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L’arte di far vivere gli uomini

di Chiara Piacentini

Opera 2° classificata

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Ho avuto una infanzia felice, faticosa, sfrenata, con un sacco di fratelli, sorelle e amici, in un quartiere oggi pubblicato sui libri di Storia dell’architettura.

Si stava bene al Villaggio Nebbiara, diciotto famiglie più o meno numerose (cinquantun bimbi) in 12.000 mq di verde, un luogo “a misura di bambino”, si direbbe oggi. “In una landa desolata!”, diceva invece mia nonna, che mal sopportava quell’estrema periferia di Reggio Emilia che suo figlio Osvaldo Piacentini, aveva non solo progettato ed urbanizzato, ma anche considerevolmente popolato.

Mio padre infatti, insieme ad alcuni amici aveva fondato già dal 1947 uno studio Cooperativo che nel 1957 diventa Cooperativa Architetti e Ingegneri di Reggio Emilia e aveva scelto di operare la professione in forma consociata: ogni progetto di edilizia pubblica o privata era discusso lungamente, progettato e riprogettato insieme e, infine, firmato ‘Cooperativa’ senza nomi propri. Una forma di lavoro basata sul confronto e sulla solidarietà, prima che sui rapporti economici, “una struttura disciplinare che superava nei limiti temporali e dimensionali le possibilità del singolo individuo” 1 Mio padre scriveva, appena dopo la guerra 2 :” Quando abbiamo cominciato il nostro studio, il problema urbanistico-edilizio era per noi

questione esclusivamente tecnica. In seguito, con l’approfondirsi delle indagini, abbiamo constatato che l’urbanistica non è un problema a sé, ma uno dei tanti aspetti dell’unico vero problema che è la vita dell’uomo. Da allora ci siamo convinti che non è possibile affrontare frammentariamente la soluzione di un problema particolare, se simultaneamente non si cerca anche la soluzione di tutti gli altri”.

Qualche anno dopo, alla fine degli anni Cinquanta, insieme ad alcuni amici e diversi colleghi, tutti neosposi e neopadri, pensarono a una soluzione abitativa innovativa e anch’essa comunitaria: diciotto casette a schiera affacciate su una grande area comune, ispirate alle case operaie inglesi e scandinave, ma nobilitate dallo stile à la Le Corbusier.

Presentato per il finanziamento INA CASA - che con la costruzione di alcuni milioni di abitazioni sarà volano della ripresa economica nell’Italia del dopoguerra - il progetto architettonico era decisamente innovativo, nuovo e diverso rispetto alle centinaia di palazzoni e palazzine del piano stesso, che tuttavia voleva “alleviare i bisogni più acuti di lavoro e di casa e dare al lavoratore una casa civile”, ma soprattutto “una abitazione studiata in modo che ciascuno possa sentirla sua e dove ciascuno si senta cittadino di una nuova comunità 3 ”.

Nel 1960 i neosposi e neopadri si trasferirono in quella landa desolata (a 3 km. dal centro storico, in mezzo a campi arati e case coloniche) con le loro giardinette piene di pargoli, suoceri e valigie. Il primo regolamento del Villaggio vietava l’allevamento di galline nei cortili privati e gli schiamazzi dall’una alle quattro del pomeriggio.

Il quartiere, noto come Villaggio Architetti, in realtà si chiamava “Cooperativa 18 giugno”, per celebrare la data in cui ai capifamiglia fu recapitata la felice novella della elargizione del finanziamento pubblico e la conseguente possibilità di abitare la loro prima casa, 6 vani per 120 metri quadrati, a piani sfalsati (i tre gradini in legno che separano la zona pranzo dalla zona soggiorno sono stati la palestra di tutti i bambinetti) e dove la zona notte, al piano superiore, comunica con il piano sottostante tramite una grande balconata. “Una follia” diceva la nonna, open space si direbbe oggi.

All’esterno, un giardino privato sul retro ed una grande area verde comune davanti, strettamente pedonale, oltre ad aree al servizio di tutte le famiglie come la lavanderia, lo stenditoio, la zona per la raccolta rifiuti, il campetto da calcio e la ‘montagnola’ per slittare. I bambini liberi di vivere ‘il cortile’, giocare, scorrazzare litigare, riappacificarsi in autonomia.

Gli spazi interni erano “di misura”, ottimizzati al centimetro per poi ampliarsi nel cuore della casa, la zona pranzo-soggiorno, jardin d’hiver con vista sull’area comune con i figli che giocano da un lato e sul verde privato dall’altro.

Le pareti esterne e interne in mattone faccia a vista, prodotti da una fornace della zona e sabbiati a mano. Le fughe grigie molto evidenti, stuccate una per una. ‘Bugie’ e rombi in vetrocemento sveltiscono le facciate, i tetti spioventi con tegole olandesi sono sovrastati da un fraseggio di camini. L’antenna della TV è unica, sui tetti dei locali comuni di servizio. Le panchine dell’area comune ombreggiate da boschetti di pioppi, essenze umili e autoctone che invitano al riposo ed alla relazione. I garage sono separati dalle case, per godere l’area pedonale – un’idea che oggi ritroviamo nella legge urbanistica del 2017 con i ‘quartieri senza auto’.

Mio padre, prima soldato poi partigiano in Appennino, scriveva a mia madre Liliana l’11 luglio del 1960, a quattro mesi dal trasloco al Villaggio e quattro giorni dopo la “strage di Reggio Emilia”, quando la polizia, su ordine del governo Tambroni, aprì il fuoco contro la folla di una manifestazione sindacale uccidendo cinque persone: “Tu credi che la ’18 giugno’ sia venuta così per la nostra preparazione architettonica o la nostra cul-

tura? Sono sempre più convinto che sia così per il desiderio di pace che anima tutti noi 4 ” .

L’architettura è un modo di interpretare il mondo, dice Stefano Boeri. In questo caso è stata la comunità stessa, preesistente al progetto, che ha modellato sui propri desideri e forse utopie il disegno urbano architettonico. “Questa unità residenziale orizzontale sembra condensare, nel suo spazio raccolto e nella sua breve storia, ”, scrive Filippo De Pieri 5 , “alcune questioni centrali di quello che è stato chiamato il modello emiliano di governo del territorio: l’obiettivo di costruire una città in cui le differenze sociali siano destinate progressivamente ad attenuarsi; la fiducia nel cooperativismo; il dialogo tra culture amministrative diverse; il decentramento come occasione per sperimentare nuove forme di uso della città contemporanea. Nebbiara rimanda a un’Italia che può apparire molto remota, ma al tempo stesso le esperienze di abitare condiviso compiute in questo luogo presentano dei tratti di sorprendente modernità.”

Crescere al villaggio ha modellato forse il nostro divenire uomini e donne “sociali”, capaci di abitare le diversità; oggi questo luogo accompagna la vecchiaia con la stessa dolcezza nell’accogliere, contenere, sostenere il declino. I nostri figli hanno goduto dell’autonomia di diventare grandi in

in un luogo pieno di compagni e libertà, come è stato per noi e le nostre famiglie vivono accanto ad amici nuovi e antichi, misurandosi con la fatica e la bellezza della convivenza, alla ricerca di quell’armonia che dà forma e contenuto alla vita stessa.

Reggio Emilia, 18 giugno 2019, sessant’anni dopo

_______________ 1 -La Ferrara S. (a c. di), “Osvaldo Piacentini. Senza stancarsi mai”, Diabasis, Reggio Emilia, ‘99. 2 - Piacentini O., Salvarani E., “Relazione per la VIII Triennale di Milano”, 1947 in La Ferrara S. (a cura di), cit. 3- Beretta Anguissola L. (a c. di), “I 14 anni del Piano INA CASA”, Staderini, Roma, ‘63 4- La Ferrara S. (a c. di), “Osvaldo Piacentini. Senza stancarsi mai”, cit. 5- De Pieri F., “An Emilian History. Reggio Emilia, a horizontal community”, intervento alla Biennale di Venezia 2014

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