Concorso nazi onal e discri ttura
I°EDIZIONE 2019
Concorso nazionale di scrittura | I° edizione, 2019 | Quaderno 1 1
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Il volume raccoglie le prime dieci opere, selezionate alla 1° edizione del Concorso nazionale di scrittura “Architettura di Parole�, che faranno parte della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano 3
in copertina Logo: “21+5” Massimo Gennari Architettura di parole Concorso nazionale di scrittura I° edizione, 2019 Quaderno 1 Ordine degli Architetti Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Arezzo via V. Veneto, 5 52100, Arezzo Immagini fotografiche Sandro Antichi Impaginazione e Grafica Massimo Gennari Tutti i diritti sono riservati Stampa c/o OAPPC AR Italia - Febbraio 2020 4
Sommario
6 Prefazione 10 16 24 30 34 42 48 54 58 64
1° Urban Biology 2° L’arte di far vivere gli uomini Il ricordo è la chiave 3° Cappells Sistina. Proiettile Circa il paradosso di un’Arte figurativa e astratta Fantasmi I colori di Milano Pietra: vertigine e simbiosi Sedici fiorini d’oro Simbiosi
70 Giuria | Gruppo di lettura 71 Premiazione | 19 09 19
Antonella Giorgeschi Gioa Giusti Chiara Piacentini Simona Gassi Raffaella Laezza Alessandro Ambrosini Caterina Romano Ilaria Petrussa Aurora Botto Lucia Agati Daniele Longobardi
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Prefazione Nell’ Aprile scorso, l’Ordine degli Architetti Paesaggisti Pianificatori e Conservatori della Provincia di Arezzo ha indetto il 1° Concorso Nazionale di Scrittura “Architettura di Parole”. UN CONCORSO DI SCRITTURA Il nostro Consiglio ha sempre ritenuto che attraverso l’Architettura si manifesti l’identità della società e che l’Architetto è innanzi tutto l’espressione di una cultura umanistica e non solo di competenze tecnico scientifiche. Cultura umanistica che ci consente di capire e interpretare le modificazioni, che sempre più velocemente avvengono in tutti i settori, dal sociale al politico all’economico. Il lavoro dell’ architetto rappresenta la sintesi tra il Reale e l’Ideale, la nostra professione è pensiero e azione (che si traduce nel progetto). La scrittura poteva quindi essere il mezzo per costruire un interesse nei confronti dell’ Architettura, portando anche i non addetti ai lavori a guardarla e analizzarla, a raccontarla attraverso le loro percezioni, sensazioni e sentimenti, anche con senso critico, scevro però da qualsiasi preconcetto accademico o tecnicistico. Su proposta della Commissione Cultura dell’Ordine, nasce così il Concorso 6
“Architettura di Parole”, rivolto a tutti coloro che amano l’architettura e attraverso la scrittura desiderano parlarne, individuandolo come strumento idoneo alla divulgazione dell’architettura stessa e del ruolo dell’architetto. I PATROCINI Questa insolita sfida che abbiamo intrapreso è stata raccolta e sostenuta, attraverso il loro Patrocinio, dalla Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, una delle più prestigiose e autorevoli istituzioni in campo letterario e culturale, nazionale ed internazionale, e dal Consiglio Nazionale Architetti PPC che per la prima volta si trovava davanti la proposta di un concorso di scrittura, nei confronti della quale il nostro Consiglio Nazionale, ha mostrato una grande apertura. L’Archivio Diaristico, nella persona della Dott.ssa Cangi, ha dato un fondamentale contributo al nostro progetto, fornendoci gli strumenti per analizzare e valutare le opere, accompagnandoci in questo percorso. E’ stato quindi istituito il Gruppo di Lettura, formato da alcuni colleghi della Commissione Cultura, a cui è toccato il compito più arduo: quello di scegliere, tra le 66 opere pervenute, le 10 da sottoporre alla Giuria.
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LA GIURIA La Giuria, composta da: Prof.ssa Natalia Cangi -Direttrice Organizzativa Fondazione Archivio Diaristico Nazionale; Arch. Fabrizio Franco Vittorio Arrigoni - Associato di Composizione Architettonica e Urbana del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze; Dott. Carlo Bartoli. Presidente Ordine dei Giornalisti della Toscana; Gianni Brunacci - Scrittore, giornalista e fotografo; Arch. Antonella Giorgeschi, Presidente dell’Ordine APPC di Arezzo; ha quindi individuato con unanimità di giudizio le tre opere finaliste a cui sono andati i tre premi messi in palio. LE OPERE VINCITRICI Primo premio “Urban Biology” – di Gioia Giusti – Motivazione della Giuria: “ Per la qualità della scrittura, per l’argomento trattato, per la particolare sensibilità dimostrata dalla giovane autrice: il racconto è uno sguardo sulla città capace di mettere in relazione corpo umano e organismo urbano, anima e costruito, animato e inanimato”. Secondo premio “L’arte di far vivere gli uomini” – di Chiara Piacentini – Motivazionie della Giuria: “ Per la capacità di coniugare memoria ed insediamento, elaborando un messaggio rivolto anche alla contemporaneità. Una 8
testimonianza che ribadisce il legame tra architettura e comunità”. Terzo premio “Il ricordo è la chiave”- di Simona Gassi- Motivazione della Giuria: “ Per la capacità di comunicare esperienza e suggestioni nel confronto con l’opera architettonica in un luogo gravato di attese. Una lettura che transita da un orizzonte strettamente morfologico ad una interpretazione più originaria e consapevole”. Il premio più importante però è quello immateriale: la conservazione all’Archivio Diaristico di tutti e dieci i racconti finalisti, raccolti in questa pubblicazione che chiude un’esperienza unica. Visto il notevole interesse suscitato a livello nazionale e di partecipazione, questo Consiglio dell’Ordine ha deciso di proseguire nel percorso intrapreso, sempre con il sostegno dell’Archivio Diaristico e del Consiglio Nazionale Architetti PPC, facendo diventare “Architettura di Parole” un Concorso annuale. A breve l’uscita del bando per “Architettura di Parole” 2020. Un particolare ringraziamento va al nostro Gruppo di Lettura, gli architetti: Manuela Balsimelli, Luca Brandini, Lorenza Carlini, Chiara Carlomagno, Giuliano Del Teglia, Massimo Gennari, Federica Imperio, Riccardo Imperio. Antonella Giorgeschi Presidente Ordine degli Architetti PPC di Arezzo 9
Urban Biology di Gioa Giusti
Opera 1° classificata 10
Scendo dal treno. L’assopimento di un fiume di pendolari si riversa nei sottopassi. L’aria umida mi sciacqua il viso e un raggio di sole me lo asciuga, così comincia la mia giornata. È una giornata come tante altre a Pisa, la città in cui studio, ma oggi decido di guardarla con occhi diversi e concentro la mia attenzione su particolari mai notati, li collego. Mi rendo conto di come il mondo sia fatto di connessioni e la mia mente rinchiusa negli schemi dell’abitudine si apre all’interdisciplinarità. Ogni frutto logico della mente umana può essere astratto e calato in un ambito diverso. Sono trascinata nel flusso caotico di turisti, studenti e lavoratori, tutti inconsapevoli di essere parte di quel circuito biologico che è la città. Decidono di prendere una strada anziché un’altra, di fermarsi in questo bar o passeggiare in quel parco, vivono la città e questa si modifica in base alle loro scelte, in base alla cura che hanno dei luoghi pubblici. «Quella strada è troppo trafficata, passiamo dal lungarno piuttosto.» Sento discutere una coppia e mi rendo conto che le nostre scelte dipendono strettamente dalla città almeno quanto essa risente del nostro comportamento civico. Si è più stimolati ad usare la bicicletta se c’è una buona rete di piste ciclabili, ad andare a piedi se ci sono zone pedonali e un ambiente pulito più piacevole da vivere sulla pelle che attraverso i vetri di un’auto11
mobile. Sono stati davvero loro a decidere di prendere quella strada o ha deciso la città per loro? Non ha importanza, perché anche loro stessi sono parte della città. Ognuno è come un neurone che si connette con gli altri, fa sinapsi, e ogni scelta, ogni parola, ogni struttura e infrastruttura diventa parte dello stesso circuito e ha il potere di modificarlo. Sfilo lungo la colonna vertebrale di portici del Viale Antonio Gramsci fino ad arrivare in Corso Italia, è una strada dove è impossibile non tenere gli occhi fissi sulle vetrine con le loro decorazioni appariscenti che sbandano dall’artistico al pacchiano. È un luogo di scambio, banalmente, ma anche di contaminazione culturale, il primo che i viaggiatori incontrano proseguendo dalla stazione verso il centro, l’ultimo che incontra chi se ne sta andando. Ipnotizzata dalle luci e dai colori arrivo al Ponte di Mezzo dove il chiasso trapassa in un’atmosfera tranquilla e in un contatto più diretto con la natura. Proseguendo lungo il fiume si arriva alle Piagge, una zona verde che non ho mai visitato perché il lusso dell’esplorazione non fa parte della routine di un pendolare. Spio chi ha deciso di godersi la giornata di sole all’aria aperta passeggiando lungo gli argini, in un posto tanto bello quanto sottovalutato. 12
Due amici scherzano: «Verrebbe da farsi il bagno, ma se mi tuffo in quest’acqua esco con tre braccia.» «Già, è una fogna a cielo aperto.» L’acqua è vita intorno a cui nascono i primi antichi centri abitati ed è purificazione. Tra gli emisferi cerebrali ci sono delle cisterne di liquido che viene filtrato continuamente perché è importante che mantenga la sua purezza, ci penseranno le vene a portare via gli scarti del metabolismo. Se il limpido è contaminato dal torbido si ha malattia e morte. Scavalcato il fiume mi immergo nel centro storico, si trovano qui i fulcri primordiali di organizzazione della vita cittadina. Gli edifici costruiti ad istinto nel corso dei secoli si abbracciano e desiderano colmare le distanze tra loro. Siamo nel sistema limbico, nell’amigdala, dove regnano gli impulsi ancestrali alla base della sopravvivenza. Su questa impalcatura si fonda la coscienza in circonvoluzioni di sostanza grigia, uffici amministrativi e palazzi del potere cittadino. Una ragazza distribuisce volantini che le persone afferrano distrattamente senza fermarsi mentre lei prova a spiegare: «Vogliamo aprire uno sportello comunale di ascolto diretto»
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Mi immagino le richieste dei singoli convogliate verso uno scopo comune, tantissimi input diversi che ottengono un solo risultato, una rete di neuroni attivatori o inibitori che genera un solo movimento, il più preciso possibile. Proseguendo verso il mio polo universitario, Porta Nuova, noto che un edificio fatiscente e da qualche anno recuperato grazie ad una cooperativa ora è stato dato in gestione ad un’altra. Una memoria a breve termine di edifici ha permesso di ridare vita ad una struttura inutilizzata e di risparmiare suolo vergine. Al mutare delle esigenze dei cittadini cambia anche la città in modo impercettibile ma costante, vengono interrotti vecchi collegamenti neuronali e se ne stabiliscono di nuovi. Una volta mi raccontarono la storia di un uomo che era andato dal medico per un po’ di debolezza alle gambe e aveva scoperto di non avere il cervello. Della sua materia grigia era rimasto solo un sottile strato di corteccia, ma la degenerazione era stata così graduale che non aveva avuto ripercussioni, i collegamenti che andavano perduti cambiavano semplicemente percorso. Anche nel sonno vengono potati dei contatti per lasciare spazio alle nuove esperienze, la città dovrebbe avere la stessa capacità di rinnovarsi. Vedo i mattoni rossi in lontananza, un puzzle di aule sorto al limite con la 14
periferia, non ho mai pensato di avventurarmi oltre, forse anche a causa dei pregiudizi che la periferia si trascina dietro, eppure nell’uomo è ciò che mette in comunicazione con l’esterno: gli organi di senso, la pelle sono periferia. Il modo per recuperarla è dandole fiducia, investire sui trasporti e sull’integrazione, affidarle mansioni specifiche fino a renderla importante e fondamentale. Senza diversità non ci sarebbe crescita e arricchimento culturale. Non sono un architetto né un ingegnere, ma vivo la città alla stregua di come vivo il mio corpo e una sua sofferenza si ripercuote su di me e su tutti i cittadini. Questa città, non perfetta ma capace utilizzare al meglio le proprie risorse, esiste già dentro di noi, siamo noi stessi perfezionati da milioni di anni di evoluzione, dobbiamo solo tradurla dal particolare all’universale e avere l’umiltà intellettuale di imparare dal più grande architetto che esista.
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L’arte di far vivere gli uomini di Chiara Piacentini
Opera 2° classificata 16
Ho avuto una infanzia felice, faticosa, sfrenata, con un sacco di fratelli, sorelle e amici, in un quartiere oggi pubblicato sui libri di Storia dell’architettura. Si stava bene al Villaggio Nebbiara, diciotto famiglie più o meno numerose (cinquantun bimbi) in 12.000 mq di verde, un luogo “a misura di bambino”, si direbbe oggi. “In una landa desolata!”, diceva invece mia nonna, che mal sopportava quell’estrema periferia di Reggio Emilia che suo figlio Osvaldo Piacentini, aveva non solo progettato ed urbanizzato, ma anche considerevolmente popolato. Mio padre infatti, insieme ad alcuni amici aveva fondato già dal 1947 uno studio Cooperativo che nel 1957 diventa Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia e aveva scelto di operare la professione in forma consociata: ogni progetto di edilizia pubblica o privata era discusso lungamente, progettato e riprogettato insieme e, infine, firmato ‘Cooperativa’ senza nomi propri. Una forma di lavoro basata sul confronto e sulla solidarietà, prima che sui rapporti economici, “una struttura disciplinare che superava nei limiti temporali e dimensionali le possibilità del singolo individuo”1 Mio padre scriveva, appena dopo la guerra 2:” Quando abbiamo cominciato il nostro studio, il problema urbanistico-edilizio era per noi 17
questione esclusivamente tecnica. In seguito, con l’approfondirsi delle indagini, abbiamo constatato che l’urbanistica non è un problema a sé, ma uno dei tanti aspetti dell’unico vero problema che è la vita dell’uomo. Da allora ci siamo convinti che non è possibile affrontare frammentariamente la soluzione di un problema particolare, se simultaneamente non si cerca anche la soluzione di tutti gli altri”. Qualche anno dopo, alla fine degli anni Cinquanta, insieme ad alcuni amici e diversi colleghi, tutti neosposi e neopadri, pensarono a una soluzione abitativa innovativa e anch’essa comunitaria: diciotto casette a schiera affacciate su una grande area comune, ispirate alle case operaie inglesi e scandinave, ma nobilitate dallo stile à la Le Corbusier. Presentato per il finanziamento INA CASA - che con la costruzione di alcuni milioni di abitazioni sarà volano della ripresa economica nell’Italia del dopoguerra - il progetto architettonico era decisamente innovativo, nuovo e diverso rispetto alle centinaia di palazzoni e palazzine del piano stesso, che tuttavia voleva “alleviare i bisogni più acuti di lavoro e di casa e dare al lavoratore una casa civile”, ma soprattutto “una abitazione studiata in modo che ciascuno possa sentirla sua e dove ciascuno si senta cittadino di una nuova comunità 3”. 18
Nel 1960 i neosposi e neopadri si trasferirono in quella landa desolata (a 3 km. dal centro storico, in mezzo a campi arati e case coloniche) con le loro giardinette piene di pargoli, suoceri e valigie. Il primo regolamento del Villaggio vietava l’allevamento di galline nei cortili privati e gli schiamazzi dall’una alle quattro del pomeriggio. Il quartiere, noto come Villaggio Architetti, in realtà si chiamava “Cooperativa 18 giugno”, per celebrare la data in cui ai capifamiglia fu recapitata la felice novella della elargizione del finanziamento pubblico e la conseguente possibilità di abitare la loro prima casa, 6 vani per 120 metri quadrati, a piani sfalsati (i tre gradini in legno che separano la zona pranzo dalla zona soggiorno sono stati la palestra di tutti i bambinetti) e dove la zona notte, al piano superiore, comunica con il piano sottostante tramite una grande balconata. “Una follia” diceva la nonna, open space si direbbe oggi. All’esterno, un giardino privato sul retro ed una grande area verde comune davanti, strettamente pedonale, oltre ad aree al servizio di tutte le famiglie come la lavanderia, lo stenditoio, la zona per la raccolta rifiuti, il campetto da calcio e la ‘montagnola’ per slittare. I bambini liberi di vivere ‘il cortile’, giocare, scorrazzare litigare, riappacificarsi in autonomia. 19
Gli spazi interni erano “di misura”, ottimizzati al centimetro per poi ampliarsi nel cuore della casa, la zona pranzo-soggiorno, jardin d’hiver con vista sull’area comune con i figli che giocano da un lato e sul verde privato dall’altro. Le pareti esterne e interne in mattone faccia a vista, prodotti da una fornace della zona e sabbiati a mano. Le fughe grigie molto evidenti, stuccate una per una. ‘Bugie’ e rombi in vetrocemento sveltiscono le facciate, i tetti spioventi con tegole olandesi sono sovrastati da un fraseggio di camini. L’antenna della TV è unica, sui tetti dei locali comuni di servizio. Le panchine dell’area comune ombreggiate da boschetti di pioppi, essenze umili e autoctone che invitano al riposo ed alla relazione. I garage sono separati dalle case, per godere l’area pedonale – un’idea che oggi ritroviamo nella legge urbanistica del 2017 con i ‘quartieri senza auto’. Mio padre, prima soldato poi partigiano in Appennino, scriveva a mia madre Liliana l’11 luglio del 1960, a quattro mesi dal trasloco al Villaggio e quattro giorni dopo la “strage di Reggio Emilia”, quando la polizia, su ordine del governo Tambroni, aprì il fuoco contro la folla di una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone: “Tu credi che la ’18 giugno’ sia venuta così per la nostra preparazione architettonica o la nostra cul20
tura? Sono sempre più convinto che sia così per il desiderio di pace che anima tutti noi 4” . L’architettura è un modo di interpretare il mondo, dice Stefano Boeri. In questo caso è stata la comunità stessa, preesistente al progetto, che ha modellato sui propri desideri e forse utopie il disegno urbano architettonico. “Questa unità residenziale orizzontale sembra condensare, nel suo spazio raccolto e nella sua breve storia, ”, scrive Filippo De Pieri 5, “alcune questioni centrali di quello che è stato chiamato il modello emiliano di governo del territorio: l’obiettivo di costruire una città in cui le differenze sociali siano destinate progressivamente ad attenuarsi; la fiducia nel cooperativismo; il dialogo tra culture amministrative diverse; il decentramento come occasione per sperimentare nuove forme di uso della città contemporanea. Nebbiara rimanda a un’Italia che può apparire molto remota, ma al tempo stesso le esperienze di abitare condiviso compiute in questo luogo presentano dei tratti di sorprendente modernità.” Crescere al villaggio ha modellato forse il nostro divenire uomini e donne “sociali”, capaci di abitare le diversità; oggi questo luogo accompagna la vecchiaia con la stessa dolcezza nell’accogliere, contenere, sostenere il declino. I nostri figli hanno goduto dell’autonomia di diventare grandi in 21
in un luogo pieno di compagni e libertà, come è stato per noi e le nostre famiglie vivono accanto ad amici nuovi e antichi, misurandosi con la fatica e la bellezza della convivenza, alla ricerca di quell’armonia che dà forma e contenuto alla vita stessa. Reggio Emilia, 18 giugno 2019, sessant’anni dopo
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1 -La Ferrara S. (a c. di), “Osvaldo Piacentini. Senza stancarsi mai”, Diabasis, Reggio Emilia, ‘99. 2 - Piacentini O., Salvarani E., “Relazione per la VIII Triennale di Milano”, 1947 in La Ferrara S. (a cura di), cit. 3- Beretta Anguissola L. (a c. di), “I 14 anni del Piano INA CASA”, Staderini, Roma, ‘63 4- La Ferrara S. (a c. di), “Osvaldo Piacentini. Senza stancarsi mai”, cit. 5- De Pieri F., “An Emilian History. Reggio Emilia, a horizontal community”, intervento alla Biennale di Venezia 2014
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Il ricordo è la chiave di Simona Gassi
Opera 3° classificata 24
Avevamo tanto atteso la primavera, invece il brutto tempo aveva direttamente ceduto il passo ad un caldo troppo torrido per essere maggio. Camminavamo sorprendentemente in fila indiana, ordinati e svelti. Strisciavamo la spalla sinistra contro il muro di cinta, per godere della sottile fetta d’ombra che proiettava sul marciapiede. Era mezzogiorno e intorno a noi nessun particolare punto di riferimento: una strada deserta, un terreno incolto e una sopraelevata ad occupare l’orizzonte verso nord. La periferia modenese ci ha accolti così, una volta scesi in tutta fretta dal pullman. Avevamo visitato altre architetture nei due giorni precedenti di viaggio e ciascuno di noi aveva sempre avuto qualcosa da esclamare frettolosamente una volta giunti sul posto, un parere da condividere. Stavolta, nonostante vedessimo già gli edifici dell’ampliamento del cimitero svettare in lontananza, ci apprestavamo a raggiungerli in silenzio. “È un millepiedi!” pensai, ma mi apparve una definizione poco ortodossa per poterla condividere con un folto gruppo di architetti e aspiranti tali. “Ma sì, guarda quei pilastri, sono zampette! Sono snelli, sono fitti e sorreggono quel corpo tozzo ma allungato. È un millepiedi”. Continuai a rimuginare sull’aspetto zoomorfo di quel primo edificio, ma non ebbi il coraggio di proferire parola 25
a a riguardo. Giunti sotto quel lungo porticato, ci rendemmo conto di non poterlo percorrere perché chiuso da dei cancelli. Mi voltai verso sinistra a guardarlo, catturata da una profonda prospettiva: i pilastri si succedevano veloci e scandivano un percorso coperto, più alto che largo. Sorreggevano in alto un piano coperto da tetto a falde, che si estrudeva coprendo il percorso per tutta la sua lunghezza. “No, non è un millepiedi! È un edificio moderno. È severo, è rigoroso, è modernismo questo!” pensai, ritrattando l’affrettato responso che avevo formulato quando ancora ero distante. Dovevamo continuare a procedere dritto, lasciando quel percorso alla nostra sinistra e dirigendoci verso la porta aperta, più avanti. Intanto, nessun chiacchiericcio, così mi sforzai di non formulare ulteriori giudizi e superai quella che sembrava una porta di accesso secondaria. Eccoci qui, tutti finalmente in disordine come era nostra abitudine, sparpagliati nel vasto prato, rinunciando all’ombra e cercando di riconoscere lo spazio, di orientarci al suo interno. Dove eravamo? Era effettivamente un cortile di accesso? Era un retro? E tutt’intorno, cos’erano quegli edifici? Sentivo più spaesamento di prima e iniziai a voltarmi in tutte le direzioni, ma la cosa non sembrava migliorare.
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Cercai di posizionarmi al centro del vasto prato giallastro, già secco per l’arsura, punteggiato da qualche albero e per il resto vuoto. Lo spazio era recinto sulla mia sinistra da un edificio di tre piani, che proseguiva in profondità, rigirando verso destra e diventando il fondale della scena che stavo osservando. Era caratterizzato anch’esso da una forte geometria e ritmicità. Il modulo ripetuto era composto da: un’apertura alta e rettangolare accessibile a piano terra, un’apertura quadrata al primo piano, una seconda uguale all’ultimo piano e poi la falda azzurra. Ancora, dopo qualche metro: rettangolo, quadrato, quadrato, falda, ripetuto per tutta la lunghezza. Ero decisamente disorientata e voltarmi verso destra non migliorò le cose: un muro muto, più basso dell’edificio a sinistra, con due aperture disposte simmetricamente e raggiunte da percorsi che tagliavano il prato. “Sembra un paesaggio di De Chirico! È metafisica. Sì, ecco, si spiegherebbe anche perché continuo a sentirmi così disorientata!” Continuava a far caldo e fui distratta dal sudore sulla fronte. “Devo correre all’ombra” pensai, interrompendo l’osservazione del recinto. Presi a camminare svelta costeggiando l’alto edificio e raggiungendo il percorso che attraversava il prato. Varcai quindi l’apertura e conquistai finalmente l’ombra, trovando per un attimo sollievo e accorgendomi che quel muro era l’esterno di un portico. Da un lato c’era la parete continua in cui erano 27
alloggiati i loculi, dall’altro era aperto dalla stessa successione di pilastri dell’edificio che ci aveva accolto. “È una città! Questa sembra una piazza dell’Emilia, recinta in parte da un portico e poi aperta verso la campagna” mi dissi, ancora però indecisa e spaesata. Stavolta, invece di portarci al centro di quella grande piazza, continuammo a percorrerla lungo il suo perimetro d’ombra e mi resi conto solo allora che il consueto scambio di opinioni e suggestioni tra gli altri studenti era ripreso. Rigirando verso destra, ancora al riparo del portico, giungemmo ad un’altra grande apertura e l’attraversammo. Mi mancò inspiegabilmente il fiato. Fui sorpresa dal cubo color mattone, bucato per tutta la sua superficie con una sintassi chiara e indiscutibile: era il grande ossario comune, che più volte avevo visto in fotografia. Non esitai e corsi per raggiungerlo, guardandolo avvicinarsi e pensando “Semplice, complesso, essenziale, ricco, rigido, ammonitore, introverso anche se infinitamente forato”. Superai il varco al piano terra ed eccomi, ferma e attonita. Ero finalmente al centro di quel cubo: esteriormente sembrava ospitare un luogo buio e invece, tutte quelle aperture lasciavano passare fasci luminosi che lavavano la superficie dei loculi, impilati uno sull’altro. Un alveare di centinaia di cubi, ordinati e identici tra loro.
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“Aldo Rossi era un grande uomo di cultura, caratterizzato da certa severità” esclamò il mio professore. Un ragazzo al mio fianco esclamò deciso “Non mi piace, professore! Non vorrei essere seppellito in questo cimitero e non vorrei venire a trovarci i miei cari. Non credo sia un luogo che consola dalla tristezza della morte e non mi sembra ci si possa trovare pace.” Non mi unì al confronto, rimasi lì a godere di quella strana epifania. D’un tratto mi sembrava tutto più chiaro. “È un cimitero” pensai. “Ricorda una grande città, ma non lo è. Quelle falde richiamano l’archetipo della casa, ma non sono case queste, perché queste non sono persone, non più. È il ricordo la chiave, ora è chiaro. Il ricordo della vita che c’era e adesso non c’è.” Mi sentivo bene, forse per via della risposta intima che avevo trovato lì dentro. “Il ricordo. È bello pensare così alla fine della vita” mi dissi. “Ragazzi, il pullman passa a riprenderci tra dieci minuti!”. Tornai in me, faceva ancora molto caldo. Seguii gli altri verso l’uscita.
Modena, maggio 2019
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Cappella Sistina. Proiettile di Raffaella Laezza
Opera finalista 30
Incastonata nel palinsesto di tutti noi sporge per volume, dal tempio di Salomone da cui deriva: esplode il suo dettato. Sta nelle mie mani, questa mattina, perché clicco sul mio telefono: Cappella Sistina. Vedo troppa bidimensionalità e decido di prendere un treno e di andarci: subito. Immediatamente. Per raccontare questa architettura non vorrei parlare di numeri, sezioni, prospetti, ismi. Vorrei potermi muovere dentro al suo spazio e capire perchè gli esseri umani la amano. Ci arrivo in poco, è la prima ora del mio pomeriggio che avevo prefigurato da anni, sui libri di Kaufmann, le lezioni di Tafuri, i brividi di errori storiografici che non mi avevano detto che senza stare lì, dentro, non potevo capire il suo segreto. Semplice, tutto non è più un segreto adesso che sono qui, da un’ora. Cielo:corpi divelti. Terra:corpi viventi, io con la mia gente, della Terra in quest’epoca. Noi, che guardiamo e incrociamo, forti, i corpi del cielo. Siamo due folle in dialogo, è la prima volta per tutti noi. Prosegue il cielo nelle pareti e si dilata nel mio sguardo risolto. Io sono una folla in verticale, contenuta:dureremo qui insieme per poco, ora, noi siamo tutti uniti, sublimati da Michelangelo. Non sapevo che lui ci aveva chiesto di essere qui per spalancare, svelare ai suoi dipinti dove il 31
mondo andrà. Sono io, con questa gente e ci chiamiamo:”dove il mondo andrà”. La mia lacrima è azzurra, poiché i miei occhi diventano grigi, scolorati dalla commozione. Chi sei tu? Non chiudere la suoneria. Siamo tutti complici e protetti, per quest’ora, dai colori fosforescenti delle Sibille, dei Profeti. Il Giudizio snuvola in questo spazio poiché noi: respiriamo. L’aspirazione a trascendere i nostri errori ci abita: non c’è giudizio ma abbraccio universale. Perché questa architettura la stiamo costruendo ora, noi, qui con Michelangelo. Non c’è un tempo per noi, per Michelangelo; lui, mi svela questa possibilità. Io aspetto di rialzarmi. Dopo lo spavento, dopo la potenza di questo messaggio che è un proiettile. Ecco perché questa è architettura: vivifica con noi, umani, svolazza sui testi di critici e storici dove nascondeva il suo segreto. Stesa, ora, vedo il nigeriano, il giapponese, il cingalese, la serba, il russo, la svedese, il senegalese, l’australiana qui, insieme a me: quietati. Come dovrebbe essere ovunque. Non potrò più essere spenta se lascerò far proseguire questo momento. Noi, umanità, in questa architettura siamo stati bene, un’ora. Accanto. Non posso andarmene. Il proiettile ha colpito tutto di me.
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Circa il paradosso di un’Arte figurativa e astratta di Alessandro Ambrosini
Opera finalista 34
“L’Architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori di problemi di costruzione, al di là di essi. La Costruzione è per tenere su: l’Architettura è per commuovere” [1]. E con ciò la discussione sul fatto che l’Architettura sia un’Arte è chiusa. Perché è Le Corbusier che ce lo dice. E Le Corbu non si batte. Mai. E’ un assioma. Affiora, però, un dubbio: l’Architettura è un’Arte figurativa oppure astratta? Per convenzione si definisce figurativa l’arte che si esprime per immagini, fedeli alla realtà o distorte, ma comunque riconducibili a quanto ci circonda. Sotto tale ipotesi, l’Architettura risulta non solo un’Arte figurativa ma la più realista, talvolta la più spietata. Poiché non riproduce la realtà, bensì la produce; la declina nella materia bruta; la organizza nello spazio; ne definisce volumi, forme, linee di forza, vuoti e pieni. Avvera il mondo intorno a noi. Ed è ineludibile: sia essa Piazza San Marco a Venezia, sia essa la plumbea periferia di Bratislava. Insomma, per quanto si levi al cielo in un potente anelito al divino, il Colonnato del Bernini è nerboruta fisicità; non c’è manifestazione più 35
materiale dell’idea di colonnato. E così per ogni opera d’Architettura: la Rotonda del Palladio, in quanto reale, è puro saggio del sensibile e, per quanto luminoso, soltanto ricordo dell’idea di villa che si può contemplare, invece, nell’Iperuranio. Altra storia, ad esempio, è la Musica, come creazione e composizione di predeterminati effetti sonori. Il compositore, infatti, non ha modo di rappresentare la realtà con il suono. Per tale ragione la Musica è la prima Arte ad aver conosciuto la dimensione dell’astratto: da quando l’uomo di Neanderthal soffiò in un osso, elevandolo a primordiale buccina, sino a che Schönberg concepì la dodecafonia…o Syd Barrett iniziò a rosolare un uovo davanti al microfono. L’ascoltatore, anche il meno attrezzato culturalmente, affronta processi che prescindono dal reale. Béla Bartók, Musica per archi, percussioni e celesta: lo spaesamento che si prova al glissato di timpani nel terzo movimento, proviene da qualcosa di assolutamente etereo. Hector Berlioz, Symphonie Fantastique: la campana tubolare al quinto movimento rompe un’allucinazione di cui non si può conoscere genesi nel reale. La cesura tra figurativo ed astratto, dunque, appare netta. Eppure, ciascuno di noi potrebbe testimoniare vissuti di Architettura in cui tale di36
stinzione è vacillata. O persino venuta meno. Berlino. Un acquazzone aveva scacciato l’afa di fine agosto. Le giornate si accorciavano ed io, al tramonto, me ne tornavo solo da Potsdamer Platz verso la Porta di Brandeburgo. Fu allora che trovai il coraggio di affrontare Eisenman. Mi addentrai nel suo Denkmal für die ermordeten Juden Europas, la spianata delle 2711 stele a memoria della Shoah. Ma non saprei descrivere oltre, perché davvero questo è un caso di Architettura che non si racconta: si vive. Ecco, io tra quei monoliti -credetemi- non mi sentii semplicemente, io divenni la nota nella gola del baritono all’Introitus del Requiem di Ligeti. O, forse, io fui la vibrazione acquietata sulla membrana del rullante. O il brivido lungo la schiena. Anche di questo può essere capace l’Architettura. Manhattan. Una di quelle mattine in cui non c’è scampo dai venti gelidi dell’Atlantico. Ma era giusto inoltrarsi nel masterplan di Libeskind, affacciarsi alla Reflecting Absence di Arad e Walker per recare omaggio di pietà al National September 11. Già da lontano lo intuisci ciò che ti aspetta. Prima ancora di giungere. E vedere. Perché il pianto di quelle cascate è composto, dignitoso: però è corale, lugubre, tanto da non sentire più il vocìo delle strade. Due vuoti come due orbite cavate in un teschio. 37
Linee essenziali, dolore senza retorica. L’angoscia di un precipitare eterno, dell’abisso di cui non si vede il fondo. La voragine che si apre nel tuo cuore. E vi resta aperta, quando ti allontani. È questa voragine che mi porto dentro la cosa più concreta, più vera di quella Architettura. Helsinki. Finalmente primavera, uno di quei pomeriggi in cui le primule si concedono al sole. Come richiamato da una forza arcana, finii nella Temppeliaukion kirkko: apoteosi artistica dei fratelli Suomalainen di fine Anni ’60, opera più moderna persino della sua stessa epoca. Non saprei dire come andò di preciso: so che mi sorpresi, commosso, a pregare. E con la più profonda devozione: proprio io che non sono sicuramente il paradigma del perfetto “praticante”. Certo che lì la realtà ti mette di fronte ad una chiesa: è scritto su tanto di cartelli. Ma è anche chiaro che a prevalere, nel complesso della vicenda, sia qualcosa di astratto. Un edificio di culto? Già. Ma tanto per cominciare tu, uomo, senza nemmeno accorgerti, ti ritrovi sul fondo del grande pozzo, scavato nel buio e nel pietrame: poi un albore, da lassù, sa scendere proprio su di te ed illuminare anche il tuo cammino. Le pareti? Io sulla roccia scabra e brulla ho visto la drammatica rappresentazione dell’eterna lotta tra l’oscurità e la luce, gli instabili riverberi e gli impenetrabili coni d’ombra. Le travi curve in cemento armato, a sostenere la copertura? Diaframmi, contingenze…solo cose della Terra 38
che rendono la nostra visione delle cose del Cielo parziale e frammentata. La cupola rivestita di rame? Perfezione del disegno geometrico, elemento fortemente simbolico, conchiglia alla fonte della vita, misterica presenza sospesa sopra noi. Forse, allora, l’Architettura potrebbe essere un’Arte che nemmeno si cura di sottoporsi ad una divisione manichea tra figurativo ed astratto, né si presta ad altre comode tassonomie culturali. Anche per questo motivo, magari, esercita con tanto vigore il suo potere su di noi, appartenenti alla comunità umana: perché sa colpire dritta al cuore, prima di ogni elaborazione intellettuale. Nel continuo assestarsi della sua identità. In questo senso, il nostro potrebbe essere un tempo molto interessante. Sorgono di continuo nuovi metodi e strumenti di progettazione, materiali e tecniche costruttive: da un lato, si estendono le libertà del gesto creativo; dall’altro, cresce sempre più l’ampiezza dell’onda che oscilla attorno alla corda dell’Architettura…e gli antinodi si portano a distanze dai nodi mai conosciute prima d’ora. Tutto ciò rende la questione posta ancora più aperta. Siano benvenuti, allora, il confronto e il dibattito. Il continuo studio, 39
l’assidua ricerca. Ma soprattutto la sperimentazione sul campo, libera da pregiudizi, ardita. Purché -nell’ebbrezza che segue la conquista di nuove libertà- non si perda mai di vista l’uomo. All’Architetto non è permesso abdicare ai suo uffici di Principe degli Umanisti. In fin dei conti, ha ragione il vecchio Richard Rogers: “Non si può pensare un’architettura senza pensare alla gente”.
_____________________ [1] Le Corbusier, Verso una Architettura, Longanesi & C. – Milano, 1973: p. 9
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Fantasmi di Caterina Romano
Opera finalista 42
Una via solitaria, stretta fra edifici secolari. Due gradini di pietra. Un portone in legno, dipinto di un verde sbiadito dal tempo. L’aria gelida, pungente di una giornata di metà inverno. L’atmosfera immobile. Avevo paura di varcare quella soglia. Rimasi ferma qualche minuto, poi mi girai e mi allontanai. Percorsi quasi correndo la ripida salita che portava alla piazza del paese. Era deserta. Mi sedetti su una vecchia panchina di ferro arrugginita e mi guardai intorno. Il paese era malinconico, almeno quanto il mio cuore. Quasi tutte le case avevano le imposte chiuse. Sulle persiane scolorite le ragnatele avevano catturato le gocce di rugiada della notte appena trascorsa, che brillavano al sole come piccoli diamanti. Le porte avevano ormai perso la loro lotta contro la pioggia e il vento, lasciandosi portar via gli strati di vernice sfaldati come pelle morta. La piccola chiesa medievale di San Giacomo, che di antico ormai non aveva più niente, era chiusa. Sembrava che non ci fosse anima viva in quella desolazione. Un paese fantasma, come i fantasmi che abitavano ancora dentro di me. Un gatto tutto grigio con una simpatica zampa nera si avvicinò con passo sicuro. Si fermò, piegò la testa di lato e mi osservò incuriosito. I suoi occhi verdi incrociarono i miei, neri e intensi come quelli di mia nonna. Un brivido mi percorse la schiena, non sapevo se per il freddo o per quella strana inquietudine che si era impadronita di me. Mi strinsi ancora una 43
volta nel lungo cappotto rosso e lasciai la panchina. Ridiscesi l’angusta stradina che conoscevo bene, immaginando di sentire ancora le voci allegre di noi bambini nelle lunghe giornate estive e quella della nonna che ci rimproverava per le nostre grida. Osservai quei muri scrostati e i tetti cascanti, dove sembrava che il tempo avesse rallentato la sua corsa fino a fermarsi. Il silenzio della via deserta mi spinse verso il portone verde, su quei gradini dove un tempo mi sedevo assaporando la fragranza che un sole generoso spargeva tra le vecchie case del paese. Mi fermai e respirai a fondo. Il fiato caldo creò nuvolette di vapore davanti al mio viso. Tante notti avevo sognato di tornare in quella casa, e ora la paura dei miei ricordi mi bloccava. Avrei voluto rivivere i bei momenti trascorsi in famiglia, ma anche nascondere, annullare la parte oscura di quelle memorie. Seguii con le dita i rami curvi di un rampicante che si era impadronito del muro accanto. Finalmente mi decisi, aprii la borsa e presi la chiave. Con mano tremante la infilai nella toppa. Uno scatto e la serratura cedette. Il portone di legno cigolò quando lo spinsi, rigonfio dal tempo e dall’umidità dell’inverno. Fui investita da un odore nauseabondo che mi fece perdere il respiro. Respingendo i conati di vomito, mi affrettai ad aprire tutte le finestre. L’aria fresca riuscì solo in parte a rendere l’ambiente respirabile. Mi guardai in44
torno. Nell’ampio salone buio e deserto regnavano il silenzio e l’abbandono. La realtà era molto lontana da quella che avevo vissuto nei miei sogni. Le tendine alle finestre erano ridotte in brandelli e sui pochi mobili rimasti si era accumulato uno spesso strato di polvere. L’intonaco sui muri, graffiato dal tempo, lasciava scorgere patine di colori sovrapposti che si stavano ricoprendo di un sottile strato di muffa, mentre sull’alto soffitto un grosso alone giallo denunciava una perdita d’acqua dal tetto cadente. Sul pavimento le mattonelle in graniglia, di una bellezza d’altri tempi, formavano ancora un delicato disegno a motivi floreali. Avvicinandomi al vecchio focolare spento, una lacrima mi bagnò le ciglia. Caddi in ginocchio. Ricordavo perfettamente ogni angolo di quel camino, il suo povero rivestimento di piastrelle gialle, il pesante candelabro di bronzo, l’odore della cenere. Mi rividi adolescente, seduta su quei grezzi mattoni corrosi dagli anni, sola, a piangere in silenzio mentre nell’altra stanza mio padre aveva smesso di respirare. Da quel momento niente era più stato come prima. Mi girai, come richiamata dalla voce del tempo. Sulla parete di fronte, in una nicchia, c’era ancora il pesantissimo lavello di marmo con la tendina a fiori gialli e rosa, ormai scolorita e polverosa, dietro la quale mi nascondevo quando mia nonna mi cercava. Mi venne voglia di celarmi ancora una volta in quel rifugio sicuro, per non uscirne mai più. 45
Mi concessi un lungo istante di pausa prima di dirigermi verso la camera, una stanza molto grande con due ampie finestre, le travi del soffitto in vista e un polveroso pavimento in cotto. C’era rimasto solamente il lettino in cui avevo dormito tante volte, appoggiato al vecchio muro da cui la sera lo scostavo temendo che un ragno potesse entrarmi sotto le lenzuola. Lo ricordavo scomodo, con la rete cigolante e il materasso di lana troppo morbido, eppure lo adoravo. Non dimenticherò mai l’odore di quelle lenzuola ruvide lavate a mano, né la bellissima bambola col viso di porcellana che la nonna ogni mattina, dopo aver rifatto il mio letto e sistemato il copriletto cucito su misura, riponeva sul cuscino, rassettandole i capelli e il vestito di pizzo. Rividi, con gli occhi della memoria, il grande letto antico, l’armadio con gli intarsi di madreperla, il cassettone fatto a mano dal nonno. Su quel letto avevo visto per l’ultima volta mio padre con gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto. Sembrava che dormisse, col suo vestito buono e le scarpe nuove di pelle, tuttavia avevo sentito che qualcosa stonava in quell’ambiente. Il dolore si rinnovò ancora una volta, più forte di quanto avessi immaginato. Sapevo che tornare in quella casa, che aveva rubato la mia giovinezza, sarebbe stato come riaprire nuovamente la vecchia ferita, ma dovevo farlo. Può un edificio mantenere la memoria di una vita? 46
Mi avevano detto che il tempo può far sbiadire i ricordi fino a cancellarli. Ma per me non era stato così. Il tempo è un elemento che non detta condizioni, non parla e non si muove. La realtà è che siamo noi a muoverci in esso, per giorni, mesi, anni, portandoci dentro quell’angoscia pronta a riemergere quando sembra che tutto sia finalmente superato. Avevo portato la macchina fotografica per fare delle foto e portare con me una traccia del mio passato. Non ne ho fatto nemmeno una. Mi sono accorta che quello che porto nel cuore appartiene solo a me, è qualcosa che si è costruito nel tempo e vive nei miei occhi di bambina. Ciò che è diventato oggi non può essere ciò che era per me un tempo. Preferisco che la mia vita si alimenti di ricordi e preferisco non fare i conti con la realtà. In quella casa, tra quelle mura posso sentire ancora la presenza viva delle persone che ho amato, e niente potrà mai portarmele via. Niente e nessuno.
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I colori di Milano di Ilaria Petrussa
Opera finalista 48
C’è chi dice che l’anima di una città sia simile ad una donna, mobile di definizione. Invece Milano è la città di Giovanni il telegrafista, pietosa, ironica, poetica, spietata senza i dané. Una musica pulsante ed un po’ struggente. Dalla terrazza del penultimo piano della torre Velasca la città sembra a portata di mano quasi si potesse allungare il braccio oltre la protezione in vetro e spostare il Duomo o il cortile del Filarete a piacere sulla scacchiera. Un volto aereo e domestico al contempo. Qui tra i merli di questa torre che ha il privilegio di svettare sulla città monumentale, le parole si levano in aria come bollicine di un fumetto-pensiero, galleggianti in questa fantastica vasca d’acquario, evaporando. Ci diciamo che abitare a Milano “così” si potrebbe tollerare. È una grande emozione poter finalmente accedere alla Torre. Il portinaio nell’atrio non ci lascia scattare fotografie. Mi rimane l’impressione di uno spazio d’ingresso a doppia altezza, contraddistinta da un intreccio di losanghe metalliche che sostengono opalini diffusori luminosi. Gli angoli sbiechi, divaricati spazi definiti da pareti ed arredi non mentono sull’età design di quegli anni. Succede spesso con piastrelle color del caramello, tinelli marroni, plastica di tende di doccia con disegni in rilievo color caffè.
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Il portinaio si finge sorpreso quando gli chiediamo dell’esposizione in corso. Occorre perciò mostrargli l’invito e finalmente ci scorta all’ascensore, contando il numero di persone che formano il gruppetto, forse ci vede snelli perché siamo in lieve sovrannumero e ci permette di salire. Ci fa sorridere la richiesta di non riferire a nessuno dove siamo diretti. Un clima misterioso pare costruito ad arte. Varchiamo finalmente la soglia dell’appartamento duplex che ospita l’allestimento della mostra dedicata alle fotografie di un artista emiliano, la circostanza che ci permette di essere qui. Una pesante tenda oscurante sostituisce la porta, come all’ingresso di una sala di teatro. I vetri delle finestre sono ricoperti da pellicole rosa la cui lieve opacità offusca il panorama. Il panorama della città si offre come Vue en rose, visione incantata, come ricoperta da un velo. Come quando c’è la neve e tutto appare pacifico, perfetto, avvolto in un candore incontaminato. Lo sfondo sfocato delle finestre accende i riflettori sull’esposizione. Lo schermo impostato per la protezione degli occhi dello smartphone fa apparire le stanze verdi. Nulla appare per com’è davvero in uno strano gioco delle parti tra le fotografie appese alle pareti e l’interno della casa, spogliata delle sue consuete suppellettili. 50
Le fotografie minimaliste esposte raccontano a loro volta di spazi astratti, cantieri avvolti da una luce sovraesposta e metafisica dove intonaci e pitture sbiancate sfarinano accanto a scatole elettriche blu come fossero smalti incastonati alle pareti. Anche la musica di sottofondo galleggia tra le stanze, perfetta ambientazione per il Fuorisalone milanese. La mostra infatti durerà il tempo della Fiera ed è solo una delle moltissime evidenze di quello che il Salone del Mobile significa per Milano. Uno scambio di creatività che coinvolge architetti, designer ed appassionati da tutto il mondo. La gente si muove dentro e fuori sulla terrazza, con passo cauto, silenziosamente, assecondando l’atmosfera rarefatta. Il pavimento ed il risvolto a parete verde acqua si affiancano a piastrelline in tinte abilmente mescolate come in un mosaico dai colori argillosi. Una panca gira tutto attorno sotto le vetrate dell’appartamento offrendo una confortevole seduta su un cuscino bordeaux, così come gli sgabellini sparpagliati a ridosso del panorama, funghetti tra i vasi d’ulivo e i ligustri. Proporre un allestimento in cima alla Torre Velasca è un colpo di teatro d’eccezione, un luogo particolarmente rappresentativo dello spirito creativo che 51
ha contraddistinto gli anni della ricostruzione italiana. Sebbene l’estetica brutalista della torre milanese progettata dal gruppo BBPR (acronimo indicante il gruppo di architetti italiani costituito nel 1932 da Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers) sia stata ripetutamente criticata il progetto si delinea con chiarezza espressiva perfettamente in linea con le istanze del Movimento moderno e con l’attività accademica svolta presso l’Istituto Universitario di Architettura di Venezia ed il Politecnico di Milano. La rivista Casabella, diretta in quegli anni da Rogers, e l’ambito dei CIAM Congrès Internationaux d’Architecture Moderne sono sedi privilegiate per il dibattito sulle forme della nuova architettura che si trova a dover rispondere ad impellenti necessità dopo le devastazioni della Seconda Guerra mondiale. Forma e funzione incontrano la necessità urbanistica di un ridotto uso di suolo. Il maggior ingombro dei piani deriva dalla necessità di disporre di una maggior profondità del corpo di fabbrica per la disposizione di appartamenti mentre i piani inferiori sono occupati da uffici. L’utilizzo di pannelli prefabbricati in calcestruzzo adegua il progetto alla disponibilità di mercato. Forse non volutamente, un’architettura muraria in effetti sembra aspirare ad una tradizione mediterranea più che anglosassone, torre di città non più medievale che svetta sui tetti circostanti, sorretta da contrafforti. 52
Ora il profilo milanese si è affollato di nuove torri dalle vesti più moderne, l’acciaio è economicamente più abbordabile. Ma è la Torre Velasca ad incaricarsi di interpretare un’icona al pari delle sue sorelle lontane immaginate da Gustave Eiffel o da Jean Nouvel a Parigi e Barcellona. Scostanti, invidiate e solitarie architetture incuranti del tempo. Non potevo che disegnare ad acquerello il controcampo della città vista dalla terrazza, vista unica grazie al Salone milanese.
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MILANO DESIGN WEEK Tuesday 9 - Sunday 14 April 2019 PAOLA SOSIO CONTEMPORARY ART EXCLUSIVE EXHIBITION OF STUDIO 2046 & LUCA GILLI T O R R E V E L A S C A 25th F L O O R
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Pietra: vertigine e simbiosi di Aurora Botto
Opera finalista 54
Passeggiare sul molo di Sestri, le notti d’inverno, è come camminare sull’orlo di un abisso nero. Galleggiano in bilico, su di esso, le luci del promontorio, vegliando tacite sul sonno degli uomini, correndo fitte lungo la costa e dissipandosi nell’ascendere al cielo, a segnare quell’invalicabile confine oltre al quale la terra inevitabilmente sprofonderebbe. È l’inverno l’artefice del miraggio: desatura le superfici del giorno e priva di riflessi la notte, fondendo il cielo e il mare in un’unica nera voragine spaziale. Passeggiare sul molo di Sestri, le notti d’inverno, è come bere vertigine e anelare alla terra, con la stessa brama con cui la città si artiglia alla roccia, in virtù di quell’eterno vacillare, affacciata sul continuo mutare dei propri confini. Tutto ciò che è costruito, avvicinandosi al mare, si degrada più velocemente, vivendo un invecchiamento accelerato: gli spigoli si smussano addomesticandosi alle intemperie, gli intonaci si arrendono all’umidità, il colore sfuma, la calce si sgretola, la pietra… La pietra conosce come resistere più a lungo. Non poteva essere diversamente, poiché è antica almeno quanto il mare. Per questo è l’unica che osa sporgersi nel buio, dal promontorio, sul baratro. 55
A passeggiare sul molo di Sestri, le notti d’inverno, non si riesce a distinguerla dalle altre asperità: bisogna attendere la luce del giorno e aguzzare lo sguardo per vedere la linea frastagliata della collina innalzarsi incerta in due picchi tremuli, antiche mura di pietra ormai fuse con l’arida terra, protesi artificiali di roccia inselvatichite e mimetizzate nella stinta macchia mediterranea. Così la vecchia chiesa di Sant’Anna custodisce nascoste le sue stanche spoglie, lasciandosi scorgere solo da chi giunge dal mare e sorprendendo il viandante curioso che nel suo lento inerpicarsi sull’aspra collina si trova d’improvviso al cospetto di un portale di pietre, a segnare l’ingresso di un perimetro sacro, ancora percepibile dal susseguirsi ordinato dei sassi più ostinatamente gelosi del proprio passato. Ed ecco, varcata la soglia, le interiora scavate della chiesa, mutata a tal punto da apparire dimentica della propria identità, receduta quasi alla pura materia, scultura di massi, malta e mattoni, opera mista di uomo e frana, teatro di orgogliose forme in cui si esibiscono echi di scorci, complici di una calma riscoperta del mondo. Così lentamente si insinua la vita nelle Rocche. Striscia silenziosa nella polvere delle loro membra divorate, si palesa nel mozzicone di sigaretta abbandonato, si annida nella lattina arrugginita in una fessura, si consuma sulla panchina che al di là del muro sospira romantica sullo strapiom56
bo. Cambiano le formule e decadono le regole, ma resta intatta la simbiosi fra l’uomo e il costruito, fondata sulla disperata necessità di essere testimoni l’uno dell’altro nell’immensità universale e temporale. Troviamo conferma alla nostra labile esistenza nella materia, confortati da una concretezza che nell’atto di venire alla luce attesti la nostra presenza nel mondo, e al costruito assicuriamo la memoria e la sussistenza nel nostro mutato ma implacabile abitarlo. Così nel tacito abbandonarsi al tempo si sigillano i nostri accordi con la pietra: un reciproco guardarsi combattere in una strenua resistenza agli inverni, a ricordarci che l’immobilità nella quale crediamo di versare non è che compromesso illusorio a cui nulla, nemmeno la roccia, riesce a sottrarsi e tutto si muove, si riassesta, evolve e sfiorisce sotto l’implacabile sguardo dei secoli, avanzando verso il buio. Nel tramonto marino ricade il silenzioso sguardo delle rovine di Sant’Anna, lasciandosi trafiggere da ultimo dalla luce, accogliendo le ombre, il sale, la perenne veglia pericolante sull’orlo del promontorio.
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”Sedici fiorini d’oro” di Lucia Agati
Opera finalista 58
E’ la notte del 25 luglio, anno 2018, vigilia di San Jacopo, patrono della città di Pistoia. Prendo la macchina fotografica e mi incammino. E’ una notte morbida. Il cielo è pulito e l’estate è matura di suoni e di profumi. Raggiungo il campo in pochi minuti. L’erba è stata tagliata alla fine di giugno e ora è fieno. E giace, in giganteschi cilindri, monoliti odorosi, e muti testimoni di questa notte stellata. Duecento metri sopra il livello del mare, ai piedi delle colline, bastano per intuire il profilo della città, a sette chilometri di lontananza. Tutte le luci del centro storico sono state spente. Intravedo soltanto la densità della notte e cerco di capire dove accadrà, e se sarà là dove si incontrano le luci dei lampioni, esili e inconsapevoli luminarie. E nonostante io conosca la sua forma, incastonata nella mia memoria, nonostante io l’abbia fotografata innumerevoli volte quando, magnifica sorpresa, spunta all’improvviso negli angoli più inaspettati, mi sforzo di affondare lo sguardo nel buio per prevedere la sua comparsa. Sono quasi le dieci. Hanno detto che accadrà alle dieci. Sarà puntuale? Resto immobile, quasi non respiro e ancora frugo con gli occhi nell’oscurità. Sono le dieci in punto. Appare. Sento un tuono interiore, una risonanza nella cassa toracica e non è il cuore. E’ il riverbero preternaturale di un rumore che non c’è stato. Ma io, a sette chilometri di distanza, l’ho sentito. La cupola del Santuario della Madonna dell’Umiltà è stata accesa. E’ stata illuminata la notte della vigilia di San Jacopo e così sarà, da ora in poi. So che non potrò 59
più fare a meno di questa visione e che non sopporterò più una sola notte senza poterla vedere. E da qui, ora, la vedo anche dentro. Vedo il vestibolo “molto ornato di drento e veramente bello”. E’ così che la descrive Giorgio Vasari ne ‘Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri (1568)’. Lo scrive quando l’opera è compiuta. Vedo le conchiglie incastonate, parlano di San Jacopo. Vedo l’immagine della Madonna con le tracce della sua essudazione, il segno miracoloso che fu l’inizio di tutto. Trasudò un “licore” vermiglio, pianse per le sanguinose faide pistoiesi di quei tempi. Vasari dedica qualche riga a quel prodigio quando parla di Ventura “adoperato nell’opre” dal Bramante. Ventura “fallegname pistolese, che aveva bonissimo ingegno”. E’ l’anno 1508 quando “Una Nostra Donna che oggi si chiama dell’Umiltà, fece miracoli, e perché gli fu porto molte limosine, la Signoria che allora governava, deliberò fare un tempio in onor suo”. Così il “fallegname” di Lamporecchio: “fece di sua mano un modello di un tempio a otto facce, largo braccia...et alto braccia...”. C’era l’occhio di Lorenzo il Magnifico su quel progetto come racconta Mauro Mussolin nel suo saggio per “Il Museo e la città. Vicende artistiche pistoiesi del Cinquecento (Gli Ori editore, 2017). Perchè dopo quella visione ho voluto sapere, oltre che ammirare. Ma quando i Medici furono cacciati gli architetti rimasero da soli a lavorare. E chissà. Ventura Vitoni lavorò a quel tempio fino al 1522. Fu pagato 60
16 fiorini d’oro. Poi i soldi finirono e per quasi quarant’anni rimase senza copertura mentre il tamburo, e le finestre, subivano i danni del tempo e dell’abbandono. La cittadinanza non aveva gradito l’ipotesi di un tetto a capanna. Cosimo I scrisse al Vasari: “Doppo la morte di Ventura non è stato architetto nessuno che gli sia bastato l’animo di voltalla...e sté così scoperta molti anni che l’anno 1561 supplicorno gli operai di quella fabbrica al duca Cosimo perchè sua eccellenza facessi loro grazia che quella tribuna si facesse; dove per compiacergli quel signore ordinò a Giorgio Vasari che vi andasse e vedesse di trovar modo di voltarla”. E’ fragile quel tempio e Vasari lo “rinfranca” e lo “incatena”. “Sì che l’opra di Ventura verrà ricca e con più grandezza et ornamento e più proporzione, ma nel vero Ventura merita che se ne faccia memoria perchè quella opera è la più notabile per cosa moderna che sia in quella città”. Con mano lieve, e rispettosa, Vasari rende atto all’opera del “fallegname”, anche se quella cupola rosata apparsa nella notte è opera sua e, alla fine, è un prodigio statico difficile da cogliere se non si affonda nella conoscenza della Storia, se si è digiuni della tecnica, se non si ama profondamente l’Architettura e la sua capacità, la sua possibilità, di creare spazi per le emozioni. Accendo la macchina fotografica. Ho una compatta che porto sempre con me. Ha prestazioni vicine a una professionale e le sue ridotte dimensioni mi consentono l’hic et nunc. Mette a fuoco, nonostante il riferimento luminoso 61
sia soltanto la cupola del Vasari, a sette chilometri di distanza. Sento di nuovo quella specie di esplosione nella gabbia toracica. Fisso il piccolo visore. Lo scatto corrisponde esattamente a quello che ho visto, che ancora vedo, e quasi piango. Un cielo nero, le luminarie sottili dei lampioni e Lei. Magnifica, maestosa, mezza mela rosata nella notte. Capolavoro unico a tutto sesto. A duecento metri sul mare mi chiedo, più spesso, ora che la vedo tutte le notti, se la tenuta ottocentesca da dove ho assistito a questo spettacolo sia stata costruita per guardare questo incomparabile panorama. La flebile catena luminosa più in alto è il Montalbano. Oltre c’è Vinci. C’è Leonardo. E se fosse giorno, e se io salissi di poche decine di metri ancora, io vedrei Firenze e la cupola di Santa Maria del Fiore, a sesto acuto. Giorgio Vasari e Filippo Brunelleschi si parlerebbero davanti ai miei occhi come le Opere si parlavano, cinquecento anni fa. La risposta è no. Non può essere stata una scelta casuale nell’Ottocento, secolo di sguardi romantici, quella di costruire una tenuta signorile che non tenesse conto del paesaggio e quindi dell’architettura della città. Della linea del cielo. In un muto, simbolico colloquio che dopo cinque secoli e la selva irriguardosa di antenne, mantiene inalterato il suo incanto.
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Simbiosi di Daniele Longobardi
Opera finalista 64
L’Aquila, agosto 2018. Non è facile immaginare una città senza di noi, una città senza persone, guardatevi intorno, la nostra casa, la nostra città e tutto l’ambiente circostante, rappresentano il nostro animo, il nostro spirito. Sembra tutto parte di un legambe indissolubile, una simbiosi tra le città e le persone. Eppure oggi qui, ogni connessione sembra vulnerabile. Il filo che connette il disastro circostante agli interventi oggettivi volti a garantire la sicurezza sull’esistente, assunti a mò di veri e propri ormeggi atti ad ancorare la posizione dei cittadini nei luoghi dove essi si identificano, assume le sembianze di un cordone ombelicale che nonostante tutto non può essere spezzato. Mi dirigo verso quello che da sempre è il luogo obbligato in città, l’edificio sacro, davanti a me una distesa di verde, sul fondo la facciata regolare della Basilica. Durante il percorso che mi porterà all’ingresso principale, scatto fotografie, così finisco con l’osservare l’edificio quasi esclusivamente dal mirino della mia fotocamera, non riuscendo dunque ad affrontare in prima persona l’esperienza di un faccia a faccia con la chiesa, ma frappongo la macchina fotografica tra me e la struttura, essendo in imbarazzo man mano che mi avvicino, chino il capo e pongo attenzione anche all’ombra che l’edificio lascia al suolo, c’è silenzio, ma non un silenzio opprimente, un silenzio necessario nei pressi di un luogo sacro, è la Basilica di Santa Maria di 65
Collemaggio, appena restaurata e riaperta al pubblico solo pochi mesi fa. La facciata principale è ordinata ed imponente, caratterizzata da blocchi in pietra bianchi e rossi, disposti in maniera cruciforme, questi, mi danno la sensazione di eleganti punti di sutura già prontamente assorbiti, mostrandomi la predominanza in facciata dei pieni sui vuoti. Scatto una fotografia. Spesso di un edificio, ci ritroviamo ad immaginare come potrebbe essere con sostanziali modifiche, ma è difficile immaginare un’area da sempre contraddistinta da un’importante architettura, di nuovo sgombra da ogni cosa, solo suolo. Ricordando le foto post-sisma, viste più volte nelle mie ricerche online, ero giunto alla conclusione, che la realtà può superare l’immaginazione, e l’architettura che, rappresenta una manifestazione del nostro animo, fosse piegata completamente alla forza della natura. Tuttavia in questo luogo, anni di lavori, di sogni, di speranze, hanno ristabilito gli equilibri precedenti, le pericolanti rovine, trasformate in un edificio compiuto, i muri crollati, ripristinati, i rivestimenti sgretolati, reintrodotti, questa struttura è stata oggetto nei secoli di numerosi restauri e ricostruzioni, eppure quello attuale è quello realizzato in tempi più rapidi, quasi a testimoniare un’abitudine in città a dimostrare come non sia possibile cancellare il passato, perché questo fa sempre parte del nostro presente. 66
La Basilica oggi, in questa giornata di sole, sembra non essere mai cambiata, come se fosse uscita da una difficile operazione chirurgica perfettamente riuscita, d’altronde questo edificio, come tutti i suoi cittadini è evidentemente segnato da numerose operazioni di recupero, ritrovamento, che però mostrano l’imponenza e la forza di chi ha saputo superare secoli di affronti. Sembra tutto normale ora, i cittadini che vedono questo edificio come uno dei simboli della città, possono tornare a fruire quegli spazi in simbiosi con l’architettura, come un costante ritorno alle origini. Mi accorgo che l’intervento di consolidamento della struttura, ha preservato il più possibile gli elementi originari della struttura, nonostante le profonde lesioni. L’architettura è ripristinata, c’è chi preferisce lasciare ruderi in giro, nel ricordo di quel che è stato, ma qui, ricostruire sembra fondamentale per lasciare invece un crudo passato alle spalle, in fondo, il peggio accade, ma la vita continua, anche se alcuni parametri cambiano inevitabilmente. Un anziano si dirige verso l’ingresso della Basilica, segnata da tre entrate quante sono le navate interne, sulle tre entrate, altrettanti rosoni. Seguo l’anziano e mi dirigo anche io verso l’interno, appena dentro, guardo verso l’alto l’ampia copertura lignea, probabilmente rinforzata con altri elementi dello stesso materiale. Le murature perimetrali appaiono solide, 67
stesso discorso per i pilastri a pianta ottagonale, sormontati da arcate ogivali. Scatto una fotografia. L’altare è sapientemente illuminato da una bifora posteriore. L’anziano che mi ha preceduto è lì vicino e tende il braccio indicando prima verso l’altrare, poi in altri punti dell’edificio, io, come un cronista, provo a seguirlo attraverso l’obiettivo della mia fotocamera e a realizzare uno scatto per ogni singolo particolare che da lui viene osservato, successivamente, metto da parte ogni strumento e provo, voglio, godere con tutti i miei sensi il momento, tutto è come prima e mi accorgo che attraverso gli interventi umani, il sistema città, è di nuovo in funzione.
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La Giuria
Prof.ssa Natalia Cangi Direttrice organizzativa Fondazione Archivio Diaristico Nazionale; Arch. Prof. Fabrizio Franco Vittorio Arrigoni. Prof. Prog. Architettonica c/o Facoltà di Architettura di Firenze; Dott. Carlo Bartoli. Presidente Ordine dei Giornalisti della Toscana; Gianni Brunacci. Scrittore, giornalista e fotografo; Arch. Antonella Giorgeschi. Presidente dell’Ordine degli Architetti P.P.C. provincia di Arezzo.
Il Gruppo di lettura
Arch. Lorenza Carlini. Consigliere dell’Ordine degli Architetti P.P.C. di Arezzo. Arch. Manuela Balsimelli, Montevarchi, Arch. Luca Brandini, Arezzo. Arch. Chiara Carlomagno, Monte San Savino. Arch. Giuliano Del Teglia, Sansepolcro. Arch. Massimo Gennari, Terranuova Bracciolini. Arch. Federica Imperio, Arezzo. Arch. Riccardo Imperio, Arezzo. 70
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Ordine APPC provincia di Arezzo - dato alle stampe - Febbraio 2020 78
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QUADERNO 1