CARTAS DA GUERRA_20160217_XLRepubblica {interview} [it]

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Berlinale 2016: “Cartas da guerra”

L’intervista al regista portoghese Ivo M. Ferreira e la recensione del film, in b/n, ambientato durante la guerra coloniale nell’Angola del 1971 Cartas da guerra è un film ambientato in Angola durante il 1971 e il protagonista è un giovane medico militare, Antonio Lobo Antunes. Chi si ricorda oggi delle guerre coloniali del Portogallo? Probabilmente nessuno nel mondo e neppure forse in Portogallo c’è voglia di riesumarle. Eppure tra il 1961 e il 1974 in zone come l’Angola la guerra coloniale era qualcosa di reale, giovani soldati inviati a combattere in quelle terre che poi alla fine sono state abbandonate con il risultato che oggi a regnarci c’è solo l’estrema povertà.

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Cartas da guerra, finanziato grazie anche all’European Gap Financing Market 2015 e realizzato dalla Biennale Cinema, è un film girato in bianco e nero con una voce narrante per gran parte del film ed è incentrato sulla corrispondenza tra il giovane medico militare Antonio, spedito in missione e sua moglie Maria José, che lo aspetta in stato di gravidanza in Portogallo. Questo è un film con tantissimi (forse troppi) richiami al cinema di Miguel Gomes ed è una pellicola quasi d’altri tempi: se fosse stato prodotto vent’anni fa, probabilmente non ci sarebbe stata differenza. Il film di Ivo M. Ferreira è un film poetico, incentrato sul dialogo continuo tra il medico, costretto a vivere in un campo militare disperso nel nulla e le emozioni, il sentimento di distanza, le difficoltà nello stare lontano dalla moglie che, nell’attesa del suo ritorno, diventerà madre. Le lettere, tutte vere e raccolte nel libro Lettere dalla guerra (D’este viver aqui neste papel descripto: cartas da guerra) di Antonio Lobo Antunes sono un viaggio nel viaggio alla scoperta dell’amore, della vita e della morte, tutte emozioni e sensazioni che prendono vita attraverso belle immagini volutamente in bianco e nero girate in Angola.

In questo film le parole scandite dalle molteplici lettere sono fondamentali, le vere protagoniste in tutto il film, raccontate attraverso immagini che descrivono una terra africana pesante e lenta, lontana e non compresa. Il ritmo del film è dato proprio dalle emozioni che vengono raccolte attraverso le parole di Antonio, dai momenti di tristezza, di allontanamento e mancanza assieme alla voglia di ritornare a casa e abbracciare l’amata moglie, con il risultato che, a volte, c’è un fiume in piena di sentimenti che può risultare eccessivo, ma, allo stesso tempo, necessario per cogliere a pieno il vulcano di emozioni del giovane medico.

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Un film sicuramente da vedere, che ha un ritmo tutto suo e probabilmente molto diverso dalla frenesia di quel cinema commerciale che tanto funziona: ma quest’anno alla Berlinale il cinema portoghese, con diversi film in concorso, sta vivendo una seconda primavera per quanto concerne il film d’autore e il film di Ferreira aiuta a prendersi un po’ di tempo per riflettere su diversi aspetti della vita, che a volte non è solo a colori.

Ivo M. Ferreira © Carlos Morganho

Il regista Ivo M. Ferreira ci ha raccontato qualcosa su questo film in concorso a Berlino. Come è stato arrivare in Angola e girarci un film?

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“Fare un film in Angola è stato qualcosa di estremamente interessante, ma allo stesso tempo complicato. Persone in ospedale, malaria, i coccodrilli: tutta una serie di complicazioni di cui avrei fatto volentieri a meno, allo stesso tempo però è stato fantastico lavorare con alcuni attori locali, quando abbiamo fatto i casting è stato veramente coinvolgente, abbiamo incontrato un gruppo di nomadi e basti pensare che non erano mai stati dentro una macchina. Sono persone che non hanno nulla, ma allo stesso tempo estremamente eleganti, hanno delle pose bellissime e sono molto educate, abbiamo provato a fare una scena dove bisognava urlare e loro nulla, non volevano farlo, perché evidentemente non era nella loro educazione farlo”.

Margarida Vila-Nova

Fare un film con una parte di cast locale come è stato? “Con il direttore del casting abbiamo cercato a lungo e ad un certo punto mi ha chiesto se davvero volessi girare un film con persone del luogo. Abbiamo scelto 2 sorelle e tutta la famiglia è venuta ad osservare, è stato un rischio grosso metterli nel film, ma è stata una esperienza bellissima, sono stati così gentili, qualcosa che mi ha colpito molto”.

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Miguel Nunes

Perché fare un film in bianco e nero oggi? “Non è stata una cosa voluta, almeno nella fase di preparazione del film. Dopo il primo giorno di riprese abbiamo guardato il girato e la luce sembrava proprio fatta apposta. Il secondo giorno abbiamo rifatto lo stesso processo e ho capito che il film funzionava se fosse stato editato in bianco e nero. Penso sia stata la scelta giusta”. Il Trailer Di questa guerra si è parlato veramente poco. Come è stato incontrare i reduci? “Inizialmente molto difficile, ho trovato un muro, non avevano molta voglia di raccontare quello che era successo così tanto tempo fa. Poco a poco però hanno iniziato a confidarsi, penso di essere stato uno dei pochi che negli anni è stato invitato a uno dei loro meeting. Quando sono tornati dalla guerra hanno subìto un processo molto ingiusto, sono diventati in qualche modo vittime loro stessi, basti pensare che erano dei giovani presi e spediti via da casa in mezzo alle “tigri”. Quando la guerra è finita nessuno si è preso cura di loro, ho scoperto che il termine “trauma post-guerra” è iniziato ad essere considerato seriamente dal governo solo dopo il 1992. Hanno voluto parlare di quanto successo, secondo me, perché probabilmente stanno diventando vecchi e forse, dopo tanto tempo, hanno cambiato idea e hanno deciso di raccontarlo per non dimenticare”.

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