5 minute read
Fantasmi
di Caterina Romano
Opera finalista
Advertisement
Una via solitaria, stretta fra edifici secolari. Due gradini di pietra. Un portone in legno, dipinto di un verde sbiadito dal tempo. L’aria gelida, pungente di una giornata di metà inverno. L’atmosfera immobile. Avevo paura di varcare quella soglia. Rimasi ferma qualche minuto, poi mi girai e mi allontanai. Percorsi quasi correndo la ripida salita che portava alla piazza del paese. Era deserta. Mi sedetti su una vecchia panchina di ferro arrugginita e mi guardai intorno. Il paese era malinconico, almeno quanto il mio cuore. Quasi tutte le case avevano le imposte chiuse. Sulle persiane scolorite le ragnatele avevano catturato le gocce di rugiada della notte appena trascorsa, che brillavano al sole come piccoli diamanti. Le porte avevano ormai perso la loro lotta contro la pioggia e il vento, lasciandosi portar via gli strati di vernice sfaldati come pelle morta. La piccola chiesa medievale di San Giacomo, che di antico ormai non aveva più niente, era chiusa. Sembrava che non ci fosse anima viva in quella desolazione. Un paese fantasma, come i fantasmi che abitavano ancora dentro di me. Un gatto tutto grigio con una simpatica zampa nera si avvicinò con passo sicuro. Si fermò, piegò la testa di lato e mi osservò incuriosito. I suoi occhi verdi incrociarono i miei, neri e intensi come quelli di mia nonna. Un brivido mi percorse la schiena, non sapevo se per il freddo o per quella strana inquietudine che si era impadronita di me. Mi strinsi ancora una
volta nel lungo cappotto rosso e lasciai la panchina. Ridiscesi l’angusta stradina che conoscevo bene, immaginando di sentire ancora le voci allegre di noi bambini nelle lunghe giornate estive e quella della nonna che ci rimproverava per le nostre grida. Osservai quei muri scrostati e i tetti cascanti, dove sembrava che il tempo avesse rallentato la sua corsa fino a fermarsi. Il silenzio della via deserta mi spinse verso il portone verde, su quei gradini dove un tempo mi sedevo assaporando la fragranza che un sole generoso spargeva tra le vecchie case del paese. Mi fermai e respirai a fondo. Il fiato caldo creò nuvolette di vapore davanti al mio viso. Tante notti avevo sognato di tornare in quella casa, e ora la paura dei miei ricordi mi bloccava. Avrei voluto rivivere i bei momenti trascorsi in famiglia, ma anche nascondere, annullare la parte oscura di quelle memorie. Seguii con le dita i rami curvi di un rampicante che si era impadronito del muro accanto. Finalmente mi decisi, aprii la borsa e presi la chiave. Con mano tremante la infilai nella toppa. Uno scatto e la serratura cedette. Il portone di legno cigolò quando lo spinsi, rigonfio dal tempo e dall’umidità dell’inverno. Fui investita da un odore nauseabondo che mi fece perdere il respiro. Respingendo i conati di vomito, mi affrettai ad aprire tutte le finestre. L’aria fresca riuscì solo in parte a rendere l’ambiente respirabile. Mi guardai in-
torno. Nell’ampio salone buio e deserto regnavano il silenzio e l’abbandono. La realtà era molto lontana da quella che avevo vissuto nei miei sogni. Le tendine alle finestre erano ridotte in brandelli e sui pochi mobili rimasti si era accumulato uno spesso strato di polvere. L’intonaco sui muri, graffiato dal tempo, lasciava scorgere patine di colori sovrapposti che si stavano ricoprendo di un sottile strato di muffa, mentre sull’alto soffitto un grosso alone giallo denunciava una perdita d’acqua dal tetto cadente. Sul pavimento le mattonelle in graniglia, di una bellezza d’altri tempi, formavano ancora un delicato disegno a motivi floreali. Avvicinandomi al vecchio focolare spento, una lacrima mi bagnò le ciglia. Caddi in ginocchio. Ricordavo perfettamente ogni angolo di quel camino, il suo povero rivestimento di piastrelle gialle, il pesante candelabro di bronzo, l’odore della cenere. Mi rividi adolescente, seduta su quei grezzi mattoni corrosi dagli anni, sola, a piangere in silenzio mentre nell’altra stanza mio padre aveva smesso di respirare. Da quel momento niente era più stato come prima. Mi girai, come richiamata dalla voce del tempo. Sulla parete di fronte, in una nicchia, c’era ancora il pesantissimo lavello di marmo con la tendina a fiori gialli e rosa, ormai scolorita e polverosa, dietro la quale mi nascondevo quando mia nonna mi cercava. Mi venne voglia di celarmi ancora una volta in quel rifugio sicuro, per non uscirne mai più.
Mi concessi un lungo istante di pausa prima di dirigermi verso la camera, una stanza molto grande con due ampie finestre, le travi del soffitto in vista e un polveroso pavimento in cotto. C’era rimasto solamente il lettino in cui avevo dormito tante volte, appoggiato al vecchio muro da cui la sera lo scostavo temendo che un ragno potesse entrarmi sotto le lenzuola. Lo ricordavo scomodo, con la rete cigolante e il materasso di lana troppo morbido, eppure lo adoravo. Non dimenticherò mai l’odore di quelle lenzuola ruvide lavate a mano, né la bellissima bambola col viso di porcellana che la nonna ogni mattina, dopo aver rifatto il mio letto e sistemato il copriletto cucito su misura, riponeva sul cuscino, rassettandole i capelli e il vestito di pizzo. Rividi, con gli occhi della memoria, il grande letto antico, l’armadio con gli intarsi di madreperla, il cassettone fatto a mano dal nonno. Su quel letto avevo visto per l’ultima volta mio padre con gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto. Sembrava che dormisse, col suo vestito buono e le scarpe nuove di pelle, tuttavia avevo sentito che qualcosa stonava in quell’ambiente. Il dolore si rinnovò ancora una volta, più forte di quanto avessi immaginato. Sapevo che tornare in quella casa, che aveva rubato la mia giovinezza, sarebbe stato come riaprire nuovamente la vecchia ferita, ma dovevo farlo. Può un edificio mantenere la memoria di una vita?
Mi avevano detto che il tempo può far sbiadire i ricordi fino a cancellarli. Ma per me non era stato così. Il tempo è un elemento che non detta condizioni, non parla e non si muove. La realtà è che siamo noi a muoverci in esso, per giorni, mesi, anni, portandoci dentro quell’angoscia pronta a riemergere quando sembra che tutto sia finalmente superato.
Avevo portato la macchina fotografica per fare delle foto e portare con me una traccia del mio passato. Non ne ho fatto nemmeno una. Mi sono accorta che quello che porto nel cuore appartiene solo a me, è qualcosa che si è costruito nel tempo e vive nei miei occhi di bambina. Ciò che è diventato oggi non può essere ciò che era per me un tempo. Preferisco che la mia vita si alimenti di ricordi e preferisco non fare i conti con la realtà. In quella casa, tra quelle mura posso sentire ancora la presenza viva delle persone che ho amato, e niente potrà mai portarmele via. Niente e nessuno.