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#HASHTAG Il romanzo con le citazioni originali
di
Oreste Camera
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Il romanzo con le citazioni originali
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Prologo
Quando scrivi un libro acclamato dalla critica come un best seller, diventa tutto più difficile. Provi e riprovi a scriverne un altro, ma niente. Nulla potrà mai essere degno del primo. Caparezza cantava “il secondo album è sempre il più difficile”, e aveva ragione. Ovviamente non sto parlando di me, il mio primo libro “Avete letto il mio blog?”, ha avuto lo stesso successo di Goal 31, l’hanno letto più o meno in 20, tra cui mia madre, mio padre e la mia ragazza, e non a tutti è piaciuto, anzi, ai più ha fatto veramente schifo. Ma li capisco, non tutti riescono a 1
Sì hanno fatto anche Goal 3…io l’ho visto, in inglese coi sottotitoli, avrei preferito farmi un mese di convalescenza con venti punti intorno al pene. Poi a Dicembre l’ho fatto ed ho pensato che tutto sommato Goal 3 non era tanto male.
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Il romanzo con le citazioni originali
cogliere la genialità della mia ironia. Ho deciso quindi,
forte
della
mia
proverbiale
cocciutaggine, di scriverne un altro, magari cambiando un po’ genere, visto che a quanto pare quello utilizzato nel primo non è piaciuto. Ovviamente non scriverò nulla di serio, non ne sarei capace. Pensate che anche la mia tesi universitaria faceva ridere, ma in quella occasione non ne fui contento, anche se poi alla fine mi è andata abbastanza bene. Questo libro parlerà di me e dei miei amici, che mi hanno chiesto di cambiare i loro nomi e li accontento perché rispetto la loro volontà e perché,
effettivamente,
qualcuno
di
loro
potrebbe risultarvi alquanto strambo. Altri personaggi invece saranno liberamente ispirati a dei simpatici ominidi che ho conosciuto. Molti
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dei fatti narrati sono realmente accaduti, altri potrebbero accadere a breve.
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Intro
Un posto troppo piccolo o persone troppo grandi? È questa la domanda che mi ossessiona da qualche anno a questa parte. Spesso sento dire: “questo paese è troppo piccolo per me!”, ma cosa vuol dire? Che le nostre ambizioni, i nostri sogni, devono essere condizionati dal posto in cui viviamo? O semplicemente in un posto così piccolo un sogno non riusciamo nemmeno a farlo? Il posto in cui sono nato io è quel che si dice: “un paesino dimenticato da Dio”, non che Dio ci sia mai realmente venuto, non ho mai sentito parlare né di martelli piovuti dal cielo né di mantelli rossi svolazzanti. Spesso pensavo che fossimo veramente stati lasciati a noi stessi,
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senza nessuna grande mano invisibile che ci controllasse, era un paesino così piccolo, sia nelle dimensioni che nello spirito, che chiunque avrebbe provato un senso di oppressione e di inadeguatezza. Nel mio paesino, Terzopoli, non esiste il concetto di giusto e sbagliato, non esiste il senso civico, non esiste nulla che possa far pensare al futuro, al progresso. A Terzopoli il pesce grande mangia il pesce piccolo, sempre. Perché il pesce grande è quello più furbo, con più amici, più parenti e più pesci che gli devono un favore. Il pesce piccolo invece è solo, semplicemente perché gli altri pesci piccoli preferiscono stare col pesce grande, perché per loro è più comodo. Poi un giorno arriva un altro pesce grande, ancora più grande di quello di prima, così il pesce piccolo diventa amico del
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nuovo grande, e il grande di prima…diventa il pesce piccolo. Questo cerchio va avanti da sempre, da quando è stato fondato, e non esiste nulla che faccia pensare che un giorno, anche per sbaglio, il pesce piccolo riesca a battere il pesce grande da solo. Quando ero ragazzo non capivo bene come funzionava, addirittura pensavo che un giorno sarei stato io il pesce grande. Poi un giorno mi son reso conto che, semplicemente, non volevo più essere un pesce. Così ho fatto le valige, ho arrotolato la pergamena della mia laurea, e insieme ai miei amici di sempre, sono andato via, nella grande città.
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Capitolo Primo Un lavoro che proprio non ci piace
Era una notte buia e tempestosa, era una mattinata afosa, era un pomeriggio uggioso, era… non ricordo il tempo fuori com’era, ricordo solo che era un giorno come gli altri. Mi svegliai alle 8.00, feci una colazione veloce a base di caffè e cornetto alla crema del discount, pausa gabinetto di trenta minuti con rapida lettura delle notifiche di Facebook e una doccia al volo con tanto di esibizione canore di alcuni pezzi classici dei Pooh2. Alle 9.30 ero già in ufficio e alle 10 avevo già voglia di spaccare la tastiera ergonomica sulla pelata del capo ed andarmene via, 2
magari
insieme
a
Non mi dire niente stammi ad ascoltare…
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qualche,
non
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necessariamente una sola, segretaria del piano di sopra. Il capo aveva quel sorriso giallo sigaretta degno di Massimo Moratti, aveva anche gli stessi soldi e questo gli dava la convinzione di essere migliore di tutti noi, ma non capiva di essere solo un ricco e viziato figlio di papà. Era stato il padre a fondare l’Azienda (così si chiamava la sua creatura) a soli 30 anni e fino al suo ultimo giorno di vita era venuto in ufficio a lavorare con noi, magari non era proprio una bella
cosa
avere
un
vecchio
moribondo
tremante in giro per l’ufficio, passavamo il tempo a rialzare il boccione dell’acqua che faceva cadere ogni dieci minuti, magari era snervante dovergli spiegare ogni giorno che il tuo box non era il bagno, però almeno ci
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metteva l’impegno e non ci ha mai fatto mancare il meglio. Prima di morire ha pensato bene lanciare l’Azienda sul mercato azionario, in questo modo adesso era di proprietà degli azionisti, per lo più casalinghe con qualche spicciolo in banca, che a fine anno si vedevano recapitare a casa un assegno di poche centinaia di euro, senza sapere che l’amministratore delegato tratteneva per se la fetta più grossa degli utili, che magicamente spariva in qualche paradiso fiscale, lontano da occhi indiscreti e soprattutto dal fisco. Col passaggio a public company, Denti Gialli dovette accettare un ruolo da dirigente, nulla di più, anche se era molto più di quello realmente meritasse. Quella mattina, si presentò nel mio box,
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quello dove urinava il padre, di due metri per due, col suo solito disgustoso sorriso. Quando aprì quella fogna che osa chiamare bocca, una mosca gli si ficcò in gola sicura di trovare la più grossa montagna di merda della terra, e non sarei sorpreso se l’avesse anche trovata. - Che hai fatto ieri sera? – mi disse con quella sua voce rauca e petulante. - Niente di ché, sono uscito con qualche amico. Solito bar, solita birra - anche se avrei voluto dirgli mi sono fatto tua sorella! - ma la sorella era
veramente un cesso, proprio come lui. Lui invece, con quel suo solito ghigno e quella sua leggera erre moscia - Pff! Io sono uscito con la nuova valletta di TeleV. Solita suite, solito Champagnino, solito bunga bunga!
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Avrei volito dirgli wow! Ma non avrebbe colto l’ironia e avrebbe iniziato a credere che lo invidiavo, che volevo essere anche io come lui, che volevo fare anche il Bunga Bunga il sabato sera insieme a dieci ballerine mulatte col culo di marmo‌e come dargli torto? Era brutto come Gargamella ma aveva tutto: fama, potere e donne. Mi limitai ad annuire, mi girai e continuai a lavorare. Lui andò via un po’ deluso, ma ero sicuro che il leccaculo del box di fianco al mio sarebbe caduto nella sua trappola e avrebbe iniziato a pomparlo di complimenti, a dirgli che era un gran figo, che avrebbe voluto un decimo della sua fama e del suo potere, e magari gli avrebbe chiesto se voleva dargli un calcio nelle palle.
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Finalmente quel grigio orologio a parete segnò le tredici e nel giro di pochi minuti ero già in mensa3, ma la giornata divenne ancora più triste: come primo piatto ci servirono pasta e cavolfiore, per secondo merluzzo e carote lesse. Chiesi alla signora della mensa se si fosse fornita nell’ospedale di fronte o se avesse assunto Benedetta Parodi in cucina. Mi rispose con uno sputo sul merluzzo che, sono sicuro, ha avuto uno
spasmo
in
quello
stesso
momento.
Ringraziai e andai a sedermi al “tavolo dei repressi”. Si chiamava così perché era il tavolo in cui si sedevano tutti i laureati al quarto rinnovo da stagista, quelli che, per intenderci, sognavano di diventare manager, poi avevano abbassato il tiro e volevano diventare dirigenti, poi impiegati, 3
Quando si tratta di mangiare divento come Bolt.
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per poi limitarsi ad elemosinare un contratto che durasse almeno dodici mesi. Al tavolo c’erano i miei tre compagni di sventura: Leonard Ashler, Esperto di Marketing ed ex Bocconiano, passava le giornate a stilare report su report, dei quali nessuno conosceva l’utilità. Leonard era il tipico animale da discoteca, quando uscivamo tutti insieme ci piantava sempre all’improvviso per andare a caccia di gnocca. Era ossessionato da Barney di How I met your mother e dal suo play book, tentò più volte di ripetere la settimana perfetta: una ragazza diversa a sera, per una settimana intera. Quel giorno, arrivò in mensa - Ragazzi ma se invece di una diversa a sera, ne avessi rimorchiate due diverse a sera, per una settimana?
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- Direi che hai realizzato la settimana del porco! Pier Duisenberg, Esperto di Finanza, incaricato alla distribuzione di buoni pasto, era un tipo raffinato,
quando
non
usciva
con
noi
frequentava quei locali alternativi, dove gente con l’orecchino al naso si autodefinisce artista e recita qualche poesia senza rime e senza senso - Io invece ieri sera sono andato ad ascoltare il maestro Tony, è il genio dell’anno;
- Ma perché non sei venuto alla mostra di Andy Warhol con me? - David Patten, Dottore in Lettere
classiche, corregge la grammatica delle lettere di assunzione e di licenziamento. Il suo sogno era quello di insegnare nei licei, ma con le varie riforme scolastiche la via dell’insegnamento era diventata troppo complicata, così si era deciso a provare strade diverse.
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- Io invece ho completato Assassin’s Creed 3!!! – e in fine c’ero io, Jerome Anderson4, Esperto in Ricerca e Sviluppo. La mattina iniziavo col ricercare il fornitore di materiale d’ufficio più economico
e
concludevo
il
pomeriggio
sviluppando un presentazione in Power Point per illustrare quante penne erano sparite durante il giorno…ero l’addetto alla cancelleria.
Quel giorno nessuno di noi aveva un gran voglia di lavorare, in realtà nessun giorno dell’anno avevamo voglia di lavorare, ma dovevamo. Il nostro era un lavoro di merda ma qualcuno doveva pur farlo, ma non dite all’inserviente che ho detto questa cosa, soprattutto dopo ora di pranzo, soprattutto 4
Ho pensato fosse figo cambiare anche il mio nome.
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dopo che Leonard era passato per il bagno del terzo piano. Riuscivamo a trovare un piccolo sorriso quando alle 17 in punto la ragazza del bar della mensa portava il Tè al capo. Era bella da mozzare il fiato, aveva un culo che parlava più lingue del Papa, ma cosa più importante odiava quello stronzo dai denti gialli forse più di noi, così ogni giorno, prima di entrare nel suo ufficio, si girava verso di noi e dopo averci fatto l’occhiolino, sputava nella tazza del Tè. Quello sputo veniva accompagnato da una ola che attraversava tutto l’openspace. L’openspace, che figata lavorare in un openspace, tutti possono sentire quello che dice chiunque e tutti vendono quello che stai facendo, non puoi scaccolarti, mettere i piedi sulla scrivania, non
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puoi nemmeno ruttare dopo aver bevuto una coca, niente, sei costretto a trattenere tutti i tuoi impulsi primordiali. Odio l’openspace. Alle 18 precise, un lieve segnale acustico, quasi impercettibile per gli estranei, annunciava la chiusura degli uffici e noi quattro, manco se stessimo a Pamplona il giorno dei tori, ci precipitammo fuori da quell’odioso palazzo, prima che il dirigente di turno ci chiedesse di dargli una mano a portar giù pacchi di risme di carta
che
occasionalmente
rubava
dal
magazzino. Come ogni sera ci demmo appuntamento alle 21, al solito bar, “Il gladiatore”, il primo che arrivava prendeva il tavolo, l’ultimo lo prendeva nel culo e pagava da bere a tutti. Salii sul tram verso casa, avevo bisogno di
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una doccia calda, avevo ancora la puzza dei cavolfiori addosso e qualche schizzo di sputo del capo tra i capelli, e non ero l’unico ad accorgermene, tutte le persone attorno a me mi evitavano. Un bambino di pochi mese iniziò a piangere nel momento in cui salii fino a quando scesi, poi magicamente ritornò a sorridere tra le braccia della madre, che nel frattempo mi aveva maledetto. Il bello di non avere un coinquilino, o meglio, di avere un coinquilino sociopatico, è che ti lascia sempre il bagno libero, così mi buttai subito sotto la doccia. Ripensi al culo della barista, ai denti del capo, al numero delle volte in cui qualcuno spunta nel piatto di un altro nella
mia
azienda…ripensavo
a
tutta
la
giornata…poi pensai anche che se non mi davo
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una mossa dovevo pagare io!
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