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Circa il paradosso di un’Arte figurativa e astratta

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Prefazione

Prefazione

di Alessandro Ambrosini

Opera finalista

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“L’Architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori di problemi di costruzione, al di là di essi. La Costruzione è per tenere su: l’Architettura è per commuovere” [1]. E con ciò la discussione sul fatto che l’Architettura sia un’Arte è chiusa. Perché è Le Corbusier che ce lo dice. E Le Corbu non si batte. Mai. E’ un assioma.

Affiora, però, un dubbio: l’Architettura è un’Arte figurativa oppure astratta?

Per convenzione si definisce figurativa l’arte che si esprime per immagini, fedeli alla realtà o distorte, ma comunque riconducibili a quanto ci circonda. Sotto tale ipotesi, l’Architettura risulta non solo un’Arte figurativa ma la più realista, talvolta la più spietata. Poiché non riproduce la realtà, bensì la produce; la declina nella materia bruta; la organizza nello spazio; ne definisce volumi, forme, linee di forza, vuoti e pieni. Avvera il mondo intorno a noi. Ed è ineludibile: sia essa Piazza San Marco a Venezia, sia essa la plumbea periferia di Bratislava. Insomma, per quanto si levi al cielo in un potente anelito al divino, il Colonnato del Bernini è nerboruta fisicità; non c’è manifestazione più

materiale dell’idea di colonnato. E così per ogni opera d’Architettura: la Rotonda del Palladio, in quanto reale, è puro saggio del sensibile e, per quanto luminoso, soltanto ricordo dell’idea di villa che si può contemplare, invece, nell’Iperuranio.

Altra storia, ad esempio, è la Musica, come creazione e composizione di predeterminati effetti sonori. Il compositore, infatti, non ha modo di rappresentare la realtà con il suono. Per tale ragione la Musica è la prima Arte ad aver conosciuto la dimensione dell’astratto: da quando l’uomo di Neanderthal soffiò in un osso, elevandolo a primordiale buccina, sino a che Schönberg concepì la dodecafonia…o Syd Barrett iniziò a rosolare un uovo davanti al microfono. L’ascoltatore, anche il meno attrezzato culturalmente, affronta processi che prescindono dal reale. Béla Bartók, Musica per archi, percussioni e celesta: lo spaesamento che si prova al glissato di timpani nel terzo movimento, proviene da qualcosa di assolutamente etereo. Hector Berlioz, Symphonie Fantastique: la campana tubolare al quinto movimento rompe un’allucinazione di cui non si può conoscere genesi nel reale.

La cesura tra figurativo ed astratto, dunque, appare netta. Eppure, ciascuno di noi potrebbe testimoniare vissuti di Architettura in cui tale di-

stinzione è vacillata. O persino venuta meno.

Berlino. Un acquazzone aveva scacciato l’afa di fine agosto. Le giornate si accorciavano ed io, al tramonto, me ne tornavo solo da Potsdamer Platz verso la Porta di Brandeburgo. Fu allora che trovai il coraggio di affrontare Eisenman. Mi addentrai nel suo Denkmal für die ermordeten Juden Europas, la spianata delle 2711 stele a memoria della Shoah. Ma non saprei descrivere oltre, perché davvero questo è un caso di Architettura che non si racconta: si vive. Ecco, io tra quei monoliti -credetemi- non mi sentii semplicemente, io divenni la nota nella gola del baritono all’Introitus del Requiem di Ligeti. O, forse, io fui la vibrazione acquietata sulla membrana del rullante. O il brivido lungo la schiena. Anche di questo può essere capace l’Architettura.

Manhattan. Una di quelle mattine in cui non c’è scampo dai venti gelidi dell’Atlantico. Ma era giusto inoltrarsi nel masterplan di Libeskind, affacciarsi alla Reflecting Absence di Arad e Walker per recare omaggio di pietà al National September 11. Già da lontano lo intuisci ciò che ti aspetta. Prima ancora di giungere. E vedere. Perché il pianto di quelle cascate è composto, dignitoso: però è corale, lugubre, tanto da non sentire più il vocìo delle strade. Due vuoti come due orbite cavate in un teschio.

Linee essenziali, dolore senza retorica. L’angoscia di un precipitare eterno, dell’abisso di cui non si vede il fondo. La voragine che si apre nel tuo cuore. E vi resta aperta, quando ti allontani. È questa voragine che mi porto dentro la cosa più concreta, più vera di quella Architettura.

Helsinki. Finalmente primavera, uno di quei pomeriggi in cui le primule si concedono al sole. Come richiamato da una forza arcana, finii nella Temppeliaukion kirkko: apoteosi artistica dei fratelli Suomalainen di fine Anni ’60, opera più moderna persino della sua stessa epoca. Non saprei dire come andò di preciso: so che mi sorpresi, commosso, a pregare. E con la più profonda devozione: proprio io che non sono sicuramente il paradigma del perfetto “praticante”. Certo che lì la realtà ti mette di fronte ad una chiesa: è scritto su tanto di cartelli. Ma è anche chiaro che a prevalere, nel complesso della vicenda, sia qualcosa di astratto. Un edificio di culto? Già. Ma tanto per cominciare tu, uomo, senza nemmeno accorgerti, ti ritrovi sul fondo del grande pozzo, scavato nel buio e nel pietrame: poi un albore, da lassù, sa scendere proprio su di te ed illuminare anche il tuo cammino. Le pareti? Io sulla roccia scabra e brulla ho visto la drammatica rappresentazione dell’eterna lotta tra l’oscurità e la luce, gli instabili riverberi e gli impenetrabili coni d’ombra. Le travi curve in cemento armato, a sostenere la copertura? Diaframmi, contingenze…solo cose della Terra

che rendono la nostra visione delle cose del Cielo parziale e frammentata. La cupola rivestita di rame? Perfezione del disegno geometrico, elemento fortemente simbolico, conchiglia alla fonte della vita, misterica presenza sospesa sopra noi.

Forse, allora, l’Architettura potrebbe essere un’Arte che nemmeno si cura di sottoporsi ad una divisione manichea tra figurativo ed astratto, né si presta ad altre comode tassonomie culturali. Anche per questo motivo, magari, esercita con tanto vigore il suo potere su di noi, appartenenti alla comunità umana: perché sa colpire dritta al cuore, prima di ogni elaborazione intellettuale. Nel continuo assestarsi della sua identità.

In questo senso, il nostro potrebbe essere un tempo molto interessante. Sorgono di continuo nuovi metodi e strumenti di progettazione, materiali e tecniche costruttive: da un lato, si estendono le libertà del gesto creativo; dall’altro, cresce sempre più l’ampiezza dell’onda che oscilla attorno alla corda dell’Architettura…e gli antinodi si portano a distanze dai nodi mai conosciute prima d’ora. Tutto ciò rende la questione posta ancora più aperta.

Siano benvenuti, allora, il confronto e il dibattito. Il continuo studio,

l’assidua ricerca. Ma soprattutto la sperimentazione sul campo, libera da pregiudizi, ardita. Purché -nell’ebbrezza che segue la conquista di nuove libertà- non si perda mai di vista l’uomo. All’Architetto non è permesso abdicare ai suo uffici di Principe degli Umanisti. In fin dei conti, ha ragione il vecchio Richard Rogers: “Non si può pensare un’architettura senza pensare alla gente”.

_____________________ [1] Le Corbusier, Verso una Architettura, Longanesi & C. – Milano, 1973: p. 9

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