5 minute read
Il ricordo è la chiave
di Simona Gassi
Opera 3° classificata
Advertisement
Avevamo tanto atteso la primavera, invece il brutto tempo aveva direttamente ceduto il passo ad un caldo troppo torrido per essere maggio. Camminavamo sorprendentemente in fila indiana, ordinati e svelti. Strisciavamo la spalla sinistra contro il muro di cinta, per godere della sottile fetta d’ombra che proiettava sul marciapiede. Era mezzogiorno e intorno a noi nessun particolare punto di riferimento: una strada deserta, un terreno incolto e una sopraelevata ad occupare l’orizzonte verso nord.
La periferia modenese ci ha accolti così, una volta scesi in tutta fretta dal pullman.
Avevamo visitato altre architetture nei due giorni precedenti di viaggio e ciascuno di noi aveva sempre avuto qualcosa da esclamare frettolosamente una volta giunti sul posto, un parere da condividere. Stavolta, nonostante vedessimo già gli edifici dell’ampliamento del cimitero svettare in lontananza, ci apprestavamo a raggiungerli in silenzio. “È un millepiedi!” pensai, ma mi apparve una definizione poco ortodossa per poterla condividere con un folto gruppo di architetti e aspiranti tali. “Ma sì, guarda quei pilastri, sono zampette! Sono snelli, sono fitti e sorreggono quel corpo tozzo ma allungato. È un millepiedi”. Continuai a rimuginare sull’aspetto zoomorfo di quel primo edificio, ma non ebbi il coraggio di proferire parola
a a riguardo. Giunti sotto quel lungo porticato, ci rendemmo conto di non poterlo percorrere perché chiuso da dei cancelli. Mi voltai verso sinistra a guardarlo, catturata da una profonda prospettiva: i pilastri si succedevano veloci e scandivano un percorso coperto, più alto che largo. Sorreggevano in alto un piano coperto da tetto a falde, che si estrudeva coprendo il percorso per tutta la sua lunghezza. “No, non è un millepiedi! È un edificio moderno. È severo, è rigoroso, è modernismo questo!” pensai, ritrattando l’affrettato responso che avevo formulato quando ancora ero distante. Dovevamo continuare a procedere dritto, lasciando quel percorso alla nostra sinistra e dirigendoci verso la porta aperta, più avanti.
Intanto, nessun chiacchiericcio, così mi sforzai di non formulare ulteriori giudizi e superai quella che sembrava una porta di accesso secondaria. Eccoci qui, tutti finalmente in disordine come era nostra abitudine, sparpagliati nel vasto prato, rinunciando all’ombra e cercando di riconoscere lo spazio, di orientarci al suo interno. Dove eravamo? Era effettivamente un cortile di accesso? Era un retro? E tutt’intorno, cos’erano quegli edifici? Sentivo più spaesamento di prima e iniziai a voltarmi in tutte le direzioni, ma la cosa non sembrava migliorare.
Cercai di posizionarmi al centro del vasto prato giallastro, già secco per l’arsura, punteggiato da qualche albero e per il resto vuoto. Lo spazio era recinto sulla mia sinistra da un edificio di tre piani, che proseguiva in profondità, rigirando verso destra e diventando il fondale della scena che stavo osservando. Era caratterizzato anch’esso da una forte geometria e ritmicità. Il modulo ripetuto era composto da: un’apertura alta e rettangolare accessibile a piano terra, un’apertura quadrata al primo piano, una seconda uguale all’ultimo piano e poi la falda azzurra. Ancora, dopo qualche metro: rettangolo, quadrato, quadrato, falda, ripetuto per tutta la lunghezza. Ero decisamente disorientata e voltarmi verso destra non migliorò le cose: un muro muto, più basso dell’edificio a sinistra, con due aperture disposte simmetricamente e raggiunte da percorsi che tagliavano il prato. “Sembra un paesaggio di De Chirico! È metafisica. Sì, ecco, si spiegherebbe anche perché continuo a sentirmi così disorientata!”
Continuava a far caldo e fui distratta dal sudore sulla fronte. “Devo correre all’ombra” pensai, interrompendo l’osservazione del recinto. Presi a camminare svelta costeggiando l’alto edificio e raggiungendo il percorso che attraversava il prato. Varcai quindi l’apertura e conquistai finalmente l’ombra, trovando per un attimo sollievo e accorgendomi che quel muro era l’esterno di un portico. Da un lato c’era la parete continua in cui erano
alloggiati i loculi, dall’altro era aperto dalla stessa successione di pilastri dell’edificio che ci aveva accolto. “È una città! Questa sembra una piazza dell’Emilia, recinta in parte da un portico e poi aperta verso la campagna” mi dissi, ancora però indecisa e spaesata. Stavolta, invece di portarci al centro di quella grande piazza, continuammo a percorrerla lungo il suo perimetro d’ombra e mi resi conto solo allora che il consueto scambio di opinioni e suggestioni tra gli altri studenti era ripreso. Rigirando verso destra, ancora al riparo del portico, giungemmo ad un’altra grande apertura e l’attraversammo.
Mi mancò inspiegabilmente il fiato. Fui sorpresa dal cubo color mattone, bucato per tutta la sua superficie con una sintassi chiara e indiscutibile: era il grande ossario comune, che più volte avevo visto in fotografia. Non esitai e corsi per raggiungerlo, guardandolo avvicinarsi e pensando “Semplice, complesso, essenziale, ricco, rigido, ammonitore, introverso anche se infinitamente forato”. Superai il varco al piano terra ed eccomi, ferma e attonita. Ero finalmente al centro di quel cubo: esteriormente sembrava ospitare un luogo buio e invece, tutte quelle aperture lasciavano passare fasci luminosi che lavavano la superficie dei loculi, impilati uno sull’altro. Un alveare di centinaia di cubi, ordinati e identici tra loro.
“Aldo Rossi era un grande uomo di cultura, caratterizzato da certa severità” esclamò il mio professore. Un ragazzo al mio fianco esclamò deciso “Non mi piace, professore! Non vorrei essere seppellito in questo cimitero e non vorrei venire a trovarci i miei cari. Non credo sia un luogo che consola dalla tristezza della morte e non mi sembra ci si possa trovare pace.”
Non mi unì al confronto, rimasi lì a godere di quella strana epifania. D’un tratto mi sembrava tutto più chiaro. “È un cimitero” pensai. “Ricorda una grande città, ma non lo è. Quelle falde richiamano l’archetipo della casa, ma non sono case queste, perché queste non sono persone, non più. È il ricordo la chiave, ora è chiaro. Il ricordo della vita che c’era e adesso non c’è.” Mi sentivo bene, forse per via della risposta intima che avevo trovato lì dentro. “Il ricordo. È bello pensare così alla fine della vita” mi dissi.
“Ragazzi, il pullman passa a riprenderci tra dieci minuti!”. Tornai in me, faceva ancora molto caldo.
Seguii gli altri verso l’uscita.
Modena, maggio 2019