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Pietra: vertigine e simbiosi
di Aurora Botto
Opera finalista
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Passeggiare sul molo di Sestri, le notti d’inverno, è come camminare sull’orlo di un abisso nero. Galleggiano in bilico, su di esso, le luci del promontorio, vegliando tacite sul sonno degli uomini, correndo fitte lungo la costa e dissipandosi nell’ascendere al cielo, a segnare quell’invalicabile confine oltre al quale la terra inevitabilmente sprofonderebbe. È l’inverno l’artefice del miraggio: desatura le superfici del giorno e priva di riflessi la notte, fondendo il cielo e il mare in un’unica nera voragine spaziale. Passeggiare sul molo di Sestri, le notti d’inverno, è come bere vertigine e anelare alla terra, con la stessa brama con cui la città si artiglia alla roccia, in virtù di quell’eterno vacillare, affacciata sul continuo mutare dei propri confini. Tutto ciò che è costruito, avvicinandosi al mare, si degrada più velocemente, vivendo un invecchiamento accelerato: gli spigoli si smussano addomesticandosi alle intemperie, gli intonaci si arrendono all’umidità, il colore sfuma, la calce si sgretola, la pietra… La pietra conosce come resistere più a lungo. Non poteva essere diversamente, poiché è antica almeno quanto il mare. Per questo è l’unica che osa sporgersi nel buio, dal promontorio, sul baratro.
A passeggiare sul molo di Sestri, le notti d’inverno, non si riesce a distinguerla dalle altre asperità: bisogna attendere la luce del giorno e aguzzare lo sguardo per vedere la linea frastagliata della collina innalzarsi incerta in due picchi tremuli, antiche mura di pietra ormai fuse con l’arida terra, protesi artificiali di roccia inselvatichite e mimetizzate nella stinta macchia mediterranea. Così la vecchia chiesa di Sant’Anna custodisce nascoste le sue stanche spoglie, lasciandosi scorgere solo da chi giunge dal mare e sorprendendo il viandante curioso che nel suo lento inerpicarsi sull’aspra collina si trova d’improvviso al cospetto di un portale di pietre, a segnare l’ingresso di un perimetro sacro, ancora percepibile dal susseguirsi ordinato dei sassi più ostinatamente gelosi del proprio passato. Ed ecco, varcata la soglia, le interiora scavate della chiesa, mutata a tal punto da apparire dimentica della propria identità, receduta quasi alla pura materia, scultura di massi, malta e mattoni, opera mista di uomo e frana, teatro di orgogliose forme in cui si esibiscono echi di scorci, complici di una calma riscoperta del mondo. Così lentamente si insinua la vita nelle Rocche. Striscia silenziosa nella polvere delle loro membra divorate, si palesa nel mozzicone di sigaretta abbandonato, si annida nella lattina arrugginita in una fessura, si consuma sulla panchina che al di là del muro sospira romantica sullo strapiom-
bo. Cambiano le formule e decadono le regole, ma resta intatta la simbiosi fra l’uomo e il costruito, fondata sulla disperata necessità di essere testimoni l’uno dell’altro nell’immensità universale e temporale. Troviamo conferma alla nostra labile esistenza nella materia, confortati da una concretezza che nell’atto di venire alla luce attesti la nostra presenza nel mondo, e al costruito assicuriamo la memoria e la sussistenza nel nostro mutato ma implacabile abitarlo. Così nel tacito abbandonarsi al tempo si sigillano i nostri accordi con la pietra: un reciproco guardarsi combattere in una strenua resistenza agli inverni, a ricordarci che l’immobilità nella quale crediamo di versare non è che compromesso illusorio a cui nulla, nemmeno la roccia, riesce a sottrarsi e tutto si muove, si riassesta, evolve e sfiorisce sotto l’implacabile sguardo dei secoli, avanzando verso il buio. Nel tramonto marino ricade il silenzioso sguardo delle rovine di Sant’Anna, lasciandosi trafiggere da ultimo dalla luce, accogliendo le ombre, il sale, la perenne veglia pericolante sull’orlo del promontorio.