che, come ombrelli rovesciati, raccolgono le acque meteoriche nelle cisterne centrali. E queste piccole piazze sono state configurate dagli operatori della costruzione urbana: la tecnologia è stata piegata alla forma urbana, forma che emergeva con la propria identità in evoluzione. La Città Albero, inoltre, con la tecnologia presa acriticamente, si sta trasformando in Città Idroponica. In questo passaggio ci sono tutte le premesse dell’insostenibilità. Questo trasformazione è cruciale ed è uno dei temi fondamentali del nascente XXI secolo. Una coltivazione è idroponica quando i nutrimenti delle piante non provengono più da un suolo fertile, ma sono sostituite da artefatti che conducono al vegetale i nutrimenti necessari al metabolismo: l’ambiente di riferimento è sostituito da strutture artificiali che possono operare solo grazie ad un forte dispendio energetico (e finché c’è energia sufficiente, grandi problemi potrebbero non esistere). Un esempio può essere chiarificatore anche per i nostri problemi di sostenibilità territoriale. Prendiamo una classica bottiglietta di plastica contenente acqua. Trasportiamo l’acqua (una sostanza che dovrebbe essere disponibile ovunque e specialmente dove c’è insediamento umano, che non può esistere senza disponibilità d’acqua) per dissetare le nostre città per migliaia di chilometri bruciando, inutilmente, enormi quantità di energia. Di ciò gli unici che gioiscono sono gli economisti in quanto, per soddisfare un bisogno così fondamentale, soddisfazione che dovrebbe essere gratuita, si è riusciti a costruire una economia e a far lievitare enormemente il PIL (misura della ricchezza monetaria e forse anche della distruzione di patrimonio territoriale). Si produce valore aggiunto con l’atto dell’imbottigliamento, con la produzione della plastica, con la strategia pubblicitaria, con il trasporto, ecc., ecc., ecc. Quanto PIL è contenuto dalla bottiglietta e quanta energia è stata sprecata (quanto petrolio è stato bruciato)? L’insostenibilità del processo è evidente se pensiamo ad alcuni problemi su cui il mondo dibatte insistentemente e che possono essere riassunti con due termini slogan: il peak oil (il prossimo esaurimento dell’energia accumulata nell’ambiente in entrata) e l’effetto serra (la mutazione chimico-fisica dell’ambiente in flussi in uscita). Aumenta il PIL, ma si degrada il patrimonio con il quale l’umanità si è evoluta. La Città Idroponica è il risultato di questa costruzione di reti di nutrizione scollegate dall’ambiente di riferimento locale, quando l’acqua non è più fattore di relazione fra città e ambiente locale, ma diviene flusso energeticamente sovra-alimentato. L’ambiente locale, fattosi (nella
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lunga durata) territorio, non è più produttore di acqua, alimenti, energia e digestore di rifiuti, acque luride, ecc. e con la Città Idroponica viene semplicemente degradato, distrutto, coperto, desertificato, al più devitalizzato e imbalsamato con qualche vincolo paesistico. Bisogna ripensare alla Città Albero, città in cui il progetto di territorio, compito precipuo di architetti e urbanisti, riutilizza le proprietà della materia-energia fluente per riordinare l’insediamento dandogli al contempo durevolezza. Ripensare alla città immersa nella propria bioregione significa, come la legge 1/2005 statuisce, pensare alla sostenibilità, riordinare l’impronta ecologica, accumulare patrimonio, costruire identità territoriale, produrre un senso di appartenenza alle qualità di un Luogo, ecc. E siccome i Luoghi sono unici, il nostro percorso di riequilibrio ci farà confrontare con qualità uniche e con ciò edificare mondi unici. La costruzione della Città Albero, bisogna ripeterlo, ha bisogno comunque di una sensibilità diversa, di un’evoluzione del metodo progettuale, deve superare i modelli dello spazio povero del funzionalismo novecentesco, di un modo di fare città per una società produttiva che ormai si sta esaurendo: il novecento è un secolo passato. Bisogna sottolineare ciò perché, nonostante vi siano esperienze progettuali di grande valore dell’eco-urbanistica (basta ricordare i casi di Solar City a Linz in Austria, o del quartiere Vauban a Friburgo nel sud della Germania, casi quasi perfetti nella gestione dei flussi di materia-energia), queste realizzazioni appaiono ancora piccoli pezzi di periferia realizzata, l’urbano (con la sua densità spaziale) è sparito, evaporato, annullato. La città tradizionale ci ha insegnato ad affrontare in tutta la complessità il progetto urbano e bioregionale. Basta vedere come città come Matera gestiva la morfogenesi urbana tessendo relazioni proficue con i flussi auto-rigenerantisi dell’ambiente. Oppure Siena che per risolvere il problema idrico inventa una tecnica speciale, quella dei bottini (cunicoli sotterranei che distillano l’umidità dei terreni e distribuiscono al contempo l’acqua all’intera città). Vale la pena citare Siena perché il problema del servizio idrico, che oggi affronteremo in modo settoriale, è alla base della formazione di una delle più belle piazze del mondo: Piazza del Campo. E’ qua infatti che il condotto produttore-distributore sgorga e lo fa generando uno degli intarsi scultorei più affascinanti che l’umanità conosca, Fonte Gaia opera del XV secolo di Jacopo della Quercia. Siena ci offre una delle immagini più stupefacenti del concetto di Città Albero: il dipinto di Ambrogio Lorenzetti, Allegoria degli effetti del Buon Governo in città (1338-1339, Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Siena). L’affresco ci mostra la città ma anche l’ambiente locale di riferimento trasformato in territorio. La città è correlata con il proprio intorno, ma è anche rappresentata con le proprie specificità identitarie. Dobbiamo quindi introdurre l’altra metafora, ricordata in precedenza: la Città come Opera d’Arte. Questa metafora, in forme sicuramente più solide, è la stessa che ha animato Aldo Rossi riscoprendola anche nella lettura di Claude Lévi-Strauss (e potremo citare molti altri autori da Carlo Cattaneo, fino al più recente Lewis Mumford). Ogni città ha le proprie regole, le proprie proporzioni, le proprie topologie, il proprio modo di interpretare il Genius Loci, ossia i caratteri fenomenologici fondamentali (la Stimmung) del Luogo dal quale si erge (Christian Norberg-Schulz ha dato un’interpretazione magistrale del concetto nel suo testo Genius Loci. Paesaggio,
Ambrogio Lorenzetti, Allegoria degli effetti del Buon Governo in città, 1338-1339, Sala dei Nove, Palazzo Pubblico, Siena.
Ambiente, Architettura). La città non è solo la sommatoria di zone omogenee è, come già detto anche se in estrema sintesi, un’annidarsi complesso di configurazioni spaziali ognuna con le proporzioni date dall’interpretazione dell’atmosfera locale: giustappunto un’opera d’arte. Quindi ogni volta che l’uomo si trova ad interagire con un ambiente locale trova delle qualità dello spazio completamente diverse e di volta in volta forma delle complesse autopoiesi uniche, dai forti caratteri identitari. Le città sono fatte di questa sostanza, i cittadini (e soprattutto i toscani) di ciò vanno orgogliosi. Se la città tradizionale ha queste caratteristiche che noi apprezziamo, ciò non significa che la città futura sia determinata dall’emulazione del passato. La città tradizionale semplicemente ci segna un percorso da seguire per generare nuovo spazio urbano. Al di là della semplificazione meccanicista del funzionalismo, ci segna un percorso che è fatto da configurazioni spaziali che, alla prova evolutiva dei lunghi processi di territorializzazione, hanno sedimentato regole capaci di risolvere i problemi di relazione con l’ambiente locale e i problemi di percezione della gradevolezza delle geometrie spaziali. Fondamentale è comprendere tali regole (questo DNA culturale) e farlo dispiegare nuovamente nel contesto del mondo a venire, con i suoi nuovi problemi, con le sue nuove capacità di utilizzare le qualità delle sostanze, con le nuove inquietudini dovute alla nostra coscienza interrelata ad una diversa e più profonda memoria accumulata. Questo nuovo orizzonte della pianificazione territoriale patrimoniale è profondamente legato alle innovazioni della legge 1/2005. Il nostro compito, come architetti e urbanisti, è quello di prendere spunto dallo slancio che la legge ci consegna e re-iniziare a configurare lo spazio che abbiamo ereditato. Se il quesito che questo convegno lancia è quello di definire se le modalità di intervento nelle aree di confine debbono portare alla fabbricazione di altra periferia o alla generazione di nuovo centro urbano, alla domanda non possiamo che dare una risposta: dobbiamo edificare spazio urbano complesso. Per fare ciò, però, dobbiamo liberarci dai modelli che il novecento ci ha consegnato e lavorare con spirito nuovo alla riedificazione di una città che risolva i problemi della sostenibilità e della qualità dell’abitare. Liberarci del passato è sempre una cosa difficile infatti come diceva Jane Jacobs, già molti anni fa, esprimendo un severo giudizio sulle teorie urbanistiche considerate ortodosse: «ormai queste idee correnti sono entrate a far parte del nostro costume: la loro pericolosità sta appunto nel fatto che le accettiamo come ovvie».
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Il sistema dello spazio aperto Isotta Cortesi
A lato e pagina a fianco Michel Desvigne e Christine Dalnoky Parc urbano a Issoudun, 1994
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Il mio lavoro di ricercatrice negli anni ha voluto ridefinire la centralità dello spazio aperto negli studi sulla città contemporanea, portando nella discussione un diverso modo di osservare la realtà che, di fatto, gli restituisce il ruolo di luogo originario nella costruzione dell’abitare. Progettare la città a partire dal vuoto, inteso come spazio aperto, centro della vita civica, è oggi possibile anzi è necessario per restituire la qualità, spesso assente, agli insediamenti cresciuti nel paesaggio italiano dal 1950 in poi. Il progetto del vuoto –spazio aperto caratterizzato dai valori della vita civica- si colloca tra la sfera pubblica e quella privata, tra l’individuale e la collettiva.
Il tema del convegno “aree di confine. Periferia o nuovo centro urbano?” vede l’osservazione di un luogo preciso, lo spazio di fondovalle, della provincia aretina, ricompreso nell’ambito territoriale appartenente, da un punto di vista amministrativo, a tre comuni: Montevarchi, San Giovanni Valdarno e Terranuova Bracciolini. Tuttavia lo spazio geografico, che valica i confini comunali è unitario: un suolo fertile, irriguo, solcato da numerose infrastrutture che, oggi, piuttosto che unire, separano. Un’unità caratterizzata in primo luogo dall’elemento fondante e preesistente la pianura, esso stesso ragione della fertile valle, l’Arno, il fiume oggi relegato a spazio invisibile, pressoché assente nella vita delle tre comunità, confinato sul retro delle attività industriali - artigianali, cresciute lungo la viabilità e le infrastrutture lineari che corrono lungo le sue sponde (alta velocità, ferrovia e autostrada del Sole) collegando capoluoghi e poli della penisola e della regione, costituendo la spina infrastrutturale principale del Paese. L’invisibile presenza di questo “antico Fauno”, con le sue sponde e il suo sistema paesaggistico, in gran parte negato, costituisce, per me, la ragione principale d’interrogazione sullo stato attuale dei luoghi, sulle ragioni della loro trasformazione nel passato e sulle possibilità del loro futuro. Il tema del convegno obbliga alla formulazione di una riflessione su “quale ruolo attribuire allo spazio aperto nella costruzione della città contemporanea”. Di fatto, oggi la presenza del fiume sembra non essere il punto centrale d’interesse delle amministrazioni, volte piuttosto alla moltiplicazione dei collegamenti tra le sponde e al superamento dell’alveo fluviale con nuovi ponti e svincoli favorendo, in nome dello “sviluppo economico”, la continua parcellizzazione dei suoli che qui, come in tutta la penisola, ha consentito la trasformazione del paesaggio agrario in un paesaggio che, sulla secolare struttura geometrica delle coltivazioni ha insediato, negli ultimi cinquant’anni,
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Michel Desvigne e Christine Dalnoky Parc urbano a Issoudun, progetto del 1994
campi di cemento prefabbricato dedicati alla piccola e media impresa. La situazione odierna dimostra che si è trattato di un’illusione di crescita economica che, di fatto, ha impoverito la cultura del paese e cancellato il suo paesaggio. Una trasformazione che è sfuggita alla pianificazione urbanistica o che, ancor peggio, da questa è stata legittimata con la complicità della gestione politica locale, in una condizione perpetuata identica in tutto il paese. La situazione è diffusa sul territorio nazionale, in particolare là dove si ha una conformazione pianeggiante: il paesaggio agrario, è stato urbanizzato, non a seguito di un progetto unitario che individuasse i luoghi di centralità produttiva, strategicamente insediati in funzione dei collegamenti infrastrutturali ma, piuttosto, disconoscendo il valore del paesaggio e cancellandolo frammento dopo frammento in un arco esteso di tempo (in questo modo si è assistito ad una modalità trasformativa meno riconoscibile, e dunque contrastabile, nell’immediato), con un’azione individuale e spontanea dedicata all’ottenimento di una nuova classificazione urbanistica. Questo procedimento inevitabilmente ha prodotto un degrado diffuso, senza però portare nessuna qualità ai nuovi insediamenti produttivi cresciuti lungo gli assi viari1. 1 Un riferimento importante sono i testi e gli studi svolti da Eugenio Turri in Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio rappresentato, Marsilio editore, Venezia, 1998; Semiologia del paesaggio italiano con atlante fotografico, Longanesi & C. editore, Milano, 1979.
Esattamente questo è accaduto anche nel Valdarno Aretino. Il convegno è diventato, dunque, l’occasione per discutere di una trasformazione, di un cambiamento possibile: come mutare un margine, una periferia, quale è ora questo luogo, frantumato in sistemi longitudinali, difficilmente connessi tra loro in modo trasversale, in un nuovo spazio della centralità, dove le parti si ricompongano in un progetto unitario ed il paesaggio non sia più la risultante di azioni sconnesse e spontanee ma, piuttosto, divenga la struttura progettata e sovra-ordinata che contenga al suo interno i tre centri urbani, le infrastrutture, le aree produttive agricole e industriali e soprattutto il grande fiume, con il suo sistema naturalistico che potrebbe essere l’elemento generatore di un nuovo sviluppo del paesaggio. Si tratta di immaginare un grande parco che contenga tutti i temi elencati. Il progetto dello spazio aperto è l’elemento capace di tenere insieme le parti diverse e di riconfigurare un margine unitario in grado di attribuire una nuova identità a luoghi troppo frammentati dove la strategia di sviluppo consolidata, se perpetuata, porterebbe ad una situazione di stallo e congestione, responsabile di un ulteriore degrado confliggente con la necessità di un rinnovamento dinamico delle politiche di gestione del territorio. Dopo aver dichiarato la necessità di configurare un parco come entità sovra-ordinata capace di tenere tutto insieme è quanto più necessario individuare una diversa nozione di parco. Il parco pubblico nel diciannovesimo secolo è nato come risposta alle trasformazioni urbane a seguito dello sviluppo industriale. Certamente questo tipo di parco non ha più significato nella città di oggi, dove invece abbiamo bisogno di un importante cambiamento nel processo di definizione ed ideazione del parco stesso. Innanzitutto il parco pubblico, oggi, non è più solo lo spazio per passeggiare e intrattenersi nel tempo libero e nemmeno più il luogo dove ricreare delle scenografie ad imitazione della natura. Piuttosto il parco, oggi, è un luogo multi-funzionale, che offre una struttura e un programma aperto (nel senso che si adatta alle condizioni di mutamento), con una vocazione ecologica per contribuire al miglioramento della qualità della vita degli abitanti2. Il parco del futuro deve essere un’entità produttiva, essere partecipe e sostenere la comunità locale e allo stesso tempo accogliere il grande pubblico per eventi temporanei. 2 Questi concetti sono stati trattati in modo significativo nella rivista «Topos – International review of landscape architecture and urban design» nel n°55 e in particolare nell’articolo di Jusuck Koh, Anemone Beck, Parks, People and City, pp.14-20.
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Michel e Claire Corajoud Parc de Sausset, progretto del 1981 Cristhine Dalnoky,
Parco Metropolitano del del Agua Luis Buñuel, fonte http://es.wikipedia. org/wiki/Parque_ Madrid_R%C3%ADo Flickr: Park space, Madrid Rio
Il parco deve, come già detto, offrire un programma aperto al cambiamento, alle esigenze e alla partecipazione della comunità. Così il parco può diventare quell’elemento vitale capace di rigenerare le città, recuperare le terre perdute, inaccessibili e degradate, e ammorbidire la parte indurita ed incivile dei nostri insediamenti costruiti male, senza responsabilità per il futuro. Questo parco ha, soprattutto, il compito di sviluppare, risanare e rigenerare i luoghi (mentre nel passato è stata, spesso, un’istituzione nata come estremo rimedio conservativo). Questo è un modo diverso, antidogmatico, di pensare al disegno di parco, come definizione del processo, delle strategie e della struttura del progetto e non solo della forma finita.
Lo studio svolto da Michel e Claire Corajoud con Edouardo Souto de Moura su Montreuilsous-Bois, (1993-1998) è, per me, un esempio paradigmatico di come il valore paesaggistico di un luogo possa strutturare la strategia trasformativa. Dai frammenti di muri, costruiti nel ‘700, come dispositivo per la coltivazione dei pescheti, Corajoud parte per strutturare il nuovo paesaggio della cittadina e fondare la nuova urbanizzazione proprio dalla struttura produttiva in disuso dei muri, dei recinti, considerandoli come origine del nuovo sviluppo, dunque non solo elementi da preservare, ma come fondamenti dai quali partire per innovare. Un confronto tra la foto aerea del 1940 e quella attuale illustra che la struttura dei muri e le loro geometrie hanno stabilito la regola principale degli insediamenti e dell’urbanizzazione recente, esattamente com’è avvenuto nella struttura del fondovalle aretino, dove le unità poderali agricole sono mutate in insediamenti artigianali produttivi, mantenendo
gli stessi allineamenti e le medesime geometrie delle attività che li hanno preceduti (orti e frutteti, per esempio): le linee perdute di particelle antiche. Indubbiamente in questo luogo la priorità è quella di rendere accessibili i diversi spazi, tra loro, oggi, separati da ferrovie, strade e autostrade. Centrale è il paesaggio agricolo fluviale ed urbano, dove la presenza dell’acqua è l’elemento strutturante. Le ipotesi trasformative dovrebbero inscriversi esattamente sulle tracce dei parcellari delle coltivazioni agricole, riutilizzare quegli elementi presenti per sottolineare il tema dell’asta fluviale, poiché i tre centri urbani sono creazione dello stesso fiume, che dovrebbe divenire accessibile per la sua lunghezza con un’accessibilità graduale, controllata e organizzata. Attraverso il fiume, il paesaggio e le strutture urbane si decomprimerebbe a costruire connessioni spaziali e condivisione di temi tra le diverse municipalità. In questa ipotesi si tratta di proseguire le attività in essere, (produzione industriale, artigianale e agricola), e allo stesso tempo rafforzare i margini del parco produttivo per sviluppare nuovi usi del luogo e consentire una trasformazione del patrimonio esistente che offra un generoso spazio per coltivazioni, crescita, benessere, educazione, ecologia e salute. L’ipotesi di un grande parco (secondo la nozione sopra illustrata che rivede completamente la consolidata e abituale definizione) trasformerebbe così il margine (lo spazio del fondovalle) in un nuovo centro, integrando progettazione urbana e paesaggismo. Si tratta di un’operazione da prevedere in un tempo esteso, secondo una strategia che propone un processo di progressive sostituzioni, in grado di accogliere il temporaneo e il variabile come elemento significativo del progetto.
West 8 Parco lineare del Manzanarre, prima e ora
fonte http:// www.artwort. com/2014/04/11/ architettura/autostradaparco-fiume-caso-felicemadrid-rio/
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Architettura come oltrepassamento del confine Boris Podrecca
I confini muoiono e risorgono, si spostano, si cancellano e riappaiono inaspettati. Segnano l’esperienza, il linguaggio, lo spazio dell’abitare; il corpo con la sua salute e le sue malattie, la spiche con le sue scissioni e i suoi riassestamenti, la politica con la sua spesso assurda cartografia; l’io con la pluralità dei suoi frammenti e le loro faticose ricomposizioni, la società con le sue divisioni, l’economia con le sue invasioni e le sue ritirate, il pensiero con le sue mappe dell’ordine. (C.Magris, Come i pesci il mare…, in Aa.Vv., Frontiere, supplemento a “Nuovi Argomenti”, 1991, n. 38, p.12)
Sopra e in basso pagina a fianco Winery Novi Brič Slovenia, 2002 Photos: Damir Fabijanič
Quando ci si riferisce al concetto politico di confine si tende sempre a sottolinearne l’aspetto negativo, limitante. I confini politici sono sinonimo di costrizione della libertà individuale. Quando vengono edificati i recinti di confine ed i tracciati perdono il proprio significato, questo si accompagna sempre ad un consenso generale. D’altra parte, non si deve dimenticare un aspetto più ampio del concetto di confine: i tracciamenti di confine nello spazio sono sempre anche una protezione di fronte all’esercizio del potere politico, di fronte all’espansione senza limiti, di fronte all’imbarbarimento ed alla perversione del progetto politico nell’estensione dello spazio. Anche in senso architettonico lo spazio di confine preserva tipologie e materiali, vale
a dire è portatore di identità di uno spazio culturale. Si percorre un territorio dove non si investe e dove è difficile lucrare con nuove architetture. Il confine si erge contro la trasformazione, che il più delle volte rappresenterebbe semplicemente un bene mercantile. Un ulteriore aspetto sociologico è però costituito dal fatto che grazie al tracciamento del confine verso l’esterno si riesce, nella maggioranza dei casi, a migliorare l’integrazione verso l’interno. Ma questa dicotomia investe solamente in parte temi architettonici. A differenza della politica, già l’architettura dell’era industriale non ha mai troppo preso in considerazione il segno del confine. Essa integra spazi non grazie al tracciare il confine, bensì grazie alla configurazione di flussi e di correnti nelle quali gli uomini si possono incontrare e le informazioni possono essere scambiate. Lontano da ogni paradigma ideologico, il tracciamento di confine o, a seconda del caso, l’oltrepassamento del confine, significano soprattutto controllo dello spazio. Di solito, nella delimitazione di un luogo si cerca di configurare un sistema di vasi comunicanti e di sciogliere in questo modo quanto si presenta come fenomeno separato. Si evita di esprimere lo spazio in quanto fenomeno singolare, per privilegiare una serie di vicinanze e di successioni di frontiere separate in una totalità a più strati. Il Moderno esploso alla svolta tra il XIX ed il XX secolo, si pensi alla teoria della relatività, al Manifesto dei futuristi, al Raumplan di Loos, al plain libre di Le Corbusier, all’ endless space di Kiesler, e così via, interpretano lo spazio come privo di confini, liberato dalle linee di pensiero monoteiste. In questo spazio imbevuto di scienze, di fisica, di biologia molecolare, gli ideogrammi si susseguono in modo incessante e lo steccato del limite
Valamar Lacroma Hotel Resort Dubrovnik, Croatia, 2009 Photos: Miran Kambič
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viene disciolto in una vibrazione universale. Lo spazio inteso come elemento delimitato ed autistico, non esiste più. Oggi noi concepiamo i confini dello spazio come intervallo vuoto, nel quale possiamo formulare un’architettura di rapporti reciproci. D’altra parte, emerge proprio oggi l’idea secondo la quale necessitiamo di nuovo di uno spazio pubblico controllato. Deve essere posta una barriera, un confine tra ciò che
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Praterstern, Wien Nord Station Vienna, Austria, 2010 with: Bernhard Edelmüller A pagina seguente: Nuova Bolzano international competition, 1st prize Bozen, Italy, 2011 with ABDR/Rome, Theo Hotz/Zürich 2011
è povero e ci che è ricco, in modo che possano dominare i valori regolati dalla nostra città mercantilizzata e telematica. Questa condizione alla quale si aspira si fonda sul presupposto di nuove gerarchie sociali che pare originarsi da stigmate quasi paramilitari. Qui, per noi architetti inizia una battaglia partigiana, Davide contro Golia. Il concetto di confine deve essere capito e modellato in modo tale da non creare ostacoli ai sistemi di comunicazione, pur sapendo che non sempre tale rapporto risponde ad ideogrammi consensuali. Contro questa concezione orientata da sistemi di potere che impongono una nuova società della segregazione, l’architettura risponde attraverso una nuova emblematica del confine come spazio di comunicazione e diversità. Questa diversa interpretazione della frontiera ci fa comprendere che i confini non garantiscono solo la coesione di un territorio, ma rendono possibili anche il trasferimento dell’alterità (Heidegger), dove le differenze vengono recepite in maniera da essere successivamente collocate in una
scala di valori universale. Un tale modo di tracciare il confine rafforza l’identità specifica del luogo. In questo rapporto lo spazio architettonico si carica di una reciproca dipendenza. Qui le identità circoscritte sono poste in discussione e riformulate. Le relazioni tra architettura, città, paesaggio e uomo vengono ridefinite, rinvigorite e, soprattutto, riprogettate. La disposizione dei corpi architettonici nello spazio di confine produce nuovi campi di tensione, dove la contrapposizione del limes viene ridotta e dove l’immagine correlata si carica di senso. L’architettura non può far altro se non sottolineare l’ambiguità ed il vuoto del processo di tracciamento del confine attraverso il proprio spazio di rappresentazione. Essa può provvedere affinché il confine non sia percepito e dunque nemmeno pensato. Ma, in questo caso, si tratta di un’ illusione realistica che, prima o poi, renderà possibile l’oltrepassamento del confine. A fianco Cvjetni Passage, Offices, Apartments Zagreb, Croatia, 2011
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valle
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Sandro Antichi
In volo
Sandro Antichi
Era da un po’ che stavo pensando di fotografare il mondo da lassù, dove l’architettura diventa paesaggio e si riesce ad ammirare l’ordine delle cose. Volando penso a Tony Garnier, al suo libro Une cité industrielle, étude pour la construction des villes e al forte peso che ha dato all’urbanistica del passato soprattutto la divisione in zone funzionali del territorio. Si notano gli standard del 1968, gli stendardi, le bandiere dei valori civili da proteggere quindi parcheggi, parchi urbani e poi scuole. Non si notano i Sistemi e i Sottosistemi tanto proclamati dall’urbanistica di oggi; le suddivisioni di paesaggio sono molto più sfumate che sulla carta. L’architettura il più delle volte è ridotta al silenzio, la natura è ancora la più forte ma a volte le zone industriali riescono a prendersi una bella, ineluttabile, vittoria. Da lassù vedo prima linee dritte poi noto la dolcezza della curva del fiume Arno che attraversa la pianura fertile del Valdarno. Alzo un po’ la testa e vedo la montagna del Pratomagno che da lassù sembra voler proteggere la valle. La bellissima pieve di Gropina è appoggiata dolcemente appena sopra le curve e controcurve della Setteponti. Volandoci sopra si ammira il limite tra le vigne ,sottostrada, e gli olivi, che messi a monte, sembrano voler cercar ancora più luce. Scendendo verso valle vedo la bella Terranuova Bracciolini con la sua scacchiera regolare che culmina nella piazza centrale, Montevarchi dal portamento affusolato e l’eleganza di San Giovanni V.no con la Basilica e le meravigliose proporzioni delle sue strade. Mi ricordo la lezione del professore Marco Romano sulle città nuove e la descrizione di San Giovanni come vero e proprio modello di riferimento per molti architetti. Per lo più si notano i centri storici con una precisa definizione della res pubblica e della res privata, gli inserimenti dell’architettura degli anni ‘30 , gli ampliamenti del dopoguerra, le grandi linee di comunicazioni che hanno destabilizzato l’area destinandola a un luogo in cui dover passare. Ai due lati delle valle si notano piccole frazioni ne sorvolo una, Ricasoli, in cui si nota la chiesetta che emerge in mezzo alle case abbarbicate sui suoi fianchi e una natura rigogliosa ai suoi piedi. Ok basta è ora di tornare indietro, il cielo sta diventando troppo scuro.
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I l a r i a B u r z i I l a r i a B u r z i
A terra A terra viviamo e, se si escludono i marinai e Cosimo, il barone rampante, e fors’anche qualche santone di lontane religioni, è con i piedi per terra che trascorriamo la gran parte del nostro tempo. Da terra osserviamo tutto quello che ci circonda, il paesaggio che ci appartiene così come lo abbiamo trasformato e disegnato dal passato, attraversandolo, lavorandolo, mangiandolo, incontrandolo e purtroppo anche insultandolo. Il territorio che percepiamo e descriviamo è quindi il nostro paesaggio o, se siamo in viaggio, è quello appartenete ad altre popolazioni. La lettura che ne facciamo, individuale o collettiva che sia, può avvenire in modi diversi, scientifici analitici, olistici, personale, sensoriale e con punti di vista anche molto diversi. Il paesaggio si mostra in maniera differente non soltanto a seconda del livello di formazione ed esperienza dell’osservatore, ma anche a seconda dell’altezza da cui lo viviamo, dalle montagne o colline, dalla strada, dagli attici dei grattacieli o dalla profondità delle voragini di miniere coltivate a cielo aperto. E cambia anche in base ai nostri stati d’animo momentanei... E quindi cambia anche nel tempo, passando dalla nostra altezza e incoscienza di bambini alla consapevolezza di quando siamo adulti. Dal basso all’alto, da dentro a da fuori, e viceversa. Per assurdo si può pensare anche al punto di vista “a terra da terra”, quello delle formiche, così che gli spazi residuali, come i bordi delle strade, assumerebbero dimensioni gigantesche e lo sguardo zenitale, dal basso verso il cielo, sarebbe una costante per tutte le volte, che, come le formiche e l’uomo ragno, ci arrampicheremmo sui muri. Citando le teorie di Gilles Clément sul Terzo Paesaggio, diventate un riferimento fondamentale per tutti i paesaggisti, i margini hanno un’importanza notevole, in quanto è proprio negli spazi residuali, nei piccoli fazzoletti di terra incolti e nelle zone abbandonate che si nasconde la biodiversità. Strisce di terra ricche di piante diverse e di insetti in frenetico movimento. Se i luoghi di confine, i lembi di territorio privi di destinazioni d’uso, fanno la differenza a livello di biodiversità e quindi di qualità ambientale più in generale, nello stesso modo, crescendo di dimensioni, le aree di
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confine, i margini, tra i nuclei principali del Valdarno Superiore, in quanto posti di lavoro e/o nodi di scambio, fanno la differenza all’interno di un più ampio contesto, quello della città diffusa. In tempi passati, semplificando, esistevano confini chiari tra le diverse maglie spaziali che si alternavano all’interno di un ambito geografico, tra la natura ed il suolo trasformato dall’uomo, con la città storica definita da mura possenti, i campi agricoli, i boschi cedui e lavorati dall’uomo ed oltre la “natura selvaggia”, il “non ancora conquistato”. Con la postmodernità siamo arrivati ad una situazione completamente diversa, la maglia territoriale non è composta più da parti intervallate fra loro e facilmente riconoscibili, ma si è dilatata in un mare continuo, le grandi superfici dell’agricoltura intensiva o le città diffuse appunto, fatte di luoghi in cui tutto sa di uomo, parla di esso e soprattutto è al suo servizio. Eppure, in questi mondi fatti completamente da noi e per noi, spesso siamo scollegati dal contesto, disconnessi da un quadro che fatichiamo a capire e che non sentiamo assolutamente (escludendo i propri luoghi di lavoro) come nostro. Sono le aree di confine fatte di una caotica mescola di industrie, parcheggi asfaltati, centri commerciali, appezzamenti residuali incolti, bar sovraccarichi di insegne luminose e costruzioni che spesso non saranno neanche mai completate.
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Tornando alla visione dall’alto, da un punto di vista panoramico, come dal Pratomagno o dai Monti del Chianti ad esempio, da cui si spazia tra la provincia di Arezzo e Firenze, la parte centrale dell’inquadratura mostra un’urbanizzazione diffusa, fatta da nuclei abitati appiccicati, se non fusi, tra loro, da Levane verso Figline, dei quali non si riconoscono più i confini all’interno di un tessuto costruito ripetuto tra cui emergono, da lontano, solo pochi elementi come le torri di raffreddamento della Centrale Termoelettrica di Santa Barbara, simbolo del dopoguerra industriale del Valdarno, l’ospedale della Gruccia un grande parallelepipedo fuori scala e il nuovo ponte sull’Arno e sull’autostrada, che con le sue bianche arcate è già elemento identificativo del luogo. La città diffusa con le sue aree di confine si mostra nella sua interezza da distanti punti di vista eppure si riesce comunque a percepirla anche percorrendo la strada regionale che l’attraversa, in un caos di rotonde, insegne e non senso. Se dal cielo copriamo con lo sguardo l’insieme, comprendendo le dimensioni e le relazioni spaziali, l’immagine ideale che però ognuno di noi ha in testa del paesaggio, deriva da una percezione continua e ripetuta e quindi dall’esperienza che si fa da terra.
Dal di dentro, come insider, cogliamo con lo sguardo aspetti e particolari minimi e autonomi rispetto a quanto si coglie dall’alto, con elementi fissati e individuali nel loro rapporto con gli altri1. È vivendo un luogo che poi siamo in grado di costruirne una sua rappresentazione, pensandolo da fuori, si acquisisce una diversa consapevolezza. Quando da attori ci trasformiamo, nelle pause del vissuto, in spettatori del nostro agire2. È vivere i paesaggi dal di dentro, dalla strada che comunque amo fare, attraversarli e soffermarmi sui dettagli, con la capacità che ogni tanto ritorna, di percorrere anche i luoghi della quotidianità con occhi curiosi ancora in grado di osservare con attenzione, con i sensi aperti ai suoni ed agli odori. Nonostante la routine, si può riuscire a scorgere nuovi elementi, dettagli, per poi mentalmente, rimettere insieme i vari pezzi, alla scoperta di antiche e nuove relazioni tra le componenti, acquisendo conoscenze che rafforzano il legame coi propri luoghi, anche attraverso scene di vita vissuta, altrui o personali, che saranno poi ricordi, suoni e profumi. Eppure nonostante il punto di vista da terra sembri essere il migliore, in quanto a osservazione del mondo circostante, è l’essenza stessa della città diffusa che ti stacca dal contesto in favore della frenesia del quotidiano. Le aree di confine poi, gli spazi produttivi o di servizi a scala territoriale, si raggiungono solitamente ognuno con la propria auto, oppure anche per le volte in cui si usano mezzi pubblici, i cellulari e la rete, hanno fatto perdere il senso della conversazione e della compagnia. Si arriva, entriamo a lavoro oppure compriamo cose e poi via, vivendo solo e soltanto gli spazi interni del costruito. Uno sfruttamento di suolo che non ha arricchito l’esistenza umana, ma che ha fatto perdere il rapporto con lo spazio, perché sono luoghi in cui non si sta fuori e non si fanno esperienze significative, non si conosce davvero gli altri, non si avverte il paesaggio, la natura, la terra né tanto meno il percorso e quindi noi stessi. A terra viviamo, camminando con lo sguardo fisso sullo smartphone.
1
Eugenio Turri, Il paesaggio e il silenzio, Biblioteca Marsilio, Vicenza 2010, pag. 142
2
ibidem, pag. 143
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Francesco Forzoni
In acqua
“I l
mare è come il veleno , una
volta entrato nel sangue , non esce pi ù !”
“I l marinaresco mare è come il ve D etto leno ,
una
volta
entra -
to nel sangue , non esce pi ù !”
D etto
marinaresco
Mi piace stare vicino all’acqua. Sono nato in luoghi terrosi ma ho presto scoperto che l’acqua è il mio elemento. Mi piace passeggiare sugli argini del Fiume. A volte con la bella stagione inforco la bicicletta per un giro lungo che comprende la visita di due provincie. Da Montevarchi alla diga di Levane percorrendo stradine interne tra campi e vivai e poi costeggiando il corso d’acqua fino alla città del Masaccio e oltre ancora: Figline, Incisa, Rignano e ritorno. Mi piace nuotare. D’inverno visito tutte le piscine tra Firenze e Arezzo. Dai primi giorni dell’anno alla fine di dicembre vado al mare. Certe volte nuoto per diletto e in solitaria altre invece partecipo a gare organizzate come la traversata dello Stretto da punta Faro a villa San Giovanni. Cinque chilometri e duecento metri. E vi giuro che me li ricordo tutti. Un’altra volta siamo partiti in dodici dalla spiaggia della Sterpaia, assistiti da un gozzo, fino a cala Violina. Andata lungo costa, per due miglia e mezzo, e ritorno in corriera. Era una gita non organizzata ed è stata dura, anche se la felicità di avercela fatta “senza mai mettere i piedi per terra” ripaga largamente. La gita della maturità l’ho fatta alla Maddalena. Settembre stava virando verso l’autunno e il vento batteva forte. Avevo trovato l’ultimo posto nell’ultimo corso della scuola di vela del Touring Club. Quindici giorni a studiare venti, correnti e vele. Da mane a sera sopra dei gusci di noce con la vela triangolare e poi a buio occupati con libri e racconti di mare. Un caro amico dell’Elba, conosciuto sul posto, per descrivere l’esperienza se ne uscirebbe adesso con il suo cavallo di battaglia: “Bestiale!”. La passione per il vento mi ha preso di brutto. Adesso governo un natante di sette metri e sessantasette ormeggiato a Portoferraio. Appena posso lascio tutto e via. In giro per le isole dell’Arcipelago e anche più in là. Il nipote della Tosca ha invece una canoa d’alluminio, capienza due posti colore giallo cromo, che a volte mi fa usare. Con la piroga ho scoperto il fiume standoci sopra. Ho navigato, per tratti, lungo tutto il Valdarno superiore; riva destra e sinistra isolette comprese. Mi piace descrivere le cose che vedo. Mi piace fissarle sopra supporti. Fisici o virtuali poco importa. Mi piace il click dell’otturatore quando apre e chiude. Mi piace fare le fotografie. E mi piace farle lungo, dentro, sopra e anche in acqua.
Amministratori
di Francesco Maria Grasso Sindaco di Montevarchi, maggio 2011 - giugno 2016 Il convegno “Area di confine, periferia o nuovo centro urbano?” organizzato dall’Ordine degli Architetti della Provincia di Arezzo, ha richiamato, anche in tema di pianificazione del territorio, il tema della città diffusa del fondovalle e quindi la necessità come amministrazioni di compiere dei seri passi verso l’Unione dei Comuni prima e il Comune Unico successivamente. Invece da troppo tempo il dibattito intorno a questi temi si è bloccato e non sembra produrre sbocchi significativi che possano portare velocemente alla sua piena concretizzazione. Tutto questo mentre intorno a noi stanno nascendo nuove realtà istituzionali (la fusione tra Figline Valdarno e Incisa Valdarno, la fusione tra Castelfranco di Sopra e Piandiscò, la nascita dell’Unione dei Comuni tra Pergine, Laterina e Bucine) che si muovono proprio in tale direzione. Eppure il rischio che stanno correndo le tre città maggiori, Montevarchi, Terranuova Bracciolini e San Giovanni Valdarno, in tema di forza istituzionale, di possibilità di accesso a finanziamenti pubblici e soprattutto di visione politica, a mio giudizio è veramente grande e rischia di poter pregiudicare il possibile sviluppo economico e sociale delle nostre comunità. Anche i partiti politici sembrano non aver preso coscienza di questo rischio. Solo unendo le forze, i servizi, il personale, solo avendo una visione comune dello sviluppo urbanistico e infrastrutturale del territorio, potremmo dare un futuro alle nostre comunità. E oggi ce lo stanno chiedendo in tanti, ad iniziare dalle categorie economiche, da chi opera nelle infrastrutture, fino a chi, come gli architetti, opera nella pianificazione e nella programmazione dello sviluppo urbano e architettonico di questo territorio. E’ necessario che subito dopo l’importante tornata elettorale che in questi mesi ha riguardato molti comuni del Valdarno, si riesca a riprendere concretamente in mano questo tema. Ce lo chiedono i nostri concittadini, lo richiede la nostra economia e dobbiamo volgere lo sguardo non solo verso il domani, ma verso il futuro per iniziare a progettare una nuova città. Da parte mia e della mia Giunta offro la massima disponibilità a rimettere in moto tutto il movimento per garantire ai nostri concittadini una maggiore uguaglianza e una garanzia di servizi di qualità e continuativi nel tempo e a permettere al Valdarno di essere un valore effettivo dal punto di vista politico, economico e sociale.
AREE DI CONFINE, PERIFERIA O NUOVO CENTRO URBANO’? di Mauro Amerighi Sindaco di Terranuova Bracciolini, giugno 2004 - maggio 2014 Per progettare davvero il Valdarno come città diffusa e policentrica, per modellare e riqualificare verso uno sviluppo armonico e sostenibile del nostro territorio, prima di tutto dobbiamo condividere l’idea ed il significato di cosa significa aree di confine: “Periferia o nuovo centro urbano”. Ad oggi i confini territoriali ed amministrativi si sono determinati come limite, separazione, differenza, divisione e dunque “potere esclusivo sul proprio territorio” rispetto ai confinanti: potere esclusivo e non inclusivo. I territori confinanti sono percepiti come “competitors” nelle risorse e nelle opportunità, nelle alleanze politiche ed in rivalità antiche, economiche ed identitarie. La città diffusa policentrica si nutre di confini aperti, che sono reti, connessioni, integrazioni, differenze funzionali, sinergie culturali ed economiche, amministrative ed istituzionali, politiche. Confini che non si cancellano, che non perdono le loro specificità, ma che vengono vissuti come trame di rapporti che nelle diverse e complesse diversità identitarie territoriali formano l’abito sociale, economico , politico ed istituzionale del nostro Valdarno come unico centro urbano “CITTA’ DIFFUSA POLIUCENTRICA”. I centri urbani, le periferie, le campagne sono stati vissuti culturalmente in una scala gerarchica che ha prodotto squilibri e diseguaglianze del territorio con danni enormi alla qualità del nostro vivere individuale e collettivo. Superiamo l’idea ed il concetto stesso di periferia, spesso identificata come area marginale o peggio degradata, spesso
contrapposta AL CENTRO STIROCO E URBANO dotato di servizi ed infrastrutture. Il Valdarno come “Città diffusa e policentrica” è territorio pianificato nella sua complessità e governato in un assetto istituzionale unitario. Dove i centri urbani, maggiori e minori, ed i paesaggi agrari, territori agricoli, intersecano le diverse funzioni economiche , sociali, istituzionali nel rispetto e valorizzazione delle vocazioni particolari dei territori e nella conservazione dei patrimoni , materiali ed immateriali, accumulati e sedimentati nella nostra storia più che millenaria. Un idea del Valdarno che in questo contesto di integrazione territoriale sviluppa una nuova e più complessa economia che ha come punti cardine: 1)L’adeguamento e lo sviluppo delle infrastrutture di servizi collettivi, la viabilità e la mobilità urbana ed extra urbana integrata nel sistema regionale e nazionale. Lo sviluppo delle reti connettive non solo digitali e multimediali, ma anche reti istituzionali che abbiano come centro e assoluta priorità le reti scolastiche da zero a18 anni dove si educano bambini ed adolescenti non solo a “pensare” ma anche a “fare”. Dove insieme al cittadino si forma l’artigiano nel significato più aperto e nobile dell’etimo. 2)La valorizzazione della cultura dei luoghi, dei territori, delle piccole comunità, della memoria collettiva, delle forme del paesaggio, della loro conservazione come fonte inesauribile di creatività, artigianalità del fare, della memoria, del gusto, della bellezza. 3)Promuovere la nostra presenza nel mondo, diversi e uniti, consapevoli dei propri valori indentitari, prima uomini nati in Italia, in Toscana, nel Valdarno e poi prodotti e manufatti , opere e idee pensate e sviluppate “Fatte” in Valdarno, in Toscana, in Italia. 4)Un unico governo del territorio. Il Valdarno come ente intermedio e/o come Comune Unico, che contiene in se le municipalità come centri amministrativi storicamente identitari con gli attuali Sindaci, con bilanci autonomi per servizi alla persona, di prossimità per gli sportelli al cittadino, dove al meglio si esercita la partecipazione istituzio-
nale e la sussidiarietà nella gestione dei servizi alla persona, affidati alle associazioni locali integrate nel territorio di riferimento. I cittadini sono pronti e consapevoli della necessità di questo profondo ed ineludibile cambiamento. Sono i nostri Sindaci, presidenti e Governatori i Consiglieri, Regionali, provinciali, comunali che devono prendere la responsabilità di un percorso oramai non rinviabile per l’economicità, efficienza ed efficacia delle nostre istituzioni e per un futuro di sviluppo, dovuto alle nuove generazioni. Tutti noi abbiamo consapevolezza che il futuro è ora, ed è nelle nostre decisioni, può contare sulle nostre capacità del fare e del progettare con l’orgoglio dei nostri padri e l’umiltà di progredire con prudenza, temperanza e lungimiranza.
di Maurizio Viligiardi Sindaco di San Giovanni Valdarno, giugno 2009 - in carica Il Campanile, un sostantivo che in buona parte del nostro paese serve ad indicare un elemento architettonico di Chiese o palazzi storici, qui da noi ha anche un altro significato: indica un tratto distintivo della società Toscana, e il Valdarno non si discosta da questa “tradizione”. L’attaccamento ai valori della propria comunità è stato ed è tutt’oggi un valore positivo che ha fatto nascere rivalità storiche tra le cittadine del fondovalle e in una scalatura inferiore , ma non certo con minore intensità, tra le frazione dello stesso comune. Ciò ha prodotto quella sana competizione in ambiti più disparati, garantendo una generalizzata crescita del nostro territorio. In alcuni casi però, in campo amministrativo, questa condizione ha generato ritardi e mancanza di decisioni che hanno impedito di cogliere a pieno delle opportunità, o comunque, non producendo le decisioni migliori possibili. Soprattutto negli ultimi anni, però sono stati concordati interventi che hanno dimostrato la possibile sinergia tra i comuni della 102
vallata; primo fra tutti il nuovo ospedale Santa Maria alla Gruccia che ha dimostrato come sia possibile una programmazione comune dei servizi e il superamento della logica comunale a beneficio della logica di vallata. Anche perchè ormai, prevalemtemente nel fondovalle, esiste una città diffusa, non riconosciuta istituzionalmente, una città diffusa che non ha soluzione di continuità e che coinvolge i comuni di San Giovanni Valdarno, Montevarchi e Terranuova Bracciolini ed alcuni agglomerati urbani di comuni limitrofi, come Vacchereccia e Cetinale del comune di Cavriglia, oppure la parte della frazione di Levane, nel comune di Bucine. Questa situazione impone una logica di pianificazione congiunta da parte dei comuni coinvolti in questo pezzo della vallata. Non solo da un punto di vista della crescita urbana delle nostre cittadine, ma anche e forse soprattutto, da un punto di vista della programmazione infrastrutturale. Un passo avanti è stato fatto con il trasferimento in riva destra d’Arno della Strada Regionale 69; una scelta che libererà, una volta ultimata, i centri urbani in riva sinistra di buona parte del traffico dal quale sono attualmente interessate. Un lavoro che ha obbligato i comuni ad una pianificazione condivisa, anche se avvenuta con ritardo rispetto alle effettive necessità. Siamo però ancora ad una fase embrionale di pianificazione intercomunale o sovracomunale che anche le nuove norme regionali, cercano di promuovere ed incentivare, forse con strumenti ancora troppo deboli e timorosi. Per questo, bene ha fatto l’Ordine degli Architetti della Provincia di Arezzo a organizzare una giornata di studi sul tema della pianificazione congiunta relativamente, soprattutto, alle zone di confine. In tempi recenti abbiamo sottoscritto accordi che prevedono la nascita di un lavoro in questa direzione che è ancora rimasto un proposito scritto sulla carta, senza una realizzazione effettiva. Siamo all’assurdo che i comuni di San Giovanni Valdarno, Montevarchi e Terranuova Bracciolini hanno ciascuno prevista un’opera che riteniamo strategica per la viabilità valdarnese: un nuovo ponte sull’Arno. Peccato che
nessuno dei tre comuni lo ha prevsto nello stesso luogo, rendendo la sua costruzione irrealizzabile. La realizzazione delle infrastrutture non riguarda solo la mobilità dei cittadini valdarnesi, riguarda la crescita economica della nostra vallata. L’attrattività imprenditoriale di un luogo è determinata, nel caso del Valdarno, anche dai tempi di interconnessione tra le sedi aziendali e le infrastrutture nazionali come l’autostrada A1. Per questo la mancanza di una soluzione per il nodo del Ponte Mocarini può essere penalizzante per la nostra economia. Decongestionare il traffico delle nostre arterie di comunicazione del fondovalle è un obbiettivo che i sindaci hanno l’obbligo di perseguire, a prescindere da quale comune amministrino. Per questo la ricerca di un sistema di trasporto pubblico efficiente che risponde anche all’esigenza di offrire un mezzo di trasporto alle fasce deboli della popolazione, come quella anziana, dovrebbe essere una priorità dell’azione pubblica. Il sistema di trasporto pubblico locale è stato profondamente rivisto, attraverso una rivisitazione dei mezzi e del cadenzamento delle corse. Ritengo quella revisione non ancora sufficiente. La mancanza di risorse per gli investimenti ha impedito una revisione completa del sistema con l’adozione di parcheggi scambiatori fuori dai centri maggiori, ed una cadenzamento, oltre che una capillarità di fermate, che invogli i cittadini a lasciare il mezzo privato per utilizzare quello pubblico. Lo sforzo che dovremmo fare è quello di considerare il tema del trasporto pubblico non come il collegamento tra comuni diversi, ma come un sistema di trasporto all’interno di un unico contesto urbano. Dicevo prima che, sull’individuazione di scelte comuni, negli ultimi anni sono stati fatti passi in avanti. Oggi abbiamo l’esigenza di guardare ancora più in là. Non dobbiamo limitarci a decisioni sporadiche ed estemporanee ma costruire un sistema di progettazione e pianificazione del Valdarno, almeno nelle sue aree più nevralgiche, ovvero quelle di fondovalle, che definisca una visione comune e complessiva della crescita del nostro territorio; che metta insieme le esigenze particolari con quelle generali; che definisca le vocazioni e la collocazione delle infrastrutture e dei servizi. Ultima considerazione sulla distribuzione delle risorse. Non basta costruire un sistema teoricamente perfetto se non sciogliamo il nodo della perequazione delle risorse tra i comuni. La mancanza di un sistema che riconosca a tutti i benefici dello sviluppo di un territorio è giocoforza destinato a fallire. Su questo la politica, e non solo le amministrazioni, devono fare lo sforzo di trovare un accodo che permetta il raggiungimento degli obbiettivi. Anche perchè non possiamo dimenticarci che se non lo facciamo da soli attraverso un accordo, prima o poi ci sarà qualcuno che ci costringerà a farlo, dettandoci le regole. 103
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M. Gennari S. Tellini I. Burzi “Percorrendo l’autostrada del Sole, non molti chilometri dopo Firenze andando verso Roma, c’è un punto che immediatamente evoca Masaccio e, in particolare Il Tributo nella Cappella Brancacci al Carmine. Alla vostra sinistra incombe sulla valle dell’Arno il massiccio del Pratomagno. È una montagna vasta, imponente, dai profili tondeggianti, calva in parte e in parte coperta di boschi. si ha l’impressione che domini la Toscana come una divinità tutelare”.
Il paesaggio come ritratto dell’Italia antica. Antonio Paolucci Pag. 149 in “Il Paesaggio Italiano. Idee Contributi Immagini” AA.VV. Touring editore. Milano 2000.
Mobilità
Da molti anni Paolucci - come Cederna, Pratesi e parecchi altri intellettuali - si è adoperato a denunciare gli scempi che il Paesaggio Italiano ha dovuto subire a partire degli anni cinquanta del secolo passato. Territorio che “… è stato in parte devastato, in parte snaturato e offuscato. L’equilibrio mirabile fra arte e natura che faceva il nostro Paese unico e invidiato nel mondo non esiste più o, quando esiste, sopravvive con segmenti disarticolati”. I segmenti disarticolati citati sono oramai diventati una regola nella de-costruzione del paesaggio contemporaneo. Una sorta di contrario rispetto al buon disegno di città e territori cui eravamo abituati solo per il fatto di essere i fortunati abitatori dello stivale. Per fare un esempio scontato nel nostro Paese sono presenti quasi il cinque per cento, su un totale di novecentottantuno, dei siti considerati patrimonio dell’umanità. E il fatto che l’Unesco si senta in dovere di stilare una lista di luoghi da proteggere non deve essere oggetto di vanto ma semmai il contrario. Significa che non siamo stati in grado di tutelare; con le armi della manutenzione, della buona creanza e delle regole, che ai tempi del maestro Manzi2, andavano sotto il nome di educazione civica; il nostro patrimonio culturale che costituisce un pezzo importante del paesaggio. Quel paesaggio che Tommaso Cassai non riconoscerebbe pur avendo disegnato, ai suoi tempi, la grande montagna brulla che incombe sull’ansa del fiume bianco. E si troverebbe di sicuro spiazzato anche Geddes se volesse provare lo studio di questi territori per mezzo del suo cavallo di battaglia: La sezione di valle3 dalla cima del Pratomagno fin sull’alveo dell’Arno.
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Un paesaggio, nel bene e nel male, profondamente cambiato soprattutto dal secondo dopoguerra. Non è nostro compito, e neanche ci vogliamo prendere l’onere, d’individuare i perché e i per come delle trasformazioni di questi luoghi, che del resto sono state ben descritte durante il Convegno. E neanche vogliamo trattare l’argomento conclusivo con pensieri negativi o polemici. Auspichiamo piuttosto che queste brevi note siano permeate da argomenti tutti positivi. Di regola la conclusione allude a qualcosa che finisce mentre il suo contrario è principio. Principiare potrebbe essere la parola d’ordine di una fase nuova che sottendente a nuove regole di pianificazione unitaria, paritetica e condivisa tra le entità amministrative che sono state coinvolte durante la giornata di studi Aree di Confine e i cittadini. La mobilità collettiva potrebbe, per esempio essere per gli insediamenti di fondovalle, il tema comune da sviluppare nel prossimo futuro. Non ci sono dubbi che la capacità e soprattutto la facilità di muoversi all’interno di un territorio o di una città sarà il traguardo da raggiungere. Le municipalità più avvedute, in verità soprattutto del nord Europa, si son da tempo attrezzate con infrastrutture e sistemi di trasporto pubblico agili,
A fianco Tesi di Laurea di Architettura UniversitĂ di Firenze
Simone Tellini 2004
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leggeri e assolutamente, poco o niente, inquinanti. E dire che c’era una volta da queste parti un sistema con caratteristiche simili. Cent’anni fa fu inaugurata e messa a regime la Tranvia del Valdarno. Si trattava di “… una linea tranviaria elettrica extraurbana che, con 25 coppie di corse giornaliere, collegava tra loro le cittadine di Montevarchi, San Giovanni Valdarno, Terranuova Bracciolini e Levane.“4 Fortemente promosso da Luzzatto, proprietario delle Ferriera e uomo politico di aperte vedute, gestito dalla Società per la trazione elettrica del Valdarno superiore (STV) creata per l’occasione il servizio pubblico fu operativo fino al 1937 quando si trasformò in trasporto su ruota per mezzo di autobus. I quasi quattordici chilometri del percorso riuscivano a coprire tutti gli abitati più importanti distesi lungo l’Arno. Una diramazione varcava il fiume fino al paese di Poggio. La linea serviva i trentamila abitanti del comprensorio riuscendo a trasportarne più di un milione all’anno. E tutto questo quando la gente, a parte qualche rara bicicletta, si muoveva a piedi o tutt’al più fittando un calesse o una vettura di piazza. E senza emissione diretta di ciodue. L’immaginario collettivo ne fu comunque scosso tanto che, ancora negli anni settanta, le nonne raccontavano ai nipoti: “ … vieni qui Nini che ti racconto di quando si andava in treno alla stazione. Dal paese su in collina a piedi per sentieri e strade bianche fino al Bivio dove ogni mezz’ora passava il tram. E poi via in carrozza. Ci si sentiva quasi come i signori e, avendo la fortuna di trovare posto a sedere, si poteva anche riposare”.
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E allora lanciamo un’idea che è anche e soprattutto una provocazione. Lasciamo da parte tutti gli ismi: provincialismi, campanilismi, localismi e scegliamo un argomento condiviso. Per esempio una circolare tra i tre centri principali, con diramazioni dove richiesto, potrebbe intanto essere il tema di discussione e dibattito della politica locale. Una linea pubblica su ferro assolutamente non inquinante è la risposta alla richiesta degli utenti di mobilità intelligente. La creazione di una maglia di corsie privilegiate che rendano questo tipo di trasporto molto più efficiente e rapido rispetto allo spostamento in auto all'interno del Valdarno. Il tram è ormai considerato, in molte regioni della terra, come il mezzo di trasporto ideale. Il trasporto su rotaia è efficiente, ecologico, di costi infrastrutturali ridotti e, tutto considerato, di basso impatto ambientale rispetto al moltiplicarsi esponenziale del traffico giornaliero su gomma e al conseguente aumento dell’inquinamento atmosferico. Questo sistema di trasporto collettivo potrebbe smuovere con facilità qualcosa come dieci - quindici mila persone ogni giorno in modo assolutamente sicuro e compatibile con l’ambiente.
In poche ma sentite parole: una linea circolare tra i centri di valle, con parcheggi scambiatori per gli utenti che provengono dalle campagne, unita da una fitta rete di percorsi pedonali e ciclabili e Il gioco è fatto; … “l'importante è che cominci a correre”5.
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1 Il paesaggio come ritratto dell’Italia antica. Antonio Paolucci. Pag. 147 – 158. AA.VV. Il Paesaggio Italiano. Idee Contributi Immagini. Touring editore. Milano 2000
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2 Alberto Manzi, 1924–1997. Pedagogista e scrittore. Noto soprattutto come conduttore della trasmissione televisiva “Non è mai troppo tardi”, in onda fra il 1960 ed il 1968, concepita come strumento di ausilio nella lotta all'analfabetismo.
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3 Sir Patrick Geddes, 1854–1932. Biologo, e urbanista. La “Sezione di valle” serve a descrivere le complesse interazioni tra biogeografia, geomorfologia e sistemi antropici. Il modello dimostra che le occupazioni normali come la caccia, l'attività estrattiva, o la pesca sono supportate da geografie fisiche che rispettivamente determinano diversi modelli dell'insediamento umano. cfr. Patrick Geddes. Città in evoluzione. Il saggiatore. Milano, 1970.
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4 Adriano Betti Carboncini. Da San Giovanni Valdarno a Vallombrosa. Ferrovie locali tra industria e turismo nel Valdarno Superiore. Calosci editore. Cortona, 1993 Articolo: “Tranvia del Valdarno superiore”. Pag. 81-100.
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5 “Ogni mattina in Africa quando sorge il sole una gazzella si sveglia. Sa che dovrà correre più del leone o verrà uccisa. Ogni mattina in Africa quando sorge il sole un leone si sveglia e sa che dovrà correre più della gazzella o morirà di fame. Ogni mattina in Africa non importa che tu sia un leone o una gazzella, l'importante è che cominci a correre”. Antico proverbio africano. Cfr. Aldo, Giovanni e Giacomo. Film: Così è la vita. 1998.
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Massimo Gennari
Ascione Mio padre aveva una barca. La teneva ormeggiata proprio alla confluenza tra il borro dell’Ascione e l’Arno. Il luogo, da tempo immemore, è conosciuto dalla gente del posto come Bandella, toponimo mutuato da un vecchio podere abbandonato. Adesso i cartelli stradali lo indicano come Oasi Naturale ma al tempo dei fatti era solo il paradiso dei pescatori. Lo sbarramento che forma l’invaso superiore della diga di Levane si costruisce alla fine dei cinquanta. Da allora tremilioni di metri cubi d’acqua sono disponibili per la produzione d’energia e per gli amici del babbo. Ricordo che durante l’inverno precedente si trovavano a casa nostra per lunghe serate a discutere sopra certi progetti malamente disegnati su carta a quadretti che mi strappavano dal quaderno di scuola. E come in ogni paesetto di campagna che si rispetti ognuno aveva un sopra nome. C’era Gino che in realtà si chiamava Luigino, poi Fulvione per via del fisico e dell’altezza che gli faceva abbassare il capo nel varcare la porta di casa e infine Giolli per l’acume e la destrezza con le carte da gioco. Sulla falsariga della canzone del Modugno nazionale che raccontava di “Tre somari e Tre briganti” il trio discuteva lungamente su assi di legno e lamiere di acciaio. La discussione sui materiali derivava dalla conoscenza che ognuno di loro aveva di un determinato
“S iamo
nella V alle dell ’I n f erno , cos ì c h iamata perc h é , prima della
costruzione della diga di
L evane ,
i ripidi strapiombi rocciosi delle ripe
ricordavano un pauroso meandro dell ’I n f erno dantesco . A ll ’ inter no di tale zona vi è un ’ area umida periodica , costituita dalla f oce del
A scione , c h e q ui si getta in A rno . È l ’ area di B andella …” T erranuova B racciolini . S toria arte ambiente di una terra murata . E ditoriale T osca srl . F irenze , 1994 M arco P anerai . L’ area umida di B andella , pag . 180
torrente
Pagina precedente, Ponte di Bandella Veduta 2013
prodotto e soprattutto del mestiere che svolgevano. Comunque, com’è e come non è, una sera la discussione finisce presto. Uno dei tre se n’era venuto accompagnato dall’amico fabbro che evidentemente aveva convinto gli altri della bontà della sua proposta. In barba a chiglia strutturale, costole sagomate e fasciame imbullettato; di cui tra l’altro i proponenti sapevano poco o niente ma che avevano caldeggiato per il loro mestiere di carpentieri anche se da cemento armato; la confraternita si accordò. Il fabbro si presentò accompagnato da un disegnaccio appena abbozzato, da un preventivo per la manodopera e da una stima di massima del costo del materiale. Tubolari, lamiere e vernice antiruggine furono acquistato direttamente dal di lui fornitore di Pistoia. Al resto: tagli, piegature, sagomature e saldature, pensò l’artigiano, aiutato dai nostri eroi, lavorando le sere dei mesi successivi. E poi la barca fu pronta. Lunga metri tre e sessanta per uno e venti. In verità assai sgraziata e con il fondo piatto. Tanto che ricordo di aver beccato un cinque sulla nuca perché me n’ero uscito con: “ … oh babbo. È brutta forte. Da come l’è squadrata e informe mi pare la Prinz dello zio”. Tutta dipinta a spruzzo con una mano di minio al piombo e due di verde palude. Con i remi comprati da Mario, l’amico che d’estate comandava il patino di salvataggio del bagno Maria al Forte. Ricordo che al varo fui invitato anch’io. Erano gli ultimi giorni di maggio del settanta. Da lì a poco sarebbero iniziati i mondiali di calcio in Messico che assegnavano la coppa Rimet. Jannacci già spopolava con “Mexico e nuvole” e il sabato trenta del mese della Madonna il natante si bagnò. Il furgone WW verde pisello del babbo servì al trasporto dall’officina fin sul bordo della diga. Un pianoro appena sopra il livello dell’acqua e appena sotto il ponte di Bandella. Quello costruito, nel millenovecentocinquantotto, con quattro basse arcate in cemento armato e pietrame murato ad opera incerta stuccata a filo. Proprio dov’era la capanna dell’omino delle merende. Quello che durante la settimana girava con l’Ape, modello D 175 cc. furgonato colore blu navy,
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paese per paese a vendere di tutto. Dalle scope agli stracci, dal detersivo alla pasta e finanche frutta e verdura. Il signor Gallai, com’era chiamato da tutti tanto che anche lui si era scordato il nome di battesimo, apriva la capanna, di legno e lamiera coperta con lastre di eternit, tutte le domeniche mattine verso le sette a.m. e preparava panini ai salumi fin verso le undici. Poi si metteva ai fornelli e si vestiva da chef per i pescatori che gradivano i maccheroni al ragù sulla lepre cacciata di frodo o la trippa alla fiorentina. Per la bella stagione poi accendeva la carbonella e metteva in funzione la griglia che lasciava, democraticamente, anche a disposizione dei cacciatori di pesci e delle loro prede. Quella mattina, avvertito da Gino, ci aspettava armato di una bottiglia di President Reserve Riccadonna Brut 11,5° cl. 75 pronto alla bagnatura. Alle sei di fine maggio il sole è già fatto capolino dalle colline del Pian di Chena e comincia a scaldare. I grandi scendono la scialuppa
dal camioncino e la trascinano fin sul margine dell’invaso. Il ragazzo, che sono io, sta in disparte a guardare. Loro improvvisano uno scivolo con tavoloni di legno presi dal cantiere del babbo. E via. E spingi. E vai. E insisti. E spingi ancora. Ma il metallo fa corpo con le tavole. La vernice, ancora fresca per via che l’ultima mano era stata passata la sera prima, fa presa con il legno e la barca si muove solo di pochi centimetri. Poi qualcuno ha la brillante idea di usare il barattolo, e il suo contenuto liquido, che sta sul cassone del veicolo. È olio lubrificante per il motore della gru. È un barattolo da cinque litri e lo usano tutto. È denso e scivola lentamente sopra alle tavole. Ma scorre. E pian piano smuove la pesante chiatta. Che infine, dopo l’ultimo “… oooh issa” cui partecipo anch’io, acquista improvvisamente velocità e finisce, finalmente, in acqua. Ma l’imbarcazione è pesante. Molto pesante. Qualcosa come due quintali e trecento chili di metallo desiderosi di fare il bagno. E lo fanno con tale rapidità che ci colgono alla sprovvista. Gli operatori addetti all’anti ribaltamento laterale, due pescatori di passaggio ingaggiati alla bisogna, non sono abbastanza pronti con i bastoni a forcella. E comunque sia l’oggetto s’infila, si ribalta e s’inabissa in un lampo lampante. Non ci provo neanche a descrivere nel dettaglio gli accadimenti successivi. Anche se son ben impressi in memoria son troppo dolorosi. La contrizione dei due aiutanti assoldati per un panino al prosciutto e pecorino. Le facce dei nostri tre pescatori. Le loro espressioni dallo stupore, all’incredulità fino all’arrabbiatura totale del tutti contro tutti. Il rumore del tappo della bottiglia di spumante e la risata a crepapelle del Gallai. Le lacrime del vostro raccontatore. Nelle ore successive, aiutati da buoni samaritani di passaggio e da imprecazioni che mi rifiuto di riportare anche sotto tortura, riuscimmo a tirare in secco il natante. Il peschereccio fu poi portato, di nascosto da tutto il paese e anche dalle famiglie, in officina per i necessari lavori di restauro e soprattutto per la modifica al fondo che fu diretta dal bagnino Mario. Le sere seguenti i compagni s’inventarono le scuse più assurde per recarsi alla bottega del lavoratore del ferro. E finalmente, dopo alcune settimane tutto fu pronto. Il secondo varo fu un successo. All’evento non fu fatta nessuna pubblicità per timore che gli amici del bar li potessero pigliare in giro per gli anni a venire. Non fu avvertito neanche ‘i Gallai che si era preparato una bottiglia di moscato scadente del fantastico valore di seicento lire e che, secondo i padroni della barca, portava sfortuna. Solo io ebbi l’onore. Unico spettatore perché: “… Va bene Nini. Ti ci porto. Ma tu mi prometti di stare lontano dalla barca ché se fa il verso dell’altra volta si finisce tutti in acqua”. Il giorno scelto fu il pomeriggio di mercoledì diciassette giugno, alcune ore prima della semifinale Italia – Germania. Tutta l’Italia si era fermata e anche i nostri marinai si erano presi il pomeriggio di riposo dal lavoro. Tutti sappiamo come finì la partita. Io e pochi altri sappiamo del secondo varo.
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978-88-942564-1-3
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