Un progetto a cura e di Francesco Arena ©2019 “OTHER IDENTITY” Altre forme di identità culturali e pubbliche | seconda edizione 9 - 23 Marzo 2019 | GENOVA Opening in tutte le sedi: Venerdì 8 Marzo H. 17:00 Galleria ABC-ARTE, Galleria Guidi&Schoen-Arte Contemporanea, PRIMO PIANO di Palazzo Grillo, Sala Dogana-Palazzo Ducale
Mostra collettiva, evento internazionale d’arte contemporanea (Fotografia Installazioni - New Media Art - Videoarte - Electronic Music) Con il patrocinio della Regione Liguria e Comune di Genova In collaborazione con: Goethe-Institut Genua, Galleria ABC-ARTE, Galleria Guidi&Schoen-Arte Contemporanea Organizzazione: Benedetta Spagnuolo/ARTISTI ITALIANI-arti visive e promozione Partner e sponsor tecnici: Radiobabboleo, Il Secolo XIX, Locanda di Palazzo Cicala, EdArte-Associazione Culturale, AA Photography di Alessandro Arnò e M. Lucia Menduni, Valentino Visuals Coordinamento immagine grafica: Davide Ape Multimedia e video a cura di: Francesco Arena; Dagmar Thomann Traduzioni: Elena Gallo; Giusi Pennisi Fotografie ufficiali dell’evento: Francesco Arena; Alessandro Arnò; M.Lucia Menduni Riprese video ufficiali: Francesco Arena; Valentino Visual
PRESENTAZIONE Questo nuovo upgrade di “Other Identity”, dopo l’edizione del 2016, conserva le caratteristiche principali che lo hanno contraddistinto nella prima uscita e ora più che mai il tentativo di assottigliare le distanze tra artista e galleria, artista, critico e curatore, artista e il suo pubblico. In questa seconda edizione siamo ospitati da tre tra le più importanti gallerie genovesi, Galleria ABC-ARTE, Galleria Guidi&Schoen-Arte Contemporanea, PRIMO PIANO di Palazzo Grillo, e uno degli spazi ufficializzati più dinamici ed energici del comune di Genova, Sala Dogana a Palazzo Ducale. Un’edizione che si presenta come “un’unplugged” dopo la prima uscita in un enorme contenitore come quello della Loggia della Mercanzia sempre a Genova; “una musica per gli occhi” dove le opere d’arte e i progetti visivi e sonori intendono mostrare le contaminazioni esistenti tra le arti visive e quelle performative e il legame indissolubile che si crea con la musica contemporanea. Questa volta siamo voluti entrare direttamente negli spazi adibiti all’arte, le gallerie, rispettando le peculiarità che ogni spazio offriva, irrompendo a volte in maniera violenta, a volte più discreta e intimista ma sempre carica di energia nel bianco delle pareti e nel legno dei parquet, con lavori coraggiosi e viscerali, che provano a spogliarsi e guardarsi allo specchio come quando si cerca di riconoscersi in un’immagine riflessa, cercando di capire l’origine di quelle forme, di quei lineamenti… le nostre somiglianze e le nostre differenze. Ecco, Other Identity quest’anno più che mai presenta artisti legati da questo comune denominatore, artisti che con le loro opere si mettono in gioco in prima persona e parlano di se in maniera diretta a carte scoperte, senza mediazioni, attraverso sensibilità diverse ma sincere; i colori delle stampe fotografiche, dei video, delle installazioni esplodono questa volta nell’austerità ed autorevolezza degli spazi privati, nell’eleganza delle location, affrontando con lucidità ed energia questa sfida che per molti artisti è la loro prima grande prova ufficiale.
Premesse: Other Identity vuole essere una tappa di un progetto espositivo, che funga da cartina al tornasole capace di misurare di volta in volta lo stato di una nuova grammatica narrativa, di nuove forme di interpretazione della nostra immagine. A confrontarsi sul tema dell’identità e dell’autorappresentazione sono artisti italiani e stranieri uniti da una comune piattaforma emotiva e tematica, dalla quale poi sfociano ricerche personali ben distinte, e dal comune linguaggio fotografico. Una nostra peculiarità è quella di presentare artisti spesso inediti per favorire e stimolare la conoscenza del loro lavoro e l’interesse del pubblico partecipante al nostro evento. La fotografia è qui il medium privilegiato in ogni sua forma, sia essa analogica o digitale, utilizzata attraverso reflex professionali o smartphone, usata sempre con consapevolezza e coerenza dall’artista che la piega alla propria ricerca personale, senza abusare di quelle post-produzioni spesso impiegate per mascherare un’inesistente qualità dell’immagine. Il comune denominatore degli artisti coinvolti è una “onestà intellettuale” nel senso di un consapevole, intelligente, lucido, semplice uso del mezzo espressivo, a tratti brutale nella sua desolante rappresentazione del reale, spesso filtrato da emotività malinconiche e sognanti, crudo iper-realismo, graffiante autobiografia, esibizionismo pubblicitario e complesse dinamiche di intimità familiari. Non è corretto parlare di “artisti selezionati”, ma di artisti che si sono scelti, avvicinati con quell’istinto “animale” che ci fa riconoscere i nostri simili anche in cattività, identificare una piattaforma emotiva comune da cui poi sfociano ricerche personali ben distinte legate però da questa tematica di fondo.
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OTHER IDENTITY Other Identity si occupa di decifrare un fenomeno ormai comune ma che ha cambiato radicalmente il modo di “vivere” ed “interpretare” la nostra immagine che è diventata continuamente esibita e pubblicizzata: il nostro modo di autoritrarci e di presentarci al mondo. Il nostro privato è pubblico e la rappresentazione di noi stessi si modifica e si spettacolarizza continuamente in ogni nostro agire; si creano così delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare, così forniamo tracce, costruiamo il nostro profilo emotivo attraverso una personalità che ci rappresenta o quanto meno vorremmo ci rappresentasse, e spesso questa nostra costruzione ci fa effettivamente credere di essere così, come se avessimo bisogno di inventare un’immagine pubblica che ci sostituisce per avere un ruolo e un peso nel mondo. Una mostra quindi sulle nuove forme di identità e sulle sue continue trasformazioni. …Emozione è la parola magica; specialmente in quell’universo parallelo che è il web e il social net, un luogo di identità alternative, di personaggi esagerati, un teatrino emozionale apparentemente effimero e superficie dove si consuma però la maggior parte del nostro tempo e si è sviluppata una comunicazione e una immagine del sè che ormai influenza pesantemente anche la nostra vita reale. L’ 88% dei messaggi che includono foto attirano l’attenzione ed hanno un tasso di memorizzazione più alto, quelli con i video ottengono il 2,35 d’interazione in più. I post senza contenuti visual creano solo il 1,71 di coinvolgimento. L’importanza dell’apparenza sociale e pubblica L’ importanza dell’ immagine anche grazie all’evolversi di quegli “elettrodomestici” che ormai ci sono indispensabili come smartphone e tablet è ormai un dato di fatto, il nostro album di famiglia è stato sostituito dagli album condivisi in rete dalle varie piattaforme; il nostro privato viene costantemente messo in evidenza esaltandone anche i più piccoli e insignificanti momenti come il risveglio, la colazione o la pausa in compagnia di un buon libro, il nostro shopping ecc. ogni nostra azione acquista una risonanza pubblica come se acquistasse valore soltanto nel momento della sua condivisione con un numero sempre più alto di “amici” che spesso neppure conosciamo e con i quali magari non ci siamo scambiati nessuna parola. Questo disperato bisogno di “sottolineare” la nostra presenza solo in funzione della sua pubblicizzazione ha fatto si che anche la nostra immagine ne subisse una trasformazione. Rappresentazione del sé Sempre di più siamo attenti ad orchestrare ciò che vogliamo mostrare di noi stessi, esaltarne certe caratteristiche nasconderne altre, siamo impegnati a costruire la nostra immagine pubblica, come fossimo tutti dei personaggi dello spettacolo o dello star system, plagiamo, pieghiamo, modifichiamo così la nostra “autorappresentazione” come fossimo quasi più attenti ad orchestrarne la messa in scena che non a viverla, come fossi più importante far emergere la scenografia della nostra esistenza piuttosto che la sua sostanza. Identità di genere Si manifestano e si creano così delle vere e proprie identità di genere che ognuno di noi sceglie in corrispondenza delle caratteristiche che vuole evidenziare del suo “personaggio”, un carattere grintoso, modaiolo, euforico, avventuroso o riflessivo, dolce, intimistico, solare o dark… così forniamo tracce, costruiamo il nostro profilo emotivo attraverso un personaggio che ci rappresenta o quanto meno vorremmo ci rappresentasse, e spesso questa nostra costruzione ci fa effettivamente
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credere di essere così, come se avessimo bisogno di inventare un’ immagine pubblica che ci sostituisce per avere un ruolo e un peso nel mondo. Selfie: il narcisismo sui social network Così la pratica dell’ autoritrarsi, del dover testimoniare attraverso la nostra immagine la nostra condizione sociale, sfocia nel “Selfie”. L’Oxford Dictionaries Online, ha nominato il neologismo inglese selfie parola dell’anno 2013 inserendola come nuovo termine all’ interno del vocabolario. Sto parlando delle foto auto-scattate che ritraggono se stessi postate sul web che piacciono tanto a tutti (o quasi) gli utenti del web e che stanno riempiendo i social più utilizzati come Instagram e Facebook. Si tratta come ormai sappiamo bene, di una specie moderna ed evoluta del classico autoscatto alla quale si aggiungono due dimensioni importanti: la dimensione della rappresentazione e della condivisione dell’immagine, infatti mentre il vecchio autoscatto rimaneva essenzialmente un ritratto privato, il selfie invece è pubblico. Nata negli anni 2000 con la diffusione dei primi social network come per esempio My Space, con il quale si iniziava a pubblicare le proprie informazioni personali in rete, l’avvento di Facebook, con la sua immagine del profilo ma anche degli smartphone dotati di fotocamera frontale sono stati decisivi per l’affermazione dell’attività di scattare selfie che oggi conta solo su Instagram 73,925,900 post. All’ interno del web si condividono gli autoscatti migliori di sé per la ricerca di gratificazione personale e un narcisismo che sfiora quasi la patologia a cui si aggiunge anche quella dell’approvazione altrui espressa attraverso il numero dei “mi piace” ottenuti per ogni autoscatto. La tendenza quindi è quella di sentirsi approvati in primis dagli altri e poi da noi stessi, quantifichiamo nei like il grado e la qualità del nostro potere seduttivo, della nostra personalità e del nostro “personaggio”. Perché tutto è pubblico, nulla celato o omesso se non forse la nostra vera natura il nostro essere profondo. Identificazione del sé Da sempre l’artista è sensibile ad argomenti quali l’identità e la comunicazione legate alla sua immagine, ma ora più che mai egli è indotto a confrontarsi con se stesso e a mettere in discussione la sua autorappresentazione. Lungo è il percorso di riflessione su tale tema: tornando indietro nel tempo si può far riferimento alle ricerche di Cindy Sherman (Glen Ridge, 1954), artista, fotografa e regista statunitense, conosciuta per i suoi autoritratti concettuali (self-portrait), che forse per prima ha potentemente sottolineato questo aspetto di spersonalizzazione della propria immagine assumendo nelle sue opere ruoli di volta in volta differenti; per poi passare a Nan Goldin (Washington DC, 1953), che si afferma come una delle maggiori esponenti di un’espressione artistica a favore della completa identificazione tra arte e vita, utilizzando la fotografia come un “diario in pubblico” a documentazione della sua esistenza, a partire dal suicidio della sorella Barbara Holly nel 1965. Senza poi dimenticare Francesca Woodman (Denver, 1958 – New York,1981) che, nonostante la sua breve vita, ebbe influenza sull’arte di fine XX secolo concentrando il suo lavoro soprattutto sul suo stesso corpo e sull’ambiente circostante, riuscendo spesso in una vera e propria fusione. Molti altri sono gli artisti che si potrebbero citare, ma questi sono i principali punti di riferimento delle numerose ricerche sviluppatesi nel corso degli anni fino a giungere alle recenti curiose citazioni dell’attore e artista James Franco, che nella sua prima opera fotografica (James Franco’s New Film Stills) si rifà, reinterpretandola, alla prima storica serie di Cindy Sherman, i Film Stills; oppure alle opere del fotografo Sandro Miller, che ha selezionato alcuni tra i più famosi ritratti di sempre, ricreandoli con John Malkovich (attore, regista, produttore cinematografico e teatrale, nonché stilista, statunitense), come protagonista. «Malkovich, Malkovich, Malkovic» è il titolo del
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progetto che vuole essere un omaggio ai grandi maestri della fotografia. Il richiamo, il plagio, la riedizione, il ready made dell’iconografia di un’identità legata al passato, al presente e al contemporaneo sono quindi messi costantemente in discussione in una ricerca affannosa di una nuova identificazione del sé, di un nuovo valore di rappresentazione che viene puntualizzato, sottolineato, raccolto, selezionato come a voler fermare schegge impazzite che travolgono il nostro quotidiano, la nostra vita intima, i nostri sentimenti o, meglio, la riproduzione di tutto ciò che siamo e proviamo ad apparire nei confronti del mondo. Francesco Arena
Anche in questa edizione abbiamo associato al progetto, come da nostra consuetudine, diversi elementi: Performance che si alternano durante il periodo della mostra, all’interno delle diverse location; azioni live site specific strutturate appositamente per l’evento, l’opportunità di un confronto con un pubblico molto ampio che potrà così vivere da vicino il contatto diretto con artisti che hanno privilegiato il media live nel proprio lavoro. Gli artisti selezionati con linguaggi molto diversi tra loro affrontano man mano diverse sfumature legate all’identità e alle sue possibili interpretazioni mettendo in gioco senza riserve il proprio corpo, non solo esposto ma in molti casi “offerto” agli spettatori che saranno invitati ad interagire alle azioni. Un Catalogo Web che si occupa dell’immagine coordinata dell’evento e che pubblichiamo in concomitanza della vernice; contiene tutti i materiali realizzati per la mostra, le schede tecniche degli artisti, gli approfondimenti critici del curatore Francesco Arena e i contributi che molteplici personaggi nel mondo dell’arte, della moda e dei blog hanno espresso circa le tematiche trattate; uno strumento immediatamente scaricabile su qualunque piattaforma mobile o fissa attraverso codice QR-code o indirizzo url che permette in tempo reale di disporre di tutte le informazioni o le curiosità su Other Identity ed i suoi partecipanti. Si abbattono quindi le barriere tra catalogo fisico e fruizione dell’informazione rendendo tutto molto più disponibile e condivisibile. Un Video-Catalogo che non è soltanto una trasposizione video di quello on line ma contiene tutte le riprese live delle azioni, dei pezzi esposti, documenti inediti sugli artisti, brevi video interviste, e backstage sull’evento, un modo per poter vivere Other Identity non soltanto dal vivo ma dall’interno della propria genesi. Tutti i materiali prodotti sono di volta in volta disponibili presso il Sito Ufficiale della manifestazione.
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PRESENTATION This new upgrade of “Other Identity”, which follows the 2016 edition, keeps the main characteristics it had in its first release and now more than ever it tries to shorten the distance between the artist and the gallery, the artist, the critic and the curator, the artist and his/her audience. This second edition will be housed in three of the most important Genoese galleries, ABC-ARTE art gallery, Guidi&SchoenArte Contemporanea, PRIMO PIANO in Palazzo Grillo, and one of the most dynamic and active officialised spaces in the city of Genoa, Sala Dogana in Palazzo Ducale. An edition that presents itself as “unplugged” after the first release in a huge venue that is the one of the Loggia della Mercanzia always in Genoa; “music for the eyes” where works of art and visual and audio projects intends to show the existing contamination between visual and performing arts, and the indissoluble bond created with contemporary music. This time we wanted to enter directly the areas used for the display of art, the galleries, respecting the specific traits that every space offered. Sometimes we broke in violently, other times in a more discrete and intimist way but still full of energy on the white walls and the wood parquet, with brave and visceral works, which try to strip and look at themselves in the mirror as when we attempt to identify ourselves in a reflection, trying to understand the origin of those shapes, of those features... our resemblances and differences. There, Other Identity this year more than ever presents artists who share this common denominator, artists who by exhibiting their works take a personal challenge and talk about themselves directly and sincerely, with no mediations, through different but honest sensitivities. The colours of the photos, videos and installations blow up, this time, in the austerity and authoritativeness of private spaces, in the elegance of the locations, facing in a clear-headed and energetic way this challenge that for several artists is their first great official trial.
PRELIMINARY REMARKS “Other Identity” wants to be a phase of an exhibition project which acts like a litmus paper capable of measuring from time to time the condition of a new narrative grammar, new forms of interpretation of our image. The themes of identity and self-representation will be debated by Italian and foreign artists who share a common emotional and thematic platform, from which personal and well-defined researches come out, brought together by the same photographic language. One of our main functions is to present less unknown artists to the public so as to foster their work and create interest amongst people.Photography is the favoured medium here, in all its forms, both analogue and digital, expressed through professional reflex cameras or smartphones. The artist who submits it to his or her own personal research, without abusing those post-productions often used to disguise an inexistent quality of the picture, always uses it consciously and coherently. The common denominator of the artists involved is an “intellectual honesty” or in other words an aware, clever, clear, and simple use of the medium, which can be brutal at times in its upsetting representation of reality. It is often filtered by gloomy and dreamy emotions, raw hyperrealism, scathing autobiography, advertising exhibitionism and difficult developments of family intimacy. It is therefore incorrect to talk in this context about “selected artists” but, instead, about artists that have chosen themselves, and who have connected with that “animal” instinct that let us recognize our fellow creatures even in captivity, and identify an emotional common platform from which different personal researches bound together by such topics arise.
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OTHER IDENTITY “Other Identity”deal with the interpretation of a popular phenomenon, which has drastically changed the way of “living” and “deciphering” our image which is constantly shown and merchandised: our way of portraying and presenting ourselves to the world. Our private and public sphere and the representation of ourselves and in everything that we do is being modified and ceaselessly turned into a show. Thus, everyone creates real gender identities chosen according to the characteristics that we want to highlight. Then we provide traces and build our emotional profile through a personality that represents us or, at least one which we would like it to be. This construction often makes us actually believe it to be like that, as we need to invent a public image, which replaces us for the purpose of having a role and weight in the world. Hence, this is an exhibition that covers new forms of identity and their continuous transformations. ...Emotion is the magic word: especially when considering that parallel universe that is the web and the social media world, a place for alternative identities, a place for exaggeration, some sort of theatrical and apparently superficial landscape where we still spend most of our time and that has contributed to create an image of ourselves that somehow also translates into the real world. 88% of the total messages including pictures manage to get immediate attention compared to videos with pics, that still get a + 2,35 on interactions. Posts without any graphic content get only a 1, 7% of attention. The importance of social and public appearance: It is factual thing that all images involving those devices we use on a daily basis, such as smartphone, tablets, etc, have replaced the classic “ family photos album” concept - our private life is constantly highlighted by those new tools, capturing moments such as waking up, breakfast, free time reading a book, shopping time and such. Every single action we take gets an echo through social media, even we share them with so-called “friends” that are actually people we may never have even met in real life. This desperate need to highlight our presence has contributed to the changes of imaging itself. Self representation: We are increasingly careful about the way we chose to show ourselves to the world, increasingly paying attention to our public image, just as those star system characters: we modify, filter, post produce our own image as if we were caring more about the way we portrait ourselves than who we actually are. Gender identity We therefore can see the creation of new gender identities that are increasingly in line with those specific aspects we wish to underline when portraiting ourselves - let’s say for example if we wish to show ourselves as being exhibitionists, shy, sweet, fashionable, dark people...we leave traces of who we are or, even better, of who we wish we could be or be seen as - all of this to get a role into the world and being perceived as we wish we could be. The selfie” phenomenon: becoming a narcissist on social media The practice of constantly having to portrait and show ourselves to the outer world takes place on social media - the so called “selfie” phenomenon. The word selfie itself has been included in 2013 in the Oxford Dictionaries Online, and described as the self-taken picture of oneself then shared within social such as Facebook and Instagram and aiming to attract consent and “likes” from others. As we know, this is simply the modern version of the old dear self portrait picture, with two added dimensions: the dimension of the picture itself and the ever so important “sharing” element - when the old
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self-portrait was taken fpr personal purposes, the selfie is instead destined to go public. All of this new trends has become popular during years 2000, with the advent of MySpace first, followed by Facebook and the ever so important profile picture, taken with increasingly technological smartphone cameras, and then Instagram which counts 73,925,900 selfie posts itself only. Only the best selfies are actually shared within the social media world, both for personal gratification and a narcissism that is getting closer and closer to some sort of psychological issue - where the affirmation to self comes from the number of “likes” one picture can get. This clearly shows the tendency of looking first from other people’s approval than to be happy with ourselves - and hat is how we now qualify and quantify both our seductive power towards others and ultimately the strength of our own personality. Self - identification Every artist has always been interested in topics such as identity and communication related to his/her image, but what was once a personal interest has now become a necessity. There is a long history regarding this topic: starting from the very first researches around it conducted by Cindy Sherman (Glen Ridge 1954), american author, photographer and director, mostly known for her conceptual self portraits - she was the first to work around it by highlighting in such a powerful way the concept of de-personification while assuming different characters within each of her pictures; when then think about Nan Goldin (Washington DC, 1953), an artist that affirmed herself through a powerful and complete merging of art and life, using photography as some sort of “public diary” documenting her life, starting from her sister’s suicide in 1965. We then move to Francesca Woodman (Denver 1958 - NY, 1981), that, despite of her short life, had a huge influence
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on the end of XX century art, focusing her work especially on her own body and her surroundings, and often managing to create a real fusion between the two. There are many more artists that could be mentioned, but these are just some of the most important for all different sort of personal artistic research taking place during that period, up to some curios mentions made by artist and director James Franco in his very first photographic work (James Franco’s New Film Stills) who clearly refers to the legendary Cindy Sherman’s Film Stills - also worth mentioning is the work of Sandro Miller, who chose amongst some og the most popular portraits ever, recreating them together with John Malkovich ( on of the most famous ans acclaimed US artist - actor, producer, and fashion designer as well) as a protagonist and giving them the title “ Malkovich, Malkovich, Malkovich” to a series that aims to be an homage to the great photography gurus. Recalling, copying, re-editing and recreating the iconography of past and present identities are therefore some of the main themes that are constantly discussed and reviewed when looking for new forms of self-identification, of a new set of values that artists try to catch in that ever spinning and chaotic daily life that determines our intimacy, our feelings and emotions, or even better the image of all that we are and what we aim to be and appear to be to the world that’s watching us. Francesco Arena
Also in this edition, we have associated different elements to the project, as we usually do: Performances that alternate during the period of the exhibition into the various locations; live site-specific actions expressly organized for the event; the opportunity to meet a wide audience that will closely experience the direct contact with artists who favoured the live medium in their own works. The selected artists, using very different languages, face little by little various shades of identity and its possible interpretations by fully putting their body into play, not only displayed but also often “offered” to the spectators who will be invited to interact with the actions. A Web Catalogue, which deals with the correlative image of the event and which is published in conjunction with the vernissage. It contains all the material produced for the exhibition, the artists’ data sheets, the critical analysis written by the art curator Francesco Arena and the contributions that a number of people involved in the world of art, fashion and blogs expressed about the covered topics. It is a tool directly downloadable on any mobile or fixed platform through a QR-code or url address which allows you to know all the information and facts on Other Identity and its participants in real time. Thus, the walls between the paper catalogue and information use are pulled down making everything readily available and shareable. A Video-Catalogue which is not only a video transposition of the online catalogue but it contains all the live shoots of the actions, of the displayed pieces, unpublished documents of artists, short videos and interviews and backstage of the event; a way to experience a live Other Identity from the inside of its genesis. All the produced material is available on the Official Website of the event.
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GLI ARTISTI | THE ARTISTS
Artisti partecipanti: Karin Andersen | Holger Biermann | Silvia Bigi | Isobel Blank | Manuel Bravi | Silvia Celeste Calcagno | Marco Cappella | Ivan Cazzola | Maurizio Cesarini | Cinzia Ceccarelli | Giacomo Costa | Davide D’Elia | Amalia De Bernardis | Emanuele Dello Strologo | Montserrat Diaz | Boris Duhm | Patricia Eichert | Nadja Ellinger | Erresullaluna + Chuli Paquin | Francesca Fini | Nadia Frasson | Giorgio Galimberti | Debora Garritani | Chiara Gini | Federica Gonnelli | Christina Heurig | Corinna Holthusen | Giacomo Infantino | Donatella Izzo | Richard Kern | Sebastian Klug | Sandra Lazzarini | Francesca Leoni | Francesca Lolli | Tore Manca (Mater-ia) | Romolo Giulio Milito | Monica Mura | Alessandra Pace-Fausto Serafini | Alexi Paladino | Carmen Palermo | Phoebe Zeitgeist | Ophelia Queen | Francesca Randi | Bärbel Reinhard | Christian Reister | Natascia Rocchi | Solidea Ruggiero | Paula Sunday | Marcel Swann | Roberta Toscano | Mauro Vignando | Ramona Zordini Musicisti FLeUR/Enrico Dutto-Francesco Lurgo | Luca Fucci | The Deep Society/Valerio Visconti-Mirko Grifoni Performance Nadia Frasson (Guidi&Schoen-Arte Contemporanea) Cinzia Ceccarelli (ABC-ARTE) Francesca Fini (Sala Dogana-Palazzo Ducale) Electronic Live: FLeUR/Enrico Dutto-Francesco Lurgo; Luca Fucci; The Deep Society/Valerio Visconti-Mirko Grifoni (Sala Dogana-Palazzo Ducale) Video Rassegna Francesca Fini; Francesca Lolli; Tore Manca (Mater-ia); Phoebe Zeitgeist (Sala Dogana-Palazzo Ducale)
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KARIN ANDERSEN A Trip to Astra Raslovo: Flip / White Light Questa serie di immagini cambia l’identità di un particolare luogo urbano: la stazione metropolitana Salvator Rosa a Napoli si trasforma in un ecosistema immaginario che ospita una peculiare specie di insetti umanoidi.
A Trip to Astra Raslovo: Flip / White Light This series of images changes the identity of a particular urban site: the Salvator Rosa Metro Station in Naples is transformed into an imaginary eco-system hosting a peculiar species of humanoid insects.
Selfish Un uomo-trota, inteso come esempio di una concezione del sé proiettata oltre l’orizzonte antropocentrico.
Selfish A troutman, meant as an example for a self-concept beamed beyond the anthropocentric horizon.
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Karin Andersen, Selfish, 2015. Lambda Print. 80x60 cm. Edition of 5 + 2 AP. Courtesy Guidi&Schoen, Genova.
Karin Andersen, A Trip to Astra Raslovo: Flip / White Light (Dittico), 2003/2015. Lambda Print. 60x80 cm. cad. edition of 5 + 2 AP. Courtesy Guidi&Schoen, Genova.
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HOLGER BIERMANN 1984-Family Picture Un’installazione fotografica composta da circa 50 immagini 20x35 cm. ciascuna tratte da matrici analogiche in diapositiva. “Durante un soggiorno a Vienna nel settembre 2011, ho camminato sulle rive del Naschmarkt, un fiume a Vienna. Era piuttosto tardi e il mercato li vicino stava per chiudere; gli spazzini erano già arrivati e stavano per mettersi all’opera. All’improvviso vidi centinaia di diapositive incorniciate che giacevano insieme con una borsa strappata sul terreno. Molti negativi erano sporchi e danneggiati. Tuttavia, quello che ho scoperto su alcuni di loro, mi ha sorpreso molto: una raccolta di foto di famiglia degli anni ‘80. Immagini fantastiche di un fotografo sconosciuto. Ho salvato le più belle per riproporle.” Lontane dal modello a cui siamo abituati con gli scatti tratti dalla vita privata di artisti come Nan Goldin, anch’essa autrice di “album di famiglia”, qui c’è uno scarto ulteriore, un ready made che effettua Holger selezionando e raccontando la sua versione della storia di questa famiglia “ritrovata”. Identità perdute che assumono nuovi significati. (Francesco Arena)
1984-Family Picture A photographic installation consisting of about 50 images 20x35 cm. each drawn from analog matrices on a slide. “During a stay in Vienna in September 2011, I walked on the banks of the Naschmarkt, a river in Vienna. It was quite late and the market near them was about to close; the scavengers had already arrived and were about to get to work. Suddenly I saw hundreds of framed slides that lay together with a bag torn on the ground. Many negatives were dirty and damaged. However, what I found out about some of them surprised me a lot: a collection of family photos from the 80s. Fantastic images of an unknown photographer. I saved the most beautiful to propose them again. “ Far from the model we are used to with shots taken from the private life of artists such as Nan Goldin, also the author of “family albums”, here is a further gap, a ready made that makes Holger selecting and telling her version of the story of this “rediscovered” family. Lost identities that take on new meanings. (Francesco Arena)
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Holger Biermann, “1984”, 2019. Stampa a getto d’inchiostro su carta baritata. (6 pezzi) 24x30 cm. cad.
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SILVIA BIGI Le materia del sogno Per lungo tempo si è creduto che il volo del bombo fosse contrario alle leggi della fisica. Successivamente venne osservato che le sue ali compiono 230 battiti al secondo. Nessun nervo potrebbe mai scaricare così tanti movimenti; infatti il bombo non contrae i suoi muscoli ad ogni battito, vibra come un elastico pizzicato. Le sue ali gli permettono di volare grazie ad una particolare frequenza di risonanza e ad una torsione e oscillazione estremamente complesse. Ispirandosi al suo mondo onirico infantile, e in particolare al ricordo di un volo tra gli alberi del giardino di casa, Silvia Bigi traduce in immagini la sostanza impalpabile dei sogni e allo stesso tempo realizza un manifesto del suo essere artista oggi. Se è vero che il volo del bombo sfida leggi e consuetudini e che i sogni notturni lasciano intravedere il grande potenziale dell’animo umano, il lavoro dell’artista contemporaneo si colloca in questo stesso spazio liminare, poiché deve fare dei confini e delle barriere un’occasione di espansione, in un atto di fiducia e di abbandono. È quindi nell’incontro tra razionalità e intuizione, tra visibile e invisibile, che un’opera può venire alla luce nella sua forma più autentica. Nella sequenza, l’autrice si mostra nell’atto della svestizione e dei suoi tentativi di volo: ispirandosi al bombo e i suoi 230 battiti al secondo, ma anche alla bambina che sognava di volare tra gli alberi, gli esercizi di volo la obbligano ad esporsi, a condividere apertamente con il pubblico il suo processo creativo. Concede e restituisce a chi si avvicina il suo sguardo sulle cose, la posizione fisica dei suoi occhi: occhi intesi come punto di congiunzione tra un mondo esterno e una percezione soggettiva, interna, da cui tutto viene trasformato.
Me and the bumblebee For a long time people used to believe that the bumblebee was stranger to the laws of physics. Later, it was observed that its wings make 230 beats per second. No nerve could stand so many movements; in fact a bumblebee doesn’t use its muscles, he vibrates. Its wings allow him to fly thanks to a particular frequency and to an extremely complex process of twisting and oscillation. Inspired by her oniric childhood’s world, and specifically by the memory of a dream where she was flying through the trees in her backyard, Silvia Bigi translates into images the impalpable substance of dreams and at the same time she creates a manifesto of being an artist today. If it is true that the bumblebee challenges laws and customs, and dreams allow us to glimpse the great potential of the human soul, the work of a contemporary artist can be found in that same border space, since he has to turn limits into opportunities of expansion, in an act of trust and abandonment. It is there, in the encounter between rationality and intuition, between visible and invisible, that a work can rise in its most authentic form. In the sequence, the artist shows herself in the act of undressing and in her attempts to fly: inspired by the bumblebee and its 230 beats per second, but also by the girl who dreamed through the trees, the flying exercises forces her to be exposed, to openly share its creative process with the public. She gives her gaze on things, sometimes even from the physical position of her eyes: eyes as a point of connection between an outside world and a subjective, inside one, from which everything is transformed.
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Silvia Bigi, Esercizi di volo, dalla serie La materia del sogno, 2017. Stampa giclée. (6 pezzi) 42x62 cm. cad.
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ISOBEL BLANK Una via al domani Installazione tessile La stoffa del limbo resta comunque sgualcita, anche al millesimo incontro. Umida tra le fila delle dita slacciate, non la riconosci mai. Fino al giorno in cui non aderisce alle palpebre insonni, rendendo la veglia una pallida eresia. L’identità si ridefinisce nel tempo. L’attimo sospeso nel limbo, si ripete appena prima di ogni nuovo mutamento.
A path to Tomorrow Textile installation The fabric of limbo is still crumpled, even at the thousandth meeting. Wet among the rows of untied fingers, you never recognize it. Until the day it sticks to your sleepless eyelids, making the wake a pale heresy. Identity is redefined over time. The moment suspended in limbo is repeated just before each new change.
Imago Video Artificio e natura formano l’immagine di sé. I nostri punti di vista su di noi la fanno evolvere e modificare, così come gli sguardi altrui entrano talvolta a costituirla.
Imago Video Artifice and nature form the image of oneself. Our own points of view on us make it evolve and change, just as the glances of others sometimes come to constitute it.
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Isobel Blank, A path to Tomorrow, 2019. installazione tessile: lana, resti di stoffa, fotogramma stampato su tela, gomma piuma, disegni ad inchiostro su tela, spilli. 100x150x10 cm.
Isobel Blank, Imago, 2018. Digitale, durata 2’.24”, colori. Musica di Simone Lanari.
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Limbo Video La dimensione dei perimetri confusi, delle figure sfocate, dell’assenza di definizione. Un periodo incerto, d’attesa per una decisione o una conclusione. Uno stadio intermedio, una condizione al limite del cambiamento. Il processo del divenire si ripete durante l’esistenza. A volte giunge contro la propria volontà e trova opposizione, a volte è accettato passivamente, altre volte lo si cerca. L’istante che precede il mutamento corre come una cascata d’aria ad avvolgere l’immagine di te.
Limbo Video The size of the confused perimeters, of the blurred figures, of the absence of definition. An uncertain period, of waiting for a decision or a conclusion. An intermediate stage, a condition at the limit of change. The process of becoming is repeated during existence. Sometimes it comes against its will and finds opposition, sometimes it is passively accepted, sometimes it is sought. The instant before the change runs like a waterfall of air to wrap the image of you.
Sotto una luce diversa – nascita di un concetto Video La ricerca tra quello che esiste già, la raccolta, la scelta tra fonti esterne. La mente assorbe gli estratti che ritiene interessanti. L’individuo diventa autore, trasformando gli stessi input e rielaborandoli in una forma diversa. I nuovi elementi prendono autonomamente una propria strada, ed assumono un proprio volto, abbandonando l’autore. Solo a quel punto, lasciata l’origine, potranno comunicare con il proprio linguaggio ed esprimere il nuovo concetto, l’entità indipendente che permetterà di vedere le medesime cose sotto una luce diversa, con uno sguardo nuovo.
Under a different light – birth of a concept Video The research amongst what already exists, the collection, the choice amongst external sources. The mind absorbs the interesting estracts. The individual becomes author, transforming the same inputs and re-elaborating them in a new shape. The new elements take their own direction, and assume their own face, abandoning the author. Only after leaving the origin, they could comunicate with their own language and express the new independent concept that will show the same things under a different light, through brand new eyes.
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Isobel Blank, Limbo 2010. Mini DV, durata 3’.30”, colori. Musica di Andrea Della Misericordia
Isobel Blank, Under a different light, birth of a concept 2010. Mini DV, stop-motion, pixelation, durata 4’.19”, colore. Musica di Cop-Killin’ Beat
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MANUEL BRAVI In Deep Red La serie In deep red è la rappresentazione delle pulsioni erotiche presenti in ognuno di noi: l’esibizionismo marcato dei tempi digitali che si scontra con le paure dei giudizi altrui. Ci nascondiamo dietro maschere e inquadrature che oscurano il viso mostrando con orgoglio il resto del corpo, in una vetrina ricettiva e compiacente, al centro di un’arena fatta da account senza volti pronti a lusinghe e a insulti crudeli. La profondità dei nostri istinti emerge dalla superficie quotidiana – cadenzata dai ritmi lavorativi, famigliari, dagli amici e dai selfie sorridenti – in secondi profili fittizi e nascosti. Il mare della nostra complessità passa attraverso diversi livelli dove solo i più liberi riescono a scendere senza sensi di colpa.
In Deep Red The series In deep red is the representation of our erotic pulsations: the strong exhibitionism of digital times collides with the fear of others’ opinion. We hide ourselves behind masks and shots that dim our face, showing the rest of the body with pride, in a receptive and compliant showcase, in the middle of an arena made up of accounts with no faces ready to flatter or cruelly insult. The depth of our instincts emerges from the daily surface – scanned by the working and family rhythms, by friends and smiling selfies – in fictitious and hidden second profiles. The sea of our complexity goes through different levels, where only the freest can to go down without guilt.
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Manuel Bravi, In Deep Red I, 2018. Photography. 50x70 cm. Manuel Bravi In Deep Red II, 2016. Photography. 50x70 cm.
Manuel Bravi, In Deep Red III, 2016. Photography. 30x45 cm. Manuel Bravi, In Deep Red IV, 2016. Photography. 30x45 cm.
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SILVIA CELESTE CALCAGNO Fuoco fatuo “Indosso la mia natura beduina quando sono stanca.” Amal Musa Il deserto, per sua stessa natura, è antitesi alla dimensione abitata, terreno fertile per i miraggi, spazio in cui il cammino di un uomo può smarrire e ritrovare i limiti, la direzione, il tempo. In questo luogo, dove secondo Alberto Moravia “non è possibile soggiornare, mettere radici, abitare, vivere stabilmente” bensì “bisogna continuamente muoversi, e così lasciare che il vento, il vero padrone di queste immensità, cancelli ogni traccia del nostro passaggio, renda di nuovo le distese d’acqua o di sabbia, vergini e inviolate”, l’ultimo lavoro di Silvia Celeste Calcagno trova la sua dimensione ideale, avvolto da una leggera patina di necessario oblio. Questa volta è il corpo a doversi dimenticare, per permettere alla natura di fare il suo corso e consentirgli di rinascere: i confini che si credevano noti e inviolabili sfumano in immagini che ne mutano l’aspetto, celandoli in alcuni casi totalmente e rendendo le forme poco o nulla riconoscibili, con la volontà di conservarle, in attesa di un necessario rinnovamento. Come neve che custodisca semi in inverno, la sabbia del deserto avvolge e copre le fattezze femminili preservandone la reale natura da ciò che tenta di modificarne l’essenza. Fuoco Fatuo è, in sintesi, un lavoro sulla natura dell’artista, sul kunstwollen che spinge a un continuo rigenerarsi, alla ricerca di un significato immanente dell’opera, nell’opera. Il grés accoglie il corpo frammentato, conferendogli un’identità sottesa: la materia rivela le sue potenzialità materne donando alla constatazione fotografica l’identità di una Madre Terra la cui intimità, similmente a Persefone, sia combattuta tra la superficie e la profondità. […] L’anima, come un fuoco fatuo, si affaccia tra i chiaroscuri per poi scomparire, miraggio concretizzato sul confine tra bianco e nero. Il disfacimento pervade le superfici: per Silvia Celeste Calcagno, il processo di decomposizione rimane uno degli eventi naturali alla base dell’esistenza su questo pianeta, un processo ineludibile, oscuro, necessario. Il corpo diviene metafora del procedimento che nella natura avviene in silenzio e senza sosta, lasciandosi cadere come unica opzione possibile. Il deserto dà le direzioni attraverso l’ascolto e il silenzio: se è vero che, come sostiene la tradizione Tuareg, esso è stato creato affinché l’uomo possa ritrovare la sua anima, l’invito di Silvia Celeste Calcagno al ricongiungimento con la natura porta in dono il senso della meraviglia, il placarsi delle tempeste, la quiete dello spirito. (Tratto da “Silvia Celeste Calcagno- Fuoco fatuo” di Francesca Bogliolo)
Fuoco fatuo “I wear my Bedouin nature when I’m tired.” Amal Musa The desert, by its very nature, is antithesis to the inhabited dimension, fertile ground for mirages, a space in which the path of a man can lose and rediscover limits, direction, time. In this place, where according to Alberto Moravia “it is not possible to stay, to take root, to live, to live permanently” but “we must continually move, and so let the wind, the true master of these immensities, cancel every trace of our passage, render again the expanses of water or sand, virgin and inviolate “, the last work of Silvia Celeste Calcagno finds its ideal dimension, wrapped in a light patina of necessary oblivion. This time it is the body that has to forget, to allow nature to take its course and allow it to be reborn: the boundaries that were believed to be known and inviolable fade into images that change its appearance, totally celing them and making the forms little or nothing recognizable, with the will to keep them, waiting for a necessary renewal. Like snow that holds seeds in winter, the desert sand wraps and covers the feminine features,
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Silvia Celeste Calcagno, Fuoco Fatuo, 2019. Fotografia su ceramica. 110x80 cm.
Silvia Celeste Calcagno, Fuoco Fatuo, 2019. Fotografia su ceramica. 1110x80 cm.
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preserving its real nature from what it tries to modify its essence. Factual Fire is, in short, a work on the nature of the artist, on the kunstwollen that pushes to a continuous regeneration, in search of an immanent meaning of the work, in the work. The stoneware welcomes the fragmented body, giving it an underlying identity: the material reveals its maternal potential, giving the photographic observation the identity of a Mother Earth whose intimacy, similarly to Persephone, is fought between the surface and the depth. [...] The soul, like a fatuous fire, looks out between the chiaroscuros and then disappears, a mirage concretized on the border between black and white. The disintegration pervades the surfaces: for Silvia Celeste Calcagno, the decomposition process remains one of the natural events underlying the existence on this planet, an unavoidable, obscure, necessary process. The body becomes a metaphor of the process that in nature takes place in silence and without stopping, letting it fall as the only possible option. The desert gives directions through listening and silence: if it is true that, as the Tuareg tradition claims, it was created so that man can rediscover his soul, Silvia Celeste Calcagno’s invitation to reunite with nature it brings as a gift the sense of wonder, the placating of storms, the stillness of the spirit. (Taken from “Silvia Celeste Calcagno- Fuoco Fatuo” by Francesca Bogliolo)
Bless this house Video Con Bless this house, Silvia Celeste Calcagno, si immedesima con alcuni edifici che, ripresi al rallentatore, implodono su loro stessi, minati all’interno, metafora di come lei stessa ora si sente. Queste scene riprendendo un canovaccio a lei caro, sono drammaticamente virate ad un inquietante rosso, e raccontano un’apocalisse personale in cui tutto crolla: i muri, i piani, le certezze, tutto è raso al suolo, tutto è distrutto e apparentemente cancellato. Ma, lo sappiamo, questo annichilimento è prodromico ad un nuovo inizio, a una nuova costruzione, all’avventura di una ripartenza che porterà nuovi confini e nuove sfide .Quando siamo messi alle strette, quando la realtà ci chiama ad una nuova coscienza di noi stessi, quando sembrano perdersi i contorni delle cose che sempre tendiamo a sovrapporre ai nostri, è lì che riemerge con forza una nuova fisicità, tanto più imponente e strutturata, quanto più solido e capace di resilienza è l’animo di chi racconta. (Davide Caroli)
Bless this house Video With Bless this house, Silvia Celeste Calcagno, identifies with some buildings that, taken in slow motion, implode on themselves, undermined inside, a metaphor of how she feels now. These scenes take up a plot dear to her, are dramatically turned to a disturbing red, and tell a personal apocalypse in which everything collapses: the walls, floors, certainties, everything is razed to the ground, everything is destroyed and apparently erased. But, we know, this annihilation is prodromal to a new beginning, to a new construction, to the adventure of a re-start that will bring new boundaries and new challenges. When we are pressed, when reality calls us to a new consciousness of us themselves, when they seem to lose the contours of the things that we always tend to overlap with ours, it is there that strongly re-emerges a new physicality, the more impressive and structured, the more solid and resilient the soul of the narrator is. (Davide Caroli)
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Silvia Celeste Calcagno. Bless this house. Video, durata 6’.50’’
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MARCO CAPPELLA Il lavoro che presento è stato realizzato tra il 2012 e il 2015 e si divide essenzialmente i due blocchi; una parte composta da classici scatti street realizzati tra Parigi e Shanghai e un’altra composta da un lavoro più strutturato dove cerco un dialogo tra corpi femminili e il paesaggio circostante. The work I present was carried out between 2012 and 2015 and essentially divides the two blocks; a part composed of classic street shots made between Paris and Shanghai and another composed of a more structured work where I look for a dialogue between female bodies and the surrounding landscape.
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Sopra Marco Cappella, Paris, 2012. Parigi. Pellicola 35mm. Scansione + stampa inkjet. 50x70 cm. A sinistra Marco Cappella, Made of Stone, 2015. Palazzo Ducale Urbino + Lago di Fiastra. Pellicola 35mm + Pellicola medio formato 6x7, scansione + stampa inkjet. 50x70 cm. A destra Marco Cappella, Untitled 2, 2013. Umbria. Pellicola 35mm. Scansione + stampa inkjet. 50x70 cm.
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IVAN CAZZOLA […] Una continua ricerca estetica in cui non sono mai stati stravolti i soggetti ma è cambiato lo sguardo dell’artista nei confronti del mondo. Bisogna essere disposti a mettere in discussione quel che si è sempre pensato sulla fotografia. Ivan Cazzola fa ritratti; ma non è un ritrattista; è affascinato dai paesaggi, ma non è un paesaggista; le sue fotografie documentano un momento storico, ma non è un documentarista; nel suo lavoro tutti questi generi sono rappresentati contemporaneamente e ci appaiono in modo organico e intimo, come un racconto personale. Ritratti di amici, particolari di vita quotidiana, nature morte si mostrano in tutta la loro semplice bellezza; un’analisi visiva sul identità contemporanea. Eppure riesce a trasformare la pellicola in opere d’arte regalandoci il modo in cui vede il mondo, nascosto nei piccoli dettagli, nelle contraddizioni e nei sogni di un’intera generazione. […] (Noemi Penna) [...] A continuous aesthetic research in which the subjects have never been turned upside down but the artist’s gaze on the world has changed. We must be willing to question what we have always thought about photography. Ivan Cazzola makes portraits; but he is not a portraitist; he is fascinated by landscapes, but he is not a landscape artist; his photographs document a historical moment, but he is not a documentarian; in his work all these genres are represented at the same time and appear in an organic and intimate way, like a personal story. Portraits of friends, details of everyday life, still lifes show themselves in all their simple beauty; a visual analysis of contemporary identity. Yet he manages to transform the film into works of art, giving us the way he sees the world, hidden in the small details, in the contradictions and dreams of an entire generation. [...] (Noemi Penna)
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Ivan Cazzola, Untitled (detail), 2018/2019. Stampa fotografica su tela vinilica. (4 pezzi) 50x300 cm. cad. (3 pezzi) 90x300 cm.
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MAURIZIO CESARINI Le fotografie sono presentate (seppure autonomamente) come una sorta di installazione, le une di seguito alle altre, collegate da una declinazione della tematica identitaria. -Real Self-Portrait: Evidenzia una sostanziale conformazione del soggetto, ovvero ciò che Jacques Lacan definisce come Reale. Al di là della strutturazione egotica e identitaria permane un resto mortifero che è parte del corpo e che non trova possibilità di essere detto, dandosi (pur essendo parte del soggetto totale) come alterità assoluta. -Interrogatoire: Pone la questione, in senso visuale, di una congenita impossibilità a conoscersi e quindi l’inanità di una interrogazione su se stessi. -Il punto di vista sul punto di vista: Il titolo si riferisce ad una frase con cui J.P.Sartre definisce il corpo, evidenziando nel vuoto dello sguardo l’impossibilità di una auto percezione egotica. Le foto “Incontro” e “Abdicazione” si riferiscono entrambe al concetto di doppio ben esemplato nel testo di Otto Rank. L’idea della duplicità allude alla costituzione identitaria per cui esiste una soggetto simbolico, l’inconscio ed un soggetto immaginario, ovvero l’io; in entrambi i casi la dialettica dello sguardo in “Incontro” e la sostanziale separazione in “Abdicazione”, segnano l’impossibilità di ridurre la dualità ad una unità, se non attraverso un travisamento nevrotico. Il senso del mio lavoro può riassumersi tra due pensieri che in qualche modo lo rappresentano; l’uno di Montaigne quando dice “Sono io stesso la materia del mio libro”; l’altro di Lacan che esplicita chiaramente ciò che penso: “Laddove mi vedo non ci sono, dove ci sono non mi vedo”. The photographs are presented (albeit autonomously) as a sort of installation, in succession linked by a declination of an identitary theme. -Real Self-Portrait: It shows a substantial co-formation of the subject, that is what Jacques Lacan defines as Real. Beyond the egotic and identitarian structuring there remains a deadly remnant that is part of the body and which does not find possibility to be said, giving itself (while being part of the total subject) as absolute alterity. -Interrogatoire: It places the question, in visual sense, of a congenital impossibility to know oneself and therefore the inanity of a question about oneself. - Il punto di vista sul punto di vista: the title refers to a sentence with which J.P. Sartre defines the body, highlighting in the emptiness of the gaze the impossibility of an egotic self-study. The photos “Incontro” and “Abdicazione “ both refer to the concept of “double” well-exemplified in the text of Otto Rank. The idea of duplicity alludes to the constitution of identity for which there is a symbolic subject, the unconscious and an imaginary subject, namely the ego; In both cases the dialectic of the gaze in “Incontro” and the substantial separation in “Abdicazione”, mark the impossibility of reducing the duality to a unit, except through a neurotic misrepresentation. The sense of my work can be summed up between two thoughts that in some way represent him; The first of Montaigne when he says “I am the subject of my book”; The second of Lacan that clearly explicit what I think: “Where I see myself , I’m not there, where I am, I do not see myself”.
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Maurizio Cesarini, Abdicazione, 2016. Foto digitale. 70x100 cm.
Maurizio Cesarini, Interrogatoire, 2018. Foto digitale. 40x30 cm.
Maurizio Cesarini, Incontro, 2018. Foto digitale. 30x40 cm.
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CINZIA CECCARELLI La pazienza di Penelope, 2013 Video ‘7m L’attesa del ritorno di un amore si può trasformare in ossessione nell’opera di Cinzia Ceccarelli, La pazienza di Penelope, dove il nostro sguardo si perde tra le onde che vanno e vengono rievocando il gesto compulsivo di tessere per poi disfare di Penelope, in attesa di scorgere tra le onde del mare, l’arrivo di qualcuno o qualcosa.
Penelope patience, 2013 Video ‘7m The expectation of the return of a love can turn into an obsession in the work of Cinzia Ceccarelli, The Patience of Penelope, where our gaze is lost in the waves that come and are evoking the compulsive gesture of weaving and then undoing Penelope, waiting to see in the waves of the sea, the arrival of someone or something.
TSO (trattami senza oblio), 2014/2019 Performance 20’ circa Una feroce denuncia riguardo quelle che dovrebbero essere le cure o le terapie obbligatorie messe a disposizione dal mondo abietto dell’odierna psichiatria. Un’azione dedicata alle vittime di figure pervicaci che, esercitando l’autorità sulla fragilità umana, perdono il valore contenuto nel codice deontologico, talvolta procurando danni che cronicizzano e inabilitano irreversibilmente.
TSO (treatments without oblio), 2014/2019 Performance about 20 minutes A ferocious complaint about what should be the cures or mandatory therapies made available by the abject world of today’s psychiatry. An action dedicated to the victims of stubborn figures who, by exercising authority over human frailty, lose the value contained in the code of ethics, sometimes causing damage that is chronic and irreversibly incapacitated.
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Cinzia Ceccarelli, La pazienza di Penelope, 2013-2019. Performance, video durata 07’ + sedia. Cinzia Ceccarelli, Mihaela Slav, Tso (trattami senza oblio), 2014/2019. Performance 20’ circa. Ph. Guido Salvini.
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GIACOMO COSTA Una serie di ironici autoritratti nei quali l’esplorazione di un vasto campionario di stereotipi sociali, sommato all’uso del travestimento e al ricorso a immagini tratte da immaginari mediatici comuni, suggerisce un percorso di ricerca che analizza da più punti di vista concettuali – etici e satirici – la manipolazione e la trasformazione nella rappresentazione fotografica. (Marta Veltri) A series of ironic self-portraits in which the exploration of a vast sample of social stereotypes, added to the use of disguise and the use of images taken from common media imaginaries, suggests a research path that analyzes from a number of conceptual - ethical points of view. and satirical - manipulation and transformation in photographic representation. (Marta Veltri)
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Giacomo Costa, Tutti hanno uno scheletro nell’armadio, 2003. Fotografia. 40x30 cm. Courtesy Guidi&Schoen, Genova
A sinistar: Giacomo Costa, Animali Domestici, 2013. Fotografia. 40x30 cm. Courtesy Guidi&Schoen, Genova A destra: Giacomo Costa, Operazione polipo, 2013. Fotografia. 40x30 cm. Courtesy Guidi&Schoen, Genova
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DAVIDE D’ELIA Le opere di D’Elia sono caratterizzate dalla contaminazione tra i linguaggi e da un’estetica concettuale. Nei suoi lavori il dato soggettivo e i materiali vengono destrutturati e ricomposti per trasformarsi nel veicolo di un pensiero universale. Dalla materia dunque all’astrazione. Adriana, che trae il titolo dal nome di una persona realmente esistita, è un’opera costituita da un gruppo di 15 tele su cui è stata applicata una carta da parati prelevata da un’abitazione privata, la casa di Adriana. La carta da parati conserva l’impronta di una vita passata: si tratta di una parete su cui erano appesi dei quadri, come suggeriscono le tracce ancora evidenti. Adriana induce a una riflessione che riguarda la memoria e la sua trasmissione, documento di una storia vissuta proiettata in una dimensione spaziale diversa. D’Elia’s works are characterized by the contamination between languages and conceptual aesthetics. In his works the subjective data and the materials are deconstructed and recomposed to become the vehicle of a universal thought. From matter therefore to abstraction. Adriana, which draws the title from the name of a truly existent person, is a work made up of a group of 15 paintings on which a wallpaper was taken from a private home, Adriana’s house. The wallpaper retains the imprint of a past life: it is a wall on which were hung paintings, as suggested by the traces still evident. Adriana leads to a reflection on memory and its transmission, a document of a lived history projected in a different spatial dimension
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Davide D’Elia, Adriana, 2017. Timeeffect on tapestry. cm 270x250 cm. Courtesy ABC-ARTE
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AMALIA DE BERNARDIS Natura morta con errore Lo studio fotografico parte dal concetto di Natura Morta, ovvero rappresentazione di un soggetto “sottratto” al proprio ambiente naturale, ed “inserito” all’interno di un altro ambiente,certo vitale, ma non idoneo per la continuazione “viva” e per lo sviluppo del soggetto. L’atto artistico dell’imprimere attraverso il segno pittorico (per farne non solo memoria ma anche analisi) questo indagare il passaggio tra la vita e la morte o lo stadio che va dal movimento vitalistico al “movimento immobile”, questo narrare la trasformazione da soggetto ad oggetto, ha svegliato una riflessione sul contemporaneo, sull’opera d’arte e l’immagine e sull’identità. Quanto e quando un’essenza viva trasportata da uno stato all’altro (foss’anche solo dallo stato “reale” allo stato di “soggetto fotografico) rimane tale o si trasforma irrimediabilmente in oggetto solamente guardato? L’immagine (fotografica, iconica , pittorica) contenente un corpo umano può essere una manifestazione stessa della vita momentanea? E via discorrendo. Il soggetto è sempre ritratto nella casa del padre (gli autoscatti, infatti, sono stati prodotti realmente nella casa d’origine, quindi in un potenziale ambiente naturale) ed è all’interno della composizione che si manifesta l’errore (il corpo non è morto e non sta morendo sul piano organico, potrebbe però, essere morto su altri livelli o in altri stadi della sua esistenza). Ulteriore dialogo si è poi aperto sull’ambiente ospitante: è davvero la casa, l’alcova, la tana, il luogo deputato a tenere l’uomo nella sua interezza, ad accogliere l’umano dalla nascita alla morte, a poter detenere il titolo di spazio naturale? Infine: quanto, nel presente, siamo oggetto (in posa) ritratto, osservato e quanto, invece, siamo corpo opera e dunque soggetto spesso nascosto ed intimo? La zona concettuale del progetto è in continuo mutamento, perché è solo, nel successivo scambio con il pubblico che vengono alla luce le risposte. (Amalia De Bernardis)
Natura morta con errore The photographic studio starts from the concept of Still Life, that is the representation of a subject “subtracted” from its natural environment, and “inserted” into another environment, certainly vital, but not suitable for the “living” continuation and for the development of the subject. The artistic act of expressing through the pictorial sign (to make not only memory but also analysis) this investigate the transition between life and death or the stage that goes from the vitalist movement to the “motionless movement”, this narrating the transformation from subject to object, he woke up a reflection on the contemporary, on the work of art and the image and on identity. How much and when a living essence transported from one state to another (even if only from the “real” state to the state of “photographic subject”) remains such or does it irreparably transform into an object only looked at? Can the image (photographic, iconic, pictorial) containing a human body be a manifestation of the momentary life itself? And so on. The subject is always portrayed in his father’s house (the self-portraits, in fact, were actually produced in the house of origin, therefore in a potential natural environment) and it is within the composition that the error manifests itself (the body is not dead and not dying on the organic level, it could, however, be dead on other levels or in other stages of its existence). Further dialogue was then opened on the host environment: it is really the house, the alcove, the den, the place appointed to keep the man in his entirety, to welcome the human from birth to death, to hold the title of natural space? Finally: how much, in the present, are we (posed) portrayed, observed and how much, instead, are we body - work and therefore a subject often hidden and intimate? The conceptual area of the project is constantly changing, because it is only in the subsequent exchange with the public that the answers come to light. (Amalia De Bernardis)
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Amalia De Bernardis, Natura morta con errore_Autoritratto, 2018. Fotografia digitale. (2 pezzi) 60x60 cm. cad. (3 pezzi) 70x50 cm. cad. (1 pezzo) 70x60 cm.
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EMANUELE DELLO STROLOGO Reportage in Bosnia nel 2016, Reportage, dove tutto sembra tranne che essere in Europa come dettomi da Sebastiao Salgado durante un nostro incontro. Reportage in Bosnia in 2016, Reportage, where everything seems to be except in Europe as dictated by Sebastiao Salgado during one of our meetings.
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Emanuele Dello Strologo, La durissima infanzia in Bosnia, 2016. Stampa su carta fotografica baritata opaca bn. 50x70 cm. Emanuele Dello Strologo, Gli occhi della Bosnia, 2016. Stampa su carta fotografica Baritata opaca bn. 50x70 cm.
Emanuele Dello Strologo, Donna a Sarajevo in un’Europa che non si riconosce, 2016. Stampa su carta fotografica Baritata opaca bn. 50x70 cm. Emanuele Dello Strologo, Bambini, figli della guerra in Bosnia in cerca di “normalita”, 2016. Stampa su carta fotografica baritata opaca bn. 50x70 cm.
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MONTSERRAT DIAZ L’idea che la vita e i sogni siano fatti della stessa sostanza è stata da sempre presente nei miei pensieri ed è necessariamente l’anima delle mie opere. Se si pensa al passato, ci si accorge che il ricordo di quello che abbiamo vissuto non è poi tanto diverso dal ricordo dei sogni appena fatti al nostro risveglio. Questa percezione del passato come un mondo fatto di sensazioni e immagini sfuggevoli, nel suo essere finito mi coglie serena ma suscita in me un inevitabile senso d’inquietudine, come quella che si ha dopo aver fatto un sogno conturbante. Ed è proprio quello che alla fine rifletto nelle mie opere: dietro un’apparenza gradevole che trasmette serenità e mette a proprio agio l’osservatore, c’è un elemento che per qualche motivo, riesce ad inquietarlo. Noi non controlliamo in alcun modo quello che sogniamo, non lo decidiamo. I sogni semplicemente accadono e poi sta a noi interpretarli una volta svegli, essi sono una voce libera che abita in noi e che comunica con noi attraverso un preciso linguaggio simbolico che incredibilmente ci accomuna. Le mie immagini sono-voglio che siano- interpretabili da parte di chi le guarda in base al proprio vissuto. Alcuni miei lavori nascono da un’idea a priori, sono il frutto di riflessioni e messe in atto con tanto di scenografia (è il caso di Tempus fugit, Ritratti senz’anima o Hic et Nunc). Invece altre mie opere più oniriche e simboliche scaturiscono da un bisogno quasi irrefrenabile di scattare e creare nuovi scenari attraverso l’uso del fotomontaggio. In questi casi mi lascio guidare dall’intuizione e dall’estetica degli elementi che ho a disposizione senza pensare troppo al significato di quello che sto realizzando. Solo a lavoro concluso capisco di aver dato voce a qualcosa che abitava in me e che attraverso l’arte è riuscito ad emergere. È qui che i miei lavori possono dirsi onirici perché accade come con i sogni: prima li faccio e poi l’interpreto. The idea that life and dreams are made of the same substance has always been present in my thoughts and is necessarily the soul of my works. If we think of the past, we realize that the memory of what we experienced is not so different from the memory of the dreams just made when we wake up. This perception of the past as a world made of sensations and fleeting images, in its finite being captures me serenely but arouses in me an inevitable sense of unease, like the one you have after having made a disturbing dream. And it is precisely what I finally reflect in my works: behind a pleasing appearance that conveys serenity and puts the observer at ease, there is an element that for some reason manages to disturb him. We do not control in any way what we dream, we do not decide. Dreams simply happen and then it is up to us to interpret them once they are awake, they are a free voice that dwells in us and that communicates with us through a precise symbolic language that incredibly unites us. My images are - I want them to be - interpretable by those who look at them based on their experience. Some of my works are born from an a priori idea, they are the result of reflections and put in place with a lot of scenography (this is the case of Tempus fugit, Ritratti without a soul or Hic et Nunc). Instead my other more dreamlike and symbolic works arise from an almost unstoppable need to shoot and create new scenarios through the use of photomontage. In these cases I let myself be guided by the intuition and the aesthetics of the elements I have available without thinking too much about the meaning of what I am realizing. Only at the end of the work I understand that I have given voice to something that lived in me and that through art has managed to emerge. It is here that my works can be called dreamlike because it happens like dreams: first I do them and then I interpret them.
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Montserrat Diaz, Blanca mañana, blanca espera, 2016. Stampa su forex + cornice. 68x68 cm. Montserrat Diaz, Reminiscenze, 2018. Stampa su forex + cornice. 68x68 cm.
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BORIS DUHM La serie in copia unica “Dr. Schrickers Eskapaden/ Dr.Schrickers Metabolismus”, è composta da stampe fotografiche 50x60 cm. in bianco e nero su carta baritata da negativi 6x7 cm. del 2017, con scritture autografate in oro; in questi lavori l’artista mette in scena il concetto di “alter ego”e un confronto giocoso con il potere del travestimento; Il mascheramento offre l’opportunità all’artista “di scivolare letteralmente in un’altra pelle, diventare qualcun altro, questo Altro non ha remore, barriere a raccontarsi in storie impossibili, assurde, schiette o persino contraddittorie, può parlare dei suoi tabù o di intime riflessioni”. Il nome del personaggio, il Dr.Schricker è stato scelto a caso, dal catalogo di un mercante di rose, rappresenta un viaggiatore emotivo, emozionale, un cantastorie contemporaneo in contrapposizione alle nostre convenzioni sociali. The single copy series “Dr. Schrickers Eskapaden / Dr.Schrickers Metabolismus”, consists of photographic prints 50x60 cm. in black and white on paper biased by negatives 6x7 cm. in 2017, with writings autographed in gold; in these works the artist stages the concept of “alter ego” and a playful confrontation with the power of disguise; Masking offers the artist the opportunity “to literally slip into another skin, become someone else, this Other has no qualms, barriers to telling stories in impossible, absurd, frank or even contradictory stories, can talk about his taboos or intimate reflections”. The name of the character, Dr. Schricker was chosen by chance, from a catalog of a rose merchant, represents an emotional, emotional traveler, a contemporary storyteller as opposed to our social conventions.
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Boris Duhm, Alpha Centauri (Dr. Schricker’s Escapades) Travemünde/Stuer, Germania 2013/2017. Smalto su fotografia analogica in bianco e nero su carta baritata da negativo 6x7 cm. 50x60 cm. Edizione n. 1/3 + 1 AP. Courtesy Gallery Burg 32 for International Art, 17209 Stuer/Germania. Boris Duhm, Biedermeier (Escapades del Dr. Schricker) Berlino/Stuer, Germania 2012/2017. Pelle di serpente e smalto su fotografia analogica in bianco e nero su carta baritata da negativo 6x7 cm. 50x60 cm. Edizione n. 1/3 + 1 AP. Courtesy Gallery Burg 32 for International Art, 17209 Stuer/Germania. Boris Duhm, White Elephant (Dr. Schricker’s Escapades) Berlino/Stuer, Germania 2013/2017. Smalto su fotografia analogica in bianco e nero su carta baritata da negativo 6x7 cm. 50x60 cm. Edizione n. 1/3 + 1 AP. Courtesy Gallery Burg 32 for International Art, 17209 Stuer/Germania.
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PATRICIA EICHERT Me and my dogs Nella serie “Me and my dogs”ci troviamo a guardare personaggi ritratti coi propri o presunti animali domestici dove la loro posa e le loro espressività risultano più umane di quelle dei loro padroni, mai ritratti in viso; paiono mere presenze di contorno al pari di un complemento d’arredo. In Made In Solingen”, ritrae personaggi con espressioni assenti, all’interno di ipotetici luoghi appartenenti alla loro quotidianità, come set pubblicitari costruiti non per promuovere un prodotto specifico ma metterci di fronte alle nostre indifferenze e alle nostre routine.
Me and my dogs In the series “Me and my dogs” we find ourselves looking at characters portrayed with their own or presumed domestic animals where their pose and their expressiveness are more human than those of their masters, never portrayed in the face; they appear to be mere presence of contour like a furnishing accessory. In Made In Solingen “, portrays characters with absent expressions, within hypothetical places belonging to their everyday life, like advertising sets built not to promote a specific product but to face our indifference and our routines.
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Patricia Eichert, Me and my dogs #1, 2014-16. Fotografia digitale su alu-dibond. 40x50 cm. Patricia Eichert, Me and my dogs #2, 2014-16. Fotografia digitale su alu-dibond. 40x50 cm.
Patricia Eichert, Me and my dogs #3, 2014-16. Fotografia digitale su alu-dibond. 40x50 cm. Patricia Eichert, Me and my dogs #4, 2014-16. Fotografia digitale su alu-dibond. 40x50 cm.
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NADJA ELLINGER Uso la fotografia per visualizzare i miei sentimenti interiori, le mie paure e i miei pensieri per ottenere una migliore comprensione di me stesso e della mia relazione con il mio ambiente. Ultimamente, sono stato coinvolto nell’argomento delle fiabe. Offrono un ampio spettro per comunicare sui processi interni. Sulla base dell’interpretazione dei sogni di Freud e delle scoperte moderne dopo Bettelheim e Kast, creo mondi fantastici che attirano lo spettatore in modo personale e diretto. Attraverso la determinazione eccessiva del simbolismo, è possibile raggiungere lo spettatore in modi diversi e rendere così la storia personalmente esperienziale. Lo scoppio del contesto politico e sociale immediato consente uno spazio privo di pregiudizi, in cui si può fantasticare e sperimentare senza costrizioni. ìI use photography to visualize my inner feelings, my fears and my thoughts to get a better understanding of myself and my relationship with my environment. Lately, I’ve been involved in the subject of fairy tales. They offer a wide spectrum to communicate on internal processes. Based on the interpretation of Freud’s dreams and modern discoveries after Bettelheim and Kast, I create fantastic worlds that attract the viewer in a personal and direct way. Through the excessive determination of symbolism, it is possible to reach the viewer in different ways and thus make the story personally experiential. The outbreak of the immediate political and social context allows a space without prejudices, in which one can fantasize and experiment without constraints.
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Nadja Ellinger, Über die Zerbrechlichkeit.N., photography inkjet print, 2018. 24x35 cm. cad.
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ERRESULLALUNA + CHULI PAQUIN Nessun giorno senza un passo Cosa succede quando il passo diviene danza? Che un gesto normale, come il camminare, si trasforma in una formula plastica, un preciso cerimoniale, una danza. Il gesto più banale viene trasportato verso una personificazione di tale intensità, che non cessa di danzare, di muoversi, di fuggire, come la figura per eccellenza del desiderio: la Ninfa. È il desiderio che si manifesta in un incedere, un movimento che però presuppone un incespicare, una frattura, una fluidità sincopata che nasce da una mancanza e quindi induce un conato. È la cifra stessa del gioco di inseguimento della Ninfa, dell’immagine che fugge e si sottrae. Al cuore dell’immagine c’è sempre vitalità: un movimento vitale che in quanto tale non può che essere precaria oscillazione, come le posture dei corpi presi dal pathos, che evidenziano una tensione conflittuale e dissonante tra estremità opposte e un’instabilità propria di un gesto che non può essere mantenuto nel tempo. Questi corpi, se non fossero sempre nell’imminenza di un movimento, smetterebbero di essere vivi e diverrebbero meri corpi, ossia cadaveri. Tuttavia il pathos deve fissarsi nella stasi. E il gesto è un ponte tra passato e presente. La sua formulazione permette lo scambio e la migrazione di valori espressivi, crea una connessione tra parola (stasi) - azione (movimento) - immagine (stasi.) Il movimento patetico crea uno spazio tra azione e riflessione, in cui comprendere il mondo, e per questo è anche gesto teatrale, esperienza intuitivamente vissuta, partecipazione dionisiaca. Ciò che interessa è l’intervallo tra forma come ritmo (ossia posa fluida nell’attimo in cui è assunta, momentanea e immodificabile) e forma come schema (statica, fissa, realizzata come oggetto). Questa polarità si esprime in quelle figure di danza che in greco si definiscono σχήματα (schémata). Il termine è plurale, perché comprende tante combinazioni quanti sono i linguaggi dei gesti, quanti sono i contesti, e quanti sono gli individui stessi.
No day without a step What happens when a step becomes a dance? A normal gesture, like walking, is transformed into a plastic formula, a precise ceremonial, a dance. The most banal gesture is carried towards a personification of such intensity, that does not cease to dance, to move, to flee, as the figure par excellence of desire: the Nymph. It is desire that manifests itself in a gait, a movement that implies a stumbling, a fracture, a syncopated fluidity that arises from a lack and therefore induces a count. It is the very figure of the game of pursuit of the Ninfa, of the image that flees and escapes. At the heart of the image there is always vitality: a vital movement that can only be precarious oscillation, like the postures of the bodies taken from the pathos, which highlight a conflicting and dissonant tension between opposite extremes and an instability typical of a gesture that cannot be maintained over time. These bodies, if they were not always in the imminence of a movement, would cease to be alive and would become mere bodies, or corpses. However the pathos must be fixed in the stasis. And the gesture is a bridge between past and present. Its formulation allows the exchange and migration of expressive values, creates a connection between word (stasis) - action (movement) - image (stasis.) Pathetic movement creates a space between action and reflection, in which to understand the world, and this is why it is also a theatrical gesture, an intuitively lived experience, a Dionysian participation. What interests us is the interval between form as rhythm (that is, fluid pose in the moment in which it is assumed, momentary and unchangeable) and forms as a schema (static, fixed, realized as object). This polarity is expressed in those dance figures that in Greek are defined σχήματα (schémata). The term is plural, because it includes as many combinations as the languages of gestures, the contexts, the individuals themselves.
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ERRESULLALUNA + ChuliPaquin, Baccanti, 2018. Stampa sperimentale a pennello su carta cotone, 30x21 cm.
ERRESULLALUNA + ChuliPaquin, Ninfe I, 2018. Stampa sperimentale a pennello su carta cotone, 100x70 cm. ERRESULLALUNA + ChuliPaquin, Flora Meretrix, 2018. Stampa sperimentale a pennello su carta cotone, 30x21 cm.
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FRANCESCA FINI SKIN / TONES Live performance di Francesca Fini, 2016-19 Un’installazione vivente di dati biometrici La pelle, esplorata da un microscopio digitale, mostra dettagli che sembrano mappe di pianeti sconosciuti: una varietà infinita di colori, texture e forme, schemi e imperfezioni. L’artista è nuda davanti allo schermo, dando le spalle al pubblico. Passa lentamente un microscopio digitale sul suo corpo, concentrandosi sulle diverse tessiture che lo compongono. Il software originale, che l’artista stessa ha compilato, calcola il colore medio di ogni segmento di tessuto, trasformando il flusso di dati in suono e video generati dal vivo: cicatrici, ferite, lesioni, nei, rughe e smagliature diventano cristalli, mandala e rosoni di chiesa. L’esperienza del pubblico. Il pubblico ha un ruolo puramente voyeuristico; non osserva più il corpo dell’artista, ma la sua elaborazione macroscopica e deformata. Come in una sorta di super-selfie trasmesso attraverso un filtro, o una membrana invisibile. Il colore della pelle e il sesso sono solo un’illusione. La performance espone la pelle umana, elaborata dal microscopio digitale e dal filtro caleidoscopico, giocando ironicamente sul concetto di biometria, che è lo studio di quel sistema di tecnologie e dispositivi che consentirebbero un’identificazione certa dell’individuo attraverso la scansione delle sue variabili biologiche. La performance di Francesca Fini, al contrario, celebra il caos, l’errore e l’imprevedibilità dell’identità individuale. Il colore della pelle, analizzato dall’obiettivo del microscopio e elaborato dal flusso digitale, diventa una varietà infinita di combinazioni cromatiche, perdendo ogni possibile connessione con la realtà cartesiana visibile a occhio nudo. Sotto il microscopio digitale, i corpi femminili e maschili perdono la loro identità sessuale. Il lavoro è una celebrazione della vita cellulare nella sua essenza.
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Francesca Fini, WAS THERE, performance, poster su carta, 2014. 80x120 cm. Francesca Fini, WAS THERE, performance, poster su carta, 2014. 80x120 cm. Francesca Fini, IL CADAVERE SQUISITO, performance, poster su carta, 2015. 80x120 cm.
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SKIN / TONES Live performance by Francesca Fini, 2016-19 A living installation of biometric data The skin, explored by a digital microscope, shows details that look like maps of unknown planets: an infinite variety of colors, textures and shapes, patterns and imperfections. The artist is naked in front of the screen, giving her back to the audience. He slowly passes a digital microscope on his body, focusing on the different textures that make it up. The original software, which the artist has compiled, calculates the average color of each tissue segment, transforming the flow of data into live sound and video: scars, wounds, injuries, wrinkles and stretch marks become crystals, mandalas and church rosettes. The public experience. The public has a purely voyeuristic role; he no longer observes the body of the artist, but his macroscopic and deformed elaboration. As in a sort of super-selfie transmitted through a filter, or an invisible membrane. Skin color and sex are just an illusion. The performance exposes the human skin, elaborated by the digital microscope and kaleidoscopic filter, playing ironically on the concept of biometry, which is the study of that system of technologies and devices that would allow a certain identification of the individual through the scanning of its biological variables . The performance of Francesca Fini, on the contrary, celebrates the chaos, the error and the unpredictability of individual identity. The color of the skin, analyzed by the microscope objective and elaborated by the digital flow, becomes an infinite variety of chromatic combinations, losing every possible connection with the Cartesian reality visible to the naked eye. Under the digital microscope, the female and male bodies lose their sexual identity. Work is a celebration of cellular life in its essence.
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Francesca Fini, SKIN / TONES, performance, poster su carta, 2016. 80x120 cm. Francesca Fini, BLIND, performance, poster su carta, 2011. 80x120 cm. Francesca Fini, THE GOLDEN AGE, performance, poster su carta, 2013. 80x120 cm.
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A Love Letter Dal microcosmo degli oggetti e degli alimenti che si trovano in tutte le cucine italiane, che fanno da contrappunto alla nostra quotidianità e ci caratterizzano veramente come popolo, parte una riflessione sul macrocosmo degli ideali su cui dovrebbe essere impostata la nostra società. I quattro articoli della Costituzione che l’artista reputa più importanti vengono ricostruiti con gesti di tutti i giorni, in una trasposizione ironica che allude all’implicito tradimento quotidiano di questi valori che avviene altrove e lontano da noi.
A Love Letter From the microcosm of those objects and foods that are found in all Italian kitchens, which are a counterpoint to our everyday life and what really characterize us as a people, starts a reflection on the macrocosm of the ideals upon which our lives should be set . The four articles of the Italian Constitution that I consider most important are rebuilt with the gestures of everyday life, in an ironic allusion to the implicit daily betrayal of these values that happens elsewhere and away from us.
Dadaloop Una ratatouille dadaista di immagini in cui il cibo diventa sogno - oppure incubo - e il riflesso di diete schizofreniche nella cornice claustrofobica di un autoritratto. Il film mette in scena una serie di surreali trompe l’oeil all’interno di un paesaggio artificiale 3D in cui un linguaggio ibridato mette insieme clip video originali - interpretate dall’artista stessa - e animazioni realizzate con un collage di immagini tratte da famose opere d’arte che riguardano il cibo.
Dadaloop A dadaist ratatouille of images in which food becomes a dream - or nightmare - and the reflection of schizophrenic diets in the claustrophobic frame of a self-portrait. The film stages a series of surreal trompe l’oeil inside an artificial 3D landscape in which an hybridized language brings together original video clips - starring the artist herself - and animations made with a collage of cut-out images from famous works of art related to the theme of food.
The Healing Nel 2012 Salvatore Iaconesi, grande amico dell’artista, ha scoperto di avere un tumore al cervello. Ha deciso allora di cercare una cura “open source” su Internet, pubblicando i suoi referti medici e invitando scienziati, poeti, filosofi e artisti a partecipare al progetto. Perché la cura non è solo un percorso medico: può essere anche cibo per l’anima. “Healing”, un esperimento performativo sul magnetismo, è la risposta di Francesca Fini a questa chiamata.
The Healing In 2012 Salvatore Iaconesi, great friend of the artist, discovered he has a brain cancer. He decided then to search for an “open source cure” publishing his medical data on the Internet and inviting doctors but also artists to find for him a “cure”. A cure is not only a medical advise but also a work of art, as a spiritual food for the soul. “The Healing” is Francesca Fini’s answer to his call.
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Francesca Fini, A Love Letter, 2013. Video e animazione digitale, durata 6’ Francesca Fini, Dadaloop, 2015. Video e animazione digitale, durata 10’ Francesca Fini, The Healing, 2012. Videoperformance, durata 6’.47’’
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Liszt Siamo agli inizi del ‘900 e tre bimbi posano per una foto di famiglia: sono i piccoli pionieri di una colonia di immigrati cristiani a Gerusalemme. Ai volti smarriti l’intervento successivo del fotografo ha regalato quel colorito posticcio tipico delle foto dell’epoca: una combinazione di tonalità cromatiche che profuma di biscotti e latte caldo, di bambole di porcellana, di un passato che ci rassicura nella sua artificiosa innocenza. Questo il punto di partenza per una trasfigurazione digitale in cui la parte inferiore del volto dell’artista si sostituisce a quella dei bimbi, in un rovesciamento del tempo e del senso che si cristallizza in un non-tempo e in un non-senso. I tre bimbi diventano così tre archetipi umani imprigionati nella gogna eterna di una foto di famiglia: una comunione forzata che si traduce in insofferenza reciproca, nella violenza crescente della parola che vanifica qualsiasi possibilità di comunicazione autentica. E così anche l’epica dei sogni e delle illusioni umane, nell’album di famiglia della ricerca dell’innocenza perduta, si traduce in una forma di violenza che attraverso la storia non può che portare alle estreme conseguenze. Quando c’è solo la parola, la propria, la bocca diventa un’arma. Eppure l’invito all’ascolto viene alla fine recuperato, in una sorta di messaggio di speranza che l’artista consegna al mondo attraverso questi tre inconsapevoli antenati.
Liszt it is the beginning of the 20th century and three children are posing for a family photo. The children are young pioneers in a colony of Christian immigrants in Jerusalem. The subsequent intervention of the photographer has added to their bewildered faces the false colors of the photos of the period; a combination of chromatic shades with the odor of cookies and hot milk, porcelain dolls, long sea journeys, dusty old books, and an artificial “innocence”. This is the point of departure for a digital transformation in which the lower part of the artist’s face replaces that of the children, in a reversal of time and meaning crystalized in a non-time and non-meaning. In this way the three children become three human archetypes imprisoned in the eternal pillory of a family photo. It is a forced communion that translates into reciprocal impatience and an increasing verbal violence that superimposes itself on the words, preventing any kind of interaction. And therefore the universe concealed in this photo, the epic of human dreams and illusions, in the family album of the search for a lost innocence by these ancient pioneers, is translated into a form of violence that throughout history has brought extreme consequences. Nonetheless, the invitation to listen is recuperated in the end, in a sort of message of hope that the artist consigns to the world through these three unknowing ancestors.
Mother-Rhythm Stili e modalità diverse di racconto si sovrappongono e si compenetrano in un viaggio in cui il tempo si flette e si piega, fino a permettere l’incontro tra l’artista e sua madre da coetanee. L’intento documentaristico iniziale, animato dal desiderio di raccontare la storia materna, si stempera nella necessità di ricostruire quest’incontro impossibile, nella dimensione onirica dell’artificio digitale.
Mother-Rhythm The project comes with a video that mixes different languages: the creative documentary, video art and performance art. Styles and modes of narration overlap and interpenetrate on a journey in which time flexes and bends until the artist meets her mother in an ahistorical dimension but which full of meaning - because in this impossible meeting she reaches the sense of her life profoundly marked by this comparison. Something you can tell just with the video art language.
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Francesca Fini, Liszt, 2012. Video e animazione digitale, durata 6’.29’’ Francesca Fini, Mother-Rythm, 2014. Video e animazione digitale, durata 11’.44’’
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Skinned Un collage dadaista che gioca sul concetto di identità, elaborato attraverso impossibili selfie scattati dai protagonisti di famosi capolavori della storia del ritratto e dell’autoritratto. Cosa si nasconde sotto la pelle, scarnificata dalla radiazione tossica dei cellulari? Cosa avrebbero fatto, di questo strumento diabolico, Leonardo da Vinci o Andy Warhol?
Skinned A Dadaist collage that plays on the concept of identity, elaborated through impossible selfies taken by the protagonists of famous masterpieces in the history of portraiture and self-portrait. What is hidden under the skin, skinned by the toxic radiation of mobile phones? What would Leonardo da Vinci or Andy Warhol have done with this evil device?
Typo#3 Questa performance è ispirata ad un tragico fatto di cronaca del ‘51: duecento ragazze si presentarono in Via Savoia 31, a Roma, davanti agli uffici di una ditta che aveva pubblicato un annuncio sul Messaggero. “Cercasi dattilografa: primo impiego, miti pretese”, diceva l’offerta di lavoro, in una città incattivita dalla fame del dopoguerra. Improvvisamente, tra l’ansia e la frustrazione della folla di ragazze assiepate sotto gli uffici, si diffuse come un virus la voce che una “raccomandata” era riuscita a saltare la fila. Le aspiranti dattilografe cominciarono allora ad accalcarsi e a spingere sulla scala, che non riuscì a sostenerne il peso. Settanta ragazze rimasero ferite nel crollo, mentre una di loro perse la vita.
Typo#3 This performance is inspired by a tragic event of 1951: two hundred girls showed up in Via Savoia 31, in Rome, in front of the offices of a company that had published an announcement on the local paper: “Searching for a typist: first job, mild claims”, said the job offer, in a city devastated by post-war hunger. Suddenly, amid the anxiety and frustration of the crowd of girls crowded under the offices, the rumor spread like a virus that a “favored” had managed to skip the line. The aspiring typists then began to huddle and push on the ladder, which could not support the weight. Seventy girls were injured in the crash, while one of them lost her life.
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Francesca Fini, Skinned, 2018. Animazione digitale, durata 7’.24’’ Francesca Fini, Typo#3, 2015. Videoperformance, durata 5’.45’’
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White Sugar Nella propaganda americana del dopoguerra - e nel linguaggio pubblicitario che ne è sua manifestazione plastica e braccio armato - la figura femminile è onnipresente: granitica portavoce di un modello cui apparentemente sembra aderire senza ombra di rimpianto. Un universo che ha un sapore storico preciso ma che, per una sorta di magica proiezione spazio-temporale, sembra in realtà raccontarci il nostro tempo. Dice l’artista: “Ho collezionato con gusto autolesionista immagini di donne alle prese con fornelli, nuovi elettrodomestici, pacchetti assicurativi, tacchini glassati, marche di caffè e tonalità di smalto per le unghie.” Quindi lei stessa ha isolato graficamente queste figurine femminili, letteralmente ritagliandole dal loro contesto come bamboline di carta, per riassemblarle poi all’interno di un paesaggio digitale tutto suo, sadicamente anaglifico, tridimensionalmente allucinatorio, dove il mercato globale diventa una sessione di ipnosi regressiva, una seduta spiritica, un sogno lucido alimentato da sostanze chimiche. Il modello culturale occidentale è zucchero bianco: piacere artificiale che crea dipendenza chimica, alterazione sintetica di gusto e percezione.
White Sugar In the American post-war propaganda - and in the advertising language that is its plastic manifestation - the female figure is omnipresent: a granitic spokesman of a model she apparently seems to adhere without a shadow of regret. A universe that has a precise historical flavor but which, in a sort of magical space-time projection, actually seems to tell us about our time. “I painstakingly collected self-harming images of women struggling with cookers, new appliances, insurance packages, frosted turkeys, coffee brands and nail polish shades”, says the artist. Then she graphically isolated these female figurines, literally cutting them out of their context like paper dolls, then reassembling them into a digital landscape of her own, sadistically anaglyphic, three-dimensional hallucinatory, where the global market becomes a session of regressive hypnosis, a spirit session, a lucid dream fueled by chemicals. The Western cultural model is white sugar: artificial pleasure that creates chemical dependence, a synthetic alteration of taste and perception.
With an Helmet-Fair & Lost L’artista indossa degli elettrodi regolati al massimo della potenza, e cerca di truccarsi. Le contrazioni involontarie causate dall’impulso elettrico sono fortissime, impedendo il movimento naturale e consapevole della mano, e il makeup si sparge sul viso in maniera incontrollabile. Un pianto meccanico, attraverso quei dettagli ravvicinati degli occhi sofferenti, si trasmette altrettanto automaticamente a chi guarda, in una sorta di collegamento empatico inconsapevole e quindi del tutto inutile. Una performance sul condizionamento sociale, ma anche sull’isterica e grottesca meccanicità dei gesti rituali, in un contesto devastato e sull’orlo del baratro.
With an Helmet-Fair & Lost The artist wears electrodes set at maximum power, and tries to put on make-up. The involuntary contractions caused by the electric impulse are very strong, preventing the natural and conscious movement of the hand, and the makeup spreads uncontrollably all over her face. A mechanical cry, through those close-up details of the suffering eyes, is transmitted equally to the audience, in a sort of unconscious empathic connection. A performance on social conditioning, but also on the hysterical and grotesque mechanics of ritual gestures.
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Francesca Fini, White Sugar, 2013. Animazione digitale, durata 13’.14’’ Francesca Fini, With an Helmet-Fair & Lost, 2012. Videoperformance, durata 5’.23’’
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Wombs Una donna incontra il suo Golem: un pezzo di argilla senza forma e personalità, da modellare a piacimento. Il Golem in questo caso è un doppio della donna, ma un doppio amorfo, un’entità neonata ancora sigillata nella sua purezza e fiera innocenza. Una divinità (forse malvagia) che è figlia e madre allo stesso tempo, nel cui grembo possiamo nasconderci per trovare pace.
Wombs A woman meets her golem, a piece of clay without features, to be fashioned at will. The golem is a double of the woman, but an amorphous double, a newborn entity still sealed in its purity and fierce innocence. A deity (maybe an evil one) who is daughter and mother at the same time, in whose womb the woman hides to find peace.
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Francesca Fini, Wombs, 2012. Video e animazione digitale, durata 6’.5’’
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NADIA FRASSON La performance di Nadia Frasson si svolge come una penitenza, un atto di dolore. Le formiche sono snocciolate in un rosario lungo strisce di tela color pelle. Una pelle dove si sono attaccate e fastidiose l’hanno percorsa, memoria di una tortura. L’immagine di una tortura impietosa impartita da gesti minimi quotidiani non eclatanti, non evidenti, ma subdoli, è pregnante come il suo effetto che mina a poco a poco l’autostima. Ne deriva uno stato di inadeguatezza e di prostrazione. La posizione genuflessa ben la rappresenta e la tessitura-litania può essere letta quale forma di esorcismo contro le malignità, le invidie, le gelosie, i rapporti malati. Una teatralità che non nasconde il malessere, ma lo traspone come atto catartico. (Paola Bristot) The performance of Nadia Frasson takes place as a penitence, an act of sorrow. The ants are pitted in a rosary along strips of skin-colored canvas. A skin where they are attached and annoying they have traveled, memory of a torture. The image of a merciless torture imparted by non-glaring daily minor gestures, not evident, but subtle, is as poignant as its effect that little by little undermines self-esteem. The result is a state of inadequacy and prostration. The kneeling position well represents it and the weaving-litany can be read as a form of exorcism against malice, envy, jealousy, sick relationships. A theatricality that does not hide the malaise, but transposes it as a cathartic act. (Paola Bristot)
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Nadia Frasson, Noli me tangere #2, 2016. Autoritratto, ricamo mano in filo di cotone su carta fotografica di cotone. 22x22 cm. su cornice 52x52 cm. Nadia Frasson, Noli me tangere - Farsi calice, 2017. Autoritratto, ricamo mano in filo di cotone su carta fotografica di cotone. 29x22 cm. su cornice 52x52 cm. Nadia Frasson, Noli me tangere - Uno scudo di parole, 2017. Autoritratto, ricamo mano in filo di cotone su carta fotografica di cotone. 29x22 cm. su cornice 52x52 cm.
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GIORGIO GALIMBERTI Attraverso un percorso di sperimentazione e di ricerca ben delineato, Giorgio Galimberti sviluppa uno sguardo contemplativo che si dispiega in diversi livelli di lettura. Questi concorrono alla costruzione del suo linguaggio espressivo, una stratificazione di significati e significanti - come l’accumulo di trasparenze di cui fa largo uso in alcune serie di immagini - prendendo come riferimento l’alfabeto dei segni dei grandi fotografi del passato e declinandolo in modo umile, intelligente e, forse proprio per questo, innovativo. La poetica che si evince dalle immagini da lui create ha un sapore surrealista e allo stesso tempo romantico, inteso nel senso Ottocentesco del termine. Come nei dipinti di Caspar David Friedrich - dove l’essere umano sembra annullarsi di fronte la maestosa grandezza e forza della natura, risultando parte integrante, discreta, di un tutto molto più ampio, elevando lo spirito ad uno stato di silenzio contemplativo e imperscrutabile - troviamo questa riflessione anche nelle opere di Mario Giacomelli, di cui possiamo rintracciare una forte stima e influenza in G. Galimberti che assimila e fa proprio questo tema, dove però è il paesaggio urbano a ricoprire un ruolo fondamentale. Le “tracce urbane” lasciate dall’uomo diventano pretesto e scenografia per paesaggi lunari, mondi da esplorare e deserti da attraversare, creando ambientazioni arricchite, oltre che dalla presenza costante della figura umana, da elementi altri, inserti misteriosi che si fondono con le architetture, in un continuo e ben ritmato susseguirsi di luce che fende il buio e viceversa, ottenendo comunque immagini molto bilanciate. Attraverso un percorso di sperimentazione in cui sono presenti omaggi e riferimenti ad autori come il già citato Mario Giacomelli, Josef Sudek, Berengo Gardin, Fan Ho, Alexandr Rodcenko, e molti altri, è evidente da parte dell’autore il desiderio di arrivare ad una sempre più consapevole dimensione di progettualità, che troviamo, per esempio, in Tributo a Mitoraj. Se in Tracce urbane e in Forme di spazio Galimberti mantiene un totale distacco con i soggetti fotografati, lontano da qualsiasi rapporto personale, diretto, considerandoli elementi parte integrante di una più ampia composizione dell’inquadratura, in Nero assoluto e in Istanti urbani questa distanza si riduce. In quest’ultima serie notiamo una riflessione sulla trasparenza, attraverso un processo di sovrapposizione e di accumulo di interventi materici da parte dell’autore, che riporta alla mente il Pittorialismo e le sperimentazioni anni Trenta. Una delle peculiarità della ricerca di Giorgio Galimberti è l’indagine sul segno grafico che emoziona e suscita interrogativi, che spinge l’osservatore ad immaginare una storia partendo da ambientazioni lunari, desertiche, tuttavia sempre identificabili da elementi tali da permettere di orientarsi nello spazio, dove la presenza dell’uomo è il principio o la fine di un racconto da scrivere. Il costante passaggio dalle tenebre alla luce che caratterizza l’estetica del suo operare, ispirato dalla luce di artisti come Fan Ho e Josef Sudek, di cui ha chiaramente ben assimilato l’insegnamento, ci rivela qualcosa di molto profondo sull’autore che, in modo conscio o meno, desidera comunicare qualcosa del suo intimo, della sua visione poetica del mondo, della vita. Nelle sperimentazioni a colori, la luce crea atmosfere molto delicate andando a bilanciare e smorzare i toni di una realtà in technicolor a cui ancora non ci si abitua nel passaggio dal Nero assoluto. Proprio come uscendo in piena luce si resta abbagliati e ci vuole qualche istante per abituare lo sguardo alla visione, così risultano le immagini a colori di Galimberti, una luce diffusa, familiare, attraverso cui l’autore ci comunica, forse, un archivio della memoria, una memoria sensoriale condivisibile e che, come quando un ricordo riaffiora, fa germogliare un sorriso sulle labbra di chi resta incantato a guardare queste immagini. (“Giorgio Galimberti-Il ladro di ombre” di Serena Calò)
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Giorgio Galimberti, Untitled, 2019. Fotografia in bianco e nero. 50x60 cm. cad.
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Through a well-defined path of experimentation and research, Giorgio Galimberti develops a contemplative gaze that unfolds in different levels of reading. These contribute to the construction of his expressive language, a stratification of meanings and signifiers - like the accumulation of transparencies that he makes extensive use in some series of images - taking as reference the alphabet of the signs of the great photographers of the past and declining it in a way humble, intelligent and, perhaps for this reason, innovative. The poetic that emerges from the images created by him has a surrealistic and at the same time romantic flavor, understood in the nineteenth-century sense of the term. As in the paintings by Caspar David Friedrich - where the human being seems to cancel out the majestic grandeur and power of nature, becoming an integral, discrete part of a much larger whole, elevating the spirit to a state of contemplative and inscrutable silence - we find this reflection also in the works of Mario Giacomelli, of which we can trace a strong esteem and influence in G. Galimberti who assimilates and makes this theme his own, but where the urban landscape plays a fundamental role. The “urban traces” left by man become a pretext and scenography for lunar landscapes, worlds to explore and deserts to cross, creating enriched settings, as well as the constant presence of the human figure, other elements, mysterious insertions that blend with the architectures , in a continuous and well rhythmic succession of light that cuts through the darkness and vice versa, still obtaining very balanced images. Through a process of experimentation in which there are homages and references to authors such as the aforementioned Mario Giacomelli, Josef Sudek, Berengo Gardin, Fan Ho, Alexandr Rodcenko, and many others, it is clear from the author’s desire to arrive at a increasingly aware of the dimension of planning, which we find, for example, in the Tribute to Mitoraj. If in Urban Tracks and in Space Forms Galimberti maintains a total detachment with the photographed subjects, far from any personal, direct relationship, considering them an integral part of a wider framing composition, in Absolute Black and in Urban Stories this distance is It decreases. In this last series we see a reflection on transparency, through a process of overlapping and accumulation of material interventions by the author, which brings to mind the Pictorialism and the experiments of the Thirties. One of the peculiarities of Giorgio Galimberti’s research is the survey on the graphic sign that excites and raises questions, which pushes the observer to imagine a story starting from lunar, desert environments, yet always identifiable by elements that allow them to orient themselves in space, where the presence of man is the beginning or end of a story to be written. The constant passage from darkness to light that characterizes the aesthetics of his work, inspired by the light of artists like Fan Ho and Josef Sudek, whose teaching he clearly understood, reveals something very profound about the author who, in conscious or not, he wants to communicate something of his intimate, of his poetic vision of the world, of life. In color experiments, light creates very delicate atmospheres, balancing and dampening the tones of a technicolor reality that you still do not get used to in the transition from Absolute Black. Just like going out in full light you are dazzled and it takes a few moments to accustom your eyes to the vision, so are the color images of Galimberti, a diffused, familiar light, through which the author tells us, perhaps, an archive of memory , a shared sensory memory that, like when a memory resurfaces, makes a smile sprout on the lips of those who remain enchanted to look at these images. (“Giorgio Galimberti-Il ladro di ombre” di Serena Calò)
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Giorgio Galimberti, Untitled, 2019. Fotografia in bianco e nero. 100x120 cm. cad.
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DEBORA GARRITANI Nihil sub sole novum Nihil sub sole novum costituisce una riflessione sul tema della Vanitas , il quale è affrontato in una doppia accezione: quella originaria della evanescenza delle cose terrene e della precarietà dell’esistenza umana, che si traduce in invito a cogliere e vivere pienamente la vita e dunque il presente, e nell’accezione più contemporanea che fa riferimento ad una società sempre più effimera, legata all’apparire piuttosto che all’essere, caratterizzata dalla precarietà e fragilità dei rapporti umani sempre più legati all’immaterialità della tecnologia, nell’ era dei social e dell’ eCommerce sentimentale delle dating app. E’ un’esplorazione caratterizzata dall’ ironia e densa di simboli e rimandi iconografici, con contaminazioni contemporanee come il formato quadrato tipico dei social.
Nihil sub sole novum Nihil sub sole novum it’s a riflection on the theme of vanitas, which is arrested in a double meaning: the original one of heartily evanescence and of the precariuosness of human existence, that it means an invitations to live the present, with contemporary meanings of a society always more ephemeral, linked to appearing rather than being, charaterized by the precarious and frailty of relationships, more and more linked by the immateriality of technology, in the moment of social and sentimental eCommerce of dating app. It’s an exploration made by irony and full of symbols and iconographic reference with contemporary contaminations as the typica square format of social media.
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Debora Garritani, Nihil sub sole novum#2, 2018. Stampa giclée su carta di cotone. 80x80 cm. Debora Garritani, Nihil sub sole novum#5, 2018. Stampa giclée su carta di cotone. 80x80 cm.
Debora Garritani, Nihil sub sole novum#3, 2018. Stampa giclée su carta di cotone. 40x40 cm. Debora Garritani, Nihil sub sole novum#12, 2018. Stampa giclée su carta di cotone. 30x30 cm.
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CHIARA GINI Primitivi parla della perdita di sé e nasce da una riflessione sul mito del “buon selvaggio” nato agli inizi del ‘700, basato sulla convinzione che l’uomo nasca d’animo puro, con una saggezza innata, e solo dopo si corrompa con l’inserimento nella società civilizzata. Il benessere personale si manifesta nel soddisfacimento dei propri bisogni, ma in un momento di inconsapevolezza mi interrogo su quale sia il modo per ritrovare sé stessi chiedendomi chi ero, perché è il passato che ci porta al presente. Primitives speaks of the loss of self and stems from a reflection on the myth of the “good wild” born in the early eighteenth century, based on the belief that man is born of pure soul, with an innate wisdom, and only then corrupts himself with the insertion into civilized society. Personal well-being manifests itself in the satisfaction of one’s own needs, but in a moment of unconsciousness I question myself about the way to find oneself, asking myself who I was, because it is the past that leads us to the present.
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Chiara Gini, Primitivi n°1, 2015. Fotografia analogica stampata su carta fine art Velvet Epson 260 gr. montata su forex e cornice artigianale in legno. 70x50 cm. (con cornice 77x56 cm.). Edition 1/7 + 2pda
Chiara Gini, Primitivi n°3, 2015. Fotografia analogica stampata su carta fine art Velvet Epson 260 gr. montata su forex e cornice artigianale in legno. 50x70 cm. (con cornice 56x77 cm.). Edition 1/7 + 2pda Chiara Gini, Primitivi n°2, 2015. Fotografia analogica stampata su carta fine art Velvet Epson 260 gr. montata su forex e cornice artigianale in legno. 50x70 cm. (con cornice 56x77 cm.). Edition 1/7 + 2pda
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FEDERICA GONNELLI Lo spettatore specchiandosi si addentra nell’intimità di una relazione amorosa nell’istante prima che il sogno si infranga, identificandosi profondamente con Louise e Herbert. L’identificazione avviene attraverso una stratificazione, che comporta delle letture su più livelli e storie parallele, superando i confini tra privato e pubblico, biografico e generale, vita e morte ed infine i confini tra le identità stesse dei due protagonisti di “Spoon River” di Edgar Lee Master. Nel mutamento continuo del volto di Louise in quello di Herbert e viceversa, si rinnova l’attimo eterno dell’incontro-scontro dei due protagonisti, che trovano l’identificazione, nonostante tutto, nell’essere sommati l’uno all’altra, nell’essere per sempre insieme. I volti appaiono così palpitanti, vivi per assurdo, nella loro diafana entità di trapassati, di pure parvenze. Presenze effimere, eteree, leggere raccontate di volta in volta sui veli. Volti, come specchi nei quali riconoscersi e immedesimarsi come nelle poesie di Masters. Volti come epitaffi, leggere lapidi, sguardi congelati nel tempo che ci osservano e attraverso i loro occhi, guardandoci negli occhi, ci comunicano le loro verità. The spectator, mirroring himself, enters the intimacy of a loving relationship in the instant before the dream breaks, identifying himself deeply with Louise and Herbert. Identification occurs through a stratification, which involves reading on several levels and parallel stories, overcoming the boundaries between private and public, biographical and general, life and death, and finally the boundaries between the identities of the two protagonists of “Spoon River” by Edgar Lee Master. In the continuous change of the face of Louise in that of Herbert and vice versa, the eternal moment of the encounter-clash of the two protagonists is renewed. They find identification, despite everything, in being added to each other, in being forever together. The faces appear so throbbing, alive for absurd, in their diaphanous entities of dead, of pure appearances. Ephemeral, ethereal, light presences narrated from time to time on veils. Faces, like mirrors in which to recognize and identify themselves as in the poems of Masters. Faces like epitaphs, light gravestones, glances frozen in time that observe us and through their eyes, looking into our eyes, they communicate their truths to us.
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Federica Gonnelli, Louise&Herbert, 2013. Assemblaggio di legno, specchio e organza stampata a tranfert. (9 pezzi) 25x25x1 cm. cad.
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CHRISTINA HEURIG L’oscurità psicologica e la disfunzione mentale sono una parte costante dell’esistenza umana. Questa raccolta di immagini esplora le distorsioni quotidiane e gli elementi visibili della malattia mentale nella vita privata. Queste immagini mirano a mettere in scena e illustrare cosa può accadere a porte chiuse, quando nessuno guarda. Psychological obscurity and mental dysfunction are a constant part of human existence. This series of images explores daily distortions and the visible elements of mental illness in private life. These images aim to stage and illustrate what can happen behind closed doors when no one looks.
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Christina Heurig, Contemplation on disorders/Everyday struggle, 2015. Fotografia digitale. 50x52 cm.
Christina Heurig, Contemplation on disorders/Cook-book fantasy, 2016. Fotografia digitale. 33x23 cm. Christina Heurig, Contemplation on disorders/The invention of lies, 2012. Fotografia digitale. 50x38 cm.
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CORINNA HOLTUSEN La sua è una riflessione che si rifà all’essenza stessa dell’immagine: “se nella nostra veste di spettatori, potremmo approfondire i luoghi da cui è emersa la fotografia digitale, saremmo molto più sospettosi delle immagini che fanno parte della nostra vita, del nostro quotidiano”. È questo tipo di distanza critica dal corpo della fotografia che possiamo imparare dalle opere di Corinna, in esse convive una ricerca identitaria non soltanto superficiale ma intrinseca nel processo stesso di produzione e alterazione; passato, presente e futuro si fondono in un’unica opera che non regala certezze nonostante la sua piacevolezza, che incrina la nostra percezione e ci inganna volutamente riguardo alla sua origine. Se nella nostra veste di spettatori, potremmo approfondire i luoghi da cui è emersa la fotografia digitale, saremmo molto più sospettosi delle immagini con le quali siamo circondati. È questo tipo di distanza critica dal corpo della fotografia che possiamo imparare dalle opere di Corinna Holthusen. In essi il passato, il presente e persino il futuro della ritrattistica umana sono una cosa sola. His is a reflection that refers to the essence of the image: “if in our capacity as spectators, we could deepen the places from which digital photography emerged, we would be much more suspicious of the images that are part of our life, of the our daily “. It is this kind of critical distance from the body of photography that we can learn from the works of Corinna, in them cohabits an identity research that is not only superficial but intrinsic in the process itself of production and alteration; past, present and future merge into a single work that does not give certainties despite its pleasantness, which cracks our perception and deceives us deliberately about its origin. If in our capacity as viewers, we could delve into the places from where digital photography has emerged, we would be much more suspicious of the images by which we are surrounded. It is this kind of critical distance from the body of photography that we can learn from the works of Corinna Holthusen. In them the past, present and even future of human portraiture are as one.
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Corinna Holthusen, Without Title, 2018. Tecnica mista su stampa fotografica su tela. 30x24 cm. Corinna Holthusen, Without Title, 2018. Tecnica mista su stampa fotografica su tela. 30x24 cm.
Corinna Holthusen, Without Title, 2018. Tecnica mista su stampa fotografica su tela. 30x24 cm.
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GIACOMO INFANTINO Unreal Il progetto delinea i luoghi della provincia di Varese. La provincia si riflette nelle acque calme e torbide del suo lago, da cui si generano flussi vorticosi di acqua che portano con sé il tempo e la memoria. I suoi abitanti non sono molto diversi da queste acque profonde, un riflesso di una realtà apparente. Ho voluto indagare la percezione del paesaggio, un teatro di storie, che diventa visione cinematografica e una piattaforma per la mia sperimentazione visiva e luminosa. Un ambiente in cui sembriamo vivere una vita che non ci appartiene, eppure siamo noi, proprio lì dentro l’immagine, così vivida e reale, calma ma con una tempesta dentro. Entrando nelle stanze, osservando i luoghi in cui le persone vivono, il mondo là fuori, i territori effimeri sono nascosti da veli, agendo come protezione della nostra persona lasciano il posto a nuove forme di percezione, mai statiche e ricche di molteplici dimensioni. La mia ricerca tenta di indagare e mettere in discussione l’intreccio di viaggi, visioni oniriche, domande che ho raccolto durante le lunghe giornate trascorse alla deriva, trasportate da segnali che stanno ancora aspettando di essere decifrati. Fluttuano tra realtà e finzione, orchestrate da prospettive distorte in cui il punto di vista non è altro che la proiezione di noi stessi. Personaggi indefiniti, rappresentati come ombre, osservano il nostro mondo in modo distaccato ma allo stesso tempo ci portano a chiederci qual è la vera percezione che abbiamo di noi stessi e del mondo in cui viviamo. Reale o irreale è davvero importante? La realtà esiste davvero? Esiste davvero una natura oggettiva delle cose? Tutto ciò che ci accade è già stato alterato in anticipo dal nostro inconscio? Forse sognando possiamo dare forma ai nostri pensieri.
Unreal The project outlines the places in the province of Varese. The province is reflected in the calm and turbid waters of its lake, from which swirling streams of water are generated which carry along with them time and memory themselves. Its inhabitants are not very different from these deep waters, a reflection of an apparent reality. I wanted to investigate the perception of the landscape, a theatre of stories, which becomes cinematographic and a platform for visual and luminous experimentation. An environment in which we seem to live a life that does not belong to us, yet it is us, right there inside the image, so vivid and real, calm but with a storm inside. Entering rooms, observing the places where people live, the world out there, ephemeral territories are hidden by veils, acting as a protection of our person they give way to new forms of perception, never static and rich of multiple dimensions. My research attempts to investigate and question the intertwining of journeys, dream visions, questions, which I gathered during the long days spent adrift, transported by signals that are still waiting to be deciphered. They float between reality and fiction, orchestrated by distorted perspectives in which the point of view is nothing but the projection of ourselves. Undefined characters, represented as shadows, observe our world in a detached way but at the same time they lead us to ask ourselves what is the true perception we have of ourselves and of the world in which we live. Real or unreal is it really important? Does reality really exist? Is there really an objective nature of things? Is everything that happens to us already altered in advance by our unconscious? Perhaps dreaming we can give shape to our thoughts.
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Giacomo Infantino, Unreal, 2019. Stampa a pigmenti d’archivio su carta 100% cotone. 109x77 cm. Giacomo Infantino, Unreal, 2019. Stampa a pigmenti d’archivio su carta 100% cotone. 112x77 cm.
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DONATELLA IZZO In una realtà forzatamente basata sulle apparenze e sul concetto di perfezione le opere di Donatella Izzo sfuggono quelle convenzioni linguistiche e quei meccanismi interpretativi tradizionali che possono ruotare intorno all’idea del ritratto e della percezione stessa del concetto di identità. L’artista ci rende partecipi di una personale percezione di identità – individuale e collettiva – che è ormai frammentata e privata del senso di appartenenza al lato più trascendentale della vita. Tutt’altro che rassicuranti i soggetti della Izzo ci accompagnano di riflesso in una dimensione di straniamento in cui la stessa idea di imperfezione perde il suo valore negativo per assumere valori più alti e impregnati di significati spirituali. Il focus si sposta su codici nuovi di lettura cancellando quasi completamente il concetto di “ritratto come una copia” a favore di “anti-ritratto” e di un’analisi introspettiva forte e caratterizzante. Dal punto di vista tecnico i lavori sono caratterizzati dall’intromissione nella fotografia di altri materiali “estranei” con i quali essa si fonde, non senza un’operazione violenta di lacerazione. Nell’opera “If God knew about you” l’artista si concentra sull’idea di sacralità, con la creazione di uno scenario che si addentra in una dimensione surreale, nella quale un inconsueto utilizzo di simboli causa destabilizzazione nel processo di percezione. L’identità spirituale umana si scontra con la dimensione del soprannaturale in un urlo silenzioso, nell’impossibilità di rispondere ai grandi dubbi sull’esistenza, sul bene e sul male dell’individuo stesso. Nell’opera “Ti piace Schubert?” è evidente il richiamo alla celebre canzone “Alexander Platz” cantata da Milva nel 1982 ambientata nella Germania Est ancora separata e sotto il regime comunista. L’opera della Izzo scarnifica il bel ritratto di signora in bianco e nero, dall’aria stanca e pensierosa, lo appoggia orizzontale su un blocco nero, come in una sorta di altare e lo penetra fisicamente con l’intromissione di un vero e proprio pouf degli anni 80 acquistato in un mercatino dell’usato a Monaco. Su di esso una sottile e quasi impercettibile linea rossa disegnata ci riporta indietro nel tempo e ripercorre quel segno indelebile nella storia che fu il muro di Berlino. Il richiamo è ad una identità collettiva imposta con forza e l’annientamento di quella personale. Era il regime che sceglieva cosa deve nutrire le menti del suo popolo anche per la musica.
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Donatella Izzo, If god knew about you, 2018. Installazione/Tecnica mista (stampa giclée su carta cotone appoggiata su tavolo e ferro). 71x32x67 cm. H.
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In a reality forcibly based on appearances and on the concept of perfection the works of Donatella Izzo they emerge from those linguistic conventions and traditional interpretative mechanisms that revolve around the idea of portraiture and the concept of identity. The artist makes us participate in a personal perception of the individual and collective identity that is now fragmented and deprived of the meaning of transcendental life. Rather than reassuring, the subjects of the Izzo accompany us in reflection in a dimension of estrangement, in which the same idea of imperfection loses its negative value to assume higher values and impregnated with spiritual meanings. The focus shifts to new reading codes, almost completely erasing the concept of “portrait as a copy” in favor of “anti-portrait” and a strong and characterizing introspective analysis. From a technical point of view the works are characterized by the intrusion into photography of other “foreign” materials with which photography merges, but with a violent operation of tearing. In the work “If God knew about you” the artist focuses on the idea of sacredness, with the creation of a scene in which the use of symbols causes destabilization in the process of perception. Human identity clashes with the dimension of the supernatural in a silent cry, in the impossibility of answering the great questions about the existence, the good and the evil of the individual. In the work “Do you like Schubert?” It’s clear the union to famous song “Alexander Platz” by Milva in 1982, set in an East Germany still separate and under the communist regime. The artist presents a black-and-white lady, looking tired and pensive, leaning horizontally on a black block, into the woman a real pouffrom the 80s - buied in a old market in Munich - getting in her. On the pouf, a thin and almost imperceptible red line , takes us in the past in time and retraces that indefinable sign in the history that was the Berlin Wall. The reference is to a collective identity imposed forcefully and to the annihilation of the personal one. It was the regime that chose what it should feed the minds of its people also for music.
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Donatella Izzo, Ti piace Schubert?, 2019. Installazione/Tecnica mista (stampa giclée su carta cotone, vecchio pouf in stoffa anni 80). 120x64x40 cm. H.
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RICHARD KERN Il punto chiave della poetica di Kern è questo: al voyeurismo dello spettatore corrisponde sempre l’esibizionismo del rappresentato e, dal momento in cui questo processo viene accettato, è impossibile parlare di pornografia o di oscenità. Le foto di Kern vengono incontro precisamente al nostro desiderio di desiderio, o se preferite di desiderio al quadrato. (Luca Beatrice) The key point of Kern’s poetics is this: to the voyeurism of the spectator always corresponds to the exhibitionism of the represented and, from the moment in which this process is accepted, it is impossible to speak of pornography or obscenity. The photographs of Kern arrive, precisely, to our desire for desire, or if you prefer to desire to the square. (Luca Beatrice)
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Richard Kern, 42nd street (Trap Them), 1983. Fotografia in bianco e nero. Stampa ai sali d’argento. 25x20 cm. a.p.1 Courtesy Guidi&Schoen, Genova. Richard Kern, Tom with TV, 1981. Fotografia in bianco e nero. Stampa ai sali d’argento. 36x28 cm. ed.3/10 Courtesy Guidi&Schoen, Genova. Richard Kern, Drugbust on 13th street, 1981. Fotografia in bianco e nero. Stampa ai sali d’argento. 20x25 cm. a.p.1 Courtesy Guidi&Schoen, Genova.
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SEBASTIAN KLUG Other identity per me comprende la possibilità di un cambiamento fino allo sviluppo dell’identità personale nel confronto con altre persone, le loro idee ed esperienze. Le identità sono fluidi, possono cambiare il loro stato di aggregamento come la materia fisica, da uno stato solido ad uno liquido fino all´evaporazione nell´atmosfera e viceversa. L’interazione con gli altri e con la loro mentalità può influenzare la formazione della propria identità. Per poter fare l’esperienza gratificante di un incontro che ha il potenziale di cambiarci, dobbiamo però lasciare la nostra comfort zone ed aprire gli occhi e gli altri sensi. Nel mio lavoro cerco di manifestare il momento e l´ambiente che permette permeabilità e trasgressione nella costruzione di una identità, lo scioglimento da uno stato solido ad uno liquido, la dissoluzione. È questo stato che permette una mutua influenza di sistemi altrimenti chiusi e che può creare piccole modifiche nel piano regolatore di una personalità, che da via a qualcosa di nuovo, sia effimero o permanente. (Sebastian Klug) Other identity for me means the identity of The Other, people I encounter - especially in the fluid state of drifting through the nights - and the possibility of an exchange, an ephemeral mutual influence on each others trajectory caused by a contact. Identities are fluid, they can change their aggregate state just as physical matter does, from solid to liquid to a vaporous dispersion in the atmosphere - and the other way round. Interaction with other humans and their thoughts - deli- vered in one of their various forms of expressions - help to form our own identity. In order to make this blissfull experience of an identity-shaping encounter we have to leave our fortified shells that we have constructed around us though. In my photography work I am interested in capturing moments in which people leave their solid states and identities become fluid, thus allowing a different level of interaction with others. I try to make the floating state of possibilities and the dissolution of the individual visible and to transmit the emotional aspect of it as well as the energy involved. (Sebastian Klug)
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Sebastian Klug, Scala (Girl on Stairs), 2013. Tessitura di due stampe fotografiche. 40x30 cm. Sebastian Klug, Dancing Girl, 2014. Tessitura di due stampe fotografiche. 40x30 cm Sebastian Klug, DJ (Scala), 2013. Tessitura di due stampe fotografiche. 30x40 cm.
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SANDRA LAZZARINI Bucato Questa è una raccolta di autoritratti. Queste sono mura ammuffite. Questi sono i miei vestiti. Questo è il mio nascondiglio. Questo è il mio dolce e innocente passatempo: aperto ai venti dell’autunno e ai bagliori dell’estate, ma non immune alla trasformazione. Per qualche mese, mi sono divertita ad apparire all’improvviso, abbagliare con incursioni mirate, lasciando che fosse il caso a decidere la persona da spiazzare, risvegliare, incuriosire, strappandola, almeno per poco, alle sue abitudini e assonnate comodità.
Bucato Laundry This is a collection of self-portraits. These are moldy walls. These are my clothes. This is my hiding place. This is my sweet and innocent pastime: open to the winds of autumn and the glare of summer, but not immune to transformation. For few months, I had fun suddenly appearing, dazzling with targeted incursions, letting the case decide which the person to displace, awaken, intrigue, tearing her apart from her his habits and sleepy comfort, even if for short.
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Sandra Lazzarini, “Bucato”, 2017. Fotografia digitale. (20 pezzi) 32,9x48,3 cm. cad.
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FRANCESCA LEONI “Memini” Ideazione e concept: Francesca Leoni Scatti: George Matei Performance: Francesca Leoni Ho realizzato il progetto “Memini” in un momento molto particolare della mia vita. Un momento di transizione e stasi, in cui il vuoto conteneva una serie infinita di possibilità e l’ordine l’altra faccia del caos. Gli spazi dell’ex Asilo Santarelli mi hanno subito accolto creando in me una sensazione di simbiosi. Immediatamente mi sono identificata con quella struttura che si trova in attesa, ferma tra quello che era e quello che sarà. Il Santarelli, abbandonato ormai da anni, è stato uno dei primi asili laici d’Italia, ma ora è in attesa (secondo un progetto del Comune) di diventare un nuovo spazio dedicato all’aggregazione e alla cultura . Mentre il progetto video rappresenta una ricerca nella memoria che mi definisce, il progetto fotografico è una vera e propria immedesimazione con il luogo, un fondersi nella sua architettura e nel suo stato.
“Memini” Concept and concept: Francesca Leoni Shots: George Matei Performance: Francesca Leoni I created the “Memini” project in a very special moment of my life. A moment of transition and stasis, in which the emptiness contained an infinite series of possibilities and order the other side of chaos. The spaces of the former Asilo Santarelli immediately welcomed me, creating a feeling of symbiosis in me. Immediately I identified with that structure that is waiting, firm between what was and what will be. The Santarelli, abandoned for years, was one of the first secular kindergartens in Italy, but now it is waiting (according to a project of the Municipality) to become a new space dedicated to aggregation and culture. While the video project represents a search in memory that defines me, the photographic project is a real identification with the place, a blend in its architecture and its state.
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Francesca Leoni, “Memini”, 2018. Fotografia digitale. 30x40 cm. cad.
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“Memini” Video Siamo fatti di memoria. Il nostro vissuto così come le nostre aspettative verso il futuro plasmano il nostro essere nel presente. Ho realizzato questo video in un momento molto particolare della mia vita. Un momento nel quale mi chiedevo cosa rimaneva della mia infanzia, di quello che avevo vissuto, nella donna che sono oggi, e quanto tutto questo mi identifica. Questo video è una viaggio performativo nella memoria ma anche un lancio verso un futuro che ancora non esiste se non in sogno. Un lavoro, infine, sulla parte più riflessiva dell’essere.
“Memini” Video We are made of memory. Our experience as well as our expectations for the future shape our being in the present. I made this video in a very special moment of my life. A moment in which I wondered what was left of my childhood, of what I had lived, in the woman I am today, and how much this all identifies me. This video is a performative journey in memory but also a launch towards a future that still does not exist if not in a dream. A work, finally, on the most reflective part of being.
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Francesca Leoni, “Memini”, 2018. Video. Dimensioni 16:9. Durata 3’.50”
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FRANCESCA LOLLI Artist must be beautiful in 2014 (Video performance - HD - 2014) Con Francesca Lolli e Alice Spito Effetti speciali - Trucco Giulia Riccardizi Parrucchiere - Assistente trucco Filippo Zangarelli Fotografo di scena Gabriel Di Mario “Artist must be beautiful in 2014” parla della confusione che può essere generata quando un artista si confonde con la sua opera, dimenticando di essere il mezzo di qualcosa di più grande.
Artist must be beautiful in 2014 (Video performance - HD - 2014) With Francesca Lolli and Alice Spito Special effects - Makeup Giulia Riccardizi Hairdresser - Makeup assistant Filippo Zangarelli Stage photographer Gabriel Di Mario “Artist must be beautiful in 2014” talks about the confusion that can be generated when an artist interacts with his work, forgetting to be the means of something bigger.
Dove sono finite le lucciole (Video performance - HD - 2014) Trucco Giulia Riccardizi L’umanità deve porre fine alla guerra, o la guerra porrà fine all’umanità. (John Fitzgerald Kennedy)
Dove sono finite le lucciole (Video performance - HD - 2014) Makeup Giulia Riccardizi Humanity must end the war, or war will end humanity. (John Fitzgerald Kennedy)
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Just want to be a WoMan (Video performance - HD - 2014) Aiuto regia Alice Spito - Trucco Giulia Riccardizi - Luci Mauro Zugarini - Supporto Raimondo Rossi Una video performance che esplora l’identità di genere al di là dell’orientamento sessuale. Jung afferma che ogni uomo ha in sé una donna e che ogni donna ha in sé un uomo.Qualunque sia il suo genere, nella sua parte ombra avrà il genere opposto. Ognuno manifesta un’energia prevalente, ma contiene, in secondo piano, anche la sua opposta.
Just want to be a WoMan (Video performance - HD - 2014) Assistant director Alice Spito - Makeup Giulia Riccardizi - Mauro Zugarini lights - Support Raimondo Rossi A video performance that explores gender identity beyond sexual orientation. Jung states that every man has a woman within himself and that every woman has a man within him. Whatever his gender, in his shadow he will have the opposite gender. Everyone manifests a prevailing energy, but also contains, in the background, its opposite.
Un nodo (Video performance - HD - 2016) Poesia “Si è fatto ormai tardi” di e con la voce di Francesca Interlenghi Con Pino Calabrese e con Giulia Corgiat Mecio, Valentina Di Benedetto, Alice Massarente, Nicol Mazzi Fotografo di scena Fabrizio Gnoni - Effetti speciali - Trucco Giulia Riccardizi Un nodo, l’intreccio di uno o più tratti della corda, come fosse un cappio, una stretta che paralizza. Ad ogni legatura esterna fa eco una legatura interna che arreca un dolore muto e sordo. Si annodano le spalle e i polsi e i bracci, quasi a metterli in croce, ma si imprigionano in realtà bellezza e gentilezza d’animo, qualità che stanno nascoste sotto, sotto la la trama e l’ordito dei vestiti, sotto la pelle. Schiacciate dentro un cuore che pur si ostina a pulsare e si illude più forte degli strappi. La prigione del corpo diventa prigione dello spirito, soffoca le sue istanze libertarie e identitarie, spegne la forza generatrice e feconda che l’animo di ogni donna reca con sé. Perché ne rivendica piccola parte anche per sé. E il respiro si spezza che si è fatto ormai tardi (Francesca Interlenghi)
Un nodo (Video performance - HD - 2016) Poem “It is now late” by and with the voice of Francesca Interlenghi Con Pino Calabrese and with Giulia Corgiat Mecio, Valentina Di Benedetto, Alice Massarente, Nicol Mazzi Photographer on stage Fabrizio Gnoni - Special effects - Giulia Riccardizi makeup A knot, the interweaving of one or more stretches of rope, like a noose, a paralyzing grip. Every external ligature echoes an internal ligature that causes dull and dull pain. The shoulders and the wrists and the arms are knotted, almost to put them on the cross, but they imprison themselves in reality beauty and kindness of soul, qualities that are hidden under, under the weft and the warp of the clothes, under the skin. Crush inside a heart that is still stubborn and deludes itself stronger than the tears. The prison of the body becomes a prison of the spirit, it suffocates its libertarian and identitary demands, it extinguishes the generative and fecund force that the soul of every woman carries with it. Because it claims a small part for itself. And the breath breaks that has become late (Francesca Interlenghi)
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The dying lilium (Video performance - HD - 2016) Con Domitilla Colombo e con Fabio Amato, Lorenzo Borghetto, Francesca Carrieri, Marco Cuppone, Francesca Interlenghi, Arianna Pisati, Ivan Sirtori - Direttore della fotografia Fabrizio Gnoni- Fotografa di scena Diana Marchetti - Grazie a Claudio Elli, Laura Gerosa, Marco Meola “The Dying Lilium” è una video performance che indirizza la sua ricerca verso il delicato rapporto fra Genere Umano e Natura, nel tentativo di evidenziare come sia insito nella nostra mentalità “evoluta” il desiderio del possesso e dello sfruttamento, con la conseguente rottura dei fragili equilibri che ci circondano. Nel Video, l’umanità è immersa in perfetta simbiosi con la Natura da cui trae nutrimento (qui rappresentata da una Donna, archetipo multiculturale della forza generatrice della vita sulla terra); questo precario equilibro si rompe tuttavia nel momento in cui la razza umana diventa cosciente dell’origine del proprio sostentamento, e mossa dall’ingordigia vi si avvinghia in una stretta fatale. È il nostro giudizio, svincolato dai primari istinti di sopravvivenza, ad avere la capacità di influire così radicalmente sul destino del nostro pianeta, gravandoci di una responsabilità dalla quale non possiamo tirarci indietro.
The dying lilium (Video performance - HD - 2016) With Domitilla Colombo and with Fabio Amato, Lorenzo Borghetto, Francesca Carrieri, Marco Cuppone, Francesca Interlenghi, Arianna Pisati, Ivan Sirtori - Director of photography Fabrizio Gnoni - Photograph by Diana Marchetti Thanks to Claudio Elli, Laura Gerosa, Marco Meola “The Dying Lilium” is a video performance that directs its research towards the delicate relationship between Human Genus and Nature, in an attempt to highlight how the desire for possession and exploitation is inherent in our “evolved” mentality, with the consequent breaking of fragile balances that surround us. In the video, humanity is immersed in perfect symbiosis with Nature from which it draws nourishment (represented here by a Woman, a multicultural archetype of the generative force of life on earth); this precarious equilibrium, however, breaks when the human race becomes conscious of the origin of its sustenance, and moved by greed it clings to it in a fatal grip. It is our judgment, freed from the primary survival instincts, to have the ability to influence so radically on the fate of our planet, weighing on a responsibility from which we can not draw back.
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Orgia o piccole agonie quotidiane (Cortometraggio - HD - 2016) con Alice Spito e Matteo Svolacchia e con Stefano Baffetti, Oriana Ferraguzzi, Edwin Maurizio Hernandez Hurtado, Maria Caterina Pezzi, Emiliano Scorbati, Livia Tesla - Direttore di produzione Andrea Frenguelli Direttore della fotografia Giacomo Ficola, Francesca Lolli Operatore Eros Pacini Effetti speciali - Trucco Giulia Riccardizi - Assistente di produzione Alessio Gioia Elettricista Flavia Rizzuto - Fotografo di scena Massimo Palmieri Citazioni tratte da “Orgia”, di Pier Paolo Pasolini I protagonisti del corto (Uomo e Donna) hanno un valore polisemico. Da un lato sono le due facce di una stessa medaglia ed incarnano quello che Jung definisce come Animus e Anima, il maschile ed il femminile insito nella psiche di ogni essere umano. Nello specifico Anima è l’immagine femminile che ogni essere umano di sesso maschile ha interiorizzato e Animus l’immagine maschile interiorizzata da ogni essere umano di sesso femminile. Tutto il lavoro si concentra su questo scambio di ruoli che non sarà soltanto interiore. Infatti da un’altra angolazione l’Uomo e la Donna sono dei sadici e dei masochisti, dal momento che nella mia visione il sadismo porta con sé dell’evidente masochismo. Il loro modo di confrontarsi altro non è che l’essenza stessa dei rapporti interpersonali di qualunque tipo, nei quali ci si attacca per difendersi e si procura dolore provando (e per provare) piacere. Per quanto riguarda questa dinamica interpersonale il corto è ispirato all’opera teatrale Orgia di Pier Paolo Pasolini, pur distaccandosene completamente sia nelle situazioni che per l’uso della parola, così presente nel dramma e inesistente nel video. Paradossalmente la riduzione del linguaggio a puro gesto rende visibile in immagine ciò che era già insito nella parola pasoliniana, nella quale ogni moto psicologico finisce per attualizzarsi nella carne del corpo biologico.
Orgia o piccole agonie quotidiane (Short film - HD - 2016) with Alice Spito and Matteo Svolacchia and with Stefano Baffetti, Oriana Ferraguzzi, Edwin Maurizio Hernandez Hurtado, Maria Caterina - Pieces, Emiliano Scorbati, Livia Tesla - Production manager Andrea Frenguelli Director of photography Giacomo Ficola, Francesca Lolli Operator Eros Pacini - Special effects - Giulia Riccardizi makeup - Production assistant Alessio Gioia - Electrician Flavia Rizzuto - Photographer Massimo Palmieri Quotes from “Orgia”, by Pier Paolo Pasolini The protagonists of the short (Man and Woman) have a polysemic value. On the one hand they are the two sides of the same coin and embody what Jung defines as Animus and Soul, the masculine and the feminine inherent in the psyche of every human being. Specifically Anima is the female image that every male human being has internalized and Animus the male image internalized by every female human being. All the work focuses on this exchange of roles that will not only be interior. In fact from another angle the Man and the Woman are sadists and masochists, since in my vision sadism carries with it evident masochism. The way they deal with each other is nothing but the very essence of interpersonal relationships of any kind, in which one attacks oneself to defend oneself and procures pain by trying (and feeling) pleasure. Regarding this interpersonal dynamic, the short is inspired by the theatrical work Orgia by Pier Paolo Pasolini, although completely detached both in situations and for the use of the word, so present in the drama and non-existent in the video. Paradoxically, the reduction of pure gesture language makes visible in the image what was already inherent in the Pasolinian word, in which every psychological movement ends up becoming actualized in the flesh of the biological body.
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No place for a different language (Video - Super8 e HD - 2016) prodotto da “Scuola di CINEMA - Centro di Formazione Cinematografico Nazionale”, Alfredo Betrò e Francesca Lolli Con Anna Maria and Alice Von Kleist - Direttore della fotografia e operatore di macchina Alfredo Betro’ Primo assistente alla camera and Focus Puller Fabrizio Gnoni Secondo Assistente alla camera e capomacchinista Mattia Nicolai Terzo assistente alla camera Stefano Massaro Aiuto regia Andrea Passalacqua Scenografo Paolo Sinigaglia Supervisore alla produzione Sabrina Amati - Direttrice della produzione Elisa Iezzi Stilista Cappelli Mirko Mikro Frignani for Mikro - Supervisore ai costumi Alice Massarente, Francesco Borrazzi Girato con una Bauer S715XL. La libertà di espressione è alla base di tutte le altre libertà di cui godiamo. Senza libertà di parola, la democrazia è un’impostura. Ogni libertà che possediamo o aspiriamo a possedere è nata perché è stato possibile pensarla liberamente, discuterne liberamente, scriverne liberamente. Nel mondo, oggi, solo il 40% dei cittadini vive in uno Stato pienamente libero.
No place for a different language (Video - Super8 and HD - 2016) produced by “CINEMA School - National Cinematographic Training Center”, Alfredo Betrò and Francesca Lolli With Anna Maria and Alice Von Kleist - Director of photography and machine operator Alfredo Betro First camera assistant and Focus Puller Fabrizio Gnoni - Second camera assistant and headmaster Mattia Nicolai Third camera assistant Stefano Massaro - Assistant director Andrea Passalacqua Set designer Paolo Sinigaglia - Production supervisor Sabrina Amati - Director of Elisa Iezzi production Stylist Cappelli Mirko Mikro Frignani for Mikro - Costume supervisor Alice Massarente, Francesco Borrazzi Shot with a Bauer S715XL. Freedom of expression is at the root of all the other freedoms we enjoy. Without freedom of speech, democracy is an imposture. Every freedom we possess or aspire to possess was born because it was possible to think of it freely, to discuss it freely, to freely write about it. In the world today, only 40% of citizens live in a fully free state.
Dolorosa mater (Video performance - HD - 2017) Direttore della fotografia e operatore di macchina Marco Valerio Carrara - Effetti speciali - Trucco Giulia Riccardizi Organizzatore Filippo Ciccioli - Supervisore Massimo Palmieri Il silenzio è spesso manifestazione di una limitazione esterna; un’imposizione fisica, psicologica e sociale che l’artista sceglie di mostrare concentrandosi sulla figura della donna, costretta a causa della sua identità sessuale ad una costante lotta per la propria affermazione sociale ed espressiva.
Dolorosa mater (Video performance - HD - 2017) Director of photography and machine operator Marco Valerio Carrara - Special effects - Giulia Riccardizi makeup Organizer Filippo Ciccioli - Supervisor Massimo Palmieri Silence is often the manifestation of an external limitation; a physical, psychological and social imposition that the artist chooses to show by focusing on the figure of the woman, forced because of her sexual identity to a constant struggle for her social and expressive affirmation.
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Espiazione prodotto da PACTA dei Teatri e Francesca Lolli - fotografia e scenografia Fulvio Michelazzi camera Lucio Pontoni - costumi (bianco) Mikro - (neri) art259design con (in ordine alfabetico) Lorenzo Borghetto, Alessandro Cazzani, Domitilla Colombo Federica D’Angelo, Davide Esposito, Francesca Interlenghi Fulvio Michelazzi, Ivan Sirtori, Davide Sormani Alice Spito Espiazione è una video performance sul valore salvifico del pentimento.
Espiazione produced by PACTA dei Teatri and Francesca Lolli - photography and set design by Fulvio Michelazzi Lucio Pontoni room - costumes (white) Mikro - (black) art259design with (in alphabetical order) Lorenzo Borghetto, Alessandro Cazzani, Domitilla Colombo Federica D’Angelo, Davide Esposito, Francesca Interlenghi Fulvio Michelazzi, Ivan Sirtori, Davide Sormani Alice Spito Atonement is a video performance on the salvific value of repentance.
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TORE MANCA (MATER-IA) Bioethic Vision (experimental film 50’) una produzione: Mater-ia 2015 - coprodoto da Hiora, Tore Manca - Noise / directed: Tore Manca Music: Machina Amniotica - Performer: Hiora; Bruno Petretto; Daniela Tamponi, Marco Sanna / Meridiano Zero; Woman’s body; Animals and Nature; Minerals - Formato: hd - Durata: 50’ - Anno: 2015 “Agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra”. Hans Jonas La natura mi controlla e mi plasma a suo piacimento senza preavviso, senza artificio; essa mi trasforma e mi rigenera facendomi parte integrante della sua catena. Alla fine del ciclo ogni mia difesa immunitaria si sgretola generando nuova materia che si ricompone in altra forma. Ed ecco che ad ogni movimento dell’universo il suono cambia; ho ascoltato il suono, lo ho raccolto, lo ho assorbito; mi e stato fondamentale per capirla e capirmi, ma per farlo ho dovuto congedarmi dal mondo esterno, quello urbano, quello lavorativo così complicato e fiscale, tanto tecnologico quanto meccanico capace di ridurmi in uno stato vegetativo da non riuscire più a relazionarmi con il prossimo. Io sono “humus” la materia prima, il liquido vitale. Bioethic Vision è una ricerca sull’immagine concreta, sul video, sul suono; una ricerca che mi ha portato ad osservare la natura, riprenderla e registrarla senza paura di confondermi ma confrontandomi e riconoscendo in essa, la mia identità di uomo. Ogni quadro è minimale e parla attraverso la simbologia dell’essere vitale e sano, escludendo volutamente di trattare della sua più grande debolezza: l’egoismo materiale che in questa epoca supera ogni limite. MACHINA AMNIOTICA La Machina Amniotica ha uno scopo: quello di esplorare, di formare, di fondare il nostro mondo dell’espressione, come in una corsa su un piano inclinato. Salendo o sprofondando, come in una voragine capovolta. In principio la parola, che era assordante. Poi il rumore, che si faceva orizzonte del mondo, unendosi poi con l’armonia, l’elettronica, la transizione. Vicino a un punto dove devono esserci le nostre teste le nostre vite e le nostre sorti, si è sempre sviluppata la forma e la sostanza delle nostre chiavi spalancate. Performances di poesia, installazioni, concerti: la nostra espressione si risagomava ogni volta, a seconda del genere preso in considerazione, ma mai una volta lo spirito mutava, mai non si riconosceva nel flutto seminale e continuo delle idee.
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Tore Manca (Mater-ia). “Nature”. Version extracted from the film: Bioethic Vision. Director: Tore Manca. Original ambient sound: Tore Manca. Performer: Daniela Tamponi. Costumes: Tore Manca. A production: Mater-ia 2015 Tore Manca (Mater-ia). “Humus”. version extracted from the film: Bioethic Vision. Director: Tore Manca. Original ambient sound: Tore Manca. Performer: Bruno Petretto. Costumes: Tore Manca. A production: Mater-ia 2015 Tore Manca (Mater-ia). Bioethic Vision (experimental film 50’). Una produzione: Mater-ia 2015. Coprodotto da Hiora, Tore Manca. Noise/directed: Tore Manca. Music: Machina Amniotica. Performer: Hiora; Bruno Petretto; Daniela Tamponi, Marco Sanna/Meridiano Zero; Woman’s body; Animals and Nature; Minerals. Formato: hd. Durata: 50’. Anno: 2015
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Bioethic Vision (experimental film 50 ‘) a production: Mater-ia 2015 - co-production by Hiora, Tore Manca - Noise / directed: Tore Manca Music: Machina Amniotica - Performer: Hiora; Bruno Petretto; Daniela Tamponi, Marco Sanna / Meridiano Zero; Woman’s body; Animals and Nature; Minerals - Format: hd - Duration: 50 ‘ - Year: 2015 “Act so that the consequences of your actions are compatible with the permanence of authentic human life on earth”. (Hans Jonas) Nature controls me and molds me as I please without warning, without artifice; it transforms me and regenerates me making me an integral part of its chain. At the end of the cycle, each of my immune defense crumbles, generating new matter that is recomposed in another form. And so, with every movement of the universe, the sound changes; I listened to the sound, I collected it, I absorbed it; I was essential to understand and understand, but to do it I had to take leave from the outside world, the urban, the work so complicated and fiscal, as technological as mechanical able to reduce me in a vegetative state to be unable to relate to others. I am “humus” the raw material, the vital liquid. Bioethic Vision is a research on the concrete image, on the video, on the sound; a research that led me to observe nature, take it back and record it without fear of confusing me but comparing and recognizing in it, my identity as a man. Every painting is minimal and speaks through the symbolism of the vital and healthy being, deliberately excluding the treatment of its greatest weakness: the material egoism that overcomes all limits in this age. MACHINA AMNIOTICA The Amniotic Machina has a purpose: to explore, to form, to found our world of expression, as in a race on a sloping plane. Going up or sinking, like in an inverted chasm. In the beginning the word, which was deafening. Then the noise, which became the horizon of the world, then merging with harmony, electronics, transition. Near the point where our lives must have been our lives and our destiny, the shape and substance of our open keys has always developed. Performances of poetry, installations, concerts: our expression reshaped each time, depending on the genre taken into consideration, but never once did the spirit change, never recognized itself in the seminal and continuous flow of ideas.
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ROMOLO GIULIO MILITO L’arte dell’incontro è ciò vorrei prevalesse: ci si incontra per parlare, condividere storie ed esperienze, magari davanti a una tazza di tè. Ciò che segue è una traccia fotografica che parla di questo incontro. Nessun progetto, nessun set fotografico. Si usa la luce che c’è, si usa quel che nasce dall’incontro. Qualcuno l’ha definito «uno strutturato studio sociale visivo» ed è una buona definizione. Ha aggiunto che è «seducente», suppongo per la presenza quasi costante di nudità: svestirsi è onestà intellettuale, una picconata sui muri culturali che ci separano. L’arte dell’incontro è ciò che racconto, il mezzo che uso è la luce: ne sono dipendente, null’altro. The art of the encounter is what I would like my pictures to convey. One meets the other to talk, to share stories and experiences, possibly in front of a cup of tea. What follows is a photographic trace which tells us about the encounter. No projects, no photo shoots. We use the light we have and what the encounter engenders. Someone called it «a structured visual social study» and this is a good definition. She also defined it as «seductive», because of the nearly-constant fixture of nudity, I suppose. Undressing is about intellectual honesty, a pickaxe blow against the cultural walls we are kept apart by. The art of the encounter is what I tell about and the light is the tool I use: it is nothing but a dependency of mine.
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Romolo Giulio Milito, Numa e Capo (dittico), 2018. Stampa digitale su carta fotografica con cornice. 100x70 cm. Romolo Giulio Milito, Sospensione (dittico), 2017. Stampa digitale su carta fotografica con cornice. 100x70 cm. Romolo Giulio Milito, Red, 2018 (dittico). Stampa digitale su carta fotografica con cornice. 100x70 cm.
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MONICA MURA “Come se si trattasse di un videogioco mi autoritraggo, ritrattando allo stesso tempo il peso dell’impronta digitale nella nostra società.” (Monica Mura) POTER VEDERE, VEDERE POTERE riunisce le inquietudini della vita contemporanea dove l’essere mano è condizionato dall’arrivo frenetico della tecnologia. L’identità delle persone reali cede il passo all’identità digitale. Quest’opera nasce da un sogno dell’artista in cui le persone interagivano tra di loro esclusivamente attraverso dell’uso di ologrammi, e le immagini dei loro volti erano più o meno definite a seconda del potere e della ricchezza posseduta. Con questo progetto Mura apre un dialogo sulla visibilità, la reputazione e la privacy su Internet e pensa in ciò che induce e provoca alle persone vivere nella Società della Rete. Per questo riflette sulla necessità di acquisire rapidamente le competenze necessarie per la gestione dell’identità virtuale. Un apprendimento divertente, irrequieto e inquietante, che implica un’immersione totale nella cultura digitale durante il resto della vita dell’individuo dove il cyberspazio sembra sovrapporsi sempre più allo spazio reale. Il segno che lascia l’uso e la gestione della nostra identità su Internet è formato dal nostro comportamento realizzato in rete (cosa diciamo, dove e perché) ed è in grado d’influenzare sempre più la vita reale. L’insieme d’informazioni pubblicate on-line sulla nostra persona compone l’immagine che gli altri hanno di noi: dati personali, immagini, notizie, commenti, gusti, amicizie, hobby, ecc influiscono sulla nostra reputazione on-line. Quest’ultima, più che dall’immagine che vogliamo proiettare, è anche composta da notizie, commenti e opinioni espresse da terzi su reti sociali, fori, blog e media digitali. Per conoscere questi dati possiamo realizzare un egosurfing. In modo più semplice per farlo è googleandoci, ossia, cercando il nostro nome e cognome nel motore di ricerca di Google. IL DITTICO come rappresentazione tangibile dell’ologramma del sogno, mostra l’immagine del volto stampata su tela, come se si trattasse di un sudario. L’oro, simbolo di resilienza*, questa volta si confronta con la dicotomia tra potere e perdita, che rappresenta sia il denaro che la povertà, la vita e la morte. La resurrezione del pixel in fine insegna la capacità dell’immagine di recuperare il suo stato iniziale. IL VIDEO presenta una struttura circolare che consente una proiezione in un loop. Il paesaggio sonoro che lo accompagna è stato realizzato dall’artista creando una combinazione di diversi suoni per generare effetti sonori riconducibili ai videogiochi dell’era degli 8 bit: start - money - power - win - error - lose - game over (inizio - soldi potere - vincita - errore - perdita - fine gioco).
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Monica Mura, Poter Vedere Vedere Potere (dittico), 2018. Installazione/Tecnica mista (intervento pittorico con pigmenti dorati e pittura acrilica su fotografia digitale stampata su 2 tele di voile di 75 grammi/ml cucito a mano con fili e cordoni dorati). 400x140. cm. cad. Dimensioni totali 400x300 cm.
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“I portrait myself like a video-game to retracting at the same time the weight of the Digital footprint in our society.” (Monica Mura) POTER VEDERE, VEDERE POTERE (able to see to see power) brings together the anxieties of contemporary life where people are conditioned by the frenetic arrival of technology. The real human identity gives way to digital one. This work comes from a dream of the artist in which people interacted with each other exclusively through the use of holograms, and the images of their faces were more or less defined according to the power and wealth possessed. With this project Mura opens a dialogue about visibility, reputation and privacy on the Internet and she thinks about what causes people to live in the Network Society. This is the reason for which she reflect on the necessity to acquire fast the skills for the management of virtual identity. A funny, restless and disturbing learning. A full immersion in the digital culture to the rest of the life when the cyberspace seems to overlap the real space. The sign that leaves the use and management of our identity on the Internet is formed by our network behavior (what we say, where and why) and is able to influence more and more real life. The set of information published online on our person makes up the image that others have of us: personal data, images, news, comments, tastes, friendships, hobbies, etc. affect our online reputation. The latter, more than the image we want to project, is also composed of news, comments and opinions expressed by third parties on social networks, forums, blogs and digital media. To know it we can do egosurfing. The easier way to do it is Googling ourself, it is the practice of searching for one’s own name, or pseudonym on a popular search engine in order to review the results. THE DIPTYCH is the tangible representation of the dream’s hologram. It show the image of the face printed on the veil, like a shroud. The gold, symbol of resilience*, confronts itself with the dichotomy between power and loss, representing money and poverty, life and death. The resurrection of the pixel, finally, show the image’s ability to return to its usual shape. THE VIDEO have a circular structure to a loop projection. The Soundscape has been realized by the artist mixing different sounds to generate 8-Bit retro Video game sound effects: start - money - power - win - error - lose - game over.
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Monica Mura, Poter Vedere Vedere Vedere, 2018. Video HD, Mov. Dimensioni 1920x1080, durata 1’ (loop)
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ALESSANDRA PACE-FAUSTO SERAFINI “Crediamo che nascondersi sia il più grave errore possibile, bisogna esporsi, con tutta la forza della verità…” “Ho Te” è la storia autentica e non convenzionale di una moglie e di un marito che mettono a nudo loro stessi davanti ad una fotocamera e al mondo, in un processo di ricerca e comprensione della realtà che li circonda e del loro spazio interno. Un diario di immagini in continua evoluzione in cui la musica, lo sguardo fotografico e il lavoro sul corpo rappresentano una possibilità di accesso allo sconosciuto e una possibilità di esplorare quanto non è esprimibile a parole. La serie fotografica si costruisce per accumulo e raccoglie sentimenti, emozioni, tutto quello che è il risultato dei rapporti umani, dove il nudo e il sesso sono presenti in maniera diretta, senza volgarità e senza mezzi termini, come momento di massima esposizione e fragilità. “Ho Te” è un lavoro che parla della vita, non come la si vorrebbe ma come è, con momenti belli e molto spesso brutti, dolorosi, inaffrontabili. “Ho Te” invita e porta dentro, crea vicinanze, coinvolge nella verità e nella forza della quotidianità. E’ un lavoro che cerca di mettere in discussione la visione patriarcale del mondo, Alessandra e Fausto sono entrambi uomo e donna, fragili e feroci, e non se ne vergognano né se ne preoccupano perché insieme ce la fanno. “We truly believe that hiding yourself is the most dangerous mistake you can do, it’s due to expose yourself, with all the strength of truth.” “Ho te” is the authentic and unconventional story of a wife and a husband that get naked in front of a camera and in front of the world, in a process of research and comprehension of reality around them and their inner space. A constantly evolving photo diary in which music, photographic view and work on body represent a point of access to the unknown and the possibility to explore what is not expressible in words. The photographic series is built by accumulation and collect feelings and emotions, everything that is a result of human relationships, where nude and sex are shown in a direct way, with no vulgarity, as a moment of maximum exposure and fragility. “Ho te” is a work that deals with life, not how you dream it should be but like it is, with good moments but very often bad, painful, unmanageable ones. “Ho te” invites and brings you inside, creates closeness, involves you thanks to the truth and the strength of everyday life. It’s a work that criticize the patriarchal point of view of the world, cause Alessandra and Fausto are both woman and man, fragile and fierce, and they are not ashamed because they come out together!
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Alessandra Pace-Fausto Serafini, Ho Te, 2015/2017. Installazione fotografica/35 polaroid con cornice. 30x21 cm. cad. Dimensioni totali variabili.
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ALEXI PALADINO (LILIAN CAPUZZIMATO) Quante dimensioni ha una vita umana guardata dal di fuori? Se è vero che la cura, l’amore e l’attenzione rivolte ad un essere umano restituiscono ad esso una profondità sensibile, allora è altrettanto vero che il conflitto, la violenza e l’indifferenza possono appiattirlo fino a renderlo privo di spessore. Una vecchia fotografia, un’immagine bidimensionale immobile e cristallizzata, destinata alla distruzione. “Historia de un Amor” racconta una storia vera i cui personaggi, in costante e reciproco conflitto, hanno perseguito l’autodistruzione fino alla morte. La storia del mio grande amore per quella che è stata la mia famiglia, fino ai miei 17 anni. Nel tempo, ho strappato e rovinato queste foto con rabbia e con dolore, ma non ho saputo buttarle via. Ognuna mostra uno spicchio condensato di quella parte della mia vita, e di quello che è stato il rapporto con i diversi personaggi ed elementi chiave della mia infanzia e adolescenza, quelli che archetipicamente vengono considerati cruciali nello sviluppo della personalità e della psiche dell’essere umano, cercando di sollevare una riflessione sul concetto di innocenza e di co-responsabilità. Violenza, abuso sessuale, l’esperienza della malattia (fisica e mentale) sono spesso considerati stigma veri e propri di cui vergognarsi e da nascondere il più possibile, come se l’aver patito certe esperienze fosse motivo di condanna. Che cosa distingue una situazione in cui si ritiene lecito intervenire da una in cui ci si rifugia negli affari propri? Perché si cerca con tanta veemenza un colpevole da massacrare? Che cosa succede nel dopo, quando la ferocia verso “l’orco” si esaurisce? Perché i bambini sarebbero depositari di un’innocenza formale che, de facto, non procura nessuna salvezza e che spesso non fa alcuna differenza? Perché mai un essere umano una volta cresciuto dovrebbe essere “colpevole” in quanto adulto? Perché preferiamo rimuovere i nostri stessi traumi piuttosto che affrontarli? In un mondo che ignora le esigenze di ascolto reciproco a favore di una facile e superficiale indignazione e del fastidio verso tutto ciò che può disturbare, la violenza è una spirale senza fine, dove il futuro psicologico delle vittime è lasciato al caso, e la possibilità della reiterazione del dolore è altissima, perché nessuno si sente responsabile di ciò che dice o di ciò che fa, ma tutti diveniamo censori in una realtà di cui vediamo solo ciò che consideriamo accettabile.
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Alexi Paladino (Lilian Capuzzimato), Golconda. (Taranto e il tradimento).-Come insetti, 2017. Collage foto analogiche e fotografia digitale, stampa indiretta su forex. 60x90 cm.
Alexi Paladino (Lilian Capuzzimato), Una donna perfetta.Il tuo amore./A perfect woman.Your love., 2017. Collage (fotografia analogica, perline) e fotografia digitale, stampa indiretta su forex. 60x90 cm. Alexi Paladino (Lilian Capuzzimato), Senza te.Edipo./Without you.Oedipus,2016. Collage foto analogiche e fotografia digitale, stampa indiretta su forex. 60x90 cm.
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How many dimensions has a human life observed from outside? If it is true that the care, the love, the kindness given to a human being give him or her back a perceivable depth, it is also true that conflict, violence and indifference can flatten him and rob him of any depth. A picture, motionless, crystallized, doomed to destruction. “Historia de un Amor” tells a true story, one in which the characters, in constant, mutual conflict, persecuted selfdestruction until they died. The story of my great love for what has been my family up to when I was 17. In time, I ripped and defaced those photos with anger and pain, but I’ve never been able to throw them away. Each one shows a condensed slice of that part of my life, and of the relationship with the various characters and key elements of my childhood and adolescence, archetypically considered critical for the development of a human being personality and psyche, trying to propose a reflection on the concepts of innocence and co-responsibility. Violence, sexual abuse, the experience of illness (both physical and mental) are often considered true stigmata, things to be ashamed of, that you must hide as much as you can, as if suffering some experiences was a guilt. What differentiates a situation in which an intervention is considered permissible from one in which you take shelter in your own business? Why we do look so vehemently for a culprit to lynch? What happens after, when the fury towards the “ogre” fades? Why are children custodians of a formal innocence that, de facto, doesn’t bring any measure of safety, and often makes no difference at all? Why should a human being, once he grows older, be “guilty” because he’s an adult? Why do we prefer to remove our traumas rather than confronting them? In a world disregarding the need for mutual listening in favour of easy, superficial indignation and of the hassle of everything that can pose as a disturbance, violence is an endless spiral, in which the psychological future of the victims is left to chance, and the possibility of a reiteration of evil is very high, because nobody feels responsible for what he says or does, but everybody becomes a censor in a reality of which we only see what we consider acceptable.
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Alexi Paladino (Lilian Capuzzimato), Peccato originale. La macchia di Eva./Original sin.Eve’s flaw., 2017, collage foto analogiche e fotografia digitale, stampa indiretta su forex, 60x90 cm. Alexi Paladino (Lilian Capuzzimato), Lo sai anche tu che una madre non dovrebbe mai sopravvivere ai suoi figli./Suicide and its consequences., 2014. Collage foto analogiche e fotografia digitale, stampa indiretta su forex. 60x90 cm.
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CARMEN PALERMO “Mi piacciono le mie trasformazioni. Guardo intorno tranquilla e coerente, ma pochi sanno quante donne ci sono in me”. Mi ritrovo profondamente in ognuna delle parole di Anaïs Nin e credo che questa citazione sia il modo più giusto di spiegare il perché io utilizzi l’autoritratto. La fotografia è il modo più facile che io conosca per potermi connettere al mio mondo interiore e alle varie “me-stessa”, scrivere le storie che queste mi raccontano e cercare di capire qualcosa in più di me e della mia natura di essere umano. La lentezza, l’unicità e la natura imperfetta della Polaroid sono gli strumenti per trasformare questo viaggio in una vera e propria esperienza catartica. Scattare una foto non è quindi un semplice processo tecnico fine a se stesso ma una vera e propria “performance” privata. Indossando maschere per rivelare se stessi, si vivono emozioni che si lasciano fluire fino a trasferirle sulla pellicola. Il processo, acquistando immediatamente una dimensione tangibile, può essere analizzato, metabolizzato e solo in quel momento offerto allo spettatore. Queste sono le foto che vi offro oggi: tre autoritratti scattati ad un anno l’uno dall’altro in tre luoghi cardini della mia esistenza che diventano simbolo di fasi diverse della vita. “Radici” è il passato, “Rouge” è il cambiamento, la transizione e “Autoportrait sur le fauteuil” è il nuovo. “I take pleasure in my transformations. I look quiet and consistent, but few know how many women there are in me.” I find myself-sincerely and deeply-in each of these words said by Anaïs Nin and actually I think they are the perfect explanation of why I take self-portrait. Photography is the easiest way I know to connect me with my inner world and the “other me’s”, to write down some of the stories they tell me and try to understand a little bit more of me and of my nature as a human being. The slowness, uniqueness and imperfect nature of Polaroid, are the perfect instruments to transform this travel in a cathartic experience. Taking a photo is not just a technical process but a real “private” performance. When you wear masks to really reveal your-self you can experience a feelings flow that you can transfer to film. Letting the process become a real and tangible object gives you an external point of view of the entire experience that you can analyze, metabolize and finally give to others. These are the photos I give to you: three self-portraits taken one year from each other in three important places of my existence that become symbols of different phases of life. “Radici” is the past, “Rouge” is the change, the transition and “Autoportrait sur le fauteuil” is the new.
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Carmen Palermo, Radici, 2015. Stampa fine art da polaroid. 50x50 cm. Carmen Palermo, Rouge, 2016. Stampa fine art da polaroid. 50x50 cm. Carmen Palermo, Autoportrait sur le fauteuil, 2017. Stampa fine art da polaroid. 50x50 cm
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PHOEBE ZEITGEIST Il video attraversa dieci anni della produzione artistica di Phoebe Zeitgeist che ha al suo attivo tredici lavori tra spettacoli e performance. Sono in particolare rappresentate tutte le identità aliene, altre, rigorosamente differenti, che hanno popolato le scene di questo gruppo milanese. Il video racconta in frammenti la cultura visiva e sonora di queste produzioni e la sua continuità estetica nel tempo, nonchè il suo focus costante puntato sul valore politico delle relazioni umane. The video spans ten years of Phoebe Zeitgeist’s artistic production, which has thirteen works in between performances and performances. In particular, all the alien identities are represented, others, strictly different, that have populated the scenes of this Milanese group. The video tells in the cultural, visual and sound of these productions and its aesthetic continuity over time, as well as its focus is important on the political value of human relationships.
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Phoebe Zeitgeist, Aspra, 2018. Photo courtesy by Luca Intermite Phoebe Zeitgeist, Aspra, 2018. Photo courtesy by Paolo Sacchi Phoebe Zeitgeist, Aspra, 2018. Photo courtesy by Paola Sacchi
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OPHELIA QUEEN Le sue bambole rispecchiano emozioni e status sociale, riproducono personaggi e realtà vissute ogni giorno. La bambola, una metamorfosi di un simulacro della soggettività, cerca di recuperare una sorta di “verità esistenziale”, un’emozione arcaica originale. (Francesca Arena) His dolls reflect emotions and social status, reproduce characters and realities experienced every day. The doll, a metamorphosis of a simulacrum of subjectivity, tries to recover a sort of “existential truth”, an original archaic emotion. (Francesco Arena)
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Ophelia Queen, Dolls, 2019. Stampa fotografica con cornice. 61x91 cm. cad.
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FRANCESCA RANDI Quando arrivano lo fanno di notte, muti e protetti da un’oscurità rischiarata da luci elettriche irreali e stranianti. Sono i protagonisti dei nostri sogni inquieti. Percorrono una città inespressa, irrisolta, occulta, perché le strade cittadine, di notte palpitano di vite segrete, insospettabili. Spuntano dal buio, e si aggirano in quella terra di mezzo, nella linea di confine fra sonno e veglia, si frappongono fra realtà e certezze che si fanno incubo. Recitano in un raffinato palcoscenico illuminato da luci elettriche di inquietante fluorescenza, zeppo di ambigui segni del doppio. E noi ne siamo fatalmente attratti al punto di non poter resistere al bisogno di seguirli. When they arrive they do it at night, mute and protected from darkness faded by unreal and alienating electric lights. They are the protagonists of our restless dreams. They run through an unexpressed, unresolved, hidden city, because the city streets, at night, pulsate with secret, unsuspecting lives. They emerge from the darkness, and wander in that middle ground, in the line between sleep and wake, they interpose themselves between reality and the certainties that become a nightmare. They play in a refined stage illuminated by electric lights of disturbing fluorescence, full of ambiguous signs of the double. And we are fatally attracted to the point of not being able to resist the need to follow them.
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Francesca Randi, I Senza Nome, 2017/2018. Stampa fotografica su carta. 100x70 cm.
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BÄRBEL REINHARD L’installazione raccoglie una serie di immagini della ricerca fotografica space equal to itself che attraverso accostamenti e sovrapposizioni in diversi formati svelano le ambiguità della percezione tra forme naturali e artificiali, tra paesaggi e corpi. “Lo spazio a sé identico, s’accresca o si neghi/Space equal to itself that rises or denies itself” (Mallarmé) Tramite l’uso di sovrapposizioni istintive ed anacronistiche di immagini e immaginazioni derivanti da terreni e tempi disparati, si creano nuove cartografie visive. Parallelismi e antonimi, continuità e sospensioni vengono accostati in dittici e si liberano dalla loro appartenenza, da un ordine storico, gerarchico, geografico, ispirato dal surrealismo e dal Mnemosyne Atlas di Warburg. Paesaggi e corpi, natura e cultura, materie e forme fuse che sono allo stesso tempo emisfere opposte tratteggiano così un immaginario di metamorfosi e di frammenti. Bodyscapes e collage in mixed media vengono riportati in fotografie, giocando con l’ambiguità del mezzo, formati e supporti vari in questo progetto che viene portato avanti dal 2016. The installation combines part of the series space equal to itself, a photographic research of the perception of ambiguity between natural and artificial forms, bodies and landscapes by overlappings, layering and close proximities playing with different formats and supports. “Space equal to itself that rises or denies itself” (Mallarmé) Parallelism and antonyms, continuity and suspensions are combined in diptychs and free themselves from their belonging, from a historical, hierarchical, geographical order, inspired by Surrealism and the Mnemosyne Atlas of Warburg. Landscapes and bodies, nature and culture, materials and fused forms that are at the same time opposite hemispheres thus sketch an imaginary of metamorphosis and fragments. Bodyscapes and collage in mixed media are shown in photographs, playing with the ambiguity of the medium, formats and various supports in this project that has been carried out since 2016.
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Bärbel Reinhard, Space equal to itself#8, 2016. Stampa fotografica fine art su Hahnemuehle Baryta. 30x40 cm. Bärbel Reinhard, Space equal to itself#5, 2017. Stampa fotografica fine art su Hahnemuehle Baryta. 13x18 cm. Bärbel Reinhard, Space equal to itself#4, 2016. Stampa fotografica fine art su Hahnemuehle Baryta. 40x50 cm.
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CHRISTIAN REISTER Volevo che le mie immagini diventassero più astratte, meno perfette, sgranate, più scure, più malinconiche. Da allora è la mia scelta di fotografare in bianco e nero e solo la notte. Lavoro con piccole fotocamere che si adattano a qualsiasi tasca e possono essere utilizzate in quasi tutte le situazioni senza attirare l’attenzione.[…] Lavoro come un costante registratore di immagini scattando moltissimo e istintivamente. Alcuni scatti mi sembrano eccezionali e li conservo in grandi archivi, come dei calderoni di 100, 200 immagini che aspettano di essere usate e integrate tra di loro come a costruire delle storie. (Christian Reister) I wanted my images to become more abstract, less perfect, grainy, darker, more melancholy. Since then it is my choice to photograph in black and white and only at night. I work with small cameras that fit any pocket and can be used in almost any situation without attracting attention.[…] I work as a constant image recorder by shooting a lot and instinctively. Some shots seem exceptional and I keep them in large archives, like the cauldrons of 100, 200 images that are waiting to be used and integrated among them as to build stories. (Christian Reister)
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Christian Reister, Rauschen, 2018. Slideshow/Photofilm. Photography: Christian Reister, Music: Andreas Albrecht, durata 7’.42’’
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NATASCIA ROCCHI La nobile arte dei collage vanta origini antichissime, il termine deriva dal francese coller, incollare, e consiste nel produrre opere su differenziati supporti. Ebbe il suo momento di massimo splendore agli inizi del Novecento, con gli artisti Cubisti, i quali avevano dato lustro al collage inserendolo nel proprio linguaggio espressivo. Attualmente molti artisti hanno proseguito su questa strada, realizzando collage fotografici. Anche Natascia Rocchi usa questo metodo per i propri lavori artistici. Interpreta l’architettura del corpo, soprattutto quello femminile, mettendolo in confronto con alcune caratteristiche della realtà sociale, come conoscere se stessi. Sfogliando le pagine di riviste patinate della moda, apparentemente insignificanti, l’artista ritaglia estrappa immagini di rilievo visivo e concettuale, andando poi ad assemblare questi frammenti fra di loro o con fotografie, dove la stessa artista compare. Il risultato che ne deriva è molto complesso e ampio: si creano nuove figure, nuove persone o personalità, a volte surreali, a volte, divise fra immagini del passato e del presente e a volte divise fra uomo e donna, una sorta di androgino contemporaneo. Queste immagini, una volta assemblate, vengono fotografate e quindi, da separate che erano, vengono riunite in un’unica immagine visiva.Nascono, così, nuove identità, nuovi esseri, nuovi antropomorfi, corpi instabili in cerca di una propria identità. Attraverso la sua specifica capacità di saper cogliere il dettaglio di un’immagine da estrapolare dal suo contesto classico e con una spiccata sensibilità e valore estetico, la Rocchi ci porta ad una dimensione altra di noi stessi. La frammentazione delle immagini sembra alludere alla frammentazione esistenziale, portandoci a confrontarci con quella parte intima e profonda, il nostro lato oscuro che Jung amava definire ombra, una parte significativa e ben radicata dentro ognuno di noi. Ogni fotografia è un racconto intimo che parla del nostro rapporto con la parte più nascosta e profonda della nostra interiorità. La Rocchi porta lo spettatore a fare un viaggio emozionale alla scoperta del mondo sommerso al di sotto della coscienza, che deve essere portato alla luce, attraverso la consapevolezza delle nostre paure, insicurezze, fragilità, pensieri ed emozioni negative. Accettare tutto questo significherebbe accettare la nostra realtà, senza eliminarla, ma vivendola per non esserne dominati. L’artista crea composizioni raffinate ed eleganti, dove il dettaglio, l’immagine, lo strappo, sono lacerazioni, cicatrici, emozioni, sensazioni, stati d’animo che fanno parte dell’identità dell’uomo. Egli dovrà imparare a superarli o a conviverci, anche perché solo chi ha veramente sofferto può essere felice.
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Natascia Rocchi, Instabili/Fratelli, 2018. Stampa fotografica fine art da collage (riviste e scansioni di dipinti antichi) con cornice. 50x50 cm. cad.
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The noble art of collages has very ancient origins, the term derives from the French coller, paste, and consists in producing works on differentiated supports. It had its moment of maximum splendor at the beginning of the twentieth century, with the Cubist artists, who had given prestige to the collage by inserting it into their own expressive language. Currently many artists have continued on this path, making photo collages. Even Natascia Rocchi uses this method for his artistic works. It interprets the architecture of the body, especially the female one, comparing it with some characteristics of social reality, such as knowing oneself. Leafing through the pages of fashion magazines, apparently insignificant, the artist cuts out images of visual and conceptual relief, then going to assemble these fragments among themselves or with photographs, where the same artist appears. The resulting result is very complex and broad: new figures are created, new people or personalities, sometimes surreal, sometimes divided between images of the past and present and sometimes divided between man and woman, a sort of contemporary androgynous. These images, once assembled, are photographed and then, from separate that were, are brought together in a single visual image. Thus, new identities, new beings, new anthropomorphs, unstable bodies in search of their own identity. Through its specific ability to grasp the detail of an image to be extrapolated from its classical context and with a marked sensitivity and aesthetic value, Rocchi takes us to another dimension of ourselves. The fragmentation of images seems to allude to existential fragmentation, leading us to confront ourselves with that intimate and profound part, our dark side that Jung loved to define shadow, a significant part and deeply rooted in each of us. Each photograph is an intimate story that speaks of our relationship with the most hidden and profound part of our interior life. La Rocchi brings the viewer to take an emotional journey to discover the underwater world below the consciousness, which must be brought to light, through the awareness of our fears, insecurities, fragility, negative thoughts and emotions. Accepting all this would mean accepting our reality, without eliminating it, but living it so as not to be dominated by it. The artist creates refined and elegant compositions, where the detail, the image, the tear, are lacerations, scars, emotions, sensations, moods that are part of man’s identity. He will have to learn to overcome them or to live with them, also because only those who have truly suffered can be happy.
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Natascia Rocchi, Instabili/Fratelli, 2018. Stampa fotografica fine art da collage (riviste e scansioni di dipinti antichi) con cornice. 50x50 cm. cad.
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SOLIDEA RUGGIERO La povertà è un accesso a significati superiori: non si è emarginati, si vive solo all’angolo di prospettive indicibili. Ci vuole molta immaginazione quando non si possiede niente di tutto quello che normalmente la gente necessita. Le cose sono solo pensieri che prendono forma, in fondo. La mia semplicità, è stata il mio vero talento, la mia unica ricchezza. Scrivere non è un’attitudine ma un modo di esistere a se stessi, un atto vivo nel tempo. Solo l’azione è salvifica e resiste anche alla nostra memoria. […] Sono sempre stata attratta dalla diversità, dai sottoscala umani, dall’irragionevole, dai contrari. Sono stata una persona molto scomoda, una che in genere, prima, guarda quelli che stanno in fondo, quelli che non trovano posto. (Solidea Ruggiero) Poverty is an access to higher meanings: we are not marginalized, we live only at the angle of unspeakable perspectives. It takes a lot of imagination when you do not own anything that normally people need. Things are just thoughts that take shape, basically. My simplicity, was my true talent, my only wealth. Writing is not an attitude but a way of existing to oneself, a living act in time. Only action is salvific and also resists our memory. [...] I have always been attracted by diversity, by human under-stairs, by unreasonable, from the opposites. I was a very uncomfortable person, one who, in general, first, looks at those who are at the bottom, those who do not find a place. (Solidea Ruggiero)
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Solidea Ruggiero, Le cose sono solo pensieri che prendono forma, 2017. Testo, video e montaggio di Solidea Ruggiero.
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PAULA SUNDAY Sposare se stessi significa celebrare la propria indipendenza e la crescita personale. Un impegno sacro davanti alle responsabilità di se, una promessa a proseguire la propria vita in maniera autonoma. Questo atto paradossale di auto celebrazione diventa simulacro di un momento storico/culturale caratterizzato da un individualismo sempre più spietato. Dove la parola self sembra avere acquisito una accezione extra-umana. Self-marriage is a celebration of your own independence and personal growth. It’s a sacred duty to your responsibilities, it’s the promise that from now on your life will go on autonomously. This paradoxical act of self-celebration symbolizes a time in History and culture that’s marked by a more and more pitiless individualism. A time in which the world “self” seems to have acquired an extra-human meaning.
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Paula Sunday, Sologamy (dittico), 2018. Stampa digitale. 60x70 cm. cad
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MARCEL SWANN Marcel Swann analizza l’identità partendo dai limiti di realizzazione della stessa. Leggendo nell’identità il rispetto del sé autentico, l’autore si trova a studiare, tramite una piccola parte del suo progetto Kill Jouissance, la necessità del desiderio -in temini lacaniani-. Nel tempo in cui la sessualità è sopraffatta dall’edonismo macchinale, ricreare un tracciato del reale desiderio verso l’Altro diviene un impresa destabilizzante. Cosa porta alla ricostituzione positiva del rapporto con la trascendenza desiderio? Senza una costituzione identitaria forte non rimane che lo smarrimento. In tre passaggi fotografici si arriva dal feticcio -YearOfLoss-, allo smarrimento accompagnato da sentimento mortifero -All I Need- e infine a una catarsi di conquista -TearingMe-. Lavorando tanto sul messaggio quanto sul medium, Marcel Swann trova nella perdita dell’amore un altro momento dov’è necessaria una forte consapevolezza identitaria. Il passaggio dalla mera fotografia a un opera mista come “Prima che il cuore si sciolga”, la quale nasce come foto analogica, passa dalla pittura e si chiude con uno scatto digitale diventando ulteriore luogo per il confronto con l’Altro. Nello scoramento per la conclusione dell’amore si impone un confronto con il proprio Io che però deve concludersi necessariamente con un incontro con individuo terzo atto a testare l’essenza piena della propria identità. Marcel Swann analyzes the identity starting from the limits of its realization. Reading in the identity the respect of the authentic self, the author is to study, through a small part of his project Kill Jouissance, the necessity of desire - in Lacanian terms -. In the time when sexuality is overwhelmed by machine hedonism, recreating a path of the real desire for the Other becomes a destabilizing enterprise. What leads to the positive re-establishment of the relationship with the transcendence of desire? Without a strong identity constitution, nothing remains but bewilderment. In three photographic passages we arrive from the fetish -YearOfLoss-, to the loss accompanied by deadly feeling -All I Need- and finally to a catharsis of conquest -TearingMe-. Working both on the message and on the medium, Marcel Swann finds in the loss of love another moment where a strong identity awareness is needed. The transition from mere photography to a mixed work like “Before the heart melts”, which is born as an analogue photo, passes from painting and closes with a digital snapshot becoming another place for comparison with the Other. Discouragement for the conclusion of love imposes a confrontation with one’s own self, but it must necessarily end with an encounter with a third individual, capable of testing the full essence of one’s identity.
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Marcel Swann, YearOfLoos, 2016. Stampa fotografica. 80x100 cm. Marcel Swann, All I Need, 2016. Stampa fotografica. 80x100 cm. Marcel Swann, TearingMe, 2016. Stampa fotografica. 80x100 cm.
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ROBERTA TOSCANO Essere (in valigia) Essere (in valigia) è da considerare come il risultato di un atto performativo che si è svolto nel tempo attraverso la ripresa di figure avviluppate in teli sbandieranti nel vento. Fotografate immobili o vaganti in paesaggi naturali deserti, queste forme, nella perdita della loro connotazione umana, trovano infine la loro dimensione di coscienze ribelli al sistema iconografico vigente. Le valigie logore le tengono prigioniere al loro interno diventando così, attraverso un cuore di luce soffusa, dispositivi diffondenti profonda o lieve malinconia.
Essere (in valigia) Essere (in valigia) is to be considered the result of a performative act that took place before through the shot of figures wrapped in clothes blowing in the wind. Shot still or wandering about in natural desert landscapes, theses hapes, in losing their human connotation, findat last their dimension of rebel consciences to the iconographical system in effect. The worn out suit cases keep the photographies prisoners, becoming, through an heart of subtle light, devices that spread profound or light melancholy.
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Roberta Toscano, Essere (in valigia), 2018. Installazione di 12 valigie (elaborazioni digitali retroilluminate). Dimensioni totali variabili. Roberta Toscano, Essere (nel) riflesso, 2016. Elaborazione digitale su leger. 70x100 cm.
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MAURO VIGNANDO […] Paradigmatico per il senso della mostra è il lavoro su doppie “cartoline viaggiate” di divi cinematografici, originali d’epoca, con ritratti o coppie di amanti, sui quali Vignando interviene con tagli, a seconda del dinamismo che vuole imprimere all’espressione. Il soggetto principale così viene meno e i personaggi diventano “impalati, ironici e dubbiosi”: dopotutto, sono attori. La sottrazione del soggetto genera dunque un’altra immagine e l’opera acquista paradossalmente una nuova, affascinante vita. (Linda Kaiser) [...] Paradigmatic for the meaning of the exhibition is the work on double “postcards traveled” by film stars, original vintage, with portraits or pairs of lovers, on which Vignando intervenes with cuts, depending on the dynamism that wants to impress expression. The main subject is lost and the characters become “impaled, ironic and doubtful”: after all, they are actors. The subtraction of the subject thus generates another image and the work paradoxically acquires a new, fascinating life. (Linda Kaiser)
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Mauro Vignando, Untitled, 2015. Postcards on paper, 51x71 cm. Courtesy ABC-ARTE Mauro Vignando, Untitled, 2015, Postcards on paper, 51x71 cm. Courtesy ABC-ARTE
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RAMONA ZORDINI Overcrowd Secondo Jean Paul Sartre, nel saggio“L’immaginazione, Idee per una teoria delle emozioni” scrive: “…Soltanto, questa identità di essenza non si accompagna con un identità d’esistenza. È si lo stesso foglio, il foglio che è ora sulla mia scrivania, ma esiste in un altro modo. Io non lo vedo, non s’impone come un limite alla mia spontaneità; non è nemmeno un dato inerte esistente in sé. In una parola: non esiste di fatto, esiste in immagine…”. Overcrowd è un dialogo sui pieni e sui vuoti, tornando all’origine del linguaggio e scardinando ogni infrastruttura, partendo cioè dal principio, annullando ogni impalcatura materiale ed emotiva. Dal principio, come un lento gocciolare, inserire uno per uno elementi e veicolare il messaggio riempiendo o svuotando l’opera di concetti e oggetti per tornare al principio, all’assenza, e come nell’opera di Sartre, comporre una “Metafisica ingenua dell’immagine” mantenendo però, al centro, il corpo.
Overcrowd According to Jean Paul Sartre, in the essay “Imagination, Ideas for a theory of emotions” he writes: “...Only this identity of essence is not accompanied by an identity of existence. It is the same sheet, the sheet that is now on my desk, but it exists in another way. I do not see it, it does not impose itself as a limit to my spontaneity; it is not even an inert data existing in itself. In a word: it does not exist in fact, it exists in the image...”. Overcrowd is a dialogue on fullness and emptiness, returning to the origin of language and disrupting every infrastructure, starting from the beginning, canceling out any material and emotional scaffolding. From the beginning, as a slow dribble, insert one by one elements and convey the message by filling or emptying the work of concepts and objects to return to the principle, to the absence, and as in the work of Sartre, compose a “naive metaphysics of ‘image” but keeping the body in the center.
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Ramona Zordini, Element I, The Myth (dalla serie Overcrowd), 2018. Stampa fotografica su carta baritata, montata su dibond e cornice. 70x105 cm. Ramona Zordini, The Element II, The Queen (dalla serie Overcrowd), 2018. Stampa fotografica su carta baritata, montata su dibond e cornice. 70x105 cm.
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FLEUR (ENRICO DUTTO-FRANCESCO LURGO) FLeUR è un progetto nato a Torino da Francesco Lurgo (già attivo su palchi internazionali con Tacuma Orchestra Elettronica, Daniele Brusaschetto e altri) e Enrico Dutto. Nelle loro performances si fondono due anime; i laptop convivono sul palco con chitarre e pianoforti, e la programmazione software si scontra con l’improvvisazione e la natura umana, creando un paesaggio sonoro che unisce il mondo digitale e astratto dell’IDM con l’evocatività del post-rock e con una ritualità oscura. Dopo numerose esperienze dal vivo in club italiani ed europei e esperienze di sonorizzazione per performances teatrali, letture e video, il primo E.P. “Supernova, Urgent Star” esce all’inizio del 2014 e vede la partecipazione di Fabrizio Modonese Palumbo dei Larsen alla viola. A cavallo tra 2016 e 2017 uscirà il primo full-lenght, “The Space Between”, per la Bosco Rec di Daniele Brusaschetto. Al disco partecipano come ospiti alla voce Brusaschetto stesso e Costanza Bellugi. FLeUR is an experimental music project based in Turin, Italy, formed by Francesco Lurgo (already active on european stages with Tacuma Electronic Orchestra, Daniele Brusaschetto and others) and Enrico Dutto. In their performances two souls are merged together. Laptops coexist on stage with piano and guitar, and software programming crashes against improvisation and human nature, creating a soundscape that joins the abstract digital world of IDM with post-rock suggestions and dark rituality. After several live experiences in italian and european clubs and experiences of soundtracking and sound design for theatrical performances, readings and videos, their debut E.P. “Supernova, Urgent Star” came out in early 2014, featuring Fabrizio Modonese Palumbo (Larsen) on electric viola. On the turning point between 2016 and 2017, it’s time for FLeUR’s first full-length “The Space Between” to come out. It will be published by Daniele Brusaschetto’s Bosco Rec label and features Brusaschetto himself and Costanza Bellugi as guest vocalists.
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LUCA FUCCI Luca Fucci è un artista toscano che da anni milita in formazioni elettroniche di avanguardia (Interferenze, Crafty Cell, BMT). Nel 2015 l’esigenza di esprimersi individualmente lo porta a pubblicare il suo primo disco strumentale solista “Hidden Scars”: un crossover elettronico di emozioni, in cui sintetizzatori, drum machines e pianoforte sono elementi imprescindibili gli uni dagli altri, attraverso i quali viene plasmato un decadente microcosmo a tinte scure in cui immergersi e perdersi senza pregiudizi. Accolto con grande successo da pubblico e critica, “Hidden Scars” è stato accompagnato da esibizioni live in cui musica e suggestivi visuals si fondono in un unico elemento. L’espressione musicale di Luca Fucci si basa su pianoforti melodici, cupi e gravi che si alternano, incontrano e fondono con l’elettronica delle drum machines, dei synth analogici e modulari, per portare alla luce “cicatrici nascoste”. La attenta ricerca del suoni attraverso le macchine non è esercizio fine a se stesso, ma un mezzo per dare voce a sensazioni ed emozioni, senza bisogno alcuno di parole. Il 26 Gennaio 2018 viene pubblicato “Live Scars”, una testimonianza audio-video della performance live tenutasi l’8 dicembre 2017 nella live room de “La Fucina Studio”: un viaggio personale ed intenso, tra musica elettronica e visuals. Una esperienza unica nel suo genere. Luca Fucci is a Tuscan artist who has been working in avant-garde electronic formations for years (Interferences, Crafty Cell, BMT). In 2015 the need to express themselves individually led him to publish his first solo instrumental album “Hidden Scars”: an electronic crossover of emotions, in which synthesizers, drum machines and piano are essential elements from each other, through which it is shaped a decadent dark-colored microcosm in which to plunge and get lost without prejudice. Welcomed with great success by the public and the critics, “Hidden Scars” has been accompanied by live performances in which music and evocative visuals merge into a single element. The musical expression of Luca Fucci is based on melodic pianos, dark and serious that alternate, meet and merge with the electronic drum machines, analog and modular synths, to bring to light “hidden scars”. The careful search for sound through the machines is not an end in itself, but a means to give voice to sensations and emotions, without any need for words. On January 26, 2018 “Live Scars” was published, an audio-video testimony of the live performance held on December 8, 2017 in the live room of “La Fucina Studio”: a personal and intense journey, between electronic music and visuals. A unique experience of its kind.
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THE DEEP SOCIETY (VALERIO VISCONTI-MIRKO GRIFONI) Atmosfere raffinate, sonorità oniriche e sperimentazioni dub caratterizzano questo duo tutto analogico composto da Valerio Visconti e Mirko Grifoni. Progetto nato diversi anni fa come double djset, dopo molte esperienze e serate insieme, ha avuto la sua naturale evoluzione in una collaborazione strumentale, in cui synth e drum machine si fondono per creare un set notturno, intimo, e molto ricco di basse frequenze. Refined atmospheres, dreamy sounds and experimentation dub characterize this all-analogue duo composed by Valerio Visconti and Mirko Grifoni. Project born several years ago as double djset, after many experiences and evenings together, has had its natural evolution in an instrumental collaboration, in which synths and drum machines merge to create a night set, intimate, and very rich in low frequencies.
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ISABELLA QUARANTA Vincitrice Photo Contest - Other Identity Indetto da: Radio Babboleo
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Isabella Quaranta, The end of everything, 2019. Stampa fotografica su carta. 50x40 cm.
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NOTE BIOGRAFICHE | BIOGRAPHICAL NOTES
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NOTE BIOGRAFICHE | BIOGRAPHICAL NOTES Karin Andersen www.karinandersen.net Karin Andersen (Burghausen, Germania, 1966) si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 1990. La sua ricerca artistica e teorica verte sulle interazioni uomo-animale e sulla dialettica natura-cultura. I suoi lavori, realizzati in diversi media, sono stati esposti a livello internazionale (in spazi come Guidi&Schoen, Genova; Artists Space, New York; Galleria d’Arte Moderna, Bologna; Haus der Kunst, Monaco) ed è stata invitata a programmi di cooperazione artistica e residenze (L’Europe d’Art, Niort, France; HEART, Helsinki; BoCS Art, Cosenza e altri). Da sempre accompagna la sua pratica artistica a studi teorici complementari e, in qualità di relatrice, è stata invitata a diversi convegni e conferenze. Ha pubblicato vari articoli su riviste di arte e scienza ed è autrice, con Roberto Marchesini, del libro Animal Appeal, uno studio sul teriomorfismo (Bologna, Perdisa/Hybris, 2003). Nel 2006 ha iniziato la sua attività nell’ambito video/film/animazione realizzando cortometraggi e video musicali. Ha collaborato a progetti altrui in funzione di assistente alla regia, editor, animatrice, performer e sound/ character designer (tra gli altri, Christian Rainer, Cosimo Terlizzi, Andrea Facco, Marzia Stano aka UNA, Daniel Lee, Massimiliano Briarava). In collaborazione con lo scrittore Gianluca Di Dio sta sviluppando il suo primo progetto per un feature film. Ha inoltre realizzato i visuals di spettacoli teatrali (ad esempio Angelus Novissimus, regia Alain Béhar, Francia, 2014) e di pubblicazioni filosofico-scientifiche (autori come Vincenzo Susca e Roberto Marchesini). Il lavoro di Karin ha ricevuto riconoscimenti come il Premio Maretti (2005, Galleria D’Arte Moderna e Contemporanea San Marino). Karin Andersen (Burghausen, Germany, 1966) graduated at the Academy of Fine Arts of Bologna in 1990. Her artistic and theoretic research concentrates on human-animal interactions and on the nature-culture dialectic. Her works in different mediums have been shown internationally (in venues like Guidi&Schoen Arte Contemporanea, Genova; Artists Space, New York; Gallery of Modern Art, Bologna;Haus der Kunst; Munich) and she has been involved in artistic cooperation programmes and residencies (L’Europe d’Art, Niort, France 1990; HEART, Helsinki; BoCS Art, Cosenza, Italy and more). She has always accompanied her artistic practice with related theoretical studies and has been invited to lecture at several conferences and meetings. Her articles have been published on art and science magazines. Together with Roberto Marchesini she authored the book Animal Appeal, uno studio sul teriomorfismo (Bologna, Perdisa/Hybris, 2003). In 2006 she began her activity in the field of video/film/animation, realizing short films and music videos. She collaborated in other people’s projects as director’s assistant, editor, animator, performer and sound/character designer (among others Christian Rainer, Cosimo Terlizzi, Andrea Facco, Marzia Stano aka UNA, Daniel Lee, Massimiliano Briarava). In collaboration with italian novelist Gianluca Di Dio she is developping her first feature film project. Furthermore she made visuals for performing art projects (for example, Angelus Novissimus, directed by Alain Béhar, France, 2014) and philosophic-scientific publications (authors like Vincenzo Susca and Roberto Marchesini). Karin’s work received recognitions like the Premio Maretti art prize (2005, Galleria D’Arte Moderna e Contemporanea San Marino).
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Holger Biermann www.holger-biermann.de Holger Biermann nasce in Germania, ha finito i suoi studi all’ICP di New York. Dal 2003 vive e lavora come fotografo a Berlino. Partecipa a diverse mostre, tra le altre al Museum of The City of New York, la House of German History a Bonn, la Willy Brandt House a Berlino o il Berlin Museum at Culture Brewery sempre a Berlino. Così definisce il proprio lavoro: “La città è il mio studio. Passo spesso intere giornate per le strade alla ricerca della giusta composizione, del momento giusto. Il fotografo di strada cerca l’insolito nell’ordinario. Vive da occasioni e momenti in cui il caos della strada dominante si fonde in unità visive.” Il suo approccio all’opera si discosta dai suoi colleghi di “street photography” (fotografia di strada) che in genere vogliono riprendere i loro soggetti in situazioni reali e spontanee in luoghi pubblici al fine di evidenziare aspetti della società nella vita di tutti i giorni; egli ama documentare invece, gli aspetti emotivi di quelle presenze apparentemente casuali, cercando di non limitarsi al semplice scatto rubato ma elaborando delle serie fotografiche che spesso raccoglie in “libretti” tematici che stampa in tiratura limitata 300/1000 copie di 41 pagine circa. Realizza degli spaccati di vita reale dove i protagonisti sono appunto i suoi incontri, casuali e non, una traccia di umanità rappresentata attraverso il filtro di un’immagine in bianco e nero o dai colori vivaci, rappresentazioni di identità diverse, raccontate attraverso un taglio personale e critico, attraverso un’esplorazione di vita in continuo divenire. Holger Biermann was born in Germany and finished his studies at the ICP in New York. Since 2003 he lives and works as a photographer in Berlin. He participates in several exhibitions, among others at the Museum of the City of New York, the House of German History in Bonn, the Willy Brandt House in Berlin or the Berlin Museum at Culture Brewery in Berlin. This is how he defines his work: “The city is my studio, I often spend whole days on the streets searching for the right composition, at the right time.The street photographer looks for the unusual in the ordinary. the chaos of the dominant road merges into visual units.” His approach to the work differs from his colleagues in “street photography” who usually want to shoot their subjects in real and spontaneous situations in public places in order to highlight aspects of society in everyday life; he instead loves to document the emotional aspects of those apparently casual presences, trying not to be limited to the simple stolen shot but elaborating photographic series that he often collects in thematic “booklets” that prints in limited edition 300/1000 copies of about 41 pages. He realizes splits of real life where the protagonists are his meetings, casual or not, a trace of humanity represented through the filter of a black and white image or bright colors, representations of different identities, told through a personal cut and critical, through an exploration of life in continuous evolution.
Silvia Bigi www.silviabigi.com Silvia Bigi nasce a Ravenna nel 1985. Si laurea al DAMS di Bologna, consegue un Master presso il Centro Sperimentale di Fotografia Adams di Roma, e prosegue con un corso all’International Center of Photography di New York. La memoria di eventi traumatici, l’identità di genere e l’impatto che le strutture famigliari e le tradizioni culturali hanno sull’individuo sono alcuni dei temi interrogati nelle sue opere. Il suo lavoro è stato esposto in mostre collettive e personali, in Italia e all’estero. Nel 2017 è selezionata per una residenza d’artista presso
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Bòlit, Centro di Arte Contemporanea della Catalunya e per la Chambre Blanche, Quèbec. Nel 2018 è finalista dei premi Combat e Francesco Fabbri, vincitrice del Premio Nocivelli ed è tra le dieci artiste selezionate per il Festival Internazionale Organ Vida. Il suo lavoro è stato incluso nella mostra Engaged, Active, Aware vincitrice del Lucie Award nella categoria “Best Exhibition”, ed è selezionato da Diane Dufour e Mike Trow per Der Greif e World Photography Organisation. Silvia Bigi was born in Ravenna, Italy, in 1985. After a Degree in Visual Arts at Dams, Bologna, she hold a Master in photography at Centro Sperimentale Adams, Rome, and she continued with a course at ICP, New York.The memory of traumatic events and the impact that family and cultural traditions have on the individual are some of the topics investigating in her projects. Her work has been exhibited in group and solo shows, nationally and internationally. In 2017 she has been selected for a residency program at Bòlit, Center of Contemporary Art of Catalunya and at Chambre Blanche, Quèbec. In 2018 she is finalist for Combat Prize and Francesco Fabbri Award, winner of Premio Nocivelli and she is among the ten selected artists for the International Festival Organ Vida. Her work has been included in the exhibition Engaged, Active, Aware: women’s perspective now, winner of the Lucie Award as “Best Exhibition”, while she has been selected by Diane Dufour and Mike Trow for prestigious online publications such as Der Greif and the World Photography Organization.
Isobel Blank www.isobelblank.com Nata a Pietrasanta in Toscana, si laurea con lode in filosofia estetica a Padova, vive e lavora a Cortona. Tra le esposizioni recenti, quella alla Triennale d’Arte Contemporanea Tessile Fiberart International di Pittsburgh (USA), al MMOMA - Museum of Modern Art di Mosca, al National Center for Contemporary Art di San Pietroburgo, al Contemporary Art Center di Tbilisi, a Palazzo Widmann di Venezia, alla Mumbai Art Room in India. Tra i diversi riconoscimenti, il Primo Premio al Romaeuropa Webfactory nel 2009, sezione videoarte. Le sue opere fotografiche sono state incluse ne “Il corpo solitario”, la prima monografia sull’autoritratto nella fotografia contemporanea, ad opera di Giorgio Bonomi (Rubbettino Editore, 2012) oltre ad essere state acquisite dall’Archivio Nazionale dell’Autoritratto Fotografico del Museo Pubblico d’Arte Moderna, dell’Informazione e della Fotografia (Musinf) di Senigallia (AN). La sua formazione include discipline quali il teatro, la danza, il disegno, la scultura, la musica, la fotografia, che oltre a svilupparsi autonomamente, confluiscono in una fusione di arte performativa e video. La sua ricerca visionaria e surreale, pone il proprio corpo al centro dell’opera. La fisicità è il filtro che evidenzia le questioni intrinseche all’essere umano e alla sua poetica. Oltre al fulcro dell’autoritratto, particolare rilievo assumono i temi della memoria collettiva ed individuale in dialogo costante con l’identità.Il fine del suo lavoro è la creazione di un luogo in cui l’intimità possa tendere all’universale. Born in Pietrasanta, Tuscany, she graduated with honors in aesthetic philosophy in Padua, she lives and works in Cortona. Recent exhibitions include the Triennial of Contemporary “Fiberart International” in Pittsburgh (USA), the MMOMA - Museum of Modern Art in Moscow, the National Center for Contemporary Art in St. Petersburg, the Contemporary Art Center in Tbilisi, Palazzo Widmann in Venice, the Mumbai Art Room in India. Among the various awards, the First Prize at Romaeuropa Webfactory in 2009, video art section. His photographic works have been included in ‘Il corpo solitario’, the first monograph on self-portrait in contemporary
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photography, by Giorgio Bonomi (Rubbettino Editore, 2012) as well as being acquired by the National Archive of the Photographic Self-portrait of the Public Museum of Modern Art, Information and Photography (Musinf) in Senigallia (AN). Her training includes disciplines such as theater, dance, drawing, sculpture, music, photography, which in addition to developing independently, merge into a fusion of performance art and video. Her visionary and surreal research places her body at the centre of the work. Physicality is the filter that highlights the issues intrinsic to human beings and their poetics. In addition to the fulcrum of the self-portrait, the themes of collective and individual memory in constant dialogue with identity are of particular importance. The aim of her work is the creation of a place where intimacy can tend to the universal.
Manuel Bravi www.manuelbravi.com Ravenna, 1978. Vive e lavora tra Ravenna e Milano. Ha studiato grafica a Venezia, dove l’incontro con Lorenzo Vitturi ha stimolato l’interesse per il potenziale manipolatorio e surreale della fotografia. Dopo gli studi inizia a lavorare a Milano come fotoritoccatore, fotografo e grafico. La sua pratica fotografica è influenzata dalla fotografia surrealista come anche dall’immaginario della musica heavy metal. Il genere del ritratto e la tecnica del lightpainting gli permettono di scoprire altri mondi e di avvicinarsi ai soggetti creando un flusso empatico che si mostra nel movimento e nelle ombre. Ravenna, 1978. Lives and works between Ravenna and Milan. He studied graphics in Venice, where he met, among others, Lorenzo Vitturi, who inspired his interest in the manipulative and surrealistic capabilities of photography. After Venice, he moved to Milan and started collaborating working as photo retoucher, photographer and graphic designer. His photographic practice is inspired by heavy metal music and surrealistic photography. The genre of portrait and the technique of lightpainting allows him to meet other worlds and approach subjects through an empathic flow that reveals itself in the movement and in the shadows.
Silvia Celeste Calcagno www.silviacalcagno.it Silvia Celeste Calcagno è nata a Genova nel 1974, vive e lavora ad Albissola. Diplomata all’ Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova. Vince nel 2010 il I Premio Opera Pubblica Festival Internazionale della Maiolica Albissola MuDA Museo Diffuso Albissola Marina, nel 2013 il Premio Speciale Artisti in Residenza Laguna Art Prize Venezia, nel 2013 la Targa del Presidente della Repubblica, 57° Concorso Internazionale della Ceramica d’arte Contemporanea Premio Faenza e nel 2015, prima donna italiana, la 59° edizione del Premio Faenza. Tra le mostre principali: Nerosensibile, Studio Lucio Fontana, a cura di Luca Beatrice, Albissola 2012, Not Me, Musei Civici Imola e Il Pomo da DaMo Contemporary art Imola, a cura di Luca Beatrice 2014, Mood, PH Neutro Fotografia Fine-Art a cura di Luca Beatrice, Pietrasanta 2014,
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GNAM Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma 2015, Interno 8 La fleur coupée, Officine Saffi, a cura di Angela Madesani, Milano 2015, La sfida di Aracne Riflessioni sul femminile dagli anni ‘70 ad oggi, Nuova Galleria Morone, a cura di Angela Madesani, Milano 2016, XXIV Biennale Internationale Contemporaine Musée Magnelli, Vallauris 2016, Il millenio è maggiorenne MARCA Catanzaro e Fabbrica Eos Milano, a cura di Luca Beatrice, 2017. Nel 2017 espone in Corea, In the Earth Time. Italian Guest Pavillion Gyeonggi Ceramic Biennale Yeoju Dojasesang. Sempre nello stesso anno, presenta IF (but I can explain) al Museo d’arte contemporanea Villa Croce, Genova a cura di Alessandra Gagliano Candela, esposto nel settembre 2017 nella Project Room della Nuova Galleria Morone, Milano con la quale presenta i suoi ultimi lavori ad Art Karlsruhe nel Febbraio 2018. Sempre nel 2018 espone al MARCA Museo delle Arti di Catanzaro nella mostra “Il millennio è maggiorenne” a cura di Luca Beatrice. Nell’ambito della V Biennale di Mosaico di Ravenna in collaborazione con il MIC Faenza inaugura la personale Il Pasto bianco (mosaico di me) a cura di Davide Caroli, l’opera fa parte delle collezioni permanenti della storica Biblioteca Classense e MAR Ravenna. Silvia Celeste Calcagno was born in Genoa in 1974, she lives and works in Albissola. She graduated from the Ligustica Academy of Fine Arts in Genoa. Wins in 2010 the I Award Opera Publish International Festival of Majolica Albissola MuDA Widespread Museum Albissola Marina, in 2013 the Special Artists in Residence Award Laguna Art Prize Venice, in 2013 the plaque of the President of the Republic, 57th International Competition of Ceramic Art Contemporanea Premio Faenza and in 2015, the first Italian woman, the 59th edition of the Faenza Prize. Among the main exhibitions: Nerosensibile, Studio Lucio Fontana, curated by Luca Beatrice, Albissola 2012, Not Me, Civic Museums Imola and Il Pomo da DaMo Contemporary art Imola, curated by Luca Beatrice 2014, Mood, PH Neutral Fine-Art Photography edited by Luca Beatrice, Pietrasanta 2014, GNAM National Gallery of Modern Art, Rome 2015, Interior 8 La fleur coupée, Officine Saffi, curated by Angela Madesani, Milan 2015, The challenge of Aracne Reflections on women from the 70s to today, Nuova Galleria Morone, curated by Angela Madesani, Milan 2016, XXIV International Biennial Contemporaine Musée Magnelli, Vallauris 2016, The millennium is of age MARCA Catanzaro and Fabbrica Eos Milano, curated by Luca Beatrice, 2017. In 2017 he exhibited in Korea, In the Earth Time. Italian Guest Pavillion Gyeonggi Ceramic Biennial Yeoju Dojasesang. In the same year, he presented IF (but I can explain) at the Museum of Contemporary Art Villa Croce, Genoa curated by Alessandra Gagliano Candela, exhibited in September 2017 in the Project Room of the New Galleria Morone, Milan with which he presented his latest works at Art Karlsruhe in February 2018. Also in 2018 he exhibited at the MARCA Museum of the Arts in Catanzaro in the exhibition “The Millennium is an Age” by Luca Beatrice. In the context of the V Ravenna Mosaic Biennial in collaboration with the MIC Faenza inaugurates the personal Il Pasto bianco (mosaic of me) curated by Davide Caroli, the work is part of the permanent collections of the historic Classense Library and MAR Ravenna.
Marco Cappella www.cargocollective.com/marcocapp Inizio a fotografare nel luglio del 2010 a New York, durante un viaggio, ricordo che rimasi folgorato dal fascino di quella città e sentii subito la necessità di immortalare tutto quello che mi circondava. Così mi recai in un negozio e comprai li la mia prima reflex…da quel momento in poi non ho più smesso. Da 4 anni circa fotografo solo su pellicola 35mm e medio formato 6x7. Sviluppo e stampo tutto in casa nella mia piccola camera oscura. Cerco di fotografare più soggetti possibili ma ho un predilezione per corpi femminili e la natura.
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Nel 2012 ho esposto al Milano Mostra Mi Art una raccolta di 10 scatti realizzati tra varie città come New York, Parigi, Londra, Barcellona e Berlino, mentre nel 2015 ho avuto l’onore di esporre all’ “International Photography Festival” a Lishui, in Cina, con la presenza di Sebastiao Salgado. I started photographing in july 2010 in new york, during a trip, i remember that I was struck by the charm of that city and immediately felt the need to capture everything around me. So i went to a store and bought my first reflex ... from that moment on I have not stopped. Since 4 years only photographer on 35mm film and medium format 6x7. Development and mold everything in the house in my small dark room.I try to photograph as many subjects as possible but I have a predilection for bodies feminine and nature. In 2012 I exhibited at the Milan Mi Art Show a collection of 10 shots made between various cities like New York, Paris, London, Barcelona and Berlin while in 2015 I had the honor of exhibiting at the “International Photography Festival” in Lishui, in China, with the presence of Sebastiao Salgado.
Ivan Cazzola www.ivancazzola.com Nel 2010 Ivan Cazzola è stato definito da Dazed & Confused uno dei fotografi più interessanti nel panorama internazionale. Nel corso degli anni ha accumulato una grande esperienza, collaborando con magazine e fashion labels, tra Milano, Londra, Parigi e New York. Ha fotografato: Juliette Lewis, Orlando Bloom, Gus Van Sant, Ok Go, Hot Chip, The XX e molti altri e diretto video clip per alcuni dei musicisti più importanti nel panorama alternativo italiano: Linea 77, LNRipley, Sirya, Victor Kwality, Niagara. Le sue foto sono state pubblicate da Vogue, Dazed & Confused, i-D. Con i suoi scatti ha esplorato mondi diversi tra loro, da una realtà vicina e autobiografica fino agli scatti di modelle, artisti, rock band, star del cinema, gangster, borghesi decadenti. Il tutto con una costante stilistica: un occhio spesso intimo, a volte insolente, ma sempre iconico e provocatorio. In 2010 Ivan Cazzola was defined by Dazed & Confused as one of the most interesting photographers on the international scene. Over the years he has accumulated a great experience, collaborating with magazines and fashion labels, including Milan, London, Paris and New York. He has photographed: Juliette Lewis, Orlando Bloom, Gus Van Sant, Ok Go, Hot Chip, The XX and many others and directed video clips for some of the most important musicians in the Italian alternative scene: Line 77, LNRipley, Sirya, Victor Kwality, Niagara . His photos have been published by Vogue, Dazed & Confused, i-D. With his shots he explored different worlds, from a close and autobiographical reality to the shots of models, artists, rock bands, movie stars, gangsters, bourgeois decadent. All this with a constant style: an often intimate eye, sometimes insolent, but always iconic and provocative.
Maurizio Cesarini www.facebook.com/maurizio.cesarini.9 Maurizio Cesarini nasce a Senigallia nel 1957, frequenta l’istituto d’arte di Fano e poi l’accademia di belle arti di Urbino. Sin da studente di istituto d’arte, frequenta Mario Giacomelli a cui spesso mostra il suo lavoro ricevendo preziosi consigli. Nel 1974 in accademia incontra un fotografo che lavorava con Urs Luthi. Da lì inizia un
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percorso artistico adottando la performance come modalità operativa. Le sue azioni utilizzano il travestimento maschile/femminile, come indagine sul concetto di ruolo sia culturale, che politico e sociale. Presenta le sue performance sia nelle Marche che in occasioni nazionali, arrivando nel 1977 a realizzare “Il senso della ferita” in cui l’ostensione del corpo androgino è segnata drammaticamente da ferite reali. Quindi abbandona la modalità performativa virando su di un immaginario sempre di tipo travestitistico, ma decisamente più concettuale. In questi ultimi anni, l’artista inizia un rapporto epistolare con Lucrezia de Domizio e la incontra ad una sua iniziativa in favore di Beuys a Pescara. Esce in questi anni un testo fondamentale: Italian Performance Art dove si analizza la performance sia in senso storico, dal futurismo ai giorni nostri, sia in senso critico, evidenziando gli artisti più significativi; Maurizio Cesarini è presente nella sezione storica accanto a nomi prestigiosi quali Luthi, Gina Pane, Abramovic, ecc. inoltre nella parte critica gli viene dedicata una scheda relativa alle esperienze performative più recenti. Maurizio Cesarini è inserito dal critico Giorgio Bonomi nel suo libro che analizza gli artisti che lavorano sul proprio corpo: “IL CORPO SOLITARIO-l’autoscatto nella fotografia contemporanea”. Le mostre di questi anni sia in Italia, che all’estero è impossibile citarle tutte, quindi concludiamo con questa ultima personale del 2017 al Tomav di Moresco progettata e coordinata da Andrea Giusti e Aliquid collettiva presso la galleria di Gino Monti curate entrambe da Gabriele Perretta, critico che ha dedicato all’artista un saggio teorico/critico sul concetto di identità. Maurizio Cesarini was born in Senigallia in 1957, he attended the art school of Fano and then the academy of fine arts of Urbino. As a student of art institute, he attended Mario Giacomelli who often showed his work receiving valuable advice. In 1974 in the academy he met a photographer who worked with Urs Luthi. From there begins an artistic journey adopting the performance as an operating mode. His actions use male/female disguise as an investigation into the concept of both cultural, political and social role. He presents his performances both in the Marche and on national occasions, arriving in 1977 to realize “The sense of wound” in which the exposition of the androgynous body is marked dramatically by real wounds. So he abandons the performative modality by turning to an imaginary that is always a travesty type, but decidedly more conceptual. In these last years, the artist begins an epistolary relationship with Lucrezia de Domizio and meets her at an initiative in favor of Beuys in Pescara. In these years a fundamental text emerges: Italian Performance Art where performance is analyzed in a historical sense, from futurism to the present day, and in a critical sense, highlighting the most significant artists; Maurizio cesarini is present in the historical section alongside prestigious names such as Luthi, Gina Pane, Abramovic, etc. moreover, in the critical part he is dedicated a card relating to the most recent performative experiences. Maurizio Cesarini is included by the critic Giorgio Bonomi in his book which analyzes the artists working on his body: “ IL CORPO SOLITARIO-l’autoscatto nella fotografia contemporanea”. The exhibitions of these years both in Italy and abroad are impossible to mention them all, so we conclude with this last solo show of 2017 at Tomav di Moresco designed and coordinated by Andrea Giusti and Aliquid collective at the Gino Monti gallery, both curated by Gabriele Perretta, a critic who has dedicated to the artist a theoretical/critical essay on the concept of identity.
Cinzia Ceccarelli www.vimeo.com/user51227344 Classe 1974. Laureata in Pittura e specializzata in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo presso l’Accademia di Belle Arti di Torino dove vive e lavora come artista visiva e docente Fine Art. Artista proteiforme, sviluppa il suo lavoro in azioni performative, installazioni, audio-installazioni, video e fotografie
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partecipando a svariati progetti espositivi sul territorio nazionale. Nei suoi lavori si percepisce l’esperienza del trauma, l’assenza intesa come eterna presenza e la sua ricerca ripone particolare attenzione su ciò che si manifesta come disturbo mentale o disagio sociale nella totale polisemia, con l’obiettivo di coinvolgere i visitatori in un’esperienza ad ampio spettro emozionale. Attualmente vive e lavora a Torino, Italia. Cinzia Ceccarelli (Turin, 1974), graduated in Painting and Master Degree in Visual Arts and Performing Arts from Turin’s Academy of Fine Art -Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Ecletic and multiform Artist , develop her artworks like performative action, art installations, audio- installations, video and photo, participating to much and various project in Italy. On her artworks we perceived the experience of trauma, absence undestood as everlasting presence and her reserach put particolar attention on everything manifest as per mental disagreement or social desease on the total polysemous: target is engage all visitors inside a emotional spectrum wider experience. She lives and works in Turin, Italy.
Giacomo Costa www.giacomocosta.com Giacomo Costa è nato nel 1970 a Firenze dove vive e lavora. Ha partecipato alla XIII Quadriennale di Roma (1999) e alla VIII Biennale della Fotografia (1999) di Torino ed ha tenuto personali da Photology a Londra (1999), alla Arthur Roger Gallery di New Orleans (1999) ed alla Laurence Miller Gallery a New York (2000). É stato anche invitato ad esporre al Contemporary Art Center of New Orleans in occasione della mostra “Photography Now” (2001) ed alla Anteprima della XIV Quadriennale a Torino (2004). Nel 2002 ha tenuto una personale presso Sergio Tossi Arte Contemporanea (Firenze) e nel 2003 presso Guidi&Schoen a Genova . Nel 2005 al suo lavoro sono state dedicate due mostre, una dal Quarter-Centro Produzione Arte di Firenze a cura di Sergio Risaliti e Pietro Gaglianò ed una presso la Galleria Civica d’Arte Contemporanea di Ciampino (Roma). Nel 2006 ha preso parte alla X Biennale di Venezia di Architettura. Nell’ottobre dello stesso anno una sua opera è stata esposta al Centre Pompidou di Parigi in occasione della mostra Le Peintres de la vie moderne entrando a far parte della collezione permanente del museo. Nel novembre 2006 ha presentato la sua nuova serie di lavori Atti metropolitani in due personali alla Galleria Guidi&Schoen di Genova ed alla Galerie Clairefontaine in Lussemburgo. Nel settembre del 2007 il suo lavoro è stato esposto presso Phillips De Pury a New York in occasione della mostra C-Photo Exhibition. Nell’aprile del 2009 l’editore Damiani ha pubblicato una monografía che ripercorre il suo lavoro dal 1996 ad oggi, con una prefazione di Sir Norman Foster ed un testo critico di Luca Beatrice. Nel giugno del 2009 ha rappresentato l’Italia alla 53° edizione Della Biennale d’Arte di Venezia. Nel novembre dello stesso anno è stato invitato ad esporre due personali al FotoArtFestival di Bielska in Polonia e al Lucca Digital Photo Fest, mentre a dicembre ancora una personale al Seoul International Photo Festival in Korea. Nel 2010 ha esposto una personale alla Dominik Mersch Gallery di Sidney ed è stato invitato a esporre a Ostrale 2010 presso l’Internationale Ausstellung zeitgenössischer Künste di Dresden. Il suo lavoro è stato inserito nel volume della Taschen Architecture Now! vol 7, by Philip Jodidio. Durante gli anni il suo lavoro è stato pubblicato dalle seguenti riviste internazionali: El Pais, Es (cover), Digital
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Photo, Ru (cover), Silver Shotz, Uk (cover), Exit, Es (cover), Evolo, Usa, Photography, Korea, Photo magazin, D., Art, D., Frame, A, C-Photo magazine, Uk. Giacomo Costa was born in 1970, he lives and works in Florence. He took part in the XIII Quadriennale in Rome (1999) and in the VIII Biennale della Fotografia (1999) in Turin and had a personal exhibition at Photology in London (1999), at Arthur Roger Gallery in New Orleans (1999) and at Laurence Miller Gallery in New York (2000). In 2006 he took part in the 10th Architecture Biennale of Venice. In October his work have was shown in the exhibition “Le Peintres de la vie moderne” at the Centre Pompidou in Paris and his work has remained in the permanent collection of the museum. In September 2007 he took part in the C-Photo Exhibition at Phillips De Pury in New York. In April 2009 the editor Damiani published an anthological monography on his work, with a preface by Sir Norman Foster and an essay by Luca Beatrice. In June 2009 he was invited to represent Italy at 53rd Venice Biennale. In fall 2009 he had solo exhibitions at Bielska Biala Fotoart Festval in Poland, at Seoul International photo festival in South Korea and at Lucca Digital Photo Festival. In 2010 he exhibited with a solo show at Dominik Mersch Gallery in Sidney and has been invited to exhibit at Ostrale 2010 at Internationale Ausstellung zeitgenössischer Künste in Dresden. His work has been included in Taschen Architecture Now! vol 7 by Philip Jodidio. His work has been reviewed by the following international magazines: El Pais, Es (cover), Digital Photo, Ru (cover), Silver Shotz, Uk (cover), Exit, Es (cover), Evolo, Usa, Photography, Korea, Photo magazin, D., Art, D., Frame, A, C-Photo magazine, Uk.
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Davide D’Elia www.davidedelia.com Davide D’Elia è nato nel 1973 a Cava dei tirreni (SA). Vive e lavora a Roma. Ha esposto in mostre personali e collettive, in Italia, Inghilterra, Libano, Grecia e Slovenia. Suoi lavori sono stati esposti alla Galleria Nazionale di Arte Moderna di Roma, altri acquisiti nella collezione MAXXI - Museo delle arti del XXI secolo e ha partecipato alla 55 Biennale di Venezia (2013). Con una formazione legata alla pittura informale, l’artista a partire della seconda metà degli anni Duemila sperimenta l’interazione del tempo e degli agenti atmosferici sulla materia, che lo portano a realizzare opere composte con materiali solarizzati, usurati dal tempo, e con la muffa. Sono lavori che esplorano quello che rimane, documentano la storia, la vita proiettata sulle cose: l’artista osserva il passaggio del tempo portando avanti una riflessione che riguarda non soltanto la consapevolezza della memoria ma anche la sua trasmissione. A queste opere ne seguono altre in cui le muffe vengono unite o contrapposte a carte millimetrate, strumenti di precisione e di controllo dello spazio, completamente opposti alla imprevedibilità dell’azione del tempo e della natura sulle cose. Nel solco di una riflessione che si sviluppa in modo logico e conseguenziale, D’Elia sviluppa successivamente una nuova linea di ricerca apparentemente opposta a quella legata ai segni del tempo sulla materia. Nel 2014 realizza una installazione ambientale dal titolo Antivegetativa un intero ambiente in cui pareti, oggetti, quadri vengono immersi in una pittura azzurra a base di piombo, l’antivegetativa appunto, utilizzata nei cantieri nautici per evitare l’usura delle chiglie delle barche. Se le muffe, le solarizzazioni, la polvere ci raccontano il tempo e la memoria sulla materia, se la carta millimetrata tenta un controllo dell’azione del tempo, l’antivegetativa con il suo azzurro compatto, nasconde qualsiasi traccia del tempo, o forse tenta di preservare la materia dal tempo. Le opere di D’Elia sono caratterizzate dalla contaminazione tra i linguaggi e da un’estetica concettuale. Nei suoi lavori il dato soggettivo e i materiali vengono destrutturati e ricomposti per trasformarsi nel veicolo di un pensiero universale. Dalla materia dunque all’astrazione. Davide D’Elia was born in 1973 in Cava dei Tirreni (SA). He lives and works in Rome. He has exhibited in solo and group exhibitions in Italy, England, Lebanon, Greece and Slovenia. His works have been exhibited at the National Gallery of Modern Art in Rome, others acquired in the MAXXI collection - Museum of the XXI Century Arts and participated in the 55th Venice Biennale (2013). With a training related to informal painting, the artist began experimenting with the interaction of weather and atmospheric agents on matter from the second half of the 2000s, which led him to create works composed of solarized materials, worn by time, and with the mold. They are works that explore what remains, document the story, the life projected on things: the artist observes the passage of time carrying on a reflection that concerns not only the awareness of memory but also its transmission. These works are followed by others in which molds are joined or opposed to millimeter charts, instruments of precision and control of space, completely opposed to the unpredictability of the action of time and nature on things. In the wake of a reflection that develops in a logical and consequential manner, D’Elia subsequently develops a new line of research apparently opposed to that linked to the signs of time on matter. In 2014 he made an environmental installation entitled Antifouling an entire environment in which walls, objects, paintings are immersed in a blue paint based on lead, the antifouling, used in shipyards to avoid the wear of the keels of boats. If molds, sunburns, dust tell us time and memory on matter, if the graph paper tries to control the action of time, the
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antifouling with its compact blue hides any trace of time, or perhaps tries to preserve matter from time. D’Elia’s works are characterized by the contamination between languages and conceptual aesthetics. In his works the subjective data and the materials are deconstructed and recomposed to become the vehicle of a universal thought. From matter therefore to abstraction.
Amalia de Bernardis Amalia de Bernardis, nasce a Cosenza nel 1984, poi si trasferisce a Torino dove tuttora vive. Autodidatta, preferisce le botteghe ed i workshop, i simposi ed i laboratori, all’accademia d’arte. Si forma tra Torino, Berlino, Varsavia, Milano e New York. Performer, artista visiva, scultrice espone e agisce in gallerie d’arte, in spazi culturali, in spazi off, in mostre internazionali, in appartamenti privati, in paesaggi naturali ed urbani, spostando l’attenzione sull’opera (nella zona visiva) e non sul nome dell’artista (spesso utilizza altre firme o non firma affatto). Espone in Italia e all’estero. Tra gli ultimi lavori, si citano le due performance: Innocent Love e LL presso la Galleria Moitre (Torino). Curatrice di esposizioni d’arte, lavora inizialmente come curatore esterno poi apre nel 2015 il Temporaneo Spazio Cit, spazio itinerante con base a Torino e nel 2017 inizia il percorso H25 (mostre solo su invito in appartamenti privati). Da sempre svolge esperimenti sugli “allestimenti vivi”. Amalia de Bernardis, born in Cosenza in 1984, then moved to Turin where he still lives. Self-taught, he prefers workshops and workshops, symposia and workshops, to the art academy. It is formed between Turin, Berlin, Warsaw, Milan and New York. Performer, visual artist, sculptress exhibits and acts in art galleries, in cultural spaces, in off spaces, in international exhibitions, in private apartments, in natural and urban landscapes, shifting the focus on the work (in the visual area) and not on the name of the artist (often using other signatures or not signing at all). Exhibits in Italy and abroad. Among the latest works, we mention the two performances: Innocent Love and LL at the Galleria Moitre (Turin). Curator of art exhibitions, initially works as an external curator then opens in 2015 the Temporary Space Cit, traveling space based in Turin and in 2017 begins the path H25 (solo exhibitions by invitation in private apartments). He has always carried out experiments on “living arrangements”.
Emanuele Dello Strologo www.emanueledellostrologoph.com Emanuele Dello Strologo, nasce a Genova 49 anni fa. Quasi per caso decide di provare la fotografia e senza accorgersene questa diventa prima una passione e poi il proprio lavoro. Dopo un paio di anni inizia a collaborare con l’Agenzia fotografia Corbis per seguire eventi, ossia News di carattere sociale e non. Dopo qualche mese inizia a collaborare e ancora oggi collabora, con l’Agenzia fotografica Getty Images per News e Reportage. Si evidenzia quindi un’attitudine specifica a fotografare il mondo in cui vive e non solo, una specificità nel raccontare attraverso i reportage e i ritratti quelle che sono le situazioni che possono essere le più diverse, dal terremoto, l’alluvione, la manifestazione, il problemi dell’immigrazione, ecc. Quindi Emanuele usa la macchina fotografica quale strumento di comunicazione, quello strumento attraverso il quale coloro che vedono le sue fotografie possano immergersi in ciò che lui ha visto e ha voluto raccontare, portare alla luce di tutti l’argomento da lui trattato.
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Oggi continua la ricerca di qualunque argomento per lui sia importante seguire, immergersi e trarre da qui il suo lavoro nella ricerca di rendere utile questi suoi lavori che hanno fondamentalmente lo scopo di far conosce e mostrare vari momenti e non solo, sempre nel rispetto delle persone e cercando sempre di non essere mai banali. Emanuele Dello Strologo, was born in Genoa 49 years ago. Almost by chance decided to try photography and without noticing this becomes a passion and then their jobs. After a few years she began working with Corbis photo agency to follow events, namely social and not News. A few months later she began working and still cooperate with the photographic agency Getty Images for News and Reportage. Si thus shows an attitude specific to photograph the world he lives in and beyond, a specificity in telling through reportage and the portraits what are the situations that can be the most different, after the earthquake, the flood, the manifestation, the immigration problems, etc. Then Emanuele uses the camera as a means of communication, that instrument through which those who see his photographs can immerse themselves in what he saw and wanted to tell, bring to light all the argument from him Treaty. Today he continues the search for any topic to him is important to follow, dive in and draw from here his work in finding make helpful these works that have essentially intended to know and show various moments and not just in respect for others and always trying to never be trivial.
Montserrat Diaz www.montserratdiazimages.com Fotografa autodidatta, Montserrat Diaz, nata a Malaga, ma residente a Milano dal 2000, dove si laurea in Lingue e Letterature Straniere, ha sempre avuto una grande predisposizione per l’arte. Anche se inizialmente ama esprimersi attraverso la pittura, nel 2014 scopre la fotografia e da allora diventa il medio attraverso il quale preferisce esprimere se stessa. Il suo percorso espositivo e lavorativo inizia nel novembre 2016, in occasione dell’evento torinese Paratissima XII, nella sezione fotografica NoPhoto curata da Laura Tota. Nel 2017 espone al MIIT di Torino e vince il bando di partecipazione indetto da Malamegi Lab grazie al quale espone alla galleria Imagoars di Venezia conquistando il primo premio fra i partecipanti. Sempre quest’anno partecipa a Paratissima XIII di Torino, ottenendo il Pemio Bonetti e il Premio Mauto. Artisti Italiani la sceglie tra i partecipanti al prestigioso Premio Celeste per una bipersonale a Giarre (Catania), curata da Benedetta Spagnuolo. Nel 2018 partecipa a Paratissima Bologna e vince il Premio PRS a Paratissima Milano. Partecipa al Sorrento Young Art festival, evento artistico curato da Paolo Feroce, e alla collettiva fotografica curata da Martin Vegas indetta da ImagNation a Parigi. Di nuovo con Artisti Italiani espone in una bipersonale curata da Benedetta Spagnuolo, al Galata Museo del mare di Genova, mentre lo showroom DVO di Milano la invita per una personale dal titolo The oniric photography of Montserrat Diaz. Nel frattempo collabora con ForiAsse, cooperativa letteraria, e con Studio Ata/Plan Buy®/Barbara Corsico photography, e viene pubblicata da diverse riviste online quali Click Magazine (con anche la copertina, 1/2018) e Thalamus Magazine (rivista spagnola, 9/2018). Self-taught photographer, Montserrat Diaz, born in Malaga, but resident in Milan since 2000, where she graduated in Foreign Languages and Literature, has always had a great talent for art. Although he initially likes to express himself through painting, in 2014 he discovered photography and from then on became the medium through which he preferred to express himself.
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His exhibition and work itinerary begins in November 2016, on the occasion of the Turin Paratissima XII event, in the NoPhoto photographic section curated by Laura Tota. In 2017 he exhibited at the MIIT in Turin and won the call for tender organized by Malamegi Lab thanks to which he exhibited at the Imagoars gallery in Venice, winning the first prize among the participants. This year he participates in Paratissima XIII of Turin, obtaining the Pemio Bonetti and the Mauto Award. Italian artists choose her among the participants in the prestigious Celeste Prize for a bipersonal in Giarre (Catania), curated by Benedetta Spagnuolo. In 2018 he took part in Paratissima Bologna and won the PRS Pratissima Paratissima Milano. He took part in the Sorrento Young Art festival, an artistic event curated by Paolo Feroce, and the photographic group curated by Martin Vegas organized by ImagNation in Paris. Again with Artisti Italiani he exhibited in a bipersonal exhibition curated by Benedetta Spagnuolo, at the Galata Museo del mare in Genoa, while the DVO showroom in Milan invited her for a solo show entitled The oniric photography of Montserrat Diaz. In the meantime he collaborates with ForiAsse, a literary cooperative, and with Studio Ata/PlaBuy®/ Barbara Corsico photography, and is published by several online magazines such as Click Magazine (with the cover, 1/2018) and Thalamus Magazine (Spanish magazine, 9/2018).
Boris Duhm www.borisduhm.com Boris Duhm nasce a Aquisgrana, in Germania; vive e lavora a Berlino e Budapest. Artista che lavorava principalmente con la fotografia analogica, su pellicola, oggi ha aggiunto diversi media: pittura, collage, installazione e performance; il suo lavoro ruota intorno al concetto della “diversità”, in una società che si basa sempre più sulla “conformità” dei suoi membri e in cui l’emarginazione del non conforme appunto diventa il primo approccio utilizzato. Per questo motivo Boris interpreta spesso i personaggi descritti nelle sue opere, quasi un processo di auto-identificazione di diverse identità e connotazioni, non solo visive ma anche sociali; ricostruisce teatrali set fotografici o allestimenti visivi molto kitsch, strutturando spesso vere e proprie performance. Le sue opere non sono semplici fotografie ma parte di un processo sperimentale che tende a far emergere e visualizzare uno stato mentale del nostro contemporaneo; egli stesso afferma “quando un’immagine diventa simbolica può acquisire una dimensione politica o sociale.” Il complesso del suo lavoro, non solo le immagini, ma anche i video e i dipinti rispecchiano la sfera di un linguaggio apparentemente irrazionale ma che usa codici che spesso ritroviamo nel mondo della comunicazione contemporanea. Spesso paesaggi naturali, selvaggi, fanno da contorno ai suoi personaggi; nei lavori di Duhm, il volto dell’artista, o meglio, la sua rappresentazione di un’individualità specifica, viene celata. Il visibile quindi diventa allegoria di un’assenza o come in “Forest-Paintings”, il palcoscenico stesso, la location degli scatti, diventano contenuto allegorico, una natura “selvaggia” che diviene specchio interiore. Ultimamente l’artista sta lavorando ad una nuova serie di immagini fotografiche molto poetiche che trattano la relazione tra l’uomo e la natura; alcuni dei nuovi lavori sono stati portati in Transilvania e Slovenia nel 2012 e nel 2013 e sono stati scattati nelle campagne berlinesi. Affianca la sua attività di artista a quella di docente universitario insegnando fotografia e sceneggiatura in diverse sedi in Europa. Boris Duhm was born in Aachen, Germany; he lives and works in Berlin and Budapest. An artist who worked mainly with analogue photography, on film, today he has added different media: painting, collage,
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installation and performance; his work revolves around the concept of “diversity”, in a society that is increasingly based on the “conformity” of its members and in which the marginalization of the non-compliant in fact becomes the first approach used. For this reason Boris often interprets the characters described in his works, almost a process of self-identification of different identities and connotations, not only visual but also social; he recreates theatrical photographic sets or very kitsch visual displays, often structuring real performances. His works are not just photographs but part of an experimental process that tends to bring out and visualize a mental state of our contemporary; he himself states “when an image becomes symbolic it can acquire a political or social dimension.” The complex of his work, not only the images, but also the videos and the paintings reflect the sphere of a seemingly irrational language, but that uses codes that we often find in the world of contemporary communication. Often natural landscapes, wild, are the outline of his characters; in Duhm’s works the artist’s face, or rather, his representation of a specific individuality, is concealed. The visible then becomes allegory of an absence or as in “Forest-Paintings”, the stage itself, the location of the shots, become allegorical content, a “wild” nature that becomes an inner mirror. Lately, the artist has been working on a new series of very poetic photographic images that deal with the relationship between man and nature; some of the new works were brought to Transylvania and Slovenia in 2012 and 2013 and were taken in the Berlin countryside. He combines his activity as an artist with that of a university professor teaching photography and screenplay at different locations in Europe.
Patricia Eichert www.patricia-eichert.de Patricia Eichert è un’artista che vive e lavora a Wuppertal e Dusseldorf; come fotografa è specializzata in shooting di moda, people e ritratto con una particolare attenzione alle persone che sono il fulcro del suo lavoro sia commerciale che artistico; i suoi scatti sono molto colorati, surreali, intimi ma nello stesso tempo di matrice pubblicitaria, utilizza lo stesso linguaggio che si tratti di un servizio su commissione o una serie fotografica personale. Le sue opere sono state esposte a Londra, San Francisco, Belfast, Bologna e in Germania. Patricia è una fotografa emergente che lavora con molto umorismo ed ironia costruendo scenari fotografici che seducono con un gusto retrò, l’originalità degli accostamenti di designer e la scelta di set coloratissimi e saturi, quasi iperrealisti. I suoi personaggi si muovono in un universo apparentemente quotidiano e rassicurante ma che in realtà si colloca nella nostra memoria visiva, sono personaggi quotidiani presenti all’interno di scene che riproducono spesso la nostra vita; questo scarto molto netto tra presente e passato, realtà e surrealismo, forma e sostanza, costruisce identità clonate, rappresentazioni di ruoli in cui tutti possiamo identificarci inizialmente con un sorriso e successivamente con un’ipnotica curiosità di definire questi stereotipi di vita che tanto ci appartengono, quanto sfuggono alla nostra codificazione proprio perché ci riconosciamo attori che recitano una parte. Così facendo le sue immagini ci mostrano uno spazio intimo dandoci la libertà di costruire una narrazione per ognuno dei suoi personaggi; le sue serie fotografiche, diverse tra loro, hanno un’inconfondibile comune denominatore stilistico, riguardano immagini emotivamente enfatiche che mescolano realtà e finzione con un’attenzione visiva stupefacente. È proprio questo particolare stile con le sue peculiarità, che l’hanno portata a vincere diversi premi come il “Premio Internazionale di Arte Digitale e Fotografica 2010 del Chicago Art Museum,” o “l’International Color Awards-Master of Color Photography”.
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Patricia Eichert is an artist who lives and works in Wuppertal and Dusseldorf; as a photographer, she specializes in fashion, people and portrait shooting with particular attention to the people who are the focus of her work both commercial and artistic; his shots are very colorful, surreal, intimate but at the same time as an advertising matrix, using the same language whether it is a commissioned service or a personal photographic series. His works have been exhibited in London, San Francisco, Belfast, Bologna and Germany. Patricia is an emerging photographer who works with a lot of humor and irony building photographic scenarios that seduce with a retro taste, the originality of the combinations of designers and the choice of colorful and saturated sets, almost hyper-realistic. His characters move in a seemingly daily and reassuring universe, but in reality they are placed in our visual memory, they are everyday characters present in scenes that often reproduce our life; this very clear gap between present and past, reality and surrealism, form and substance, builds cloned identities, representations of roles in which we can all identify ourselves initially with a smile and then with a hypnotic curiosity to define these stereotypes of life that so much belong to us as they escape our codification precisely because we recognize actors who play a part. In doing so, his images show us an intimate space giving us the freedom to construct a narrative for each of his characters; his photographic series, different from each other, have an unmistakable common stylistic denominator, concerning emotionally emphatic images that mix reality and fiction with an amazing visual attention. It is precisely this particular style with its peculiarities that have led it to win several prizes such as the “2010 International Art Prize for Digital Art and Photography of the Chicago Art Museum,” or “the International Color AwardsMaster of Color Photography” .
Nadja Ellinger www.nadjaellinger.de Nadja Ellinger è una fotografa e artista di 25 anni con sede a Monaco, in Germania. Acquistando la sua prima macchina fotografica all’età di 18 anni, la fotografia da allora è diventata la sua vera compagna. Nel 2013 Nadja ha deciso di seguire una formazione formale in fotografia e design presso l’Università di Scienze Applicate di Monaco. Nel 2015 si trasferisce a Londra per un anno e mezzo come assistente alla fotografia e alla produzione. Dal 2016 al 2017, tornata a Monaco, ha iniziato come ritoccata in un’agenzia locale per marchi internazionali, mentre lavorava ancora ai suoi progetti. 2017 il progetto a lungo termine “Ma una sirena non ha lacrime” è stato pubblicato come libro e esposto nelle gallerie locali. Nadja Ellinger is a 25-year-old photographer and artist based in Munich, Germany. By purchasing his first camera at the age of 18, photography has since become his real partner. In 2013, Nadja decided to follow a formal training in photography and design at the University of Applied Sciences in Munich. In 2015 he moved to London for a year and a half as an assistant to photography and production. From 2016 to 2017, when she returned to Munich, she started as a retouched in a local agency for international brands, while still working on her projects. 2017 the long-term project “But a mermaid has no tears” was published as a book and exhibited in local galleries.
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ERRESULLALUNA + Chuli Paquin www.erresullaluna.com ERRESULLALUNA + Chuli Paquin vivono e lavorano insieme dal 2012. Il primo, nato a Parma nel 1981, appassionato di fotografia da quando è bambino, inizia a dedicarcisi subito dopo aver concluso gli studi e realizza la sua prima mostra nel 2001 alla Biennale di Casina. Chuli Paquin, nata a Parma nel 1989, dopo aver studiato grafica al Politecnico di Milano, si dedica agli studi umanistici conseguendo prima una laurea in Lettere Moderne, poi in Italianistica e Culture Letterarie Europee all’Università di Bologna. Il primo contatto tra i due avviene durante la realizzazione della serie R.itratti, nel 2012, e dopo una serie di collaborazioni, ERRESULLALUNA + Chuli Paquin decidono di lavorare insieme stabilmente, coniugando capacità tecniche, ricerche iconografiche e culturali e studi critici. Si interessano a temi mitologici e classici, alle origini religiose e non della cultura italiana ed europea, e a tutto ciò che riguarda l’uomo nella sua dimensione conscia e inconscia. Sempre a partire dal 2012, hanno ideato una nuova tecnica di stampa che, utilizzando un acido di loro invenzione, permette di catturare il colore e ridistribuirlo con un pennello. Questo è ciò che maggiormente denota la loro estetica, ed è fortemente legato alla necessità di unire idealmente gli strumenti moderni e digitali a quel passato che esplorano con la fotografia. Dopo aver esposto in alcuni spazi della città e aver partecipato a mostre collettive come Quadrilegio a Parma, e Paratissima a Torino, nell’aprile del 2016 inaugura la loro prima personale Iconic Personæ alla Galleria B4 di Bologna, e lo stesso mese partecipano alla prima edizione di Parma 360-Festival della creatività contemporanea con Opus, alla Galleria San Ludovico. L’anno successivo partecipano con Galleria Façade alla Young International Artist Fair di Parigi. Nel maggio 2017 una selezione di loro polaroid è stata esposta al MamBo di Bologna, e alla Galleria Gallerati di Roma. Nel 2018 sono stati inseriti nel catalogo dei giovani artisti della città di Parma, voluto dall’assessorato alla cultura e curato dalla professoressa Gloria Bianchino. ERRESULLALUNA + Chuli Paquin live and work together since 2012. The first, born in Parma in 1981, passionate about photography since he was a child, dedicates himself to this passion immediately after completing his studies and realizes his first exhibition in 2001 at the Casina Biennale. Chuli Paquin, born in Parma in 1989, after having studied graphic design at Politecnico di Milano, devoted herself to humanistic studies, obtaining first a degree in Modern Literature, then in Italian Studies and European Literary Cultures at the University of Bologna. The first contact between the two takes place during the production of the R.itratti series, in 2012, and after some collaborations, ERRESULLALUNA + Chuli Paquin decide to work together permanently, combining technical skills, iconographic and cultural research and critical studies. They are interested in mythological and classical themes, religious and non-religious origins of Italian and European culture, and all that concerns man in his conscious and unconscious dimension. Always starting from 2012, they have devised a new printing technique which, using an acid of their own invention, allows to capture the color and redistribute it with a brush. This is what most denotes their aesthetics, and is strongly linked to the need to ideally combine modern and digital tools with that past that they explore with photography. After having exhibited in some spaces of the city and having participated in group shows such as Quadrilegio in Parma, and Paratissima in Turin, in April 2016 they inaugurated their first personal «Iconic Personæ» at B4 Gallery in Bologna, and in the same month they took part in the first edition of Parma 360 - Festival of Contemporary Creativity with «Opus», at San Ludovico Gallery. The following year they participate with Façade Gallery at the Young International Artist Fair in Paris. In May 2017 a selection of their polaroids was exhibited at MamBo in Bologna, and at the Galleria Gallerati in Rome. In 2018 they were included in the catalog of young artists from the city of Parma, wanted by the Department of Culture and curated by professor Gloria Bianchino.
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Francesca Fini www.francescafini.com Francesca Fini è un’artista interdisciplinare che focalizza la sua ricerca sui nuovi media, sul cinema sperimentale e sull’arte performativa. Vive e lavora a Roma. Il fulcro del suo lavoro è sempre il corpo e il suo potere narrativo, in quella regione di confine dove la performance art e il cinema si ibridano, creando una nuova sintesi nella pratica dell’arte transmediale contemporanea. Tra gli eventi artistici più importanti a cui ha preso parte negli ultimi anni, ricordiamo la Biennale WRO 2011 in Polonia, Currents New Mediain Santa Fe, CINEMED Film Festival a Montpellier, Nord Art International Art Exhibition, Berlin Directors Lounge e IKONO TV Film Festival in Germania , Videoformes Festival a Clermont Ferrand, Szczec in European Film Festival (SEFF) in Polonia, FILE Electronic Language International Festival in Brasile, Athens Videoart Festival, IVHAM New Media Arts Fest e Proyector Festival a Madrid, CYBERFEST e Now & After in Russia, Videoart Yearbook e Robot Festival a Bologna, Instants Video numériques et poétiquesin Marseille, MEM Festival al Guggenheim Museum di Bilbao e al Japan Media Arts Festival a Tokyo. Nel 2012 è stata invitata alla prima Venice International Performance Art Week, con l’opera di Valie Export, Jan Fabre, Yoko Ono, Marina Abramovic e Hermann Nitsch. Nel 2013 ha vinto la FONLAD Performance Art Residency a Coimbra ed è stata invitata a Chicago per il Rapid Pulse Performance Art Festival. Nel 2014 è stata selezionata per il Margaret Guthman Musical Instrument Competition, organizzato dal Georgia Institute of Technology di Atlanta. Nel 2014 e nel 2016 è stata artista in residenza presso il Watermill Center di Bob Wilson a New York. Nel 2016 ha scritto e diretto Ophelia non annegare; un lungometraggio sperimentale basato sull’ibridazione tra found-footage (dall’archivio nazionale Istituto Luce Cinecittà) e originale linguaggio performativo contemporaneo. Il film è stato presentato a New York, Clermont-Ferrand e al Macro Contemporary Museum di Roma. Nello stesso anno ha scritto e diretto Gold-cercando Oz, un documentario sperimentale di 60 minuti prodotto durante una residenza artistica a Gerusalemme e finanziato da Musrara Mix Festival. Viene citata dalla Treccani Encyclopedia come uno dei massimi esponenti della cyber performance in Italia. Francesca Fini is an interdisciplinary artist focusing on new media, experimental cinema and performance art. She lives and works in Rome. The focus of her work is always the body and its own narrative power, in that border region where performance art and cinema hybridize, creating a new synthesis in the contemporary transmedia art practice. Among the most important art events in which she took part in the last few years, we would mention the 2011 WRO Biennale in Poland, Currents New Mediain Santa Fe, CINEMED Film Festivalin Montpellier, Nord Art International Art Exhibition, Berlin Directors Lounge and IKONO TV Film FestivalinGermany, Videoformes Festival in Clermont Ferrand, Szczec in European Film Festival (SEFF) in Poland, FILE Electronic Language International Festival in Brasil, Athens Videoart Festival, IVHAM New Media Arts Fest and Proyector Festivalin Madrid, CYBERFEST and Now&After in Russia, Videoart Yearbook and Robot Festival in Bologna, Instants Video numériques et poétiquesin Marseille, MEM Festival at the Guggenheim Museum in Bilbao and the Japan Media Arts Festivalin Tokyo. In 2012 she has been invited to the first Venice International Performance Art Week, featuring among the others the work of Valie Export, Jan Fabre, Yoko Ono, Marina Abramovic and Hermann Nitsch. In 2013 she won the FONLAD Performance Art Residency in Coimbra and was invited in Chicago for the Rapid Pulse Performance Art Festival. In 2014 she has been selected for the Margaret Guthman Musical Instrument Competition, organized by the Georgia Institute of Technology in Atlanta. In 2014 and 2016 she was artist in residence at Bob Wilson’s Watermill Center in New York. In 2016 she wrote and directed Ophelia did not drown; an experimental feature film based on the hybridization between found-footage (from the national archive Istituto Luce Cinecittà) and original contemporary performative language. The film premiered in
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New York, Clermont-Ferrand and at Macro Contemporary Museum in Rome. That same year she wrote and directed Gold- looking for Oz, a 60 minutes experimental documentary produced during an art residency in Jerusalem and financed by Musrara Mix Festival. She is cited by Treccani Encyclopedia as one of the greatest exponents of cyber-performance in Italy.
Nadia Frasson www.enneeffe.tumblr.com Nata nel 1964 a Treviso, l’artista abita a Portogruaro; autodidatta, ha recentemente iniziato ad inserire nei suoi lavori la tecnica fotografica, conservando intatto il suo amore per la stoffa e il ricamo. “Allora ho incassato colpo dopo colpo, ad ogni parola ho imposto il silenzio. Ho inghiottito piano il pianto ed ho sedato ogni furioso impeto di ribellione. Ma mai, mai ti ho ceduto il passo, costringendo le tue spalle a sfiorare il muro. Piegata ma mai a capo chino, ho combattuto la mia battaglia quotidiana. In ginocchio, ma solo per trovare dentro ad un pensiero la forza per andare avanti. Credevi di avermi fatta a pezzi e invece mi sono moltiplicata”. Ho usato ago e filo, nel simbolismo della formica, per raccontare questi quattro anni di mobbing. Gli insetti rappresentano le molestie, le chiacchiere alle spalle, le maldicenze che sentivo camminarmi addosso. Non era semplice trovare un linguaggio per raccontare il disagio, la sofferenza di quella esperienza, che divorava lentamente la mia vita. (Enne Effe-Nadia Frasson) L’artista nelle sue opere, di forte carica emotiva, accosta la fotografia, anche gli autoscatti, a composizioni di vario genere, azzardando l’utilizzo spregiudicato di materiali diversi. A volte ricama le foto, con operazione tanto delicata quanto simbolica e struggente. A volte stratifica garze, stoffe e ricami unendoli ad oggetti quotidiani: in “prex precis” l’opera tessile diventa onore e inno alla vita, rappresentazione sacrale del profano. Sempre crea opere profondamente autobiografiche, rappresentazioni coinvolgenti in cui lo spettatore entra con naturalezza, sia che evochino il passato famigliare o un momento magico (come i frammenti di ricordi descritti in “storie brevi”) sia che raccontino episodi dolorosi legati al mobbing: questo tema, caro all’artista, è oggetto della serie “noli me tangere” ed è stato da lei recentemente e coraggiosamente sviluppato anche in una video performance. Mai banale, Enne Effe colpisce per la profondità e la forza, anche violenta, dei temi che affronta con delicatezza e rispetto massimi, paragrafi nella narrazione di un processo evolutivo che passa anche attraverso il dolore. Born in 1964 in Treviso, the artist lives in Portogruaro; self-taught, she has recently begun to incorporate photographic technique into her work, keeping intact her love for fabric and embroidery. “Then, I cashed in and out, to every word I imposed silence. I swallowed my tears and sat down with each furious surge of rebellion. But never, I never gave a way to you, forcing your shoulders to touch the wall. Folded but never head bowed, I fought my daily battle. On my knees, but only to find the strength to go forward in a thought. You thought you had cut me into pieces and, instead, I multiplied myself”. I used needle and thread, in the symbolism of the ant to tell my 4 years experience of mobbing. The insects represent the harassment, the chatter behind, the slander that I felt walking on me.
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It wasn’t easy to find a language to describe the discomfort, the suffering of that experience, which slowly devoured my life. (Enne Effe-Nadia Frasson) The artist in his works, with a strong emotional charge, combines photography, even self-portraits, with compositions of various kinds, venturing the unscrupulous use of different materials. Sometimes she embroiders the photos, with an operation that’s as delicate as it’s symbolic and poignant. Sometimes she stratifies gauze, fabrics and embroidery, uniting them with everyday objects: in “prex precis” the textile work becomes honor and hymn to life, the sacred representation of the profane. She always creates deeply autobiographical works, involving representations in which the viewer enters naturally, whether they evoke the family past or a magical moment (such as the fragments of memories described in “short stories”). Whether these stories tell about painful episodes related to mobbing: this theme, dear to the artist, is the subject of the series “noli me tangere” and was recently and bravely developed by her in a video performance. Never banal, Enne Effe is striking for the depth and the force, even violent, of the themes that she addresses with maximum delicacy and respect. These are paragraphs in the narration that arise from an evolutionary process that also passes through pain.
Giorgio Galimberti www.giorgiogalimberti.it Giorgio Galimberti nasce a Como nel 1980. Da sempre appassionato di fotografia, complice anche un clima familiare aperto all’arte e alla creatività, fin da piccolo comincia ad avvicinarsi al mezzo fotografico attraverso le Polaroid. Con i primi tentativi di manipolazione e alterazione dell’immagine, Giorgio esplora approfonditamente la dimensione giocosa del supporto istantaneo. Durante l’adolescenza, la passione non viene mai meno e, attraverso la frequentazione di numerose mostre ed esposizioni, unitamente ad un’intensa attività pratica in camera oscura, si costruisce un personalissimo background fotografico, basato principalmente sulle tecniche di sperimentazione dei grandi maestri che hanno fatto la storia della fotografia. Dopo un periodo di momentaneo distacco, durato qualche anno, Galimberti si riavvicina al mondo della fotografia digitale senza mai abbandonare del tutto la fotografia analogica. Attraverso la sperimentazione del bianco e nero perfeziona i suoi gusti e, memore della lezione dei grandi maestri della fotografia, si avvicina ad una visione del mondo incentrata prevalentemente sugli effetti della luce sui corpi e sui paesaggi urbani, riprendendo alcuni elementi tipici della street photography e rielaborandoli in funzione di un linguaggio fotografico moderno e narrativo che unisce agli scorci di vita quotidiana le visioni sospese dell’architettura urbana con uno stile fortemente personale e riconoscibile. Numerose le sue partecipazioni a mostre personali e collaborazioni con importanti gallerie d’arte Italiane e Internazionali che gli hanno permesso di entrare nella fotografia autoriale. Si dedica alla didattica trasmettendo durante i suoi workshop e seminari il suo punto di vista sulla fotografia d’autore. Giorgio Galimberti was born in Como in 1980. Always passionate about photography, thanks also to a family atmosphere open to art and creativity, from an early age he began to approach the photographic medium through Polaroids. With the first attempts at manipulation and alteration of the image, Giorgio explores in depth the playful dimension of the instant support. During adolescence, the passion is never less and, through the attendance of numerous exhibitions and exhibitions, together with an intense practice in the darkroom, you build a very personal photographic background, based mainly on the techniques of experimentation of the great masters who they have made the history of photography.
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After a period of temporary detachment, which lasted a few years, Galimberti reconnected to the world of digital photography without ever abandoning analog photography altogether. Through the experimentation of black and white he perfects his tastes and, mindful of the lessons of the great masters of photography, he approaches a vision of the world focused mainly on the effects of light on bodies and urban landscapes, taking up some typical elements of street photography and reworking them in function of a modern and narrative photographic language that combines the glimpses of everyday life with the suspended visions of urban architecture with a highly personal and recognizable style. He has had numerous participations in personal exhibitions and collaborations with important Italian and international art galleries that have allowed him to enter the authorial photography. He devoted himself to teaching by transmitting his point of view on author photography during his workshops and seminars.
Debora Garritani www.deboragarritani.wordpress.com Debora Garritani è nata a Crotone nel 1983. Nel 2012 intraprende studi giuridici a Parma che successivamente interrompe per iscriversi all’Accademia di Brera di Milano, dove studia pittura, conseguendo la laurea triennale nel 2012. L’esperienza di un lungo ed affascinante viaggio a Mumbai, dove svolge un’approfondita indagine sulla vita palpitante della città, l’ha portata ad approfondire lo studio della fotografia. A partire dal 2012 realizza serie di autoscatti che costituiscono un’indagine su temi esistenziali, in particolare sugli opposti dualismi, presenza-assenza, memoria-oblio, ascesa e discesa dell’uomo, inizio e fine, peccato ed espiazione. Al centro della sua ricerca vi è dunque la vita, concepita come “pellegrinaggio”, in cui si alternano ombre e luci, cieli tersi e piogge scroscianti, rumore e silenzio, nascite e morti metaforiche. E’ dunque una fotografia intima ed evocativa, tesa a comunicare un messaggio interiore attraverso il silenzio della riflessione. Ha partecipato a diverse mostre personali e collettive e nel 2014 è finalista del premio Cairo. Debora Garritani was born in Crotone in 1983. In 2012 she began legal studies in Parma, which she later interrupted to enroll at the Brera Academy in Milan, where she studied painting, earning her three-year degree in 2012. The experience of a long and fascinating journey to Mumbai, where he carries out an in-depth investigation of the palpitating life of the city, has led her to deepen the study of photography. Since 2012 he has made series of self-portraits that constitute an investigation on existential themes, in particular on the opposed dualisms, presence-absence, memory-oblivion, ascent and descent of man, beginning and end, sin and expiation. At the center of his research there is therefore life, conceived as a “pilgrimage”, alternating shadows and lights, clear skies and thundering rains, noise and silence, births and metaphorical deaths. It is therefore an intimate and evocative photograph, aimed at communicating an inner message through the silence of reflection. He has participated in several solo and group exhibitions and in 2014 he is a finalist of the Cairo award.
Chiara Gini www.chiaragini.it Chiara Gini, 1991, nasce a Vinci dove vive e lavora. Inizia il suo percorso artistico come autodidatta, prediligendo nella sua ricerca la fotografia analogica. La sua visione (anche estetica) viaggia in un assenza di contemporaneità e di immaginari vivi in nessun tempo. La foto-
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grafia analogica le permette di agire fisicamente sulla pellicola rendendo le immagini quasi pittoriche e prive di contrasto. Passando dalla fotografia, alla pittura su foto, fino all’istallazione, sfrutta le interazioni tra materiale organico e non, poesia e audio, per creare istallazioni site specific che rendano lo spazio parte essenziale dell’opera. Per esaltare l’assenza della società e l’essenza dell’individuo, i suoi, sono luoghi incontaminati, non-luoghi. I soggetti, prevalentemente femminili, sono immersi negli scenari dell’artista, le cui ispirazioni vengono da ricerche sul tema dell’identità, memoria e individuo. Dal 2011 ha esposto in mostre personali e collettive sia in Italia che all’estero e i suoi lavori sono stati pubblicati su libri e magazine online. Chiara Gini, 1991, was born in Vinci where she lives and works. She began her artistic career as a self-taught, preferring analog photography in her research.Her vision (also aesthetic) travels in an absence of contemporaneity and of living imaginaries in no time. Analogue photography allows it to act physically on the film making images almost pictorial and without contrast. Going from photography, painting on photos, to installation, exploits the interactions between organic and non-organic material, poetry and audio, to create site-specific installations that make the space an essential part of the work. To exalt the absence of society and the essence of the individuality, Her space are uncontaminated places, non-places. The subjects, mainly female, are immersed in the artist’s scenarios, whose inspirations come from research on the theme of identity, memory and individual. Since 2011 she has exhibited in solo and group exhibitions both in Italy and abroad and his works have been published in books and online magazines.
Federica Gonnelli www.federicagonnelli.it Sono nata a Firenze, dove ho frequentato il Liceo Artistico e l’Accademia di Belle Arti. In entrambi i casi, specializzandomi formalmente in arti visive/pittura, ma concretamente ricercando soluzioni e strumenti diversi al di là da queste categorie. Vivo e lavoro tra Firenze e Prato. Una situazione di confine che ha caratterizzato il mio percorso artistico nei temi e nei componenti sviluppando una ricerca che si situa al limite tra le discipline canoniche delle arti visive. Confesso di non sentirmi pienamente parte di alcun compartimento delle arti visive. La mia ricerca è volta al superamento delle barriere, qualsiasi esse siano, che relegano in compartimenti stagni le varie arti, così come i confini che dividono gli individui. Dal 2001 ho sviluppato una profonda ricerca sul rapporto contenuto-contenitore, attraverso immagini e oggetti estrapolati dalla vita di tutti i giorni o piccole sculture realizzate con i più vari materiali ai quali sovrappongo, in un dialogo di scambio continuo, grazie alla trasparenza dell’organza, altre immagini. Dopo aver sovrapposto in modo bidimensionale vari elementi, ho sentito il bisogno di avere più profondità, ho sentito il bisogno di dare più spazio e respiro alle stratificazioni che componevano le mie opere trasformando il telaio in una sorta di scatola all’interno della quale avevo lo spazio necessario per porre i vari elementi della composizione, rivestendola infine con un velo d’organza. Contemporaneamente la ricerca di spazio mi ha portato ad ampliare i miei progetti e ad affiancare alla realizzazione delle opere tridimensionali: performance, suoni, video proiezioni, installazioni e videoinstallazioni. Nel mio percorso, il video mi ha permesso di superare il concetto di contenitore reale presente nella mia opera, acquisendo un contenitore virtuale, nel quale le immagini scorrono fluide, elastiche, pulsanti, vitali, leggere e semitrasparenti. I was born in Florence, where I attended the Liceo Artistico and the Academy of Fine Arts. In both cases, I specialize formally in visual arts/painting, but concretely looking for different solutions and tools beyond these categories.
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I live and work between Florence and Prato. A border situation that has characterized my artistic path in themes and components, developing a research that is situated at the limit between the canonical disciplines of the visual arts. I confess I do not feel fully part of any compartment of the visual arts. My research is aimed at overcoming the barriers, whatever they are, which relegate the various arts to watertight compartments, as well as the boundaries that divide individuals. Since 2001 I have developed a deep research on the content-container relationship, through images and objects extrapolated from everyday life or small sculptures made with the most varied materials to which I overlap, in a dialogue of continuous exchange, thanks to the transparency of the organza , Other pictures. After having superimposed in a two-dimensional way various elements, I felt the need to have more depth, I felt the need to give more space and breath to the layers that made up my works by transforming the frame into a kind of box in which I had the space necessary to put the various elements of the composition, finally covering it with a veil of organza. At the same time the search for space led me to expand my projects and to support the creation of three-dimensional works: performances, sounds, video projections, installations and video installations. In my path, the video allowed me to overcome the concept of real container present in my work, acquiring a virtual container, in which the images flow fluid, elastic, pulsating, vital, light and semi-transparent.
Christina Heurig www.heartmill.com Christina Heurig è un’artista, fotografa e sceneggiatrice autodidatta con sede a Berlino, in Germania e in Svizzera. Si è laureata nel 2017 come designer della comunicazione con il suo progetto di libri “Der Sandmann”. Il suo lavoro si concentra sull’arte e sulla fotografia di ritratti, sulla costruzione di modelli in miniatura per il teatro dei burattini e sui film d’animazione, oltre a scenografie per opere teatrali e cinematografiche. In sostanza utilizza elementi legati ad un immaginario autoreferenziale di matrice dark con atmosfere misteriose ed oscure, elementi che appartengono ad una sua sfera intima caratteriale che diventano urgenza espressiva; illustra ed esplora strati e stadi emotivi e cognitivi dell’anima. “La mia fotografia e le mie opere d’arte derivano principalmente dall’esplorazione dell’identità e dall’autorappresentazione del sé. Abbracciando e seguendo la mia naturale predisposizione per certe atmosfere dark, metto in scena e compongo ritratti e nature morte, che usano tecniche espressive anche legate al surrealismo. Spesso, la tecnica principalmente fotografica, include nelle mie opere oggetti distorti e mistificanti, persone e atmosfere particolari rese possibili da elementi che contrappongo alla sola tecnica fotografica quali vetri, lenti che manipolano la ripresa o elementi simbolici che arricchiscono e completano l’immagine. La mia opinione è quella di manipolare l’immagine giocando con il realismo del soggetto e rendendo visibile un’altra parte di realtà. Il principale motivo che mi spinge a creare immagini è il bisogno di affrontare i miei sentimenti, ricordi e pensieri contemplativi, attraverso uno stato mentale simile alla “katharsis”. Sono molto affascinata dalla spiritualità, dai rituali, dalla magia della trascendenza e quindi altamente ispirata dal folklore, dalle fiabe, dalle storie di fantasia e dalle magie che scatenano i pensieri contrapposti all’immaginazione”. Christina Heurig is a mainly self-taught art director, photographer and set designer based in Berlin/Germany and Switzerland. She graduated 2017 as communication designer with her book experience project ‘Der Sandmann’. Her work focuses on fine art and portrait photography, building miniature models for puppetry theatre and animation movies, as well as set design for theatre and movie scenery / production design. Essentially, she uses dark beauty, surrealism, mystery and phantasy elements to illustrate and explore emotional or cognitive layers of the soul. “My photography and fine art mainly originates in the exploration of the self - and (self - ) identity. Embracing my
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naturally dark, beautiful and eerie inner visual voice, I stage and compose portraits and still life images, that use techniques of surrealism. Often, the main technique includes distorting and mystifying objects, people and atmospheres, by using glas, lenses, image manipulation or symbols to enrich the image. My believe is: manipulating the image plays with the realism of the subject and makes another layer of reality visible. The main motivator to create images is my need to deal with feelings, memories and contemplative thoughts through a katharsis - like state of mind. I am very fascinated by spirituality, rituals, the magic of transcendence and therefore highly inspired by folklore, fairytales, phantasy stories and overall - magical things that trigger thoughts and imagination.“
Corinna Holthusen www.corinna-holthusen.de Corinna Holthusen è un’artista concettuale specializzata in fotografia e digital imaging. Nata ad Amburgo, tra il 1986 e 87 frequenta lo Studio Art Centres International a Firenze, dall’87 al 90 l’Istituto Europeo di Design di Milano, dal 1990 lavora come freelance ad Amburgo e dal 1993 inizia le prime esperienze con la manipolazione dell’immagine digitale. Artista pluripremiata, le sue opere sono esposte in collezioni pubbliche e private in tutto il mondo. Le sue immagini vengono scattate in studio, manipolate al computer, poi stampate su tela fotografica. Affronta il tema della convergenza tra bellezza, disgusto, artificialità, naturalezza... volti e corpi perfetti (con chiari riferimenti all’immagine mediale della pubblicità), vengono successivamente manipolati e decostruiti quasi a ricomporne nuove fisionomie e infine infierendo con rotture, elementi tattili di materiali diversi, crea un corpo materico che si allontana progressivamente dalla sola superficie fotografica; utilizzando acrilici e pigmenti sviluppa quasi una superficie “emotiva” sulle sue stampe finali. Corinna Holthusen is a conceptual artist specializing in photography and digital imaging. Born in Hamburg, between 1986 and 87 she attended the Studio Art Centers International in Florence, from 1987 to 1990 the European Institute of Design in Milan, from 1990 she worked as a freelancer in Hamburg and from 1993 she started her first experiences with the manipulation of digital image. An award-winning artist, her works are exhibited in public and private collections all over the world. His images are taken in the studio, manipulated at the computer, then printed on photographic canvas. He tackles the theme of the convergence between beauty, disgust, artificiality, naturalness ... perfect faces and bodies (with clear references to the media image of advertising), are subsequently manipulated and deconstructed almost to recomposing new features and finally breaking down with tears, tactile elements of different materials, it creates a material body that progressively moves away from the photographic surface; using acrylics and pigments he develops almost an “emotional” surface on his final prints.
Giacomo Infantino www.giacomoinfantino.com Giacomo Infantino nasce nell’aprile del ‘93 in provincia di Varese e attualmente è laureando in Nuove tecnologie all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Da alcuni anni è attivo sul territorio del varesotto e in quello milanese. Ha esposto le sue fotografie per diversi
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eventi quali il Salone del Mobile 2017 a Milano, Accademia Aperta, e presso il prestigioso Ex studio di Piero Manzoni. Ha inoltre partecipato all’inaugurazione dello spazio espositivo Wg Art/Substrato, un’iniziativa di riqualificazione dell’Ex libreria Veroni situata nel cuore della città di Varese. Da circa tre anni si sta dedicando a un progetto fotografico che racconta personalmente la provincia di Varese estendendosi no alle aree periferiche di Milano. La mia ricerca è basata sulla narrazione approfondita di quei luoghi della mia provincia, quei siti periferici a cui ho dedicato la mia attenzione e una frequentazione costante. La produzione fotografica cerca di aprire le porte di questo spaccato sociale con i ritratti delle loro identità e dei luoghi da loro abitati. “Fotografare tutto questo mi ha permesso di interpretare una parte della vita quotidiana di queste persone, trasformandole in personaggi impassibili, sospesi e quasi assenti. Queste persone, così diverse fra loro, hanno in comune l’appartenenza ad una società liquida, in continuo mutamento e sempre più globalizzata. In questo senso la loro identità diventa internazionale, sono cioè contemporaneamente fuori dal mondo e dentro il mondo. Mai come oggi l’individuo è così concentrato su se stesso e nel contempo così connesso agli altri, questo è il binomio sociale di cui tutti noi siamo protagonisti. L’immagine aleatoria e smaterializzata crea il contrasto fra diurno e notturno, il quale rivela la maschera della realtà e il suo incon-scio nascosto. La mia rappresentazione ha dei rimandi formali a un canone di modello, quello americano, contrapposto a simboli italiani che mettono in risalto la reale identità delle cose. La finalità è cercare di mettere in luce qualcosa che sfugge ad un primo impatto, che rimane nascosto nel substrato quotidiano e che mi ha sempre affascinato.” Giacomo Infantino was born in April 1993 in the province of Varese and is currently graduating in New Technologies at the Academy of Fine Arts of Brera in Milan. For some years he has been active in the Varese area and in the Milan area. He has exhibited his photographs for various events such as the Salone del Mobile 2017 in Milan, Accademia Aperta, and at the prestigious Ex studio of Piero Manzoni. He also participated in the inauguration of the Wg Art / Substrato exhibition space, an initiative to redevelop the former Veroni bookshop located in the heart of the city of Varese. For about three years he has been working on a photographic project that tells the province of Varese personally, extending no to the suburban areas of Milan. My research is based on the in-depth narrative of those places in my province, those peripheral sites to which I have devoted my attention and constant attendance. My photographic production seeks to open the doors of this crosssection of society with portraits of their identities and the places they inhabit. “Photographing all this has allowed me to play a part in the daily lives of these people, transforming them into impassive characters, suspended, and almost absent. These people, so di erent from eachother, share a membership to a liquid society that is constantly changing and increasingly globalized. In this sense, their identity becomes international, that is, they are simultaneously outside the world and within the world. Never before has the individual been so focused on himself and at the same time so connected to others, this is the social combination of which we are all protagonists. The random and dematerialized image creates the contrast between day and night, which reveals the mask of reality and its hidden unconscious. My representation has formal references to the american canon, opposed to italian symbols that emphasize the real identity of things. The purpose is to try to highlight something that you don’t see at rst glance, which remains hidden in the daily substructure and which has always fascinated me.”
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Donatella Izzo www.donatellaizzo.com Donatella Izzo (1979), vive e lavora a Milano. Frequenta l’Accademia di Belle Arti di Brera e da subito il suo interesse si concentra sulla fotografia elaborata in maniera pittorica, tanto da permetterle di vincere numerosi premi per la pittura tra il 2006 e il 2009. Nel 2010 l’artista si spoglia della manipolazione pittorica fin ora predominante e approda ad una fotografia più pura nella tecnica, sebbene caricata di una forte valenza metaforica. Dal 2011 iniziano le esperienze internazionali con le mostre di Londra, Madrid, Barcellona, Rzeszòw (Polonia) New York, oltre che in numerose mostre in Italia. Le sue fotografie sono state acquisite da collezioni pubbliche e private, ultima in ordine cronologico nella Collezione del Museo della Fotografia di Senigallia. Recentemente la rivista inglese Art Reveal le ha dedicato la copertina, mentre è apparsa sulle pagine di Vanity Fair Italia, del Corriere della Sera, La Repubblica, Il Giornale, e su numerose riviste on-line segnalata tra le artiste italiane emergenti più interessanti. Tra le ultime mostre si segnalano la personale “Family Tree” presso la Galleria La Bottega di Pietrasanta a cura di F. Mutti e la collettiva “No-Face” alla Kunsthalle di Lana (Bz) a cura di A.Tricoli.
Donatella Izzo (1979) lives and works in Milan. She attended the Academy Of Fine Arts in Brera, interested, since the beginning, in a form of pictorial elaborated photography, with which she won numerous awards between 2006 and 2009. In 2010 the artist got rid of her predominant pictorial manipulation and moved to a technically more pure photography but still full of metaphorical value. In 2011 she started showcasing her work internationally in London, Madrid, Barcelona, Rzeszòw (Poland), New York, along with many exhibits in Italy. The artist’s works have been purchased and added to both private and public collections, the latest one is the Senigallia Museum of Photography’s collection. Donatella has been recently interviewed by the English magazine Art Reveal, who also dedicated her its cover. She also appeared on the renowned Italian publications: Vanity Fair Italia, Corriere della Sera, La Repubblica, Il Giornale and numerous online magazines. Among the latest exhibits are the personal “Family Tree” at the Galleria La Bottega di Pietrasanta curated by F. Mutti and the collective “No-Face” at the Kunsthalle di Lana (Bz) curated by A.Tricoli.
Richard Kern www.richardkern.com Cresciuto nel North Carolina, Richard Kern viene introdotto alla fotografia dal padre, editor e fotografo per diversi giornali. Nel 1979 si trasferisce a New York, dove inizia a dedicarsi anche alla creazione di film sperimentali. I suoi sfacciati cortometraggi d’esordio gli valgono un posto fra le fila di “Cinema of Trasgression”, un gruppo underground legato alla cultura punk e impegnato nella produzione di film a basso costo incentrati su sesso e violenza, ma non senza una forte dose di humor. Nel manifesto del gruppo, pubblicato nel 1985, si legge: “tutte le scuole di cinema dovrebbero saltare in aria e tutti i film noiosi non dovrebbero mai più essere girati. Proponiamo che il senso dell’umorismo, scartato dagli studiosi bacucchi, sia un elemento fondamentale e, inoltre, che qualsiasi film incapace di sbalordire non debba neanche essere preso in considerazione. Ci sarà sangue, disonore, dolore e estasi, cose a cui nessuno ha ancora mai pensato. Nessuno dovrà uscirne indenne..”.
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YouKilled Me First, girato da Kern nel 1985, è emblematico degli intenti di “Cinema of Trasgression” di contestare le convenzioni sociali e i moralismi del tempo, esplorando temi come la violenza domestica, i ruoli di gender, le abitudini sessuali, le tendenze suicide, ma anche la povertà, il consumo di droga e la diffusione dell’AIDS. In questi documenti di depravazione in 16mm recitano personaggi come i Sonic Youth e Lydia Lunch; i film di Kern contribuiscono a definire l’attitudine e lo stile di artisti e artistoidi della selvaggia Manhattan underground degli anni Ottanta. Nel Frattempo, Kern continua a fotografare, individuando il suo tema favorito e la sua cifra stilistica negli scatti provocatori, sexy e grotteschi di ragazze “normali”: non solo modelle, ma soprattutto giovani donne riprese in interni domestici, che sembrano condividere con il fotografo momenti di intimità (dal lavarsi i denti seminude ad atti sessuali espliciti), in una sofisticata forma di esibizionismo che mescola quotidiano e posa, banalità e star-system. Le sue prime foto di nudo vengono pubblicate nel giornale soft-core porno Barely Legal, poi in numerosissime riviste in tutto il mondo. Nel corso della sua carriera di fotografo Kern attraversa da protagonista il mondo della ricerca d’avanguardia, quello dell’industria pornografica e quello della fotografia di moda mantenendo la sua estetica inalterata e coerente a se stessa. Raised in North Carolina, Richard Kern was introduced to photography by his father, an editor and photographer for various newspapers. In 1979 he moved to New York, where he started to produce experimental films. His cheeky debut shorts earned him a place among the ranks of “Cinema of Transgression”, an uderground group tied to the punk culture which produced low-cost films revolving around sex and violence – but with a hefty dose of humour. The manifesto of the group, published in 1985, states: “ all film schools be blown up and all boring films never be made again. We propose that a sense of humour is an essential element discarded by the doddering academics and further, that any film which doesn’t shock isn’t worth looking at (…) There will be blood, shame, pain and ecstasy, the likes of which no one has yet imagined. None shall emerge unscathed..”. You Killed Me First , which Kern filmed in 1985, is emblematic of the intentions of “Cinema of Transgression” filmmakers and their desire to oppose the social conventions and moralism of the era, exploring issues such as domestic violence, gender roles, sexual penchants and suicidal tendencies, but also poverty, drug abuse and spread of AIDS. These 16mm documents of depravation feature figures such as Sonic Youth and Lydia Lunch; Kern’s films help define the attitude and style of the artists and artsys who played a key role in the wild Manhattan underground scene on the 80s. Over the years, Kern continued to work as a photographer, and his favourite subject and stylistic leitmotif proved to be provocative, sexy and grotesque shots of “normal” girls: not just models but also ordinary young women photographed at home, seemingly sharing with him moments of intimacy and a wide array activities (from brushing their teeth half-naked to explicit sexual acts), in a sophisticated form of exhibitionism that blends ordinariness and posturing, banallity and the star system. His first nude photos were published in the soft-core porn magazine Barely Legal, followed by countless publications worldwide. In his career as a photographer, kern has explored the world of avant-garde research, the porn industry and fashion photography, never swerving from his aestheyic viewpoint and ever true to himself.
Sebastian Klug www.sebastianklug.com Sebastian Klug è un fotografo tedesco con sede a Berlino. Ha iniziato a utilizzare la fotografia mentre studiava architettura e dal 2008 ha cominciato la sua attività espositiva. Il suo lavoro è stato presentato al Festival Europeo
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del Mese della Fotografia di Berlino nel 2010 e in diverse sedi e città tra cui Cottbus, Udine, Venezia, Amsterdam, Helsinki, Copenaghen, Londra e Oklahoma. Dopo aver trascorso un anno all’estero all’Università IUAV di Venezia, ha sviluppato un forte interesse per il disegno e la fotografia, successivamente si trasferisce a Berlino dove termina i suoi studi e inizia a lavorare su un progetto di documentario personale. Esplora la città di notte, usando il suo cellulare al posto di una macchina fotografica. Questo dispositivo low-fi registra immagini con atmosfere piene di “rumore” e grana, trasformando la realtà in una versione sonnambolica e onirica di se stessa, avvicinandosi così alla particolare percezione sia del fotografo che dei suoi protagonisti. Recentemente Sebastian ha connotato la sua ricerca artistica con una serie di opere chiamate “Pixograms”, in cui ritaglia tecnicamente due stampe di un unico scatto, in strisce di carta e ricompone l’immagine quasi a tessere nuove identità di ciò che viene rappresentato. Applicando questa tecnica manuale e artigianale alle stampe fotografiche, aliena il contenuto dell’immagine, lo rende pixelato a un livello analogico e le trasforma in oggetti tridimensionali. Oscillando tra immagine e scultura, crea un ibrido di entrambi i generi, unendo la loro espressività e lasciando la sua classificazione finale alla percezione dello spettatore. Sebastian Klug is a German photographer based in Berlin. He began to use photography while studying architecture and from 2008 began his exhibition activity. His work was presented at the European Festival of the Month of Photography in Berlin in 2010 and in various locations and cities including Cottbus, Udine, Venice, Amsterdam, Helsinki, Copenhagen, London and Oklahoma. After spending a year abroad at the IUAV University of Venice, he developed a strong interest in drawing and photography, then moved to Berlin where he finished his studies and began working on a project of personal documentary. Explore the city at night, using your phone instead of a camera. This low-fi device records images with atmospheres full of “noise” and grain, turning reality into a somnambulistic and oneiric version of itself, thus approaching the particular perception of both the photographer and its protagonists. Recently, Sebastian has characterized his artistic research with a series of works called “Pixograms”, in which he technically cuts two prints of a single shot, in strips of paper and recomposes the image almost to weave new identities of what is represented. Applying this manual and artisanal technique to photographic prints, alienates the image content, makes it pixelated to an analogical level and transforms it into three-dimensional objects. Oscillating between image and sculpture, it creates a hybrid of both genres, combining their expressiveness and leaving its final classification to the perception of the spectator.
Sandra Lazzarini www.flickr.com/photos/lasandrala Sandra Lazzarini inizia ad interessarsi di fotografia nei primi anni del duemila quando acquista una biottica degli anni ’70 e il suo approccio con luce, forma e colore comincia a compiere i primi passi. Il suo lavoro si basa soprattutto sull’autoritratto e da qualche anno porta avanti una ricerca in continuo divenire. Scatti poetici, velatamente schietti, gratuitamente timidi in cui il fil rouge è il nascondimento parziale dell’artista stessa che ritroviamo dietro e davanti l’obiettivo, mimetizzata tra i fiori di un giardino o dietro i panni stesi di un fatiscente cortile di casa. Nei suoi autoritratti pare esserci una costante fusione tra l’artista e l’ambiente circostante, il suo corpo diventa come oggetto ambientale creando una fusione estetica-formale talvolta astratta e talvolta immateriale, ma comunque emotivamente vicina alla fuga da ogni protagonismo e narcisismo tipici dei nostri tempi. Le sue foto sono state
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pubblicate su diverse riviste cartacee nazionali e internazionali come C41 Magazine, Frankie Magazine, Ramona Magazine, A Love Token e su magazine online come Lamono, Frizzifrizzi, Collateral, Aurora Fotografi, Ignant, Worbz. Ha partecipato a mostre collettive e personali a Reggio Emilia, Macerata, Bologna e Berlino. Vive e lavora a Forlì. Sandra Lazzarini began to get interested in photography in the early 2000s when she got herself a bioptic from the ‘70s. At that timeher approach with light, shapes and color begins to take its first steps. Her work is mainly based on self-portrait. It is some time now that she has started a research, that is a continuous ongoing discovery, on poetic shots, vehemently outspoken, freely timid in which the red thread is the partial concealment of the artist herself, that we can find behind and in front of the lens, camouflaged among the flowers of a garden or behind the hanging clothes of a dilapidated backyard. In her self-portraits there seems to be a constant fusion between the artist and the surrounding environment, her body becomes an environmental object creating an aesthetic-formal fusion that is sometimes abstract and sometimes immaterial, but still emotionally close to escaping from every attention-seeking and narcissism typical of our times. Her photos have been published in several national and international paper magazines such as C41 Magazine, Frankie Magazine, Ramona Magazine, A Love Token and online magazines like Lamono, Frizzifrizzi, Collateral, Aurora Fotografi, Ignant, Worbz. She has participated in collective and personal exhibitions in Reggio Emilia, Macerata, Bologna and Berlin. She lives and works in Forlì.
Francesca Leoni www.leonimastrangelo.com Francesca Leoni è nata in Italia e cresciuta in Brasile. Dopo il liceo si trasferisce negli Stati Uniti dove si laurea in Scienze della Comunicazione all’Università del North Carolina a Wilmington. Durante il college ha inizia a studiare teatro, prendendo parte a diverse produzioni. Tornata in Italia intraprende un percorso nella produzioni video e continua a studiare teatro e performance. Il flusso naturale del suo percorso artistico e dei suoi interessi di ricerca l’hanno portata a lavorare nell’ambito della video performance e performance live. Il suo percorso artistico si concentra su tutte le sue passate esperienze: teatro, performance e video. Queste tre discipline si incontrano e si contaminano a vicenda. Il suo obiettivo è quello di esprimere, attraverso un profondo studio del corpo con i suoi movimenti, sensazioni, esperienze (personali e sociali), un messaggio performativo, utilizzando il video come mezzo di comunicazione artistica. In questo modo ha sviluppato una serie di “video performance” che utilizzano simboli universali e il linguaggio del corpo come una forma d’arte per esprimere l’uomo contemporaneo e la donna in relazione con se stesso, con la sua / il suo corpo e la società circostante. I suoi lavori sono hanno partecipato a diversi festival nazionali e internazionali. Da 6 anni collabora anche con Davide Mastrangelo all’interno del duo Con.Tatto. Francesca Leoni was born in Italy and grew up in Brazil. After high school he moved to the United States where he graduated in Science of Communication at the University of North Carolina in Wilmington. During college he began studying theater, taking part in various productions. Back in Italy she embarks on a path in video productions and continues to study theater and performance. The natural flow of her artistic career and her research interests led her to work in the field of video performance and live performance.
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His artistic career focuses on all his past experiences: theater, performance and video. These three disciplines meet and contaminate each other. His goal is to express, through a deep study of the body with his movements, feelings, experiences (personal and social), a performative message, using video as a means of artistic communication. In this way he developed a series of “video performances” that use universal symbols and body language as an art form to express contemporary man and woman in relationship with himself, with his / her body and the surrounding society. His works have participated in several national and international festivals. For 6 years he has also collaborated with Davide Mastrangelo within the Con.Tatto duo.
Francesca Lolli www.francescalolli.it Nata a Perugia, Francesca si trasferisce a Milano nel 1998 dopo un breve periodo di studi in filosofia a Perugia. Si diploma alla scuola di Teatro “Arsenale” come attrice e poco dopo si laurea in scenografia all’ Accademia di Belle Arti di Perugia. Durante gli anni dell’accademia lavora come attrice nella compagnia del Teatro Arsenale e partecipa a numerosi spettacoli (‘Il gioco dell’epidemia’ di E. Ionesco, ‘Il berretto a sonagli’ di L. Pirandello, ‘Pulp’ di C. Bukowsky, ‘La chiesa’ di L. F. Celine, ecc...). Per la tesi decide di girare un documentario su un famoso fotografo newyorkese: Andres Serrano. Dal quel momento decide di cambiare la sua vita e di dedicarsi completamente alla video arte e alla performance. La sua ricerca si concentra sulle diversità di genere e le questioni socio-politiche. I suoi lavori sono stati proiettati in numerosi festival nazionali ed internazionali. “Tutta la mia ricerca si può racchiudere in un’unica parola: urgenza. È l’urgenza che porta alla comunicazione, ed i mezzi che ho scelto per fare ciò sono quelli a me più congeniali: il corpo e il video. Attraverso di essi cerco di essere veicolo di emozioni, cerco di sublimare la mia visione della vita e del mondo che mi circonda e molto spesso possiede. L’obiettivo principale della mia ricerca è quello di ricevere ed elaborare il ‘qui e ora’, di parlare del presente e di poterlo trasporre cercando di renderlo universale. Vorrei che il mio corpo (dal vivo o passando attraverso l’obiettivo) fosse un mezzo pulsante e ricettivo dei mali (e beni) dell’epoca nella quale mi è dato vivere. In fondo “La vita è colpa dell’arte” (Pierre Restany)”. Born in Perugia, Francesca moved to Milan in 1998 after a brief period of study in philosophy in Perugia. He graduated from the school of Theater “Arsenale” as an actress and shortly after graduated in scenography at the Academy of Fine Arts in Perugia. During the years of the academy he works as an actress in the company of the Arsenal Theater and participates in numerous shows (‘The play of the epidemic’ by E. Ionesco, ‘The cap with rattles’ by L. Pirandello, ‘Pulp’ by C. Bukowsky , ‘The church’ by LF Celine, etc. ...). For the thesis he decides to shoot a documentary about a famous New York photographer: Andres Serrano. From that moment he decided to change his life and devote himself completely to video art and performance. His research focuses on gender diversity and socio-political issues. His works have been shown in numerous national and international festivals. “All my research can be contained in one word: urgency. It is the urgency that leads to communication, and the means I have chosen to do this are the ones most congenial
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to me: the body and the video. Through them I try to be vehicles of emotions, I try to sublimate my vision of life and the world around me and very often owns. The main objective of my research is to receive and elaborate the ‘here and now’, to talk about the present and to transpose it, trying to make it universal. I would like my body (live or passing through the lens) to be a pulsating and receptive means of the evils (and goods) of the era in which I was given life. After all ‘Life is the fault of art’(Pierre Restany)”.
Tore Manca (Mater-ia) www.mater-ia.org Vive e lavora a Sassari; video artista e poeta “indipendente” inizia nei primi anni ‘90 come artista visivo partecipando a Reading di poesia e collettive d’arte e video arte. Dirige, monta e realizza i costumi di ogni suo lavoro. Collabora con numerosi musicisti e performer per videoclip, trailer/spot ed opere audio visive. Crea la propria etichetta “mater-ia” con cui firma e produce ogni suo lavoro. Ha diretto finora 50 lavori di videoarte e cinema sperimentale. Nel 2010 crea un piccolo festival di V-Art (Nature Concrete) workshops di video terapia con Oliviero Rossi residenziale al T.Off di Cagliari per lo spettacolo Aspro Tango resinziale al T.Off di Cagliari per l’installazione Bioethic Vision. Produce lo spettacolo “Aspro Tango” della coreografa Daniela Tamponi e realizza i visual ed il costume per lo spettacolo. lo spettacolo è ancora attivo. Realizza “alter ego” 9 cortometraggi girati in collaborazione di una casa famiglia, Villa Lissia di tempio Pausania, un progetto di arte terapia durato 8 mesi in collaborazione con Daniela Tamponi. Dirige lo spot contro la diversità prodotto dalla Asl di Olbia in collaborazione con i ragazzi ospiti della casa famiglia. Collabora attivamente con la scuola di danza Moviment’Arti di Tempio realizzando i trailer ed i Visual per gli spettacoli. He lives and works in Sassari; video artist and “independent” poet began in the early 90s as a visual artist participating in Reading of poetry and collective art and video art. Directs, mounts and creates the costumes of all his work. Collaborates with numerous musicians and performers for videoclips, trailers/commercials and audio visual works. He creates his own “mater-ia” label with which he signs and produces all his work. He has directed 50 works of video-art and experimental cinema so far. In 2010 he created a small festival of V-Art (Nature Concrete) video therapy workshops with Oliviero Rossi residential to the T.Off of Cagliari for the show Aspro Tango resinziale to the T.Off of Cagliari for the installation Bioethic Vision. Produces the show “Aspro Tango” by the choreographer Daniela Tamponi and realizes the visuals and the costume for the show. the show is still active. He made “alter ego” 9 short films shot in collaboration with a family home, Villa Lissia of Tempio Pausania, an 8 month art therapy project in collaboration with Daniela Tamponi. He directs the spot against the diversity produced by the Asl of Olbia in collaboration with the young guests of the family home. He actively collaborates with the Moviment’Arti di Tempio dance school, creating trailers and Visuals for the shows.
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Romolo Giulio Milito www.cargocollective.com/lundesnombreux Lundesnombreux (Romolo Giulio Milito) inizia da bambino, nell’86, a Nizza, fotografando fuoribordo, continua a rovinare rullini sino a metà anni novanta poi sospende, riprende nel 2005, prima analogico poi digitale. Legge i grandi maestri, impara a sviluppare e stampare, lavora per agenzie minori, privati, come assistente di fotografi ben più senior e per aziende. Autodidatta, continua la sua ricerca/dipendenza sia nell’ambito dell’arte dell’incontro sia nell’ambito del rapporto fra l’essere umano e l’acqua. Semplice ricerca istintiva. Talvolta fotografa ancora i fuoribordo. Lundesnombreux (Romolo Giulio Milito) started photographing outboard motors as a child in Nice, in 1986. He persisted in ruining rolls until the mid-‘90s, then he suspended the activity. In 2005 he resumed, using analogue cameras first and digital cameras after. He has read the grand masters and learned to develop and print photos. He has been working for minor agencies and for private individuals, as well as for firms and with senior photographers as an assistant. Self-taught, L’un des nombreux goes ahead with his research/dependency, both on the art of encounter and on the relationship between man and water. Purely instinctive pursuit. He still photographs outboard motors at times.
Monica Mura www.monicamura.com Artista interdisciplinare e comunicatrice sociale. Dottoressa magistrale in D.A.M.S., Discipline dell’Arte, della Musica e dello Spettacolo con la specialità in Linguaggi Multimediali all’Università degli studi di Torino. Ha realizzato numerose azioni e mostre, individuali e collettive, tra Spagna, Italia e Portogallo (Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, MAC Museo de Arte Contemporáneo di A Coruña, Museu José Malhoa di Caldas da Raiña, tra le altre). La sua ampia traiettoria professionale e la sua produzione artistica si distinguono per un profondo impegno sociale, rivolto principalmente all’integrazione e alla visibilità di persone e gruppi, soprattutto donne, in una situazione di esclusione, rischio o vulnerabilità. Ha partecipato a progetti di lotta contro la violenza di genere (Mulleres en Azione: violencia zero, Deputación de Pontevedra dieci sedi come Museo de Pontevedra e Casa das Artes de Vigo, Non máis sabas tinguidas, Concello de Ribadavia, Non una di Meno, Teatro Tonio de Lanusei etc.) e ad atti e giornate volte a promuovere la visibilità della donna nella produzione culturale. Ha collaborato con professionisti di riconosciuto prestigio in differenti ambiti (comunicatori, educatori, psicologi, sessuologi e assistenti sociali), per la creazione e realizzazione di vari processi creativi innovativi, al fine di promuovere la tolleranza e combattere la discriminazione attraverso la conoscenza e lavorare con atteggiamenti, paure e false credenze. Ha ricevuto diversi riconoscimenti e premi, ed è stata selezionata grazie alla sua opera “Sas Diosas. Miradas, sa arèntzia mea” nell’ambito di Ollada, a miña familia (Sguardi, la mia famiglia) della Rede Museística Provincial de Lugo, dal Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid per far parte di “Nos+Otras: en Red” (Noi +Altre: in Rete)
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2015-2017, un progetto che fa parte del programma Educazione e Azione sociale di EducaThyssen, e che vuole costruire uno spazio di creazione permanente in cui lavorare e riflettere sulla questione di genere nell’ambito del museo, la cultura ed il patrimonio che ha ricevuto la Mención de Honor en el 8º Premio Iberoamericano de Educación y Museos (Menzione di Onore nell’8° Premio Iberoamericano per l’educazione e i musei). La sua opera fa parte di collezioni pubbliche e private, tra cui spiccano i fondi del Museo Provinciale di Lugo. Vive e lavora a Santiago de Compostela e forma parte dell’associazione nazionale spagnola MAV Mujeres en las Artes Visuales (Donne nelle Arti Visive) con sede a Madrid e del Comitato Scientifico del Congreso de Xéneros, Museos, Arte e Educación (Congresso di Genere, Musei, Arte e Educazione) della Rede Museística Provincial de Lugo. É stata selezionata nel Concurso Intervencións Artísticas de XX Bienal De Arte de Cerveira 2018 (PT) e nel 2019 farà parte degli artisti participanti alla Biennale di Genova “Other Identity” Altre forme di identità culturali e pubbliche (IT). Interdisciplinary artist, performer and social communicator. Doctor in Arts, Music and Performing disciplines, specializing in Multimedia Languages by Torino University. She has carried out numerous art actions and exhibitions, both individual and collective, in Italy, Spain and Portugal (Museo Thyssen-Bornemisza, MAC, Museo de Arte Contemporáneo de A Coruña and José Malhoa Museum, Caldas da Raiña among others). Her broad professional career and her artistic production stand out for their profound social commitment, mainly aimed at the integration and visibility of people and groups, especially women, in situations of exclusion, risk or vulnerability. She has participated in projects to fight against gender violence: Mulleres en Action: violencia zero (Women in action: Violence zero), Deputación de Pontevedra, in locations such as the Museo de Pontevedra and Casa dás Artes de Vigo; Non máis sabas tinguidas (No more stained sheets), Concello de Ribadavia in Spain; Non una di Meno (“Not one [woman] less”), Teatro Tonio de Lanusei, Italy etc. and participated in events promoting the visibility of women in cultural production. She has collaborated with professionals of recognized prestige in different fields (musicians, educators, psychologists, sexologists and social workers), for the creation and realization of different creative processes, aimed at promoting tolerance and fighting discrimination through knowledge and challenging attitudes, fears and false beliefs. She has received numerous honours and awards, and has been selected for her work ‘Sas Diosas. Miradas, sa arèntzia mea’ by the Museo Thyssen-Bornemisza to be part of Nos+Otras: en Red 2015-2017, a project integrated in EducaThyssen’s Education and Social Action program to build a permanent creation space in which to work and reflect on gender issues in the museum environment, culture and heritage, which received the Mención de honor in 8º Premio Iberoamericano de Educación y Museos (Honorable Mention in 8th Ibero-American Award for Education and Museums). Her works are part of private and public collections, such as the permanent collection of the Museo Provincial de Lugo. She lives and works in Santiago de Compostela and is part of the Spanish national association MAV Mujeres en las Artes Visuales, based in Madrid and is a member of the Comité Científico do Congreso de Xéneros, Museos, Arte e Educación (Scientific Committee of the Genders, Museums, Art and Education Conference) of the Rede Museística Provincial de Lugo. She was selected in the Artistic Intervention Contest at the 20th Cerveira International Art Biennial 2018 (Portugal) and in 2019 she will be one of the artists present at the Biennale di Genova with “Other Identity” Altre forme di identità culturali e pubbliche.
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Alessandra Pace-Fausto Serafini www.fausto-alessandra.com Siamo Alessandra e Fausto, una coppia e una squadra, in amore e in fotografia. Ci siamo innamorati circa 15 anni fa e ci siamo appassionati alla fotografia circa sei anni fa, in un momento difficile delle nostre vite, in cui abbiamo deciso di reagire buttandoci in qualcosa che ci facesse stare meglio, e che ci aiutasse ad incanalare le paure legate al momento di transizione in atto. E’ così che abbiamo preso la macchina fotografica in mano e abbiamo iniziato a scattare… Siamo stati inizialmente l’uno il modello-cavia dell’altra e fotografandoci tra di noi, abbiamo iniziato a sperimentare alcune tecniche. A distanza di un anno ci siamo resi conto di avere inconsapevolmente in mano una sorta di diario della nostra vita, vita quotidiana, ritratti posati, momenti catturati, momenti di vita intima e sessuale. Tra le varie sperimentazioni, rimettendo in moto una vecchia polaroid di famiglia, abbiamo iniziato a scattare anche fotografie istantanee. Abbiamo esposto per la prima volta il nostro progetto “Ho te” nel circuito off di “Fotografia Europea” di Reggio Emilia, nel Maggio 2015, e qualche mese dopo la Impossible Partner Store Maranello, ha prodotto il nostro primo libro, “Ho Te”-Quaderni d’amore- (pubblicato nel febbraio 2016) e “Ho Te”-Quaderni d’amore 2- (pubblicato nel febbraio 2017) con l’obiettivo di pubblicare una collana di quaderni sulla nostra vita, poiché il nostro è un progetto a lungo termine destinato a durare finché morte non ci separi. Dopo un paio di anni dai primi passi mossi in fotografia, abbiamo iniziato a sentire l’esigenza di esplorare nuove strade, uscire dal nostro guscio e iniziare a fotografare altre persone al di fuori di noi. Ed è con lo stesso approccio intimo, spontaneo e domestico, che abbiamo iniziato a fotografare ragazze, amiche, conoscenti, modelle, e abbiamo dato vita al nostro secondo progetto “Girls, girls, girls!”. In quest’ultimo indaghiamo sul modo in cui la storia personale di ogni ragazza catturata, influisca sul modo di vivere la sessualità, sui diversi gusti e inclinazioni. Siamo attirati non dalla bellezza oggettiva, ma da una particolare attitudine, da un modo di essere che rende ognuna di loro unica e diversa dalle altre. Osservare attraverso l’obiettivo la nostra vita e quella degli altri, ci porta a conoscere sempre qualcosa di nuovo sulla natura umana e soprattutto su noi stessi, ci fa crescere come individui e come coppia e arricchisce le nostre esperienze in modo sempre diverso e stimolante. Il messaggio che vogliamo trasmettere con il nostro lavoro, è quello di seguire l’istinto e di vivere la sessualità con libertà e ironia, spogliandosi da quei retaggi culturali che la società borghese cerca da sempre di imporci, perché noi lo abbiamo provato sulla nostra pelle e possiamo affermare che si vive molto meglio quando non si ha più paura di essere giudicati e ci sente liberi di poter esprimere tutto ciò che si ha dentro. These are Alessandra and Fausto, a wife-husband team photographers. We fell in love about fifteen years ago, and we approached photography about six years ago, in a hard period of our lives in which we decided to react doing something that let us feeling a little bit better and also helped us to direct our fears, due to the particular moment we were living at that time, in a positive way. And that’s how we took the camera in our hands and started to shoot… At the beginning we were one the “model-test subject” of the other. Shooting to each other we started to experiment different techniques. About a year later we realized that we were unconsciously handling a sort of diary of our life, daily life, portraits, captured moment, our intimate and sexual life. Among different experimentations, giving new life to an old polaroid camera, belonged to our family, we also started to shoot instant photography. We exhibit “Ho Te” at “Fotografia Europea” off network in May 2015 for the first time, and some moths later, The Impossible Partner Store Maranello, produced our first book “Ho Te” - Quaderni d’amore - (published in February
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2016) and then “Ho Te”- Quaderni d’amore 2- (published in February 2017) with the aim to realize a chain of little photo journals about our lives, cause our project is a long-term one and is intended to last till death do us apart. After a couple of years from the beginning we started felling the need to explore something else and look outside towards other people. With the same intimate, home feeling approach we started capturing girls, friends, models and gave life to our second project “Girls, girls, girls!”. In this one we investigate how the personal story of each girl influences their way to live sexuality, their tastes and tendencies. We are not attracted by objective beauty, but by a particular attitude that makes every girl unique and different from the others. Watching our life and people life through the lens allowed us to always discover something new about human nature and first of all about ourselves, allowed us to grew up as individuals and as a couple, and enriched our experience in a different and stimulating way. Our message is to follow instinct and live sexuality in a spontaneous and ironic way, free from that conservative legacy, cause we’re living it on our own skin and we can state that life could be better when you have no more fear of being judged by others and you feel free to express everything you have inside of you.
Alexi Paladino (Lilian Capuzzimato) www.alexipaladino.com Alexi Paladino nasce il 9 Agosto del 1979 a Taranto. Nel ’90 si trasferisce con la famiglia in provincia di Piacenza: l’abbandona a diciassette anni una volta rimasta sola, per poi tornarci stabilmente nel 2014. Si avvicina prima alla scultura per poi passare alla fotografia, grande passione paterna. Un passato particolare, un’esistenza nomade e turbolenta e l’esperienza della malattia le impediscono una continuità negli studi: autodidatta, si specializza nella stampa con le tecniche antiche. Decide poi di abbracciare la fotografia digitale e la stampa gicleé di qualità museale, e stampa con certificazione Digigraphie Epson con lo di pseudonimo Alexi Paladino. E mentre Alexi scatta e stampa, Lilian diventa un’attivista per i diritti umani delle persone intersex, quale è. Tutto il lavoro di Alexi si sviluppa su due riflessioni principali: la prima è la consapevolezza del vivere in tempi in cui la società percepisce la nostalgia in modo distorto e ossessivo,perché ha probabilmente bisogno di identificarsi in una sensazione condivisa con altri per riuscire a darsi forma con l’assenso o il dissenso; la seconda è la non credibilità della fotografia come oggettività, quanto come mezzo di comunicazione empatizzante di uno stato umano o di una sua percezione: per Alexi tutto il mondo è la bolla filtrata dai suoi sensi ed in essa tutto è concretezza ed illusione. Erotismo, amore e una solitudine quieta sono elementi costanti nei suoi lavori, così come le pulsioni umane e le loro degenerazioni.Umanità intensa anche nella sua assenza, soprattutto nel progetto autobiografico ”Historia de un Amor”. Alexi ha una visione eclettica di ciò che è la percezione di un’immagine, la assimila, la prende a sé, la mastica con le proprie memorie, con il proprio vissuto e la butta fuori senza limiti; allo stesso tempo appare gelosa delle proprie emozioni, le protegge fino a tal punto che esporle le provoca dolore, quel dolore che è inevitabilmente costante in ogni suo lavoro. Alexi Paladino was born on August 9th, 1979, in Taranto. In 1990 they moved with their family to the province of Piacenza: they leave it at seventeen , once alone, to come back permanently in 2014.
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They first approach sculpture, then move to photography, a great passion of their father. A peculiar past, a nomadic and turbulent life and the experience of the illness prevent them from regular schooling: self-taught, they specialize in printing with the use of ancient techniques. Later, they embrace digital photography and museum-quality gicleé printing and, under the pseudonym Alexi Paladino, they produce prints with an Epson Digigraphics certification. And, while Alexi shoots and prints, Lilian becomes a human rights activist for intersex people like them. All of Alexi’s work develops on two main lines of thought: the first is the awareness of living in a time when society perceives nostalgia in a distorted, obsessive way, probably because it needs to identify itself in a feeling shared with others to shape itself with assent or dissent; the second is the non-credibility of photography as objectivity, as a means of communication to empathize with a human state or its perception: to Alexi, the whole world is the bubble that their senses filter, and in it everything is concreteness and illusion. Eroticism, love and a quiet loneliness are constant elements in their works, as well as human drives and their degenerations. A humanity intense even in its absence, especially in the autobiographical project ”Historia de un Amor”. Alexi has an eclectic vision of what the perception of an image is, they assimilate it, take it into them, they chew it with their memories, with what they experienced in their life, then throw it out without limitations; at the same time, they seem to be jealous of their emotions, they protect them to such an extent that exposing them causes them pain, that pain that is the unavoidable constant in each of their works.
Carmen Palermo www.carmenpalermo.myportfolio.com Fotografa autodidatta, inizia ad autoritrarsi nel 1995 utilizzando una vecchia zenit a pellicola, ma è nel 2003, con l’acquisto della sua prima fotocamera digitale che può sperimentare l’autoritratto con più costanza, 7 anni dopo riscopre la Polaroid e se ne innamora. Grazie all’unicità che la caratterizza, questa modalità di espressione diventa lo strumento perfetto per trasformare l’esperienza dell’autoritratto in una vera e propria esperienza catartica. L’autoritratto in polaroid diviene così la sua “terapia” personale: è il mezzo per connettersi al suo mondo interiore e al suo “altro io”, portarlo al di fuori di sè, metabolizzarlo, analizzarlo e infine accettarlo. Self-taught photographer, she begins to to photograph herself in 1995 using an old zenith, but it is in 2003, with the purchase of her first digital camera that she can experience the self-portrait with more constancy. 7 years later she rediscovers the Polaroid and falls in love with it. Thanks to the uniqueness that characterizes it, this mode of expression becomes the perfect tool to transform the self-portrait experience into a real cathartic experience. The self-portrait in Polaroid becomes her personal “therapy”: it is the way to connect herself to her inner world and to her “other self”, to bringing it out, metabolize it, analyze it and finally accept it.
Phoebe Zeitgeist www.pzteatro.org Phoebe Zeitgeist è una compagnia teatrale con base a Milano, nata nel 2008. La ricerca di questo gruppo, aperto alle elaborazioni in tutti i campi delle arti contemporanee, è dedicata all’esistenza, alla persistenza e alla trasformazione di ogni forma di potere, sia esso annidato nelle relazioni private o
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nei rapporti di forza con il mondo e con le istituzioni. Questa indagine viene condotta attraverso l’opera di quegli artisti che hanno dato, attraverso i loro testi, allarmi, denunce e visoni che sono oggi i meccanismi del nostro tempo. La parola, la sua ripetizione, la sua funzione politica, il suo innesco immaginale sono gli strumenti poetici di Phoebe Zeitgeist. La prima produzione è lo spettacolo Line, il tempo di Agota Kristof, che debutta a giugno al Teatro dell’Elfo di Milano. Il gruppo avvia una ricerca sul teatro di Copi che dà origine nel corso di quattro anni, a tre spettacoli: Le quattro gemelle, Loretta Strong (Museo MAGA di Gallarate, Spazio Tertulliano di Milano, Teatro Garibaldi Aperto di Palermo, Teatro Rossi Aperto di Pisa, Ravenna VisoinAria) e La Giornata di una Sognatrice (Teatro Out Off e Teatro Elfo Puccini, Milano). Nel dicembre 2010 Phoebe Zeitgeist presenta Note per un collasso mentale-una partitura per voci, corpi, chitarra, live electronics e altro- ispirato all’opera di J.G.Ballard. Lo spettacolo debutta nell’aprile del 2011 alla Fondazione Mudima di Milano all’interno del festival Ballard Milano 2011 - Icone neuroniche sulle autostrade spinali curato assieme ad A. Caronia e prodotto in collaborazione con NABA, Moderna Museet di Stoccolma, Forum Austriaco di Cultura. Nel 2011 Phoebe Zeitgeist realizza il progetto di performance e video Phoebe Zeitgeist appare a Milano, ispirato all’opera di Rainer Werner Fassbinder Blut am Hals der Katze (Sangue sul collo del gatto). L’opera è allestita alla Fondazione Mudima, in occasione degli eventi di Omaggio a Fassbinder, in collaborazione con il Teatro dell’Elfo, il Goethe Institut e la Cineteca Italiana. Nel 2013, in coproduzione con TGA - Teatro Garibaldi Aperto di Palermo, la compagnia realizza Preghiera. Un atto Osceno, scritto e interpretato da Margherita Ortolani. A seguito di questa collaborazione realizza la rassegna CONTAGIO-Relazioni intercorse tra Milano e Palermo realizzata allo Spazio Tertulliano di Milano, ripresa dal Teatro Elfo Puccini nel 2015. American Blues di Tennesse Williams, debutta in forma di studio al Teatro Tertulliano nel 2013 ed è presente nella stagione 2014 del Teatro Elfo Puccini di Milano. Contemporaneamente la compagnia realizza il lavoro di ricerca Adulto, tratto dai testi finali di Pasolini, Bellezza e Morante. Lo spettacolo è selezionato per un’anteprima all’Altofest di Napoli e realizza, fino al 2017, più di sessanta repliche. Nel 2015 debutta il nuovo lavoro, parte finale di una ideale “trilogia dell’esplosione” di cui fanno parte gli spettacoli Loretta Strong e Adulto: è Kamikaze Number Five, scritto da Giuseppe Massa. Nel 2016, con la produzione del Teatro Franco Parenti di Milano realizza BAAL di Bertolt Brecht che è replicato per due stagioni. Tra il 2017 e il 2018, Phoebe Zeitgeist inizia un percorso di elaborazione diretta dei propri temi con la costruzione di due nuovi lavori e la scrittura di due drammatugie inedite: Malagrazia, scritto da Michelangelo Zeno e Re Production scritto da Francesca Marianna Consonni e Giuseppe Isgrò. Phoebe Zeitgeist cura dal 2012 la mini rivista BLUT, foglio dedicato alle arti contemporanee. Phoebe Zeitgeist is a theatrical company based in Milan, born in 2008. The research of this group, open to elaborations in all fields of contemporary arts, is dedicated to the existence, persistence and transformation of every form of power, whether it is nested in private relations or in the relationship of force with the world and with the institutions. This investigation is conducted through the work of those artists who have given, through their texts, alarms, complaints and minks that are today the mechanisms of our time. The word, its repetition, its political function, its imaginal trigger are Phoebe Zeitgeist’s poetic instruments. The first production is the show Line, the time of Agota Kristof, who debuts in June at the Teatro dell’Elfo in Milan. The group starts a research on the theater of Copi which gives rise over the course of four years to three shows: The Four Twin, Loretta Strong (MAGA Museum in Gallarate, Spazio Tertullian in Milan, Teatro Garibaldi Open in Palermo, Teatro Rossi Aperto in Pisa , Ravenna VisoinAria) and La Giornata di una Dognatrice (Out Off Theater and Elfo Puccini Theater, Milan). In December 2010 Phoebe Zeitgeist presents Notes for a mental collapse - a score for voices, bodies, guitar, live electronics and mor - inspired by the work of J.G.Ballard. The show debuted in April 2011 at the Mudima Foundation of Milan within the Ballard Milano 2011 festival - Neuronic icons on spinal highways curated together with A. Caronia and produced in collaboration with NABA, Moderna Museet of Stockholm, Austrian
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Forum of Culture. In 2011 Phoebe Zeitgeist realizes the project of performance and video Phoebe Zeitgeist appears in Milan, inspired by the work of Rainer Werner Fassbinder Blut am Hals der Katze (Blood on the cat’s neck). The work is set up at the Mudima Foundation, on the occasion of the events of Omaggio a Fassbinder, in collaboration with the Teatro dell’Elfo, the Goethe Institut and the Italian Film Library. In 2013, in co-production with TGA - Teatro Garibaldi Aperto of Palermo, the company realized Prayer. An Obscene Act, written and interpreted by Margherita Ortolani. Following this collaboration, he realized the CONTAGIO-Relations between Milan and Palermo carried out at the Spazio Tertulliano in Milan, taken by the Elfo Puccini Theater in 2015. American Blues by Tennesse Williams, made his studio debut at the Teatro Tertulliano in 2013. in the 2014 season of the Elf Puccini Theater in Milan. At the same time the company carries out the adult research work, based on the final texts by Pasolini, Bellezza and Morante. The show is selected for a preview at the Altofest of Naples and realizes, until 2017, more than sixty performances. In 2015 he debuted the new work, the final part of an ideal “trilogy of explosion” which includes the shows Loretta Strong and Adult: it is Kamikaze Number Five, written by Giuseppe Massa. In 2016, with the production of the Teatro Franco Parenti in Milan, he realizes BAAL by Bertolt Brecht, which is repeated for two seasons. Between 2017 and 2018, Phoebe Zeitgeist began a process of direct elaboration of their themes with the construction of two new works and the writing of two unpublished dramaturges: Malagrazia, written by Michelangelo Zeno and Re Production written by Francesca Marianna Consonni and Giuseppe Isgrò . Phoebe Zeitgeist has been taking care of the mini BLUT magazine since 2012, a sheet dedicated to contemporary arts.
Ophelia Queen www.flickr.com/people/sissixx/?rb=1 Ophelia nasce nel 1973 in Italia. Fin dalla tenera età utilizza il canale artistico per esprimere il proprio pensiero. Autodidatta, preferisce non subire influenze scolastiche canoniche ed esprimersi, incassando inizialmente anche insuccessi. La forte ispirazione è legata alla Body Art inizialmente, alla letteratura, e in primis il cinema, elementi principali per realizzare i propri progetti. Dipinge utilizzando diverse tecniche quali acquarello e olio. Si avvicina successivamente al mondo performativo e fotografico esibendosi prevalentemente in Italia ed esponendo in Europa. L’influenza orientale le permette di praticare Shibari l’arte della legatura giapponese. Il percorso fotografico si modula poi attraversando il processo e il passaggio da una parte all’altra dell’obiettivo. Facendo tesoro dell’esperienza fotografica dei suoi collaboratori, si orienta dal 2011 al custom Doll Art. Utilizzando la bambola Blythe crea e cura ogni dettaglio scenografico, outfit e concept per manifestare la disapprovazione nei “confronti del genere umano”. Nel corso del tempo l’umanità ha subito un’importante involuzione a causa della tecnologia sempre più avanzata che ha influenzato in maniera deleteria anche il nostro stato emotivo. Le sue bambole si fanno specchio di emozioni e status sociali, riproducono personaggi e realtà vissute ogni giorno. La bambola, metamorfosi di un simulacro di soggettività, tenta di recuperare una sorta di “verità esistenziale”, un’originale arcaica emozione. Ophelia was born in 1973 in Italy. From an early age he uses the artistic channel to express his thoughts. Self-taught, he prefers not to undergo canonical scholastic influences and to express himself, initially also collecting failures. The strong inspiration is linked to Body Art, to literature, and above all cinema, the main elements to realize their projects.
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He paints using different techniques such as watercolor and oil. He then moved closer to the performative and photographic world, performing mainly in Italy and exhibiting in Europe. The oriental influence allows her to practice Shibari the art of Japanese binding. The photographic journey is then modulated through the process and the passage from one side to the other of the lens. Taking advantage of the photographic experience of his collaborators, he has been orientating himself from 2011 to the custom Doll Art. Using the Blythe doll, she creates and takes care of every stage detail, outfit and concept to express disapproval of “comparisons with the human race”. Over the course of time, humanity has undergone an important involution due to the increasingly advanced technology that has also influenced our emotional state in a deleterious manner. His dolls mirror emotions and social status, reproduce characters and realities experienced every day. The doll, a metamorphosis of a simulacrum of subjectivity, tries to recover a sort of “existential truth”, an original archaic emotion.
Francesca Randi www.francescarandi.tumblr.com Francesca Randi nel 1999 incontra il mezzo fotografico. Sviluppa uno stile personale, onirico, con un immaginario fortemente surreale. L’identità, l’infanzia e l’adolescenza, il paesaggio notturno in bilico tra l’incubo quotidiano e la solitudine esistenziale, l’inconscio, il doppio, la wunderkammer e il perturbante: sono alcuni dei temi affrontati da Randi. Attualmente vive e lavora a Cagliari come fotografa e insegnante di fotografia. Collabora con varie gallerie d’arte italiane ed estere. Il lavoro fotografico di Francesca Randi è incentrato sul concetto di Realismo Fantastico e Perturbante. Attraverso le sue immagini trovano espressione le proiezioni inconsce, le rimozioni, i desideri e le aspirazioni. Il realismo fantastico rappresenta una forma di protesta ostinata con mezzi estremi contro la precarietà del reale. Il perturbante, ciò che porta angoscia, è un qualcosa che assomiglia al nostro ambiente domestico ma che in realtà cela in sé un che di straniero, sconosciuto, enigmatico. “Tutto ciò che pensavamo fosse rimosso dalla nostra coscienza, complessi infantili, convinzioni personali o pregiudizi, riemerge creando una condizione instabile alla nostra identità e in genere uno stato di angoscia” (Freud 1919). Francesca Randi in 1999 meets the photographic medium. It develops a personal, oneiric style, with a strongly surreal imaginary. Identity, childhood and adolescence, the nocturnal landscape poised between the daily nightmare and the existential solitude, the unconscious, the double, the wunderkammer and the uncanny: these are some of the themes addressed by Randi. He currently lives and works in Cagliari as a photographer and teacher of photography. Collaborate with various Italian and foreign art galleries. Francesca Randi’s photographic work is centered on the concept of Fantastic and Perturbing Realism. Through his images, unconscious projections, removals, desires and aspirations find expression. Fantastic realism is a form of stubborn protest with extreme means against the precariousness of reality. The disturbing, what brings anguish, is something that resembles our domestic environment but that in reality hides in itself a stranger, unknown, enigmatic. “Everything we thought was removed from our consciousness, infantile complexes, personal beliefs or prejudices, re-emerges, creating an unstable condition for our identity and generally a state of anguish” (Freud 1919).
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Bärbel Reinhard www.baerbelreinhard.com Bärbel Reinhard è nata a Stoccarda, in Germania nel 1977, artista e docente, vive e lavora in Toscana. Dopo la laurea in storia dell’arte e sociologia a Berlino si diploma in fotografia professionale alla Fondazione Studio Marangoni di Firenze. Il suo lavoro è stato esposto in varie mostre in Italia ed all’estero, tra le quali al European Month of Photography Luxembourg, a Villa La Pietra Firenze, alla Galleria Metronom e alla Fondazione Fotografia di Modena, al Corridoio Brunelleschi a Firenze, alla Luova Gallery Helsinki e alla Photographie Marseille. Accanto alla sua ricerca artistica lavora come fotografa freelance, docente e curatrice. Ha insegnato tra l’altro alla New York University, al Sarah Lawrence College, alla Kent State University e si occupa delle tecniche di camera oscura ed il coordinamenti didattico alla Fondazione Studio Marangoni. Ha curato diversi progetti espositivi ed editoriali, anche con collaborazioni internazionali, e dal 2010 cura l’archivio di Mario Carnicelli. Il suo interesse principale sta nelle caratteristiche e nei limiti del legame spazio-temporale inerente alla fotografia, le sue stratificazioni e manipolazioni, memoria e natura. Bärbel Reinhard was born in Stuttgart, Germany in 1977, artist and teacher, lives and works in Tuscany. She lives and works Tuscany. After she received her master’s degree in art history and sociology from HumboldtUniversity Berlin she graduated in professional photography at Fondazione Studio Marangoni in Florence. Her work has been exhibited in several shows in Italy and abroad, such as at European Month of Photography Luxembourg, New York University Florence, Galleria Metronom and Fondazione Fotografia Modena, Corridoio Brunelleschi Florence, Luova Gallery Helsinki and Photographie Marseille. Beside her artistic research she works as freelance photographer, teacher and curator. She has been teaching at New York University, Sarah Lawrence College and Kent State University in Florence and teaches dark room techniques at Fondazione Studio Marangoni, where she is also in charge of didactic organization. She has curated several exhibition projects and publications, also with international collaborations and is the curator of Mario Carnicelli’s archive. Her main interest lies in the characteristics and limits of photography as time-space-tied medium, its layerings and manipulation, memory and nature.
Christian Reister www.christianreister.com Christian Reister è un artista ma anche documentarista, street photography e ritrattista; vive e lavora a Berlino, in Germania. Ha iniziato a fotografare nel 2001 e da allora ha concentrato al sua attenzione al popolo che abita la città, alla moltitudine di persone che animano le strade urbane; dopo un primo periodo dove privilegiava scattare immagini a colori, periodo durato quasi 10 anni, passa definitivamente alle atmosfere in bianco e nero nel 2011. “Volevo che le mie immagini diventassero più astratte, meno perfette, sgranate, più scure, più malinconiche. Da allora è la mia scelta di fotografare in bianco e nero e solo la notte. Lavoro con piccole fotocamere che si adattano a qualsiasi tasca e possono essere utilizzate in quasi tutte le situazioni senza attirare l’attenzione.” I suoi personaggi sembrano un tutt’uno con la città che li accoglie, sembra che l’identità di ognuno si fonda con i climi della città, come se ogni elemento non potesse vivere senza l’altro, fantasmi che ci passano accanto durante la nostra vita senza che ce ne potessimo accorgere se non fossero registrati su pellicola, stampati a testimonianza della loro esistenza, tante identità diverse tra di loro preziose e magnifiche proprio per le loro differenze. Altrettanto importante come l’atto dello scatto fotografico è per l’artista il processo di selezione, modificazione,
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sviluppo e layout delle sue immagini, che poi impiegherà in diversi modi come installazioni, proiezioni dal vivo, fotolibri o fanzine, oltre che producendo dei “film-fotografici”, come una sorta di portfolio tematico composto da sequenze di immagini fisse che dialogano prepotentemente tra di loro e la base sonora. “Lavoro come un costante registratore di immagini scattando moltissimo e istintivamente. Alcuni scatti mi sembrano eccezionali e li conservo in grandi archivi, come dei calderoni di 100, 200 immagini che aspettano di essere usate e integrate tra di loro come a costruire delle storie.” Christian Reister is an artist but also a documentarist, street photography and portraitist; he lives and works in Berlin, Germany. He began to photograph in 2001 and since then has focused on his attention to the people who live in the city, to the multitude of people who animate urban streets; after a first period where he preferred to shoot color images, a period that lasted almost 10 years, he finally moved to the black and white atmospheres in 2011. “I wanted my images to become more abstract, less perfect, grainy, darker, more melancholy. Since then it is my choice to photograph in black and white and only at night. I work with small cameras that fit any pocket and can be used in almost any situation without attracting attention.” His characters seem to be one with the city that welcomes them, it seems that everyone’s identity is founded with the climates of the city, as if every element could not live without the other, ghosts that pass us next during our life without being able to notice it if they were not recorded on film, printed as evidence of their existence, so many different identities that are precious and magnificent for their differences. Just as important as the act of shooting is for the artist the process of selection, modification, development and layout of his images, which then will use in different ways as installations, live projections, photo books or fanzines, as well as producing “film-photographic”, as a sort of thematic portfolio composed of sequences of still images that strongly dialogue with each other and the sound base. “I work as a constant image recorder by shooting a lot and instinctively. Some shots seem exceptional and I keep them in large archives, like the cauldrons of 100, 200 images that are waiting to be used and integrated among them as to build stories.”
Natascia Rocchi www.facebook.com/natascia.tornerannoafiorirelaviole Frequenta studi giuridici e dopo la laurea nel conseguire l’abilitazione per la professione di avvocato lavora con fermezza presso uno studio legale occupandosi in modo particolare di diritto di famiglia e più in generale di diritto civile. Intorno agli anni novanta si sposa e decide di cambiare completamente vita abbracciando in pieno il lavoro del marito. Tutt’ora insieme, studiano, progettano e vendono “scarpe”. Hanno realizzato una linea di calzature creata tutta da loro, che hanno diffuso in tutta Italia, insieme ad altri marchi. La sua innata passione per la fotografia, inizialmente, soprattutto per quella di Moda, le consentirà di seguire le campagne fotografiche e la comunicazione dei marchi che rappresenta. Nel 2013, attraverso un workshop con Mario Cresci, ha il suo primo importante approccio con la fotografia concettuale alla quale rimarrà legata nei suoi futuri lavori. Una tecnica con la quale ama rapportarsi è il collage. He attends juridical studies and after graduation in achieving the qualification for the profession of lawyer works firmly in a law firm dealing in particular with family law and more generally with civil law. Around the nineties he marries and decides to completely change life embracing the work of her husband. Still together, they study, design and sell “shoes”. They have created a line of footwear created entirely by them, which have spread
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throughout Italy, along with other brands. Her innate passion for photography, initially, especially for that of Fashion, will allow her to follow the photographic campaigns and the communication of the brands she represents. In 2013, through a workshop with Mario Cresci, he had his first important approach with conceptual photography to which he will remain linked in his future works. A technique with which he loves to relate is collage.
Solidea Ruggiero www.edicolaed.com/autori-libri/solidea-ruggiero Solidea Ruggiero (nasce a Genk, Belgio, 1976). Autrice, scrittrice, performer, interprete e curatrice indipendente di mostre, progetti, eventi culturali e artistici. Ha pubblicato in diverse antologie e riviste di letteratura e arte contemporanea italiane e internazionali, ultima del 2018 la selezione con un suono racconto lungo per l’antologia Città d’autore-Genova d’autore, Morellini Editore. È curatrice dei cataloghi di vari artisti, e ha firmato presentazioni di opere di scrittori e poeti italiani. Nel 2011 partecipa alla 54° Biennale di Venezia, con un testo scritto e interpretato per la video installazione di Marco Agostinelli con le musiche di Sakamoto. Nel 2013 pubblica Io che non conosco la vergogna, il suo primo libro di racconti, per la casa editrice italo/sudamericana Edicola Ediciones, tradotto in inglese e spagnolo. Nel 2014 è una delle artiste e performer di Marche Centro D’Arte con il progetto “Skin”e collabora con la Galleria Marconi e la Galleria Centofiorini. Nel 2015 interpreta il film Ananke, di Claudio Romano e Betty L’Innocente, e con gli stessi autori il film breve “Con il vento”. Fondatrice dell’Associazione culturale OPEN HOUSE ART_LAB_EVENT e ideatrice e curatrice del format live/web ParlaCultura. Solidea Ruggiero (born in Genk, Belgium, 1976). Author, writer, performer, interpreter and independent curator of exhibitions, projects, cultural and artistic events. He has published in various anthologies and magazines of Italian and international literature and contemporary art, the latest in 2018 the selection with a long story sound for the anthology “Città d’autore-Genova d’autore, Morellini Editore”. She is curator of the catalogs of various artists, and has signed presentations of works by Italian writers and poets. In 2011 he took part in the 54th Venice Biennale, with a text written and interpreted for the video installation by Marco Agostinelli with the music of Sakamoto. In 2013 he publishes I who do not know shame, his first book of short stories, for the Italian/South American publishing house Edicola Ediciones, translated into English and Spanish. In 2014 she is one of the artists and performers of Marche Centro D’Arte with the project “Skin” and collaborates with Galleria Marconi and Galleria Centofiorini. In 2015 he plays the film Ananke, by Claudio Romano and Betty L’Innocente, and with the same authors the short film “Con il vento”. Founder of the cultural association OPEN HOUSE ART_LAB_EVENT and creator and curator of the live/web format ParlaCultura.
Paula Sunday www.paulasunday.com Nel 19 gennaio del 1981, mentre a New York Francesca Woodman si toglieva la vita gettandosi dalla finestra del suo appartamento, a Napoli io venivo al mondo. Ventitrè anni dopo mio padre assecondava il mio destino regalandomi una nikon f10 trovata in un vecchio cassetto. Lentamente la fotografia mi sedusse. Dopo alcuni mesi “l’apparecchio” sostituì quella che era stata la mia prima passione: la pittura. Dimenticai presto l’odore della trementina e le unghie sporche. Così ho cominciato ad autoritrarmi perchè non avevo una modella. Oggi non saprei più farne a meno di guardarmi e guardarvi.
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I was born 19th January 1981 in Naples, while Francesca Woodman choosed to die by throwing herself from the window of her New York apartment. Twenty three years later my father gave me a Nikon f10 giving into my destiny. Photography seduced me slowly. After a few months the camera replaced my first passion: the painting. I forgot very soon turpentine smell and dirty nails. So I started with self-portrait because I had no model. Today I just can’t do without watch me and you.
Marcel Swann www.marcelswann.com Marcel Swann nasce nel 1986 in Brasile e cresce a Firenze. Presto ossessionato dalle arti visive, all’età di dodici anni inizia la sua attività come graffiti writer, preferendo lo stile old school. Si avvicina alla fotografia per la necessità di archiviare, per poi studiarli, i lavori di altri street artist rendendosi presto conto che questo è il medium a lui più congeniale per fare ricerca sulle varie materie di suo interesse. Ogni suo progetto nasce dalla lettura per poi svilupparsi su una riflessione che verte tanto sul mezzo usato, quanto su se stesso e sul tempo in cui esso vive ponendo l’attenzione sui segni sensibili che questo offre. Uno dei temi sul quale ruotano la maggioranza dei suoi lavori riguarda l’assenza di desiderio -in termini lacaniani- nell’odierno. Dopo varie mostre e pubblicazioni a settembre del 2017 esce il suo primo libro “Tears // NAH” dove sfruttando fotografia e scrittura crea un personale percorso di ricerca utilizzando remniscenze e scoperte. Marcel Swann was born in 1986 in Brazil and grew up in Florence. Soon obsessed with visual arts, at the age of twelve he began his career as a graffiti writer, preferring the old school style. He approaches photography because of the need to archive, and then study them, the work of other street artists, soon realizing that this is the medium most suited to him to do research on the various subjects of his interest. Each of his projects comes from reading and then develops on a reflection that focuses both on the medium used, on himself and on the time in which it lives, placing the attention on the sensitive signs that this offers. One of the themes on which the majority of his works revolve concerns the absence of desire - in Lacanian terms - in today. After several exhibitions and publications in September 2017 he released his first book “Tears // NAH” where exploiting photography and writing creates a personal research path using remniscences and discoveries.
Roberta Toscano www.facebook.com/vialatteatorino Roberta Toscano si è laureata in Storia del Teatro all’Università di Torino e poi in Grafica con Franco Fanelli all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Opera in campo artistico principalmente con materiali di scarto che assembla, stampa, incide, sospende, incolla. Tramite un lavoro di ricerca articolato che la porta all’uso di vari linguaggi espressivi (video, incisione, installazione, poesia) è spinta dalla necessità di ricercare un’estetica consapevole e tendente all’autenticità. In veste di fotografa tenta di ritrarre il mondo, il corpo e l’immaginario femminile come paesaggio inconsueto, protesta muta contro l’ordinaria mercificazione dell’esistenza umana. Si considera quindi un artista che utilizza la fotografia come parte integrante e irrinunciabile nel processo di analisi dell’oggetto. Esposizioni recenti: Corpi seducenti a cura di Giorgio Bonomi, Memento a cura di Togaci, Passare il Segno a cura
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di Franco Fanelli, Binario 18#stayhumanart presso il Museo civico di Palazzo della Penna a Perugia che è un progetto itinerante sulle vecchie e nuove migrazioni a cura di Roberta Di Chiara. Ha aderito con l’intervento Il Quotidiano a Edicola dell’Arte, progetto di arte urbana, “Arte a Perdere” a cura di Togaci nel Quartiere Aurora di Torino. Insieme con l’artista biellese Armando Riva ha fondato nel 2010 il collettivo “Costarocosa” che ha un’intensa attività espositiva ed è stato selezionato per la XXI Triennale dell’architettura e del Design con il progetto sul genere dell’oggetto “Rebus” esposto all’Accademia di Brera a Milano nel 2016. Roberta Toscano graduated in History of Theater at the University of Turin and then in Graphic with Franco Fanelli at the Albertina Academy of Fine Arts in Turin. He works in the artistic field mainly with waste materials that assemble, print, engrave, suspend, paste. Through a work of articulated research that leads her to the use of various expressive languages (video, incision, installation, poetry) she is driven by the need to search for an aesthetic that is aware of and tending to authenticity. As a photographer, she tries to portray the world, the body and the female imaginary as an unusual landscape, a silent protest against the ordinary commodification of human existence. We therefore consider an artist who uses photography as an integral and indispensable part of the object’s analysis process. Recent exhibitions: Corpi Seducenti by Giorgio Bonomi, Memento by Togaci, Passare il Segno by Franco Fanelli, Binario 18#stayhumanart at the Civic Museum of Palazzo della Penna in Perugia which is a traveling project on old and new migrations edited by Roberta Di Chiara. He joined Il Quotidiano a Edicola dell’Arte, a project of urban art, “Arte a Perdere” curated by Togaci in the Aurora district of Turin. Together with the Biella artist Armando Riva founded in 2010 the collective “Costarocosa” which has an intense exhibition activity and was selected for the XXI Triennale of Architecture and Design with the project on the genre of the object “Rebus” exposed at the Brera Academy in Milan in 2016.
Mauro Vignando www.abc-arte.com/artists/57-mauro-vignando […]In principio per Vignando è spesso un gesto semplice ma dotato di una sua carica epica, quasi eroica. Anche i recenti collage nascono dalla scoperta fortuita di un semplice ingranaggio capace di realizzare tagli circolari perfetti congiuntamente alla volontà di produrre opere limitando e semplificando le azioni, contenendo il gesto. Una collezione fanée di cartoline accumulate nel corso del tempo, spesso, quando possibile, in duplice copia, diventa la base per uno studio sul movimento e l’ambiguità. Le immagini sono catalogate in base a tipologie ricorrenti: prospettive centrali, figure religiose, architetture, en plein air (fontane o parchi) , sculture classiche e cattedrali. E poi una serie cospicua di ritratti di attori provenenti prevalentemente da un Olimpo minore. Certo, si manifesta anche l’intramontabile Merilyn, ma con maggior frequenza vengono manipolate le fisionomie e le azioni di dive e divi dimenticati e così sottratti, per un’ultima comparsata, all’amnesia collettiva: Rosalind Russell, Lilli Minas, Maureen O’Hara, Rossano Brazzi, Andrea Checchi, Isa Miranda, Paola Barbara, Sonya Henie... Anche gli interventi che vengono compiuti sulla superficie rispondono a un protocollo d’azione ben calibrato. Non c’è improvvisazione. Forse c’è stata all’inizio, ma ben presto la memoria conscia ma sopratutto quella inconscia hanno iniziato a giocare un ruolo dominante, a definire un modus operanti rigoroso. Spesso abbinati in dittico i ritratti si compiono per mutuo soccorso. Quello che viene sottratto da una parte è donato all’altra e ciò che manca nella prima è rimpiazzato da ciò che sarebbe stato occultato nella seconda. E se il ritratto è in duplice
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copia la manipolazione diventa più stratificata. I tagli si moltiplicano e la composizione diventa più articolata. Il prestito tra le due immagini gemellari più serrato. Nel primo caso si crea l’effetto bizzarro di un ritratto verosimile ma irreale. (Pertinente sarebbe usare l’espressione, troppo abusata, di spiazzamento ). Mentre nel secondo caso troneggia il senso di una delocazione: il ritratto si pietrifica in movimento. La verosimiglianza rimane così come l’anomalia, ma i tratti per assurdo si irrigidiscono, le figure diventano tetragone. Il senso rotatorio prevale, l’immagine piomba nell’abisso della sua parcellizzata ripetizione.[…] (Tratto da: Semplice non è semplicistico di Milovan Farronato) (...) In the beginning for Vignando it is often a simple gesture but endowed with an epic, almost heroic role. Even the recent collages are born from the fortuitous discovery of a simple gear capable of making perfect circular cuts together with the desire to produce works limiting and simplifying actions, containing the gesture. A fanée collection of postcards accumulated over time, often, when possible, in duplicate, becomes the basis for a study on movement and ambiguity. The images are cataloged according to recurrent types: central perspectives, religious figures, architecture, en plein air (fountains or parks), classical sculptures and cathedrals. And then a conspicuous series of portraits of actors coming predominantly from a minor Olympus. Of course, the everlasting Merilyn is also manifested, but more frequently the physiognomy and actions of divas and forgotten stars are manipulated and so subtracted, for a last appearance, to collective amnesia: Rosalind Russell, Lilli Minas, Maureen O ‘ Hara, Rossano Brazzi, Andrea Checchi, Isa Miranda, Paola Barbara, Sonya Henie ... Even the interventions that are performed on the surface respond to a well-calibrated action protocol. There is no improvisation. Perhaps there was at the beginning, but soon the conscious memory but especially the unconscious one began to play a dominant role, to define a rigorous operating modus. Often combined in the diptych portraits are accomplished for mutual help. What is subtracted from one side is given to the other and what is missing in the first is replaced by what would have been hidden in the second. And if the portrait is in duplicate the manipulation becomes more stratified. The cuts multiply and the composition becomes more articulated. The loan between the two tightest twin images. In the first case the bizarre effect of a plausible but unreal portrait is created. (Relevant would be to use the expression, too abused, of displacement). While in the second case the sense of a delocation dominates: the portrait petrifies in movement. The likelihood remains as well as the anomaly, but the absurd traits become rigid, the figures become tetragon. The sense of rotation prevails, the image falls into the abyss of its parceled repetition. (...) Adapted from: (Tratto da: Semplice non è semplicistico by Milovan Farronato)
Ramona Zordini www.ramonazordini.com Ramona Zordini nasce a Brescia il 23 dicembre 1983, con il desiderio di poter astrarre la realtà. Non appena compresa l’impossibilità di poterlo fare, trova rifugio nel crearne una propria, creata sulla base dell’originale, ma colorata, filtrata, esasperata, disegnata, fotografata, amata. Crescendo studia Grafica Pubblicitaria e segue corsi di fotografia, frequenta gli studi di Fotografia all’Accademia dove si laurea nel 2009, anno in cui viene pubblicata sulla rivista Internazionale Zoom e vince il Premio Telethon. Nel 2011 partecipa alla Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo con un progetto in collaborazione con Studio Azzurro. Nel 2014 la personale al Museo Nazionale della fotografia, nel 2016 la partecipazione al Documentario TV canadese “L’Art Erotique” e un capitolo nel libro “Il Corpo Solitario” di Giorgio Bonomi.
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Lavora in Italia e all’estero, le sue opere risiedono in varie Collezioni Permanenti tra cui citiamo il Museo MACS e il Museo MUSINF. La sua ricerca artistica nasce dal mezzo fotografico imponendo fin da subito la necessità di eliminare le delimitazioni spaziali e mentali di opera fotografica quadrata e bidimensionale; Lavora principalmente sul concetto di mutamento, di trasformazione psico-fisica, attratta più dal divenire scandito e modificato dal tempo che dal processo compiuto, spesso attrice del suo stesso lavoro, si serve dell’arte per esplorare le proprie scatole chiuse e scoperchiarle. Ramona Zordini was born in Brescia on December 23rd 1983, with the desire to abstract reality. As soon as it is understood the impossibility of being able to do it, it takes refuge in creating its own, created on the basis of the original, but colored, filtered, exasperated, drawn, photographed, loved. He studies Advertising Graphics and follows photography courses, attends photography studies at the Academy where he graduates in 2009, when he is published in the magazine Zoom International and wins the Telethon Award. In 2011 he participated in the Biennial of Young Artists of Europe and the Mediterranean with a project in collaboration with Studio Azzurro. In 2014 the staff at the National Museum of Photography, in 2016 the participation in the Canadian TV Documentary “L’Art Erotique” and a chapter in the book “Il corpo solitario” by Giorgio Bonomi. He works in Italy and abroad, his works reside in various permanent collections including the MACS Museum and the MUSINF Museum. His artistic research stems from the photographic medium, immediately imposing the need to eliminate the spatial and mental delimitation of a square and two-dimensional photographic work; He works mainly on the concept of change, of psycho-physical transformation, attracted more by becoming punctuated and modified by time than by the completed process, often an actress of his own work, using art to explore their closed boxes and discover them.
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TESTI CRITICI
Giampaolo Abbondio | Edoardo Acotto | Alessandra Arnò | Claudia Attimonelli | Lidia Bachis | Emanuele Beluffi | Chiara Boni | Marco Bruschi | Bettina Bush | Anita Calà | Lorenzo Canova | Mario Casanova | Giulia Cassini | Annalisa Cattani | Piera Cavalieri | Claudio Cerritelli | Maurizio Cesarini | Rossana Ciocca | Anna d’Ambrosio | Valerio Deho | Amalia Di Lanno | Isabella Falbo | Anna Fiordiponti | Matteo Fochessati | Patrizia Gaboardi | Alessandra Gagliano Candela | Carlo Gallerati | Francesca Galliani | Roberto Garbarino | Nunzia Garoffolo | Carlo Garzia | Ferruccio Giromini | Caterina Gualco | Romina Guidelli | Chiara Guidi | Flavia Lanza | Amelì Lasaponara | Marla Lombardo | Karolina Mitra Lusikova | Luciana Manco | Angelo Marino | Gianluca Marziani | Chiara Messori | Roberto Milani | Lorenzo Mortara | Ivana Mulatero | Maya Pacifico | Massimo Palazzi | Luca Panaro | Sabrina Paravicini | Claudio Parentela | Claudio Pozzani | Domenico Quaranta | Sandro Ricaldone | Mariella Rossi-Stefano Cagol | Claudia Sensi | Stefania Seoni | Ivano Sossella | Benedetta Spagnuolo | Federica Titone | Caterina Tomeo | Roberta Vanali | Venette Waste | Bruno Wolf.
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TESTI CRITICI Sei quello che posti, non importa che tu lo faccia di più o di meno, o che addirittura non ci sia, l’immagine che proiettiamo sui social media non è che l’estensione di come ci comportiamo entrando in una stanza. Ovviamente il campione da considerare deve essere sufficientemente sostanzioso, non ci si può fermare al selfie fatto durante una festa o davanti a un quadro, come peraltro non si può giudicare una persona alla prima impressione. Plus ça change, plus rien change... E in ogni caso, vizi privati e pubbliche virtù. Giampaolo Abbondio
Soggetti e volti on-line Sempre più persone sono oggi interconnesse grazie alla Rete, e un effetto non minore di questa interconnessione è un possibile mutamento del discorso filosofico sul soggetto. La progressiva diffusione di internet e il suo impatto sugli individui e la società hanno suggerito a sociologi e filosofi di analizzare attentamente il fenomeno, reinterpretando e adattando alla nuova realtà categorie elaborate per un mondo in cui le interazioni erano reali e non virtuali, nonostante l’eccezione clamorosa della telecomunicazione epistolare. (Ma anche ciò che chiamiamo virtuale ha una sua realtà, non essendo un puro nulla). Si è diffusa presso i teorici dei nuovi media l’idea che la comunicazione via internet coinvolga a tal punto gli individui da mutarne la natura stessa di soggetti: si potrebbero ora chiamare soggetti on-line, intendendo con questa etichetta gli individui che in Rete esplicano una parte importante della loro esistenza cognitiva, affettiva, sociale, politica, ecc. Sherry Turkle è una delle prime teoriche di un cyberspazio emancipativo per il soggetto. Secondo Turkle la Rete offre “all’individuo una sorta di controllo totale sulla messa in scena della propria identità”. Le teorie postmoderne come quello di Turkle, tendono ovviamente a negare – forse con troppo ottimismo postmodernista - che l’identità sia (ancora) qualcosa di rigido e immutabile (C. Formenti, Se questa è democrazia, Manni, 2009). Un modello sociologico spesso utilizzato per pensare le interazioni sui social network è quello del sociologo canadese Erving Goffman che ben prima dell’avvento della Rete ha proposto un “modello drammaturgico” delle interazioni sociali reali: in questo modello il confine tra pubblico e privato è figurato come palcoscenico e retroscena. L’individuo-attore “mette in scena il possesso di caratteristiche sociali che dovrebbero garantirgli di essere valutato e trattato in un determinato modo dagli altri” (Formenti, ivi, p.78). Spesso però gli altri attori oppongono resistenza alle pretese dell’attore: si è sempre pronti a sfruttare le incrinature della sua “armatura simbolica” per abbassarne l’autorità, sbeffeggiarlo, rovesciarlo nella polvere. Per affermare il suo ruolo sociale, sempre secondo Goffman, l’individuo-attore ha bisogno della cooperazione di un’equipe che confermi le pretese sociali dell’attore. Per esempio, per non perdere credibilità, un importante uomo politico che faccia pubblicamente il buffone necessita di un’equipe che lo giustifichi, che sminuisca il ridicolo di cui altrimenti si coprirebbe. Il re non è nudo finché nessuno lo dice in pubblico. Nel retroscena, l’equipe può ammettere che il politico si è comportato come un buffone, purché i segreti del retroscena non siano rappresentati sulla ribalta. Il gioco sociale off-line permette anche di indossare diverse maschere, purché di fronte a persone diverse. Teorici come Sherry Turkle ritengono invece che le relazioni sociali mediate dal computer e
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dalla Rete offrano l’assoluta libertà di inventarsi molteplici identità: il palcoscenico goffmaniano diventa così più uno specchio solipsista che un’interfaccia delle relazioni io-altri. Questa situazione avrebbe addirittura (secondo Turkle) un valore terapeutico, perché i social network sarebbero luoghi nei quali si può “mimare la vita” al riparo quasi completo dalla sua violenza (un’opinione chiaramente precedente l’epoca del cyber-bullismo). I social network rendono obsoleto il ruolo delle equipe goffmaniane, alterando il modo di attribuire fiducia agli attori. Nella modernità on-line, infatti, assistiamo a una diminuzione della fiducia nei “sistemi esperti”, negli attori istituzionalmente autorevoli: a prescindere da meriti effettivi, e per mero carisma conquistato sul campo, sono gli utenti che costruiscono collettivamente fiducia, come si vede nel fenomeno degli scrittori self-published che possono diventare celebri anche al di fuori del mercato editoriale ufficiale. Un corollario negativo: in questa comunità virtuale di soggetti on-line, com’è noto, non si è quasi mai soli. Se manca la connessione può scattare un moderno succedaneo dell’angoscia kierkegaardiana-heideggeriana (angoscia per il nulla). Quella che Blanchot chiamava la “solitudine essenziale”, riferendola allo scrittore, è vissuta come condizione negativa dal soggetto on-line, privato della possibilità di connettersi con il suo mondo virtuale ma reale. Maurizio Ferraris parla di una “chiamata” che non lascia in pace nessun soggetto contemporaneo, immerso in un ambiente iper-connesso. Ed è una minacciosa chiamata alle ARMI, ossia Apparecchi di Registrazione e Mobilitazione dell’Intenzionalità (M. Ferraris, Mobilitazione totale, Laterza, 2015). Il social network che ha prodotto più soggetti on-line è senza dubbio Facebook. Qui il primo contatto con l’altro è un’immagine, un “avatar”. Stando al nome stesso del social network, quest’immagine primaria è tipicamente un’icona del volto, anche se questa tipicità viene regolarmente violata: molti utenti non pubblicano un’immagine del loro volto bensì dell’intero corpo, parti del corpo diverse dal volto, parti del volto che ne adombrano ma al contempo impediscono una visione globale. Altri pubblicano un’icona che li rappresenta simbolicamente: una bandiera, uno slogan, la fotografia di un paesaggio o di un oggetto. E ci sono anche i soggetti on-line che si presentano con un volto fittizio: un quadro, la maschera di un supereroe, l’immagine di un attore famoso, di una rock-star recentemente defunta, oppure il volto reale della persona reso irriconoscibile dai capelli, dagli occhiali scuri, da sciarpe e cappelli. Sono immagini che velano il volto, quasi promettendo uno svelamento successivo. Di fatto non ci sono limiti; di diritto però, tutte le immagini alternative “stanno per” il volto autentico, lo significano, lo sostituiscono, fungono da icone (con un rinvio naturale) o simboli (con un rinvio allegorico) del volto del soggetto. Questo è il lato visivo dell’implementazione di identità alternative teorizzato da Turckle. Ma c’è dell’Altro. Il volto in filosofia è stato infatti considerato come ciò che più ci convoca a un’apertura verso l’Altro (Lévinas), inteso innanzitutto come altro essere umano aperto su un’infinita trascendenza divina e antropomorfa. Si potrebbe dire che il volto fotografato e formattato per non è certo il vero volto; ma è forse preferibile osservare come l’esperienza dei social network sembri piuttosto corroborare l’idea di Deleuze e Guattari secondo cui il volto, anziché semplice icona dell’identità umana, è un regime del significato. Visagéité, ossia un dispositivo astratto muro bianco/buco nero che introduce nell’essere del senso inorganico, inumano. Scorrendo le pagine di Facebook, il soggetto on-line naviga in effetti attraverso paesaggi di senso, che trovano nelle fotografie dei volti decostruiti dei temporanei centri di attrazione gravitazionale. Face-world. Memore del fatto che indossare maschere costituisce parte fondamentale di certe terapie di ispirazione psicoanalitica, io (che entro in scena soltanto ora) ricorro sistematicamente agli avatar e alla pratica della visagéité come a un piccolo teatro quotidiano senza grandi conseguenze. Eppure questo teatro mi ha cambiato la vita. Acotto Edoardo
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«La Foto Rritratto è un campo chiuso di forze. Quattro immaginari vi s’incontrano, vi si affrontano, vi si deformano. Davanti all’obiettivo io sono contemporaneamente : quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per dar mostra della sua arte». (Barthes) Black magic mirror. Chi non ne possiede uno? Chi non ha mai ceduto alla vanità di interrogarlo su quanti like si riceveranno? Che utilità ha uno specchio che non “riflette” nulla. Nella storia l’auto rappresentazione è passata dagli stilemi pittorici a quelli fotografici, sempre legata alla concezione di specchio, strumento utile alla riflessione della propria immagine e alla riflessione del sé. Il concetto di auto rappresentazione è lo sguardo interiore e psicologico, l’occhio benevolo che mostra la parte migliore del nostro essere e ne descrive i valori, l’unico strumento atto ad immortalare i momenti salienti della vita e della morte come auto affermazione dell’esistenza. In realtà forse non è cambiato molto dalla passata concezione di auto rappresentazione se non l’estetica e la mancanza dei dettami artistici tradizionali In uno specchio nero dove la riflessione è negata la questione dell’auto rappresentazione si basa solo sul dato contingente e sull’istante. “Io esisto perché ho vissuto questo momento. Guardami, sono proprio io!” Non è più necessario trasmettere altro, ma è fondamentale che qualcuno di conosciuto o sconosciuto riceva il nostro messaggio. La questione sostanziale dell’auto rappresentarsi negli anni 2000 non si esaurisce solo nel cambiamento delle modalità pratiche e concettuali dell’autoscatto digitale, apre in realtà altre scenari legati alla sovraesposizione mediale. Se uno schermo/specchio nero non ci da la possibilità di “auto rifletterci” questo strumento ha altresì la facoltà di affermare la nostra esistenza in un flusso continuo e superficiale di immagini nella rete sociale. La superficie apparentemente scura dei nostri devices tascabili in realtà è uno schermo sempre acceso sulla proiezione della nostra esistenza. È allo stesso tempo un registratore e un player attento a diffondere i nostri attimi e a mostrarci le vite altrui. La democratizzazione tecnologica ha aperto un nuovo mondo in cui auto affermarsi o proiettare l’immagine “migliore” della nostra esistenza. Una dimensione in cui viene data la possibilità di riscattare l’immagine reale di noi stessi per diventare altro. Anche se la velocità di diffusione non permette la messa in scena ottimale del nostro alter ego digitale, questo non è da considerarsi un fattore disturbante, perché l’assimilazione dell’immagine postata è stata già soppiantata dalla successiva, in un continuo flusso di suggestioni, a volte superficiali come la stessa condizione di “non riflessione”. L’auto rappresentazione e l’auto affermazione della propria esistenza nei social networks può essere considerata come una infinita performance quotidiana, dove l’azione stessa di auto rappresentarsi è il vero significante a dispetto dell’aspetto formale, dove l’impossibilità di riflettersi crea il simulacro stesso della nostra identità. Come nella favola di Biancaneve passiamo il tempo ad interrogare lo specchio nero, in una estenuante performance mediale che afferma solo la nostra esistenza. Alessandra Arno’
Photographia sé/xualis: un secolo di selfie Se Baudelaire curava l’isolamento esistenziale fabbricando ponti magici fra l’antichità e il suo presente, dialogando preferibilmente con i morti, personalità del passato che disseppelliva, sradicandoli dalle tenebre e convocandoli accanto a sé, nella pratica della citazione. Lo specchio di Dorian Gray, gli autoritratti fotografici di Edvard Munch,
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la scena dandy dei glam, dei punk, degli emo e dei poseur di oggi, sono cure all’isolamento poiché coltivano l’estetica della fuga: si scompare nei luoghi mondani per consumarsi ostentando il sé nell’hic et nunc dei selfie e dei profili senza proiezioni future. Ma non si tratta solo della scomparsa dai luoghi societali della cultura, non è per frivolo narcisismo fine a se stesso, quanto piuttosto per una vitale fuga dall’identità ufficiale, dal genere sessuale biologicamente precostituito, dalle forme date, che solo la fotografia riesce a scardinare con il suo principio ontologico dello sviluppo, del ritocco, e, oggi sempre più del filtro. Il filtro fotografico, l’autoritratto digitale, in definitiva è il suicidio del sé monolitico per dare vita all’apparire della nuova carne. L’unità del sé sarà viene ricercata e ritrovata nell’esperienza performativa e artistica della vita in rete. Una “sacra prostituzione” direbbe Baudelaire in Il mio cuore messo a nudo (2004). Il corpo e le sue maschere, i travestimenti, le parti maledette e gli effimeri piani d’intensità dialogano all’interno dello spettacolo quotidiano e fuori di esso creano strati, emozioni, corpi in sussulto, sono gli strumenti che costruiscono una mistica del paganesimo contemporanea, il cui linguaggio è la fotografia. Essa non genera identità, essa produce alterità, alterazioni e personificazioni. Tutto sembrava pronto alla fine del secolo scorso, sotto il segno di un’autentica spiritualità della carne, per vegliare sino all’alba del nuovo Millennio, nel quale questi sprezzanti e teneri alieni, così sensibili all’estetica del loro tempo, avrebbero lasciato per sempre la terra verso un’altra vita. (all’alieno, Starman David Bowie, lux perpetua luceat ei, requiescat in pace). Claudia Attimonelli
Un debuttante nell’assoluto 2013 Biennale di Venezia, per la mia partecipazione presento un lavoro composto da sei oli su tela (cm60x60 cadauno), dal titolo “Un debuttante nell’assoluto”. La debuttante sono io in una sorta di invito al ballo, le debuttanti sono le ragazze da me ritratte in un fermo immagine che le immortala in espressioni buffe, ridicole, forzate, cercate. Un selfie che altro non è che il ritratto contemporaneo di un eterno se stesso riprodotto, moltiplicato, imposto. Postato decine e decine di volte. Un selfie al giorno sembra essere il motto dell’uomo moderno, che certifica in questa sua cristallizzazione costruita di un se attore e a sua volta spettatore di simili come lui, la certezza di un esistenza in vita. Non ci si accontenta di essere qui e ora, di fare la propria vita, bisogna narrarla. Gli artisti da sempre hanno usato la propria immagine per un progetto di arte, di denuncia, di presa d’atto, dal più classico autoritratto, Tiziano, Rembrant, o Van Gogh fino ai nostri giorni, con Cindy Sherman che assume mille forme e vive mille vite, con Orlan che taglia e cuce il suo volto come se non le appartenesse, ma fosse uno dei tanti medium di cui può servirsi un artista. Un artista ha sempre giocato con la sua immagine, di più, ne ha preso atto, facendone strumento di denuncia o di lotta, di azione o reazione, di uso o abuso, un corpo unico dove il pensiero e la ricerca si fondono con il contenitore, così l’artista non scinde l’immagine pubblica da quella privata - in alcuni casi – facendo di se stesso un’opera d’arte totale. Altro dicasi per la gente comune, il vicino, ora amico, in un mare di amici, tutti sempre connessi. E allora si passa da un like all’altro, si condividono post, si invita a mettere un “mi piace”, si viene uniti a gruppi, si fanno petizioni, si lanciano anatemi, si fanno proclami, si prende posizione, tutto rigorosamente, virtuale. Tanti satelliti chiusi nel proprio universo di certezze, che comunicano con altri satelliti, galassie in un buio eterno. Altre identità - OTHER IDENTITY - è il titolo del progetto- mostra di Francesco Arena, altre identità è il tema su cui invita a confrontarsi/ci, tutti. Rinnovo il mio stupore e forse il mio non essere perfettamente allineata verso un esterno che si evolve e non aspetta nessuno, come in bilico fra curiosità e stupidità. Altre identità appartiene
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a questa nuova generazione una volta liquida, che vive, respira, cresce, attraverso uno schermo, mi ricordano i viaggi dell’arcadia (Capitan Harlock) dietro ad un vetro l’infinito,con l’equipaggio (loro) sempre dentro a guardare fuori, verso una meta sconosciuta o forse semplicemente senza meta. Navicelle perse nel proprio spazio, dove tutto si risolve all’interno di una stanza, dentro una casa, chiusi in uno stabile, avvolti da altro cemento e così all’infinito. Altre identità è una possibilità a patto che di identità se ne possieda almeno una, una base, un piedistallo, una colonna, poi si parte. Altre identità senza nessuna certezza di sé, diventa un infinita possibilità di essere nulla. Vuoto. Lidia Bachis
Scorrendo la parole con cui Francesco Arena mi ha spiegato il Suo progetto, Other Identity, una mostra che ha per oggetto il sé e la sua mutevolezza a fronte dell’implementazione dei modi di rappresentarlo, non ho potuto fare a meno di riandare con la memoria ai miei studi universitari. Era la fine degli anni Novanta, per la precisione il 1999, quando incappai in quella branca della Filosofia che ora conoscono tutti, ma che all’epoca era ancora una verginella: la Filosofia della Mente, una “corrente”, diciamo, di quell’area filosofica di tradizione analitica del mondo culturale anglo/americano che un’Italia ammorbata dai vari Gianni Vattimo e dai suoi cuginetti d’Oltralpe (Jacques Derrida, Gilles Deleuze e compagnia brutta) non sapeva che cosa fosse. In effetti si trattava di un approccio inedito ai problemi filosofici, caratterizzato da un argomentare che non concedesse nulla alle sirene della metafisica e ai baloccamenti col linguaggio. Insomma, roba tosta, da approntare armati di Logica e cazzo duro. Comunque, per non stare qui a ciurlar col manico, vi basti sapere che uno dei suddetti problemi filosofici in cui m’imbattei, all’epoca imberbe studentello, era rappresentato dai concetti di sé e di identità personale: in parole povere, che cosa significa essere una persona? E soprattutto: che cosa si prova ad essere un pipistrello? Come ben sapete (ma veh!), la storia della filosofia è (anche) la storia delle soluzioni al problema mente/corpo (do you remember Cartesio?: “Devo stare attento a non scambiare me per qualcos’altro!”) e alle connesse questioni dell’identità personale e, nel corso dei secoli, nonostante tutto questo gran parlare, non si è naturalmente giunti ad alcuna conclusione universalmente accettata (e non potrebbe essere altrimenti). Di certo è che il mondo là fuori è fatto di due cose, noi (i soggetti d’esperienza) e le cose. Ma di cosa (perdonate il gioco di parole) sian fatti i nostri ricordi, le nostre menti, i nostri desideri e quali siano (se ci sono) i loro rapporti con il nostro corpo, è ancora questione aperta. Di sicuro, tu non hai la più pallida idea di cosa sia il mio mal di denti e confesso che non riesco proprio a trovare le parole adatte per descriverti il mio mal di denti. Ogni medico lo sa, quando chiede al paziente di spiegargli che cosa senta esattamente (“ma senti più un dolore o un’oppressione? Ti brucia o è più una sensazione di pesantezza?”). Ad ohni modo, provate a chiedervi “Ma io chi sono esattamente?”. Non ci riuscite, vero? Inutile far leva sui vostri ricordi, o sul vostro corpo (le cosiddette “esperienze propriocettiche”), o sulle vostre percezioni (i cosiddetti “qualia”, detti anche “esperienze pure”), o sull’osservazione delle vostre fotografie: comunque la prendiate, l’identità personale vi sfugge (“è fluida”, direbbero i conformisti della cultura un tanto al chilo). E questi tempi folli, che ahimè non son più tempi di streghe, non fanno che aggravare il problema: non bastavano Gina Pane e Franko B (che ammiro smisuratamente), ci voleva la moda dei fantomatici selfie a mettere un segno + al problema dell’identità personale. Ma io sono un reazionario e allora dico che forse aveva ragione Rimbaud: “Io è un altro”. Emanuele Beluffi
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Ci affacciamo alle finestre social per salutare il nostro vicino che ora non ci è più estraneo. La realtà che mostriamo è quella dei nostri pensieri. Nella verità digitale delle immagini c’è spazio per l’Arte. L’Arte ridisegna i contorni delle persone assecondando la personalità. L’iconografia del web è fatta di volti luminosi ma a noi non dispiace. Chiara Boni
La riflessione, quella data da uno specchio, immagine perfetta per alcuni e contraria per altri, produce sicuramente un duplice effetto utilizzando l’udito e la vista. La comunicazione riflessa diventa interpretabile, filtrata e intangibile, portando i rapporti tra individui ad evocare l’antico mito, quello di Eco e Narcisio. Tali mancanze regrediscono socializzazione e condivisione, portando gli individui a nascondere i propri pensieri, a soffocare i propri sentimenti e a snaturare i propri rifiuti e accettazioni, consolidando le proprie certezze in base all’opinione dei tanti perché; a ogni risveglio si sceglie la realtà più conveniente, reale o virtuale. L’immagine di un vecchio mercato a peso, dove bilance, antiquatamente analogiche, pesano linguaggi e sguardi delle persone che lo animano, diventa molto comunicativa a tal proposito: così distanti dalla vita odierna perché integri di realtà da diventare altamente affascinanti, attrazione turistica in alcuni casi. Marco Bruschi
Essere per apparire e sembrare reale, oppure solo naturale. Ognuno può diventare personaggio per caso e costruire una immensa rete di contatti immediati. Un gioco a cui è difficile sfuggire, dove esiste solo il presente, nessuno spazio per il passato e il futuro, tutti insieme contemporaneamente in una struttura orizzontale senza prima e dopo, per piacersi e mostrarsi, come vorremmo esser visti. Così l’autoritratto istantaneo è diventato il simbolo privilegiato dell’era dell’immagine dove conta soprattutto autocelebrarsi. La nuova identità di ognuno non è più l’abito, un insieme materiale di codici stabiliti, ma l’immagine, eterea, immediata, o meglio infinita, senza limiti perché il reale è diventato un mondo lontano, adesso quasi sconosciuto. Bettina Bush
Tutto ciò che è rivoluzione, porta ad una evoluzione. E questo cambiamento nel modo di comunicare noi stessi è un’evoluzione. Non esiste più il contatto diretto e materiale del corpo a corpo, e del giudizio della pelle nel guardare. Leggere, digitare, selfie, scrivere frasi ad effetto prese da poeti popolari, questo diventa il biglietto da visita odierno. Bugie, accrescimenti, foto ritoccate, avvenimenti importanti finti che creano nell’insieme una maschera. La stessa maschera che si crea con la conoscenza diretta. Entrambi i modi di comunicare possono essere filtrati. Per questo la vedo come un’evoluzione nella sua accezione positiva. Anita Cala’
Le maschere elettroniche. Che le nostre identità siano multiple, che il mondo stesso sia un grande teatro e che noi indossiamo diverse maschere a seconda delle circostanze e delle persone che incontriamo è noto da millenni, non a caso il termine persona anticamente si riferiva proprio alla maschera teatrale. Oggi i social network e le nuove tecnologie non
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hanno fatto che esaltare questo tratto archetipico dell’essere umano, in una (auto) rappresentazione continua che ci mette in scena destinandoci a un pubblico molto ampio e con immagini dalla durata rapida ma dalle nuove possibilità di diffusione potenzialmente globali. Questa celebrazione del sé trova del resto antenati illustri in figure chiave delle avanguardie del Novecento come, ad esempio, Filippo Tommaso Marinetti o Salvador Dalì, abilissimi costruttori della propria immagine pubblica e del proprio costante mascheramento diffuso a livello planetario. L’innesto su alcuni filoni della performance e della body art rendono poi questa rinnovata teatralità mediatica un interessante campo espressivo che, al di là delle banalizzazioni, può portare a nuovi risultati, in un’ibridazione che in passato era soltanto immaginabile, ma che oggi trova spazi e strumenti di comunicazione le cui possibilità meritano senza dubbio di essere approfondite e percorse, come avviene in questa mostra. Dunque auguriamoci che la bacchetta di Prospero, il mago shakespeariano, possa dunque essere l’ideale guida di questo viaggio ulteriore, sospeso tra la rappresentazione e la vita, tra la materia del mondo e quella dei sogni, tra la realtà e l’illusione. Lorenzo Canova
La (ri)definizione d’identità è e rimane – in generale – uno dei temi caldi, che riapre un dibattito infinito di tipo sociale ma anche, per certi versi, antropologico attorno all’essere in relazione all’altro, dentro un mondo che cambia, e che ancora nasconde in sé molte banalità sensibili e troppe mistificazioni taciute sulla costruzione di un concetto accettabile di progresso e di modernità. Non solo perché lo studio sulle identità trova la sua genesi e si giustifica nella comprensione delle individualità e delle diversità, ma perché esso studia fortemente le particolarità delle minoranze altre in rapporto a dominanti sociali, politiche e religiose. Francesco Arena, artista e curatore di OTHER IDENTITY, mi ha chiesto di scrivere due righe non obbligatoriamente legate alla sua mostra, e di esprimere delle mie considerazioni pertinenti a questo tema: in generale. Esso è vastissimo, non più semplicemente correlato – come detto – allo specifico della sua mostra o alle identità pertinenti al corpo. Infatti, del tutto ordinario e “dépassé” sembra oggi parlare di identità in ambito di espressione delle proprie sessualità; poiché non ci si dovrebbe ormai più esprimere in termini di una sessualità, quanto piuttosto su di uno spettro che rifrange molte sessualità, come se l’aspetto trans odierno, rinvigorito da un processo di virtualizzazione tecnologica e telematica, fosse l’unico vero strumento catartico per un passaggio da un periodo storico a un altro, entro un’epoca di guerre tra culture che tentano di reimporre goffamente e con tanta recrudescenza ognuna la propria idea di identità; una definizione che per secoli e, ahimè, ancora oggi sembra rimanere un dogma noioso, un assioma indiscutibile; cioè essere come la società ti impone di apparire. Una società spaccata nel suo eterno dualismo tra divinazione e incarnazione, e in equilibrio tra bene e (in)consapevolezza del male e della sua cattiveria dominatrice. Ecco, quindi, che lo slogan illuminista e molto “radical” Liberté, Egalité, Fraternité solo rimane uno tra le tante ipotesi impolverate per un miglioramento della società anche solo da un punto di vista classista; possibilismo, cui nemmeno più gli stessi illuministi forse credono di fronte alla forza dell’uomo e delle sue antropologie bestiali ed egoiche. L’arte ha sempre rappresentato idealmente quel luogo dove si fondono, fuori dal tempo e da qualsiasi istituzione, proprio libertà, uguaglianza e fraternità. In un mondo dove la sessualità, la donna, i bambini e gli animali, ma soprattutto qualsiasi valore degno di attenzione, vengono sistematicamente sfruttati e calpestati pur di vendere anche solo un tostapane, paradossalmente – in arte – il tema delle identità dà fastidio, nella misura in cui esse rappresentano quel simbolo-traghetto nel verso della liberazione dal dogma, dell’evasione dalla prigione sociale e dalle divisioni razziali: un sogno, una visione, una utopia. Perfino il mondo stesso dell’arte è divenuto spesso luogo di istigazione all’antipatia, alla divisione e alla frammentazione, laddove competenza e competitività sono
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state sostituite da ruoli e competizione, e dall’aggressività: così come qualsiasi altra forma di radicalizzazione religiosa o politica. In cosa consiste allora il corpo della cultura? Come si incarna l’identità? Con quali modalità e sembianze? Ecco che in tempi di fusione culturale e integrazione sociale, per le quali abbiamo ceduto gran parte delle nostre libertà e conquiste individuali e culturali, e laddove i valori vengono sempre meno, riaffiorano simili quesiti; che sono anche questioni di opportunità e opportunismi. Il secondo Novecento è stato determinante, direi illuminante, per farci capire quanto le ideologie, i dogmi e le avanguardie abbiano mal alimentato e plagiato le nostre fantasie e le nostre vite, millantando un concetto di progresso e di evoluzionismo fondamentalmente inesistenti se non per quanto attiene all’idea di nicchia. Il processo di democratizzazione ha fatto il resto. In questo senso parlare e argomentare oggi di identità, lo si potrebbe fare solo passando da uno stato identitario come marchio e imposizione sociale a un approccio quasi trans-sociale, eterotopico, cioè al di là dell’uso stesso della definizione di identità: processi di democratizzazione e di statalizzazione assolutamente involutivi per l’identità individuale e l’autodeterminazione dell’uomo, nella cui contravvenzione qualcuno vedrebbe, invece, un possibile sviluppo. Nell’ambito della cultura visiva e non solo, dalla caduta delle avanguardie prontamente plagiate e sostituite dal mercato, l’arte è alla ricerca di una sorta di trans-identità, dove l’ibridazione, il metamorfismo, la fusione tra arte pura e applicazione dell’arte si muovono e dialogano nella ricerca di nuove forme identitarie e linguaggi estetici; una ricerca più libertaria e libertina. Ed è proprio in quell’eterno difficile rapporto tra divinazione e incarnazione che si gioca il ruolo dell’individuo; nel dialogo monologico tra corpo e spirito, tra fede e dogma. È rilevante lo sviluppo delle tecnologie applicate ai social network; essi incarnano da un lato il neo-surreale, il sogno di una vita parallela o forse un’isola che non c’è, dall’altro la liberazione dal confronto sociale diretto e la definizione di una estetica meno corporale e schietta, mediata e interfacciata. Se l’arte va nuovamente verso il corpo dopo decenni di concettualismi assurdi, ci si deve pur porre alcune domande basilari, sia per la vita che per la sua ridefinizione attraverso lo stilema della cultura e delle arti. Mario Casanova
Personaggi in cerca di “like” “Non sarà mai felice chi si lascerà tormentare dalla maggiore felicità altrui”, Seneca, L’Ira, III, 30, 3 Una volta i personaggi erano solo sei ed in cerca di autore, pirandellianamente, egoisticamente, a ventre basso ma con puntiglio cervellotico, oggi siamo un po’ tutti personaggi, di vocazione edonistica, ma in cerca di “like”, di rassicurazioni, non importa se solo virtuali. È questo forse uno dei motivi che ha fatto esplodere l’uso dei social network negli ultimi dieci anni, con implicazioni non solo superficiali, ma psicologiche ed intimistiche, andando cioè a cambiare non solo la rappresentazione del sé, ma anche la coscienza dell’io. Cristallizzare in un istante l’eternità di un sorriso, di una piega ben riuscita, di un vezzo, di una giornata importante come di un momento banale vuol dire rendere questo attimo ed in definitiva noi stessi unici, forti, desiderabili, incredibilmente vivi. Significa nascondere le “lune calanti”, godere di un quarto d’ora di celebrità, gareggiare con gli altri a suon di preferenze, cercare di superare gli “amici” connessi con un’immagine che lasci trasparire più felicità, più ricchezza, più bellezza, più prestigio dell’altro. Sembra una perenne corsa al rush finale, marcando più forte la nostra identità, un’identità che è sempre meno privata e sempre più pubblica. All’inizio era il fotoritratto, la perfezione dell’inquadratura, la trasparenza dell’incarnato, le tavolozze cromatiche specifiche. Oggi è il selfie e nella maggioranza dei casi il selfie-ritocco. Siamo sempre più cammuffati, perennemente con lo smartphone o il tablet in mano. Social è anche il lavoro, non solo per i comunicatori di professione a cui spesso è richiesta la specializzazione
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in “social media strategy” e la “bella presenza”, ma per qualsiasi professione che abbia contatto col pubblico. È qui che nasce la competizione serrata e lo stress, il tenersi sotto controllo in nome dell’efficienza e delle aspettative altrui, dando luogo ad un’esistenza invero separata tra reale e iperbolico, tra normalità ed eccezione, tra umanità e perfezione. Non che sia tutto negativo e che col catino sporco si debba gettare anche il bambino: i social sono positivi quando sono un modo di lasciarsi andare, di dare libero sfogo ai propri sentimenti immergendosi nella preziosità del momento senza l’ansia di precipitare le cose. Ciò che conta nelle nostre giornate frenetiche è il fermarsi un secondo a pronunciare un’affermazione positiva per stimolare l’ottimismo ed indirizzarci su un canale tranquillizzante; cambiare l’angolo visuale ci serve a vedere le cose in modo diverso. Ma serve anche raccontarsi come siamo davvero per non trasformarci in una ridicola iperbole: come scrisse Schopenhauer la felicità e l’infelicità coabitano in noi e “nello stesso ambiente ciascuno vive in un altro mondo”. Non appiattiamoci allora agli stereotipi della rete, al genoma del consumatore tipo, al fruitore passivo, alla moda, alla finta popolarità, ad una rappresentazione di noi artificiosamente studiata: non siamo fenomeni, non siamo tutti artisti, non siamo tutti popolari o primi della classe e soprattutto non siamo attori. A forza di costruirci finte identità non siamo più noi stessi: siamo tappezzeria in rete. Una terapia soft antirigetto? Quella di provare a tracciare, incominciando almeno dai profili strettamente privati, una mappatura reale dei nostri stati d’animo, passando dalla nostra follia artificiale a quella naturale, dall’osservare e dal copiare al partecipare. Liberi di scegliere. Ma tra rappresentazione privata e immagine pubblica c’è solo un asse che riconduce i due poli estremi, da nord a sud, da ansia da prestazione a pura felicità: l’asse terrestre, il ritorno al reale, al qui e ora, alla coscienza dell’io. Giulia Cassini
Diritto alla noia. Della molteplicità, della diversità, della relazione e della noia Da tempo siamo stati definiti società dell’immagine, la nostra identità è stata a sua volta ridefinita come multipla, fluida, rizomatica, come Pirandello aveva già intuito in “Uno, nessuno e centomila”, ma tutto ciò era nulla a confronto con quello che sta accadendo attraverso i social network. I quindici minuti di celebrità proclamati di diritto da Andy Wahrol, sono diventati ore e ore e oramai diventa davvero difficile creare icone durature in qualsiasi ambito. Assistiamo ad una sorta di normalizzazione della star, ad un detournamentdi massa che sta facendo di creatività, trasformismo, creatività, stranezza, straniamento, quotidianità e norma. È vero che una fetta consistente di coloro che partecipano attivamente alla social-virtual-life, tendono ad usare il loro profilo in modo piuttosto banale, ma molti diventano dei veri e propri professionisti del “pensiero divergente”, definizione che serbavo solo per artisti o comunque addetti ai lavori del mondo dell’arte. Datempo, infatti, considero la pratica artistica, prima di tutto una modalità di articolazione del pensiero non lineare, che si esplica attraverso una non definibile varietà formale, fatta di entimemi e non di sillogismi, di grandi balzi, di piroette semantiche, salti mortali connotativi che obbligano la mente ad esercizi di stretching immaginativo e possono trasformare ad ampio raggio punti di vista e posizioni, attraverso un’omeopatia della diversità di pensiero e di azione. Oggi in virtù, probabilmente, di una sorta di alfabetizzazione lampo data dalla fruizione, spesso in verticale, di una enormità di contenuti, si concretizza quella che nell’agiografia veniva vista come miracolosa “scienza infusa”. Cos’è la “scienza infusa”? Beh, di fatto un fenomeno paranormale, un miracolo che permetterebbe, a coloro che ne beneficiano, di possedere l’intera conoscenza da un momento all’altro, il dono delle lingue e dei codici disciplinari di ogni materia conosciuta. Bene, la rete permette un’infarinatura, o se non altro, una simulazione di sapere e di conoscenze che creano mitologie non più “del quotidiano”, soglia toccata dai reality, ma “mitologie nel quotidiano”. Si tratta allora di vedere se questa inversione di tendenza realizzi un miracoloso recupero sulla
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banalità raggiunta negli ultimi stadi dei media passivi, caratterizzati da dinamiche persuasive dell’interruzione (pubblicità all’interno dei programmi), creando attraverso i social network un nuovo pubblico che non è più spettatore, ma attore attivo, che crea modi e regole di fidelizzazione e soprattutto criteri di partecipazione. Queste sottocomunità di follower, tuttavia, accanto ad alfabetizzazioni lampo,creano altresì la percezione della partecipazione, mettendo seriamente in discussione il criterio di presenza, del “qui e ora”. Lo si riscontra negli eventi dove il criterio di partecipazione oramai è dato dal semplice “cliccare” partecipo, mentre il “forse” stabilisce una sorta di solidarietà,supporto e dichiarazione di stima agli organizzatori, pur implicando una sicura non partecipazione attiva. Questa simulazione della partecipazione, accanto all’ostentazione delle relazioni, porta a nuove modalità e percorsi di legittimazione che non presuppongono più la “pubblica relazione” ma si inverano anche attraverso il semplice contatto e crescono e maturano attraverso il consenso. Si creano veri e propri processi di fidelizzazione, gruppi di reciproco supporto che compensano sempre più il precedente “bisogno di visibilita” che spingeva ad una vera e propria “mania televisiva”. La visibilità social soddisfa maggiormente il bisogno di attenzione e di stima del singolo che modula la propria identità a poco a poco, misurando e prendendo gusto nel costruire, un post dopo l’altro la propria personalità unica ed irripetibile. Tuttavia in un cyberspazio in cui la regola sta diventando infrangere la norma, rendersi originali, speciali non prevedibili e propositivi, cosa resta all’artista? Forse la ricostruzione della banalità, il recupero del valore di un tempo ozioso, ma nonpassivo, la riscoperta della noia come un necessario stand by per creare lo scarto necessario all’effetto meraviglia. L’artista potrebbe altresì prendersi carico della ricostruzione di “comunità” e non communities, dove misurare la familiarità e non il consenso, dove praticare il confronto e non l’automatica condivisione, dove la stessa ammissione del conflitto e del fastidio ribadisce il nostro “essere umani”. Ma soprattutto potrebbe essere una grossa scommessa arrivare all’ammissione condivisa di un vuoto da rifondare su corpi reali, su sensibilità presenti e sulla necessità di una credibilità ermeneutica volta ad un tentativo di progressione cognitiva ed emotiva. Annalisa Cattani
L’identità non può essere rivelata. Solo l’incertezza può destabilizzare lo sguardo e proporci una narrazione nuova, anche irritante. Offuscare l’immagine ufficiale e mettere in scena un’immagine altra, immersa nel mondo irreale, postata, condivisa, è pratica comune. La possibilità di un’altra vita è ipotesi ammaliante. Piera Cavalieri
Intorno al progetto “other identity” Il progetto messo in campo dal fervore creativo e organizzativo di Francesco Arena sembra a prima vista una delle consuete istallazioni permutative basate sulla reciprocità dei mezzi oggi considerati più d’attualità: immagine fotografica, video arte, sperimentazione musicale, produzione di flussi multimediali, sperimentazioni transdisciplinari, mescolanze interattive che hanno a che fare con facebook, twitter e altri canali comunicativi: tutti mezzi mirati a restituire la dimensione sinestetica del volto corporeo dei linguaggi. Il tema intorno a cui convergono le diverse anime del progetto non sembra discostarsi dal complesso ambito (costantemente esplorato dagli artisti degli ultimi decenni) che riguarda le riflessioni intorno agli slittamenti dell’identità, processi strutturati per mettere in crisi i modi di auto-rappresentazione. Il fatto è che Arena – grazie alla versatilità del suo temperamento intellettuale- è in grado di filtrare i condizionamenti del “già sperimentato” riuscendo a documentare “altre forme di identità culturali”, un ampio panorama di ricerca che restituisce in modo problematico i mutamenti del presente in atto.
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Attraverso la fluida aggregazione di opere-operazioni caratterizzate da differente tensione fisica e psichica emergono molteplici alterità, automatismi, reazioni, ossessioni, abnormità, narcisismi, pose e miraggi autoreferenziali. Si tratta di movenze che producono stati di eccitazione della propria immagine attraverso il volersi situare al di là dei significati imposti dal sistema culturale, affermazioni di vitalità che si dilatano nella grande scena polisensoriale in cui ogni artista si espone al cosiddetto sociale andando oltre la riconoscibilità del ruolo che il mondo chiede all’individuo. Other identity è allora uno stato di espansività interattiva dei linguaggi creativi che acquistano significato attraverso la connessione simultanea delle differenti soggettività, mai perdendo di vista il fatto che questa spinta sarà tanto più forte quanto più profondamente emergerà la coscienza del proprio essere in relazione con gli altri, sintomo di un contesto in continuo divenire. Pur non conoscendo nel dettaglio il tenore degli interventi sollecitati e selezionati dall’artista-curatore Arena, sembra che la questione dominante non sia solo legata all’identità policentrica dei mezzi e delle strategie spaziodinamiche, ma all’energia immaginativa che la dimensione “altra” è in grado di suggerire come adesione permutante allo spirito problematico del progetto. Per fissare i sensi controversi di questa differente e agognata identità, il progetto espositivo desidera soprattutto verificare le patologie e le enfasi comunicative che lo sostengono, non la celebrazione tecnocratica delle sue metamorfosi, in fondo già abbastanza scontata, piuttosto lo spazio delle ambivalenze e delle ambiguità che gli artisti esplorano come sospensione della soglia tra il soggetto e il mondo, limite indefinibile tra l’io e l’altro da sé. Claudio Cerritelli
Il discorso, che posso, che sento di formulare è certamente sotteso al mio agire artistico, da quando sin da ragazzo incontrai l’esperienza speculare di Urs Luthi, adottando il travestimento come modalità operativa delle mie performance. L’assetto identitario come una sorta di fiume carsico ha attraversato e attraversa tutto il mio lavoro. Ma vorrei fare alcune considerazioni oltre il mio agire, ma al tempo stesso strettamente connesse ad esso. Non penso l’identità come a una struttura solidamente definita da un assetto egotico, anzi credo che l’io sia una forma fuorviante, una sorta di vuoto riempito e costituito dalle macerie delle innumerevoli identificazioni immaginarie succedutesi nel corso del proprio tempo. Intanto il profondo paradosso è l’osservarsi, allo specchio o in una foto, credendo di essere ciò che l’immagine altra ci rimanda, procedendo così in una sorta di assuefazione immaginaria che ci spinge a credere di vederci. Naturalmente questo vedere genera una ambiguità sostanziale: noi crediamo che gli altri vedano ciò che di noi vediamo, ma essi non vedono ciò che noi crediamo di vedere, così se si dovesse usare una metafora fotografica direi che veniamo sempre un po’ mossi. Ciò che mi colpisce è che attualmente proprio questo meccanismo è enfatizzato da una moda definita selfie. Ad ogni occasione possiamo fotografare la nostra immagine nel contesto esperienziale che stimo vivendo, confermando-ci la nostra presenza ad essere in quel luogo, per poi inviare in tempo reale l’immagine agli altri, così da attuare una duplice strategia identitaria: mi fotografo= sono in quel luogo; invio la mia immagine = creo la testimonianza dell’altro al mio esserci. Dunque la proliferazione dell’immagine di sé diviene la compulsiva attestazione del mio esistere e la domanda che tale mia esistenza sia riconosciuta dall’altro. Oltre tutto mi sembra significativo che, specie nei social network, l’immagine di sé sia sempre più contestualizzata in un ambito ordinario, banale, rassicurante, come se la quotidianità più insignificante possa in qualche modo contenere e non disperdere quell’assetto immaginario nel quale fingo (non certo coscientemente) di riconoscermi. Maurizio Cesarini
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Siamo sulla soglia, dopo quasi un millennio dato dalla centralità del D’IO stiamo approdando ad uno spazio che definirei Re-Public, per cui Other è la perfetta sintesi; restiamo ancorati all’IO oppure sperimentiamo il diverso, spostandoci dal nostro punto di vista centrale? Rossana Ciocca
Se l’identità (intesa come visione che una persona ha di quello che è, delle proprie caratteristiche fondamentali, che la definiscono come essere umano) é in parte plasmata dal riconoscimento o dal mancato riconoscimento o spesso da un disconoscimento da parte di altre persone. Il riconoscimento che va conquistato attraverso lo scambio è una tipica preoccupazione dell’era che viviamo e fb in questo senso dimostra di riflettere in modo semplificato ed esplicito. Si crea una “self-validation “ riconoscimento ed approvazione che come concetti sono tutt’uno con l’autostima. L’età anagrafica è un parametro che bisogna definire perché si rapporta al processo di definizione della propria identità, dal latino IDEM….Io stesso. Esistono all’interno dei social dei condizionamenti reciproci e bisogna saper guardare attraverso chiavi di lettura ad hoc. Le identità dei social sono evidentemente reali nel senso che hanno reali conseguenze per le vite degli individui che le hanno costruite. Rale e virtuale sono quindi due facce della stessa medaglia che si sovrappongono e completano in una soluzione di continuità. In questo senso per le singole persone può divenire importante che il racconto di sé che propongno sui socia sia poi coerente con le vite che realmente vivono. I comportamenti online in un contesto non anonimo possono avere per la loro natura conseguenze sulla vita offline. Attraverso fb le persone fanno quindi -una dichiarazione d’identità-, quella che Walker chiama “ pubblica dichiarazione d’identità”. Questa impostazione lascia ad ognuno la possibilità di scegliere una narrazione corrispondente al vero oppure, al contrario, contenente elementi inesatti o finti. Da questo punto di vista facebook si presenta come luogo in cui la fragilità dell’individuo può trovare rifugio. identità_fragilità_aspettative = destino individuale. Tutto ruota sulla dialettica del riconoscimento. Anna d’Ambrosio
Unonessunocentomila. “Ho scritto t’amo sulla sabbia e il vento a poco a poco se l’è portato via con sé”. Questo celebre verso dei poeti Franco IV e Franco I ha segnato il 1968 più o meno come “C’est ne qu’undebut, continuons le combat” che nello stesso anno evidentemente veicolava dei contenuti diversi. L’Io dilagava sospinto dall’Esistenzialismo e dal boom economico imperante in Europa anche se lo Strutturalismo stava cercando di portare un po’ di oggettività nelle scienze umane. Claude Lévi -Strauss, Louis Althusser, Jacques Lacan o Michel Foucault ci hanno provato a far scomparire le insopportabili identità soggettive dalla mappa della cultura. L’Écoleduregard di RobbeGrillet, Marguerite Duras e Michel Butor aveva portato la letteratura sulla soglia dell’occhio fotografico: si descrive senza aggiungere aggettivi, si cerca l’oggettività dello sguardo per confrontarci con la realtà. Basta commenti e considerazioni personali. Un po’ come il Gruppo 0 in Germania o i nostri Gruppo N e Gruppo T avevano tentato di spingere l’arte verso la scienza, per venir fuori dai pastrocchi dell’Informale. Eliminare o limitare la soggettività è stato l’impegno di generazioni di intellettuali e artisti, scrittori e palafrenieri delle avanguardie logico-matematiche.
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Tutto vano. Negli anni Ottanta l’Edonismo reaganiano e il Pensiero debole hanno distrutto tutto. Gli artisti si sono messi a dipingere nella loro soffitta, i poeti hanno ripreso a interrogarsi sul proprio ombelico, le avanguardie si sono dissolte come nebbie mattutine, svelando un’enorme Montagna di zucchero in cui ognuno poteva trovare gratuitamente la propria identità con la propria faccina e il proprio pensierino della giornata. Tutti devono volersi bene ed essere amici e tutti possono esprimere pareri su tutto più volte al giorno, anche la notte e quando si è in bagno. Un universo di unicità si moltiplica più volte al giorno, l’Esserci o Dasein trova la sua iperbole nel selfie, passato e presente coincidono in un’eternità provvisoria, si lavora sempre non si sa per chi e sempre si sta in vacanza, tutti sono al centro dell’attenzione di tutti senza inutili pudori, gli specchi non riflettono più nulla perché ci pensano i devices, la realtà è un immagine in 3D. Spegnate la luce quando uscite. Valerio Deho
Il senso di Sé Radici senza memoria gelano nel mobile caos; immagini, profili, aggiornamenti di stato, siamo incantati e intricati in una rete di apparenti miracoli. È necessario vedere, riflettere, agire. Mirare l’occhio e il cuore all’essenziale. Avere senso, dove è il senso, cosa significa agire con-senso e, soprattutto, siamo davvero convinti di conoscere il nostro senso, il senso di Sé? Possiamo essere qui e altrove eppure non siamo in nessun luogo, viviamo ma non sentiamo e senza sentire ci disperdiamo convinti che il virtuale sia reale, ma la realtà di senso ci sfugge. I sedicenti “ruoli” si moltiplicano senza sapere, volere, valore, si finge a se stessi con-piacimento; un like, due like e via… una vita di like che però non piace. Ci si convince che un profilo sia un’identità, si vive in un ‘non senso’, ci si modifica nell’immagine, nello stato, nella continua presenza di un’assenza, si cerca nel vuoto pensando che sia pieno eppure, se soltanto volessimo incontrare noi stessi e gli altri da noi, basterebbe quel senso di Sé, quel sentire dentro ciò che realmente è fuori. È necessario osservare attentamente e praticare se stessi, nell’azione consapevole si allena la memoria e nella memoria ritroviamo la nostra identità, il senso delle cose, di ciò che siamo, riscopriamo il senso della vita stessa. Non è nella contemplazione che possiamo conoscerci bensì nell’agire. Essere consapevoli delle azioni ma, ancor più, consapevoli di essere e sentire profondamente che spetta soltanto a noi, e a nessun altro, dare un senso alla nostra vita. In tale percorso l’Arte è un punto d’inizio per parlare dell’enigma del senso, della ricerca del senso nell’esistenza umana; l’Arte ci offre la possibilità di “decodificare” quel senso di Sé del quale abbiamo semplicemente dimenticato la Sacra Origine. Amalia Di Lanno
Le nozze del sé Progetto di Critica Performativa di Isabella Falbo sul lavoro di Francesco Arena “Other Identity”. Altre forme di identità culturali e pubbliche, 2015/16. L’intervento di Critica Performativa Le nozze del sé risponde visivamente al lavoro di Francesco Arena e al suo progetto curatoriale Other Identity, che indaga il tema della auto-rappresentazione del sé al tempo dei social networks, attraverso i lavori fotografici e performativi di 29 artisti internazionali. Il progetto espositivo di Arena nella sua totalità è visto dal critico Isabella Falbo come amplificazione del lavoro dell’artista; l’intervento di Critica Performativa “Le nozze del sé” si sviluppa dunque sull’intera mostra e non sul singolo artista. La Critica Performativa è scrittura che si trasforma in immagine, occhio critico che diviene corpo critico sulla
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scena, ibridazione tra pensiero interpretativo, performance e moda. L’intervento di Critica Performativa “Le nozze del sé” risponde visivamente al progetto espositivo “Other Identity” di Francesco Arena evidenziandone specificità e concetti attraverso una fashion performance che pone la riflessione sulla costruzione identitaria e sulla spettacolarizzazione della propria immagine nella ricerca del vero sé. Se non sei nel web, non sei nessuno: oggi la costruzione e la comunicazione dell’identità personale e professionale parte dallo spazio elettronico e digitale di Internet. La profezia “In the future everyone will be world-famous for 15 minutes” (In futuro ognuno avrà il suo quarto d’ora di celebrità) che Andy Warhol, icona della Pop Art americana, lanciò nel 1968, è stata negli ultimi dieci anni completamente metabolizzata da tutti, metamorfizzando, attraverso l’uso indispensabile dei social, il processo di identificazione e comunicazione del sé. Se tradizionalmente il viaggio nella costruzione della propria identità è affidato alle esperienze personali e la sua comunicazione consegnata ai segni vestimentiari creati dalla moda ufficiale, amplificata dalle controculture o dall’estro personale, oggi è indissolubilmente legata ai social e, il riflesso che decidiamo di dare di noi stessi al mondo attraverso la nostra immagine, riverbera di quello che ci creiamo attraverso i post su Facebook, Twitter, Instagram, ecc. A volte le due identità - reale e virtuale se ancora così si possono differenziare - coincidono con imprudente fedeltà, altre volte sono indipendenti, l’uno avatar dell’altro. La pratica del selfie è il compromesso più attuale tra chi realmente siamo e chi vorremmo essere; la facilità di creazione e di condivisione ha facilitato la conquista del “diritto all’immagine di sé”; L’uso dilagante di questa pratica di autorappresentazione appare come una verifica al diritto di esistenza che risuona come un urlo muto ai meccanismi del consenso. Per gli artisti, il percorso verso l’indagine del sé è privilegiato poiché, coincidendo con un processo creativo, è terapeutico. Gli artisti di “Other identity” utilizzano tutti la macchina fotografica come mezzo d’espressione, image makers le cui pratiche artistiche partono dalla realtà dell’immagine e portano a visioni dell’immaginario che da collettivo diviene privato (Francesco Arena; Carlo Buzzi; Mandra Stella Cerrone; Massimo Festi; Anna Guillot; Sebastian Klug; Beatrice Morabito; Giulia Pesarin; Giacomo Rebecchi; VioletaVollmer); pratiche artistiche che attraverso l’indagine del proprio corpo portano all’osservazione della propria psiche (Roberta Demeglio; Boris Eldagsen; Anna Fabroni; Teye Gerbracht; Barbara Ghiringhelli; Teresa Imbriani; Natasa Ruzica korosec; Lorena Matic; Chiara Scarfò) ed a una messa a nudo dell’anima (Pamela Fantinato; Giovanna Eliantonio Voig). Tuttavia, anche la verità dell’immagine più naturale è un gioco di maschere. Il titolo “Le nozze del sé” dell’azione di Critica Performativa di Isabella Falbo, riferisce all’unione mistica tra Anima e Animus da cui nasce l’interezza del nostro Sé, arrivando così a comprendere chi e cosa in realtà noi siamo. Solo da un percorso di crescita personale di questo tipo potremo costruirci la nostra vera identità. L’azione di Critica Performativa Le nozze del sé si sviluppa su tre livelli: Primo livello: Vuole mettere in evidenza la specificità del progetto espositivo basato su pratiche artistiche fondate sull’utilizzo del mezzo fotografico. - In scena una macchina fotografica posta su un treppiede scatta automaticamente scandendo un tempo veloce e scolpendo un ambiente sonoro. Le immagini fotografiche sono visibili in diretta in un maxi schermo posto nella stessa sala. - Francesco Arena entra in scena nella sua veste di artista ed incarna il suo ruolo. Appropriandosi della macchina fotografica resta in scena per realizzare quello che diventerà un nuovo progetto (opere di critica performativa). Secondo livello: Vuole mettere in evidenza il concetto della costruzione identitaria attraverso l’apparenza e ap-
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partenenza sociale e pubblica, poi comunicata attraverso i social. Inoltre,questo livello dell’azione risponde al progetto espositivo “Other Identity”evidenziandone diversi elementi convergenti con aspetti specifici della Critica Performativa: L’identità di genere, intesa non strettamente nel senso di maschile/femminile ma in senso lato e contestualizzata come artista/critico. L’identificazione del sé: come critico performante Isabella Falbo si pone come nuovo soggetto ibrido che si posiziona nel mondo dell’arte (nuova forma di identità); la Critica Performativa è occhio critico che diviene corpo critico, transitum, in cui l’identità del critico è chiamata di volta in volta in causa attraverso un corpo sempre vestito che si carica di significati attraverso l’elemento vestimentario. (nuova forma d’identità in continua trasformazione). - Il critico Isabella Falbo entra in scena (apparentemente) nuda (con un andamento da passerella), metafora dell’identità di genere: quella sessuale. Porta con sé segni vestimentari. - Si ferma davanti alla macchina fotografica. - Indossa gli indumenti e gli accessori. (Questa presenza vestita sulla scena diviene simbolo dell’identità prodotta dalla cultura umana frutto di un persistente rinforzo sociale e culturale, ri-creata quotidianamente. Introduce la “Fashion performance”, poiché è attraverso l’uso dei segni vestimentari creati dalla moda che può avvenire la prima costruzione e comunicazione identitaria basata sull’apparenza, e il concetto di identificazione del sé, come percorso per ri-trovare noi stessi, chi e cosa in realtà noi siamo, individuato come leitmotiv che lega le poetiche di tutti gli artisti coinvolti.) - Entra in scena una modella vestita (con un andamento da passerella). - Si ferma davanti alla macchina fotografica. -Si spoglia e lascia cadere i segni vestimentari che indossa rimanendo(apparentemente) nuda ma il corpo è vestito perché coperto di tatuaggi. (Questa presenza sulla scena diviene simbolo della messa in gioco dell’identità prodotta dalla cultura umana frutto del persistente rinforzo sociale e culturale, che può essere sostituita con il vero modo di essere, la parte autentica che c’è in ognuno: la propria idea del vero sé.) - Francesco Arena fotografa ogni stadio di queste trasformazioni in cui emerge l’archetipo dell’identità che si acquista e si perde a ripetizione. - Il critico e la modella escono dalla scena In questo secondo livello la Critica performativa rappresenta visivamente come attraverso il vestirsi/travestirsi si cominciad indossare un’identità, ci si crei un’apparenza/appartenenza sociale e pubblica. È un gioco di maschere: ogni persona per vivere socialmente attua consapevolmente una serie di mascheramenti sorretti dal modo di vestirsi di atteggiarsi, di consumare. L’identità è un uroboro, un serpente che si mangia la coda. Pone riflessioni sulla questione dell’utilizzo dei segni vestimentari, mezzi creazione ma anche di omologazione identitaria; il corpo tatuato come espressione e amplificazione della propria personalità. Terzo livello: Attraverso un altro aspetto specifico della Critica Performativa che è quello di coinvolgere il pubblico (per suscitare in esso una interpretazione attiva dell’opera d’arte), in questo terzo livello Le nozze del sé traspone visivamente i concetti indagati da Other Identity del privato che diviene pubblico sui social network e la spettacolarizzazione della nostra immagine attraverso il pubblico/fruitore che, sotto il nome di “amici” e “followers”, diviene elemento essenziale. - Il critico entra in scena. Dietro procede la modella, di seguito gli artisti (in fila come nelle sfilate) - Ciascuno si ferma un attimo davanti ad Arena per un autoritratto, cercando di indossare la propria maschera migliore, diventando autore di sé stesso. - Questi autoritratti appaiono nel maxischermo
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- Nel frattempo il critico andrà verso il pubblico, invitando anch’esso ad entrare sulla scena al fine di posare per un autoritratto che documenti il tentativo di “assomigliare quanto più possibile all’idea astratta che hanno di loro stessi”. Isabella Falbo
“La cultura fa riferimento alla capacita” degli uomini di trasmettere il senso della propria esistenza “ e le Identità diventano culturali quando le varie esistenze che le compongono si aggregano, diventano pubbliche, Other Identity, conservando ciascuna la propria peculiarità artistica ed umana soprattutto. L’Arte del Comportamento è parte integrante di queste Identità culturali con i suoi vari linguaggi, Angelo Pretolani afferma in un suo scritto “ ogni video vive di vita propria, concepito non come semplice documentazione di una performance ma come prodotto autonomo capace di viaggiare in parallelo all’esperienza performativa.” Accanto all’Artista viaggia anche il profano spettatore, quasi all’unisono. Anna Fiordiponti
Un tempo erano i pittori e gli scultori, poi i fotografi, a definire le identità dei personaggi ritratti. Bernd e Hilla Becher dichiararono a proposito della celebre serie fotografica di August Sander Uomini del XX secolo: “Sander era un magnifico ritrattista che rispettava sempre il soggetto e ne riconosceva il ruolo. […] Accettava il soggetto proprio nel ruolo che aveva scelto di interpretare”. Ora sono i social media che ci restituiscono quotidianamente, in maniera spesso pervasiva, i volti (e le identità) della nostra epoca. Il ritratto fotografico generalmente non dovrebbe documentare solo quanto incluso nell’inquadratura, ma anche l’occhio, l’indole, la curiosità, la cultura del fotografo. Nella travolgente marea di immagini che ci sommerge, il cortocircuito tra soggetto fotografato e fotografante si salda invece sovente nella reificante riproposizione di stereotipi fisici e caratteriali del nostro tempo. Ma in realtà anche questa valutazione suona semplicistica e stereotipata. Il tutto e il contrario di tutto possono forse essere elaborati solo ricorrendo ad alcune keywords: ritratto; autoritratto; distacco; empatia; candidcamera; album di famiglia; travestimento; mutazioni; presenza; assenza… Matteo Fochessati
Accendere il pc, collegarsi ad un social network e iniziare a veder scorrere sulla pagina davanti a se nuovi selfies …Ma il Tizio qui davanti non si era già fotografato ieri davanti allo specchio mentre mostrava orgoglioso la sua nuova T-shirt? Oggi, perché si mostra sdraiato sul letto? Ma chi è costui in realtà? Uscirà mai di casa? Ah si! Giorni fa si è fotografato all’interno dell’ascensore mentre faceva una linguaccia, simpatico! Ma lui non è il solo. Chiunque abbia uno smartphone ed un profilo social, si è scattato almeno una volta un selfie. Un selfie è il risultato di uno scatto fotografico facile da realizzare, poco importa se la foto non è messa a fuoco in modo ottimale o scattata con una luce equilibrata.. si può anche sbagliare ma si è comunque protagonisti. Il selfie è alla base della comunicazione sociale, il vero scopo di un autoritratto è la condivisione immediata di un’esperienza momentanea; una voglia improvvisa di comunicare agli altri cosa si sta facendo, provando, pensando, indossando, tramite uno scatto in grado di influenzare il modo in cui gli altri ci vedono. Questa meccanizzazione del gesto creativo attraverso il mezzo fotografico dà la possibilità a tutti di apparire migliori, di avere un’immagine ricercata e di mettersi alla pari con chi utilizza con maestria l’arte della fotografia per esprimersi. Visto però che una fotocamera in mano, come detto, ormai ce l’abbiamo tutti, bisognerebbe lavorare su noi
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stessi per imparare a fornire agli altri un’immagine il più sincera possibile di chi siamo. Ma non solo! Sarebbe esteticamente più interessante “impegnarsi” e condividere dei ritratti più decorosi, meno kitsch ed ammiccanti al limite dell’improbabile. Sfruttiamo al meglio la nostra nobiltà low cost. Patrizia Gaboardi
Alcuni giorni fa su un social network girava un’immagine di Narciso che si specchia in un telefono cellulare. Il quadro originario era quasi sicuramente di Caravaggio, sottoposto ad un’operazione di “ready-made”, che da “L.H.O.O.Q”, la Gioconda di Marcel Duchamp, alla Pop Art, alle più recenti invenzioni della pubblicità ha decontestualizzato e modificato opere celebri ed oggetti d’uso. Interventi di questo genere non scandalizzano più nessuno, ma nella sua semplicità l’immagine di Narciso che si specchia nel telefonino codifica una situazione che è sempre più evidente. Il diffondersi della macchina fotografica incorporata in altri strumenti ha reso la fotografia una pratica quotidiana, che consente di documentare azioni e persone in passato non sempre protagoniste. Fuori dal circuito dei fatti memorabili dell’esistenza della persona media, nascite, matrimoni, compleanni il dispositivo fotografico pare essere entrato in un circolo vizioso, destinato a cogliere momenti di assoluta normalità che diventano prove da set cinematografico. Non è soltanto il Narciso liberato ad alimentare i molteplici quindici minuti di celebrità di warholiana memoria, ma un intero apparato mentale, nel quale viene costruita quotidianamente un’altra identità. L’uso continuo e generalizzato della fotografia, manifestazione di quella che Guy Debord ha definito la società dello spettacolo, genera una sovrapproduzione di immagini spesso banali o addirittura agghiaccianti, per il loro corrispondere ad iconografie predefinite dell’immaginario medio, o per il mettere in scena momenti che appartengono semmai ad una sfera privata. In questo trionfo della normalità e del conformismo mediatico, la fotografia come linguaggio artistico rivisita a volte immagini passate, spezza la quotidianità comune, incrocia la pittura rivitalizzando con un processo inverso il riferimento delle origini, ripropone tecniche e dispositivi più antichi, dal foro stenopeico all’analogico, guarda il mondo e la società con un occhio attento, critico, ma anche malinconico. Medium usato, a volte abusato, la fotografia si rivela sempre più il mezzo per la ricerca di un’identità che può percorrere molte strade, nella speranza che nei molteplici incroci con la tecnologia trovi in fondo allo specchio la conoscenza. Alessandra Gagliano Candela
Sul concetto di autorappresentazione ai tempi dei social media Il persistente martellamento compulsivo di testi e immagini, al e dal quale pochi umani contemporanei riescono ormai a sottrarsi, se non al prezzo di un’alienante quanto tormentosa e in fondo miserevole astinenza dal consumo di social media, sembra ineluttabilmente destinato a moltiplicarsi a dismisura. Il fattore che progressivamente incalza a siglare una differenza rispetto al passato – quando autori e lettori rimanevano perlopiù distinti lungo i fianchi di un confine piuttosto netto – è invero quello della commistione: chi scrive e chi fotografa sono le stesse persone che poi leggono e osservano. In effetti, felicemente inaugurata dall’ascesa della tecnologia, una sorta di democrazia del fare aveva concesso a ciascuno tutti gli strumenti e le competenze basilari per inventare, elaborare, comporre, costruire; salvo poi degenerare – specialmente con l’avvento dell’era digitale – in un’anarchia espressiva caotica e beffarda, neutrale fino all’indifferenza. Insopportabile, troppo umiliante, in un siffatto mondo di autori, rimanere eclissati tra la folla crescente per poi
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sprofondare in un inappellabile anonimato; quasi nessuno sa difendersi dalla tentazione di alzare la mano, e a farsi strada è un’anomalia del gusto per cui non sparire è preferibile anche al prezzo di un apparire banale o mediocre. La contagiosa moda di dire comunque la propria – sia abbozzando parole per dar vita a liberi pensieri, sia raffigurando se stessi in divertite pose – ha per esito il generico sovrapporsi, sull’effettiva esigenza di informazioni, di un egotismo tendenzialmente futile e artificioso, e il frequente sconfinare di un sano e produttivo orgoglio narcisistico in forme embrionali di vanità schizofrenica. Un atteggiamento altamente selettivo è dunque irrinunciabile: non potendolo ottenere da chi scrive e da chi scatta – prima, durante o dopo aver letto e osservato – è legittimo aspettarselo dagli operatori dell’informazione e dell’arte, in occasione di raccolte o di mostre che intendano proporre, con verosimile utilità sociale, quei segmenti di eccellenza comunicativa senz’altro esistenti: da scovare con prudente cura, soltanto, nel torbido guazzabuglio dei post e dei selfie pioventi a dirotto. Carlo Gallerati
Con la tecnologia sempre più avanzata che abbiamo, tutto cambia a velocità una volta inimmaginabile ed ora divenuta realtà. Di vantaggi ce ne sono tanti basti citare l’Internet che ci dà la possibilità di comunicare in tempo reale in qualsiasi parte del mondo. La fotografia ha subito dei cambiamenti radicali. Chiunque oggigiorno può fotografare e fare una bella foto. Quello però che contraddistingue un’artista è che l’artista dà un’impronta riconoscibile in tutto il suo lavoro in maniera consistente. Personalmente il mio modo di pensare cosa costituisce un fotografo è cambiato con l’avvento del digitale. Per me la camera oscura era sacra, parte integrante e necessaria per creare un’immagine. Se uno non fosse stato in grado di stampare per me non era un fotografo. La quasi morte di tutto quello relazionato a creare una fotografia: camera oscura, carte fotografiche, viraggi è stato rimpiazzato da un mondo digitale dove c’è anche la possibilità di avvalersi di stampatrici o macchine fotografiche facili da usare, basti solo pensare ai telefonini. È stata una rivoluzione di apportarci alla fotografia che da un lato la considero una grande perdita perché il digitale non riesce a creare quello che la fotografia analogica riesce a darci. Uno dei grandi vantaggi di quando la fotografia fu creata era la capacità di dimostrare I fatti di quanto fosse avvenuto, poco a poco con alcune tecniche di cui solo alcuni se ne avvallavano si era create la possibilità di alterare un’immagine e il digitale ha reso possibile e accessibile un totale cambiamento. Basti pensare alle donne virtuali costruite in Photoshop, alla facilità di eliminare rughe, difetti di pelle, rendere una persona magra, grassa. C’e una capacità e facilità di alterare un’immagine e proiettare quello che si desidera. Ci sono vantaggi positive e negativi. A ognuno sta trarre le somme. Francesca Galliani
I Selfie antropomorfi del Sé L’arte contiene le varie stratificazioni dell’essere nelle varianti possibili dell’archeologie dell’esistenza. Ma che cosa è l’essere riprodotto da un artista nell’immagine stessa che si riproduce ? I media hanno variato decisamente i modi di concepire e di assimilare la vita. Questa mostra dal titolo esaustivo: “Other Identity” pone in evidenza come i mezzi di comunicazione hanno reso la vita diversa dove la distinzione nella logica stessa relazione di creare pensiero e anche il metalinguaggio espressivo. La fotografia agli albori del novecento impose all’arte nuovi modi e frontiere concettuali. Duchamp cambiò l’aspetto oggettuale dell’opera nella concezione. Ma oggi si pensa forse di più in maniera veloce al giocatore francese Duchamp. In tal modo si comprende il rapporto anche memorico del virtuale. Velocità, comprensione, pulsione, evasione, negazione, volere, ambire, comprendere e talvolta mancanza di pensiero di valutare
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di distinguere. Autorappresentazione possibile, desiderio di essere ancora, di amare, di autorappresentare. Oggi si avverte il bisogno reiterato di essere nel virtuale possibile, in ogni attimo dell’essere, in nuove forme sempre riprodotte di iconografie speculari del se. L’essere umano trova la sostanza di se stesso in nuovo io monade brechtiano in nuove dinamiche psicoanalitiche. Warhol comprese questa esigenza riformulando l’istante interpretato dal virtuale. L’istante diviene arte. La fotografia rappresenta oggi il modo per comprendere i vari fenomeni di trasformazioni culturali in nuovi terminologie e linguaggi. Una mostra che confronta temi e stili diversi per comprendere la realtà possibile in cui viviamo, l’epoca cosi veloce, le orbite lente, le distanze, le carrucole, le nostre identità invecchiano ed è bello rimanere nello spazio dell’istante. Roberto Garbarino
Non parlerei di come è cambiata l’immagine di noi stessi, ma della facilità del modo di presentarci, autorappresentarci con la nostra immagine, enfatizzata dalla tecnologia e dai social network, trasponendo ciò che era il dramma dell’uomo moderno, considerando l’uomo moderno mi riferisco alla nascita dello Stato borghese, epoca in cui nascono peraltro i primi studi di psicoanalisi ovvero Sigmund Freud e la scuola di Vienna. Ciò richiama il concetto di maschera, coscienza, individualità e soggettività. Quell’antico dilemma che accompagna l’uomo, l’uomo borghese in senso sociologico e non socio-economico, il conflitto tra il proprio Io e la maschera ovvero il vestimentum che indossa nelle esplicazioni della sua individualità all’interno della società, enfatizzato da ruoli privati o professionali, divise invisibili o reali. Il buon uomo, la buona donna, il politico, il giudice e così via, forme di un essenza inesistente, un universo, un abisso. Questo resta, è atavico all’umanità, come resta e si è consolidata la psicoanalisi, divenendo una scienza più sofisticata per chiarire, riordinare, classificare e curare vari tipi di umanità. Quanto a chi scrive ho sempre ritenuto che la filosofia e soprattutto l’etica fosse un ricco thesaurus per assolvere alla medesima finalità e codesta è strettamente connessa all’estetica, all’analisi critica e sistematica del bello o meglio dell’idea del bello. Perché parlo di tutto ciò? Ciò deriva dal duplice profilo con cui si osserva l’altro, l’altra identità, tema raccontato da questa rassegna fotografica e soprattutto dagli altri. Finora mi sono concentrata sull’altro, sulla sua maschera che può esser o meno enfatizzata dal singolo individuo. Come? Semplicemente con le sue auto-rappresentazioni, i famigerati “selfie” (parola inglese che equivale all’autoscatto fatto con uno smartphone, che sovente è immediatamente trasferito sui social network). Sorrido pensando che questa parola, la quale diventa un gesto - di cui anche io non sono immune, anzi spesso me ne avvalgo, unendo ironia, provocazione e condivisione, uno dei valori fondanti della mia individualità e del modo in cui considero la vita - ne richiama un’altra, “selfish” che in inglese vuol dire “egoista” e fa pensare ad altro. A cosa? A un ego che cresce a dismisura, una percezione di sé che si eleva e dà vita al fenomeno contemporaneo del narcisismo di massa. Un gesto, l’autoscatto, il cui lontano, vetusto parente, é l’autoritratto dell’artista, che - diversamente da quest’ultimo - si esaurisce nello stesso, portando anche l’illusione o peggio la presunzione di essere creativi. L’arte è elevazione di pensiero e la fotografia o meglio ciò che rende la fotografia un’arte non è il suo essere un mero contenitore di memoria, di ricordi, ma è consapevolezza, capacità di guardare e di guardarsi. Nella “selfie attitude” della stragrande maggioranza degli individui, codesta manca oppure lo sguardo di coloro che si ritraggono è lontano e privo di quell’introspezione con cui l’artista osserva sé stesso, gli altri e il mondo che lo circonda. La capacità di “insight” ovvero di guardarsi dentro vedere e riconoscere ciò che si è, iter foriero di un pensiero autonomo e di una autentica consapevolezza di sé è l’antitesi del narcisimo di massa, il quale nasce da una distorsione della percezione di sé, priva di alcuna consapevolezza, fuorché quella esteriore, seppure esasperata.
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Tutto resta in superficie e la superficie diventa non più contenitore, ma presupposto, fondamento di un contenuto che non c’è, corollario di un vuoto che dilaga, un nichilismo sterile e improduttivo, privo di critica e di dinamismo intellettuale, quello contemporaneo. Nunzia Garoffolo
Narcissus-pseudonarcissus Alle origini della possibilità di una duplicazione fisico-chimicadel corpo umanoe delle “cose stesse” la fotografia fu definita come “uno specchio dotato di memoria”. La memoria, il ricordo erano ancora concepiti solo come memoria volontaria, accumulo sufficientemente ben organizzato di eventi vissuti lungo un asse temporale e orientati da una intenzionalità. Si era quindi ancora lontani dalle intuizioni di Proustsulla memoria involontaria, dal flusso di coscienza teorizzato da William James e applicato da James Joyce soprattutto nel Finnegan Wake, de “La Lettera rubata” di E. A. Poe (che sarà decostruita in un famoso seminario di Lacan), dall’esperienza dello shock di Benjamin. In realtà di questa famosa citazione bisognerebbe mettere a fuoco meglio più che la memoria l’immagine dello specchio, evocato probabilmente dalla superficie translucida dei primi dagherrotipi. Quella lastrina di rame argentato, spesso inserita in un prezioso contenitore, implicavala fascinazione del doppio, del Doppelgänger, dell’ombra, nel soggetto fotografato e eidetizzato dalla lunga posa. Al di là della velocità e rapidità performanti, il dagherrotipo e in generale le prime forme tecniche di immagine fotografica sono quanto di più simile si possa rintracciare nella lunga storia della produzione di immagini del sé, cioè della propria identità. Nel piccolo, baluginante e fosforico display di un cellulare o nelle immagini dilatate e sempre più perfette dei videogames e di tutti gli altri strumenti di comunicazione interpersonale si produce una memoria effimera ed istantanea si un soggetto che si autodistrugge in quanto tale in pochi secondi. Il soggetto immette nella rete in tempo reale le informazioni più varie e/o irrilevanti credendo di contribuire ad allargare sempre più le maglie di un modello social, una complicità solidale e condivisa, una sorta di mathesis universalee di illusione utopica e amichevole. Tutto questo per quanto orgasticamente e compulsivamente il dito digiti non corrisponde allo statuto reale dei media per due semplici motivi, il primo perché, come ci hanno insegnato, il media è il messaggio stesso e il secondo, più brutalmente, perché semplicemente il Soggetto non esiste. Certamente esiste nel senso comune come corpo più o meno ingombrante ma il suo paradigma è plausibile solo all’interno di un sistema dualistico, in un sistema cioè che separa l’ordine della natura da quello del simbolico, modello che parte da Platone e arriva fino alla rivoluzione fenomenologica di Husserl. In una società sempre più omologata che fornisce identità possibili quasi a comando e che paradossalmente cerca di recuperare la perdita del Mito attraverso produzioni cinematografiche e televisive, una società “liquida”, secondo una definizione troppo abusata ma efficace, il soggetto banale, l’everyone non può essere che un bricolage di brandelli di vita insignificanti, schegge di esperienza non pienamente compiuta, prodotto dell’autocombustione dell’Es e della sua organizzazione, può ricostituirsi parzialmente solo ponendosi come monade se pur un po’ ammaccata. Il rapporto stabilito da Lacan tra inconscio e linguaggio per cui “l’inconscio funziona come un linguaggio” e l’altra tesi che sia il linguaggio a parlarci e non noi a usarlo come un qualunque strumento più o meno neutrale trova il suo fondamento in quello che lo stesso Lacan chiama “la fase dello specchio” cioè il periodo della primissima infanzia in cui si costituisce il primo nucleo, quasi un’archeologia, di quella che poi definiremo come identità
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personale. Il discorso è molto complesso e non è facile orientarsi nel linguaggio del famoso analista i cui scritti tra l’altro sono ricavati direttamente dai seminari che teneva ogni mercoledì alla Sorbona. Al di qua quindi della relazione che egli stabiliva tra il Moi e il Je, quella identità per cui io arrivo a pronunciare orgogliosamente il pronome personale “Io” funziona in realtà come un sistema di differenze e di opposizioni esattamente come nel linguaggio si identifica il fonema come l’unica unità fonica minima dotata di valore autonomo e distintivo. Come già sosteneva Saussure il linguaggio, tutto il linguaggio, non è altro che un sistema di differenze. Abbiamo sottolineato semplicemente la funzione costitutiva del linguaggio in relazione all’inconscio e al desiderio, torniamo ora all’assunto principale di questo intervento. Nell’uso complessivo e sostitutivo del vissuto reale che si fa dei nuovi media, il “Je est un autre” di Rimbaud acquista una nuova verità e diventa il “ Je est lesautres”. L’identità tradizionale, quella nata con la cultura borghese dell’Io padrone del proprio destino implode totalmente. Il paesaggio esterno coerentemente diventa quello di Metropolis di Lang o meglio di BladeRunner di Spielberg o di “Total recall” di Whiseman, film che hanno in comune l’utopia negativa di un mondo popolato da esseri-macchina, ubbidienti ed eterei, cui solo la memoria e la fotografia permettono il raggiungimento di uno stato di coscienza e quindi di rivolta. Si consuma definitivamente quella separazione dualistica di cui avevamo parlato e si avvia quella del macchinismo immaginato dall’illuminismo più radicale da Lamettriesino a Sade, solo che questa volta l’uomo-macchina è in versione immateriale, un replicante che esegue ciecamente o almeno acriticamente. Attraverso l’uso intensivo e la dipendenza accelerata del mezzo la cui funzione costitutiva di un doppio ideale assomiglia sempre più, almeno metaforicamente, allo specchio di Lacan. La complessità dell’ego si sfalda e si riversa nelle sue performances e nel suo behavioure si viene analizzati solo in funzione dei propri comportamenti esterni, prescindendo completamente dall’articolazione di una forma interiore che per comodità chiameremo ancora personalità o sentimenti. Regredendo quasi ad uno stadio infantile e mitico l’utilizzatore terminale dei nuovi media non percepisce l’icona o il fantasma come separati da lui, si confonde con il suo involucro esterno e nello stesso tempo si adegua all’immagine speculare che lo fronteggia come doppio idealizzato, come Super io. Come diceva Derrida la vita diventa “l’origine non rappresentabile della rappresentazione” di un mondo non più dualistico ma monistico,la sua unica filosofia possibile e gli umani, in maniera apparentemente delicata, si rinchiudono in quelle bolle trasparenti che troviamo nel mondo visionario di Jeronymus Bosch. Il quadro che ho cercato di tracciare non è certo quello che viviamo oggi ma è pensato sui tempi più dell’antropologia che della storia, un accumulo progressivo ed entropico in cui l’organico e il meccanico diventeranno inscindibili, una realtà futuribile ma non impensabile e di cui cominciamo a scorgere i primi elementi di una futura “archeologia” come direbbe Foucault. Se è vero che è la vita ad imitare l’arte, il suo immaginario però è già oggi ampiamente rintracciabile nel cinema, nella letteratura, nella musica e nel continuo mescolarsi dei vari linguaggi artistici e comunicativi. Concluderei con questa affermazione di Claude Lévi-Strauss tratta da un seminario dedicato all’identità e pubblicato già nel 1977 “ le nostre piccole persone si avvicinano al punto in cui ciascuna deve rinunciare a considerarsi come essenziale per vedersi ridotta a funzione instabile e non a realtà sostanziale, luogo e momento egualmente effimeri, di concorsi, scambi e conflitti cui partecipano, da sole e in una misura ogni volta infinitesimale, le forze della natura e della storia, supremamente indifferenti al nostro autismo…..” L’antropologia appunto….. Carlo Garzia
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Sì, guardarsi con insistenza allo specchio significa anche apporre modifiche al proprio aspetto – significa aspettarsi di più anche da sé stessi. Può essere faticoso. E irrealistico. La costruzione di un Sé pubblico non è solo marketing personale, né solo strategia di comunicazione, ma pure decostruzione di un Sé precedente, più ordinario, e produzione di un Altro da Sé, più fantasioso. In tale percorso si insinua un verme solitario, un germe di schizofrenia. Ogni Dottor Frankenstein diviene – lentamente o velocemente – una Creatura di Frankenstein. Può essere persino divertente. E addirittura realistico. Come un horror movie con buoni effetti speciali, che ora spaventa e ora diverte. Ferruccio Giromini
Mi guardo attorno e vedo maschere e la cosa peggiore è che sono praticamente tutte uguali, spesso stereotipi insignificanti - e questo nel quotidiano. Nell’arte, l’uso del corpo oggi è molto spesso soltanto teatro di infima categoria. Caterina Gualco
Assolutamente interessante...indagare il gioco dei ruoli concede una parte ludica al lavoro che riflette un sentimento di “legittima difesa”, meno divertente, ma totalmente affine. Arte sa affrontare analogia e differenza in unica immagine...potere di un colpo d occhio muto. Romina Guidelli
Lo specchio social continua a riflettere/ci, senza Cocteau, ~ogni lato del nostro prisma che modifichiamo, ~ nel pendolo meteoropatico dell’evento. Monumentalizziamo arcaicamente i font, ma gli evidenziatori gialli, non hanno il tasto Blue like. Il memo e il meme, si mescolano nei NOfilter digitali. Hastgghiamo senza il Perec quotidiano e, non cataloghiamo più i nostri libri trascorsi. Emogiglifici descriviamo stati gourmand e, come gli egizi veneriamo i gatti. Ogni Still è un life & un live, nell’edit del profilo. Tutittimo, rituittiamo, citiamo il tuit del villaggio e, cosi notifichiamo il nostro account. Tutto emerge, tutto ci appare, ma non ventimila leghe sotto il web dove restiamo ancorati nell’umano sottomarino, del nostro profumato esistere. Chiara Guidi
Leggo in rete: “La ‘selfite’, rivelerebbe una mancanza di autostima e lacune nella propria identità, tali da portare poi il soggetto a compensare l’immagine di sé attraverso la presenza artefatta e accurata sui social network”. E... ebbene sì, sono alla fermata dell’autobus, “scrollando” le pagine del mio strumento di contatto con “il resto del mondo”, il mio vecchio e fedele iPhone, dopo essermi fatta un selfie in una posa da “faccia memorabile delle 6.30 di un lunedì mattina”. Un ragazzo e una ragazza, di fianco a me, ridono accoratamente, lui indicando a lei lo schermo del suo smartphone, dicendo: “Hai visto che figata il selfie che ho postato stamattina?”.
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La mia colonna vertebrale è scossa da un tremito...: “La ‘selfite’, rivelerebbe una mancanza di autostima e lacune nella propria identità... “. Uhm... non c’è da occuparsene, mi dico, si tratta solo dell’incessante trasferimento di InFormAzioni... le mie, le tue, le nostre, le vostre e... le loro. E tu? Che cosa hai postato oggi? Parole, immagini, suoni... idee, impressioni, stati d’animo?... “A cosa stai pensando?”. Flavia Lanza
In principio fu la televisione. L’oggetto del desiderio per eccellenza. L’oggetto come specchio del soggetto. Il cilindro da cui estrarre i desideri, le storie, le buone abitudini che ci volevano famiglie felici in un paese felice. Un universo proiettivo, immaginario, simbolico. Una scena da guardare, da imitare. Una scena che è un filo diretto con l’esterno, con il mondo con cui instaurare un rapporto di conoscenza attraverso la “ visione”. Ma lo schermo cambia, la tecnologia aiuta, in questo. Lo schermo diviene scena attiva… c’è la rete, una sorta di fibra secante che abbatte le barriere spazio-temporali, le distanze e và, al di là di ciò che è materialmente possibile. Le nostre vite sono totalmente controllate da un flusso smisurato di informazioni che ci riguardano, dal conto online, alle relazioni social, all’e-commerce. Noi siamo in Rete, noi siamo la Rete. Il che vuol dire che siamo ben oltre i “quindici minuti di notorietà” profetizzati da Andy Warhol. Esistiamo in balia di ciò che il filosofo francese J. Baudrillard definisce ”estasi della comunicazione”.Viviamo attraverso i social, nelle fitte maglie della comunicazione contemporanea, come animatori della gabbia di controllo che ci rende protagonisti e prigionieri allo stesso tempo. È come se fossimo in una cabina di regia in cui decidere cosa rendere noto di noi, cosa pubblicare, cosa modificare. Il rapporto con la nostra immagine, inevitabilmente, è regolato dall’apparire in un certo modo, virato, modificato, tagliato. È come vivere in un set televisivo, fotografico. Rispetto al telespettatore passivo, finalmente siamo registi della nostra vita vissuta in immagini pubbliche. Di quelle immagini che vogliamo ci rappresentino all’esterno. Anche se spesso, l’io reale, sfugge al lavoro di allestimento di scena. Ma la cabina di regia, non è forse una scatola, un guscio in cui l’altro da noi vede il sé, rimanendo, inevitabilmente imprigionato da una serie di filtri posti tra noi e la realtà? Primo tra tutti il medium utilizzato. Allora siamo soli o social? Siamo l’idea di noi o altro? Ed allora se in principio era la televisione, la fine sarà l’illusione? La realtà dissolta nel più reale del reale, i simulacri? E se questa abnorme comunicazione ci avesse sprofondato in una saturazione di senso dove la verità è in opposizione all’illusione, e quest’ultima fosse percepita come più reale, del vero….? E allora chi salverà la realtà? I nobili oppositori dei social? O essi stessi saranno inghiottiti dall’anonimato di chi non ha “immagine”? O finiremo nel semplice oblio di una memory card, di un hard disk che tra qualche decennio risulterà illeggibile. Amelì Lasaponara
Tutti abbiamo un destino comune. Siamo collezionisti di illusioni evocate che si irradiano a distanza fino a significare qualsiasi cosa. Ci piace, insomma, masturbarci con infedeltà multiple di noi stessi. Marla Lombardo
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Anni fa, durante un esame di Antropologia Visuale preparato in un paio di giorni (e di notti insonni), dissi esser stata molto colpita dal parallelismo fatto dall’autore del testo tra la rappresentazione di sè della tribù del nord Africa nelle foto anni ’60 e i simboli della classe sociale di appartenenza presenti nei primi ritratti dei mecenati borghesi, i mercanti fiamminghi. Ero stata affascinata da come quei quadri ritraenti il personaggio in abiti e situazioni quotidiane fossero in realtà costruiti secondo dei canoni molto rigidi: nessun oggetto, nessun gesto era lasciato al caso. Ogni elemento, perfino l’espressione, era un simbolo deciso dal committente per dichiarare la sua posizione socioeconomica. Altrettanto attenti ad ogni dettaglio risultavano i membri della tribù africana: l’antropologo ci forniva la dettagliata descrizione del rapporto tra la loro posa e il loro abbigliamento e il ruolo nella loro società. Alla fine non presi il massimo dei voti poiché, a quanto pare, questo parallelismo era stato inventato da me di sana pianta sul momento. Con la crescente diffusione dei social network, mi ritrovai a pensare molto spesso a questo episodio di fronte a ogni foto pubblicata online. Non riesco a frenarmi dal dissezionare ogni immagine negli elementi che la compongono e studiare il rapporto tra intenzione del soggetto/reale messaggio trasmesso, assegnandoli il G.S.C. - Grado di Credibilità del Selfie. Questo atteggiamento nel tempo mi ha portato addirittura a stimare la coerenza di alcuni personaggi “superficiali” che vivono solo della loro immagine, il loro duro impegno nell’infallibile autorappresentazione, tanto più stimabile quanto più lontana dalla realtà effettiva. Trovo banale l’accusa di falsità mossa ai social network, d’altronde le classiche biografie dei grandi personaggi non sono tutte romanzate? Piuttosto proporrei uno studio di questa “falsità”: abbiamo a portata di mano una vastissima quantità di dati non elaborati aggiornati in tempo reale degli “ideal self” di ognuno. Proposta di autoanalisi: scorrere le proprie foto e chiedersi il motivo che ci aveva indotto a pubblicarle, il rapporto tra la situazione rappresentata e il contesto reale in cui sono state scattate. Karolina Mitra Lusikova
“La possibilità di mostrarsi corrisponde alla possibilità di annullarsi. Poter essere un corpo, una presenza in un luogo, dove esiste solo ciò che quel luogo, quel corpo, raccontano. E puoi nascondere ferite, ricordi, cicatrici. Puoi fingerti altro, un essere che beve un cocktail in un bar molto figo, protetto dietro al velo della superficialità, che non racconta niente, che si ciba di presenzialismo. Posare significa mentire. Mentire significa essere vili, ma anche proteggere. Dire mezze verità, non mostrare cedimenti, debolezze. Non farsi cogliere impreparati. Appaio, mi spoglio, e sparisco. Esiste solo il desiderio di me, senza il peso di quel che sono. Di tutto quello che c’è, intatto, dall’altra parte del seno.” Luciana Manco
I nuovi media? Una importante possibilità per la comunicazione assimilabile come rivoluzione/evoluzione all’invenzione dei caratteri mobili di Gutemberg. Poi ogni uno si travesta come meglio crede perché l’umanità lo fa dalla notte dei tempi in quanto soggetto/oggetto del proprio creare e sempre in relazione al grado di tecnologia di cui dispone e/o ha disposto durante il lungo cammino evolutivo. Se non ci fossero bisognerebbe inventarli. È l’Uomo mutevole e mutante, bellezza! Angelo Marino
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Seguire la storia della posa fotografica nel Novecento segna l’andamento di un IO in perenne conflitto tra istinto (individuale) e ragione (sociale). Oggi, da quando è quasi scomparso il concetto di stampa cartacea in ambito fotoamatoriale, l’istinto soggettivo si è spostato sul piano sociale (sembra che il mondo intero sia contaminato da una frenesia ossessiva per fissare rapsodici frangenti di sé), mentre la ragione fotografica guida ormai solo alcuni su un piano strettamente selettivo e, quindi, individuale. Viviamo dentro un’onda elettronica inarrestabile che avrà esiti di temporanea catarsi, al punto che le necessarie evoluzioni passeranno per alcune apparenti involuzioni nostalgiche (il vinile che cresce di produzione ne è un perfetto esempio). L’istinto sociale procede velocissimo e plasma la visuale sul mondo, i movimenti posturali, le nuove patologie ma anche le sistematiche modellazioni del Genoma postduemila. La ragione non è mai stata così… individuale. Gianluca Marziani
Sui muri di Berlino, nell’ormai lontano 1994 potevi leggere un manifesto che recitava così: “Il tuo Cristo è ebreo. La tua macchina è giapponese. La tua pizza è italiana. La tua democrazia greca. Il tuo caffè brasiliano. La tua vacanza turca. I tuoi numeri arabi. Il tuo alfabeto latino. Solo il tuo vicino è uno straniero” Queste sarcastiche parole risuonano attuali, ora più che mai... Viviamo il tempo della «modernità liquida», prendendo in prestito le parole del sociologo Bauman, in cui vengono a mancare le antiche certezze di Stato-nazione, famiglia, lavoro e l’individuo non ha più garanzie di appartenenza. Ognuno fa parte di comunità guardaroba, che funzionano a tempo, stanno assieme fino a quando qualcuno non decide di riprendersi il suo abito e uscire di scena. È un mondo in cui la strategia del carpe diem diventa quella vincente.Oggi, trovare un’identità, un’appartenenza diventa sempre più difficile e altrettanto più necessario. In un momento storica in cui il villaggio globale ipotizzato da McLuhan negli anni ’60 del secolo scorso diventa sempre più reale, ecco che, tramite l’avvento del satellite, che ha permesso comunicazioni in tempo reale a grande distanza, il mondo è diventato “piccolo” assumendo, di conseguenza, i comportamenti tipici di un villaggio. In questo contesto il linguaggio iconico diventa gergo internazionale e la comunicazione di massa si fonda per l’appunto sull’iconicità di questa lingua. “Other Identity” - altre forme di identità culturali e pubbliche – è un grande progetto, “un lavoro” cui prendono parte artisti che sviluppano i temi dell’autorappresentazione del sè, dell’immagine pubblica e di quanto siano cambiati questi concetti con i nuovi linguaggi introdotti dai social media. L’identità non è un dato anagrafico e naturale, è piuttosto un processo di costruzione, lungo, elaborato e mai finito. «L’identità è un grappolo di problemi piuttosto che una questione unica - dice Bauman e ci si rivelano unicamente come qualcosa che va inventato piuttosto che scoperto; come il traguardo di uno sforzo, un “obiettivo”, qualcosa che è ancora necessario costruire da zero o selezionare tra offerte alternative, qualcosa per cui è necessario lottare e che va poi protetto attraverso altre lotte ancora». Il social network consente di controllare e definire la propria identità sociale e quella dei propri amici. La fusione tra mondo reale e virtuale produce un’«identità fluida», allo stesso tempo flessibile ma precaria, mutevole ma incerta. La realtà attuale finisce per trasmetterci incertezze e paure: «Sembra di vivere in un universo di Escher, dove nessuno, in nessun punto, è in grado di distinguere una strada che porta in cima da una china discendente… ». Gli artisti di “Other Identity” investigano, attraverso la tematica identitaria, diversi discorsi: in primis coniugano la tradizione del ritratto, di matrice rinascimentale, con lo studio del medium e non solo del messaggio veicolato dallo stesso, inoltre si propongono di creare qualcosa di esteticamente pregnante. Credo che quest’ultimo punto sia fondamentale. In una società sempre più always on, perennemente connessa a una rete telematica satura di immagini com-
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merciali, la necessità è proprio quella di vedere immagini NON commerciali. È urgente il bisogno di uscire da un’estetica mirata al sollecito del solo consumo per abbracciare produzioni artistiche atte a stimolare il pensiero. Indagare l’identità fluida, oggi, significa fare un atto di coraggio, fermarsi, guardarsi indietro ma senza smettere di camminare in avanti...riflettere...ripensarci come singoli, ragionare su di noi, sul nostro presente e, soprattutto, su ciò che stiamo diventando per capire, assorbire, attutire e goderci tutto ciò che accadrà. Chiara Messori
“Non fidarsi delle apparenze” dicevano i nostri vecchi, una volta. Immaginiamo se questi ultimi fossero ora fra noi... sarebbe tutto un “lo avevo detto”, “vedi? avevo ragione...”. Si perchè siamo stati traghettati dalla generazione di “essere o avere” a quella di “apparire o non apparire”. E le apparenze ingannano. Eccome se ingannano...Tutto è ego. Spropositato, immenso... La generazione del “sempre connesso”, sta mettendo davanti e sopra tutti la comunicazione. E non sempre tutto ciò è positivo... Diciamocela tutta, cosa ce ne frega se la casalinga di Voghera ha cucinato il pollo in fricassea? Nulla, ma lei lo posta su fb e tutti siamo in qualche maniera coinvolti in questa evoluzione culinaria, Così per il colore delle unghie, la vacanza premio o la nuova automobile... Per non parlare dell’arte e della fotografia... Ma se per quest’ultima basterebbe rimettere in circolazione solo macchine con la pellicola e l’80 % dei fotografi mediocri in circolazione sparirebbero in un men che non si dica, con la pittura la cosa è diversa... Qui l’80 % dei neo artisti non solo produce cose inutili ma le fa anche male! E allora? si sopperisce con il selfie. Carino simpatico, divertente... e così si arriva ad apprezzare cose che mai avremmo pensato anche solo di prendere in considerazione solo perchè l’autore “ci sa fare”. Insomma la comunicazione fai da te che da i suoi risultati... E che risultati. Ma non è tutto negativo, anzi! In rete si trovano talenti, virtuosi e innovatori. Basta saperli cercare... qualche consiglio; 1) evitare le pagine con troppi selfie, torte e cagnolini/gattini; Gli autori troppo spavaldi nonostante le evidenti carenze. Il “famolo strano” andava bene per Verdone, farlo “strano” in arte non è sinonimo di “buona” ate; 3) ricordarsi, ogni tanto, che ci si può anche scollegare e dire le cose guardandosi negli occhi senza il filtro della webcam... per il resto è tutto positivo, anche l’arte ! Roberto Milani
Autoreferenziale, autocelebrativo, il selfie è diventato virale. Causa o effetto del mondo globalizzato in cui viviamo? Nel mondo dei consumi e dei mutamenti continui della società contemporanea, tra virtuale e reale, sembra essere diventato la nuova chiave di interpretazione per svelare e chiarire i nostri momenti di vita, stati d’animo, felicità, speranze, ma anche le nostre perplessità, i nostri dubbi e le nostre incertezze. Nuovo mezzo di comunicazione? Indice di fragilità del nostro io in cerca di unità, di continuità con l’altro che è in noi e con gli altri? Originale modalità di ricerca dei nostri desideri più profondi? Oppure pura e semplice acquisizione tecnologica e psicologica? Miglioramento dei nostri livelli di libertà di movimento non solo nello spazio ma anche nel tempo? Arduo trovare le giuste risposte ora, importante però analizzare e cercare di interpretare questo nuovo fenomeno di massa e i suoi possibili sviluppi in relazione ai meccanismi dei media, in relazione alla transitorietà e precarietà dei rapporti umani e alle incertezze economiche e geografiche di vaste aree della popolazione mondiale. Lorenzo Mortara
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Via con la pazza folla Gli strumenti del comunicare influenzano il comportamento sociale nelle grandi e piccole cerimonie della storia pubblica e privata che si svolgono in diretta e in cui il tema dell’identità s’impiglia in piccole storie di infinita alterità. Vi è una tendenza di ricerca che è andata intensificandosi nel corso degli ultimi decenni, fino a divenire una materia della riflessione degli artisti, sulle tipologie di identità e sulle forme culturali che insistono sulla fragilità e aridità dei sentimenti e sul fallimento della comunicazione fra gli individui in una società perduta nella veloce estraneità del mondo. Qual è il senso del vivere in una società dominata dal bisogno bulimico dei selfie? Eternare la propria presenza incorporea, come un messaggio in bottiglia nello stagno domestico (dove il tempo mitico delle pose di Narciso, teso ad afferrare se stesso, si tramuta in una serialità svuotata di identità). L’istante in cui guardiamo noi stessi, un’immagine come nostro doppio incorporeo, porta con sé la certezza di sapere che si sta osservando qualcosa che chiunque può osservare. Noi, attraverso i mezzi di comunicazione contemporanei, siamo “chiunque” e ci immergiamo nella pazza folla come pubblico di noi stessi. Le nostre immagini non sono più di natura individuale anche se hanno un origine interiore. Esse hanno interiorizzato il concetto di folla, e noi siamo abitati da immagini collettive che ci lasciano capire che non percepiamo il mondo soltanto come individui, ma su un piano collettivo che sottomette la nostra percezione relativa a un’attuale forma temporale. Ormai il fenomeno è così diffuso, la costruzione apparente dell’identità attraverso i media un processo inarrestabile e maturo, che possiamo anche non essere consapevoli, quando partecipiamo a questi riti, delle implicazioni e, tuttavia, ancor di più si rafforza in noi la sua wirkung (l’effetto collettivo), come se l’immagine esistesse in virtù di una facoltà propria. In epoca post-coloniale le immagini scatenano conflitti. A un primo livello di soggettività pubblica, politica e democratica, le immagini stanno conoscendo una fase cruciale dagli esiti incerti e dove il banco di prova è rappresentato dai risvolti che la tragica vicenda di Charlie Hebdo lascia presagire. C’è poi un secondo piano, prettamente individuale che si autodetermina in un post-umano in cui il corpo è un limite facilmente superabile nella riconfigurazione della chirurgia plastica. Fuggiamo dal nostro corpo e ci rifugiamo nell’incorporeo dell’immagine. “Immanenza e trascendenza del corpo trovano conferma per noi attraverso le immagini alle quali imponiamo questa controtendenza. I mezzi digitali odierni cambiano la nostra percezione – così come tutti gli altri mezzi tecnici prima di loro – eppure questa percezione rimane ancora legata al corpo. Soltanto nelle immagini ci liberiamo al posto dei nostri corpi, verso i quali dirigiamo uno sguardo a distanza. Gli specchi elettronici ci raffigurano così come vorremmo essere, ma come in realtà non siamo. Ci mostrano il corpo artificiale che non può morire, facendo sì che le nostre utopie si avverino in effige” (H. Belting, Antropologia delle immagini, Roma 2013, p. 35). Ivana Mulatero
Crearsi un’altra identità è una forma di infantilismo, siamo adulti bambini alle prese con un nuovo giocattolo: il social network. Quando gli adulti-bambini si annoiano diventano cannibali. Sono capaci di nutrirsi solo della vitalità altrui e proprio per questo non si percepiscono. E siccome non si percepiscono non possono vivere, e sono avidi soltanto dello sguardo o del like altrui, come i vampiri hanno bisogno del sangue degli altri. Le persone che non hanno percezione di se stesse sono in fondo molto noiose e quindi prendono in prestito un’immagine che non appartiene loro ma che rimanda a ciò che è accettabile nel mondo dei media. La percezione che l’uomo ha di se stesso è molto più interessante della comprensione e dell’analisi del suo essere. Ecco perché andiamo alla ricerca della percezione che hanno gli altri di se stessi e non del loro vero essere. Maya Pacifico
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Premetto che non sono la persona più adatta a scrivere di ritratto e identità in tempi di social network se non altro perché ne so poco e niente. La mia frequentazione di Facebook è saltuaria e distratta, non ho un telefono che si connetta a internet o sia in grado di scattare foto decenti, ho una vaga idea di cosa siano Instagram e Whatsapp, ma soprattutto non amo essere social, cioè in generale non mi interessa far sapere ad altri quello che faccio e che non faccio. Non ho insomma quell’esigenza di condivisione, di comunicazione di me attraverso l’immagine, che mi sembra lo stimolo principale per la proliferazione delle identità digitali. È un problema mio. Nonostante ciò, penso che sarebbe quanto meno interessante capire quali sono le conseguenze iconografiche di una continua incontrollata proliferazione di autoritratti che non ha precedenti. Comincerei mettendo da una parte tutti quelli che sono gli emblemi di sé inscritti nel cerchio e nel quadrato delle profile picture. I visi sorridenti con un braccio sulla spalla dell’amico/a opportunamente tagliato fuori, i paesaggi di mare e i tanti tramonti, le immagini del soggetto neonato o del di lui/lei figlio/a, gli innumerevoli cuccioli e animali vari, le citazioni, gli avatar, per non parlare dei simboli legati a manifestazioni di solidarietà, fede politica, calcistica eccetera. Da un’altra parte metterei invece i selfie, le immagini che celebrano l’attimo con i calici alzati, confermando il presente prima che scompaia nell’oblio del passato attraverso una continua storicizzazione dell’istante, mostrano turisti festaioli gesticolanti e occhieggianti come tanti emoticon, oppure collezioni di genuini appunti diaristici dai luoghi più disparati, persino il proprio bagno. Successivamente, organizzerei tutto questo materiale per elementi ricorrenti e originalità discordanti e cercherei con attenzione e curiosità quanto è replica di un modello assimilato, variazione, idea originale, trasgressione degli stereotipi, provocazione. Alla fine avrei compilato un atlante, inevitabilmente provvisorio, dove probabilmente sarei in grado di identificare i germi di nuove iconografie specifiche del medium, delle quali forse riuscirei anche a tracciarne l’evoluzione secondo variabili legate all’età degli autori, la loro estrazione culturale, la provenienza geografica... Sarebbe un lavoro divertente e intrigante che molto probabilmente qualcuno ha già fatto, ma che in ogni caso ignoro. Se non mi sono lanciato nell’impresa però è perché ho la sensazione che l’analisi approfondita di tutte queste immagini con perizia tassonomica mancherebbe quello che in fondo credo dovrebbe essere l’obiettivo ultimo della ricerca: la descrizione dell’idea di identità nell’epoca dei social media. In un suo saggio sul ruolo sostanziale dell’abbigliamento in diverse culture pubblicato nel suo libro Stuff (2010), l’antropologo Daniel Miller sottolinea come le nostre indagini siano viziate da una certa “ontologia della profondità”, dalla convinzione cioè che la superficie nasconda sempre una verità da cercare nel nucleo più interno di un oggetto. Il fatto è che l’autoritratto di oggi, come il vestiario di cui si è occupato Miller, non può essere liquidato come questione superficiale, né rappresenta l’espressione di una realtà profonda, il segno, l’equivalente, il medium della sua rivelazione. Gli autoritratti, i selfie, le profile picture sono semplicemente l’identità del soggetto che senza sosta si autodefinisce per gli altri nell’artificio più o meno consapevole della costruzione della propria apparenza. E tutto questo funziona un po’ come le pellicole di una cipolla che alla fine sono la cipolla stessa: chi le separa e rimuove convinto di trovarne il nucleo originario rimarrà a mani vuote. Massimo Palazzi
I dispositivi per la produzione d’immagini, oltre a manifestare il narcisismo di chi li utilizza, andrebbero impiegati per un’indagine identitaria della macchina, del regime percettivo “altro” che la caratterizza, il solo ormai in grado di restituire una visione del mondo aggiornata. Luca Panaro
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Il vuoto Erano perennemente imprigionati nel malinteso di come bisogna saper vivere. Avevano mai osservato i folli ai bordi delle strade? Per loro la vita si confondeva con la sopravvivenza, nessun confine tra ragione e sentimenti, nessun limite alla libertà di provare qualsiasi emozione che gli passasse per la testa. Erano vivi, vivi davvero, mentre loro che avevano pensato di avere tutto restando semplicemente immobili non avevano nulla, neppure la libertà, avevano creduto al concetto di libero arbitrio, di scelta, di eventualità, ma erano solo schiavi di convenzioni e di stereotipi e di quel mondo fatto solo di aria e puntini sgranati. Si affannavano attraverso uno schermo trasparente a navigare in mondi privi di fondamenta, mondi che da lì a breve si sarebbero sbriciolati come castelli di sabbia. A quel punto l’oblìo. L’abisso senza fine. Soli con se stessi, senza inganno e senza trucco e l’immagine che avrebbero avuto da quello specchio trasparente fatto di pezzi fasulli di vita sarebbe stato il vuoto, semplicemente il vuoto. Sabrina Paravicini
“...cerco di smerigliarmi ora e sempre come appaio e mi sveglio continuamente e in maniera frammentariamente composta sempre cercando di non smerigliarmi per altre porte&vie che si aprono con l’aprirmi al giorno che è già inoltrato...’’ “...se acconsento ora alle mie continue richieste non posso non rischiare di aprirmi ad/in imprevedibili modalità che potrebbero minare la mia più che smodata identità e quindi cadere e compormi in visi mani pezzi che ucciderebbero il colore faticosamente conquistato dopo l’adorazione in bianco e nero di anni gioiosamente di contrasto assoluto di sfumature delicatissime di grigi...’’ Claudio Parentela
È questa l’epoca del controsenso, nella quale la tecnologia ha portato la velocità e il tempo reale nelle comunicazioni e mai come ora si hanno lacune cognitive, non c’è mai stata una simile stolida indifferenza verso l’enorme archivio che abbiamo fra le mani, le informazioni e i media non sono mai stati altrettanto superficiali e limitati nel tempo. Il fatto che esista un grande sfogatoio visivo e sonoro come il web (o qualsiasi apparecchio digitale) ha impigrito la memoria collettiva e individuale: puoi avere tutto a portata di mano quando ti serve, perché riempire la nostra mente di cose? Molto meglio viaggiare con una testa vuota che possa connettersi a un cloud emozionale e mentale solo se e quando richiesto dalle situazioni. Ecco quindi lo scomparire delle identità e il nascere di involucri umani con intelligenza in remoto, senza emozioni slegate da situazioni concrete, senza desideri che potrebbero interferire con il nulla pneumatico e potrebbero differenziare gli involucri umani. Si ricerca questa identità (e originalità) perduta con segni, marchi, acquisti, status symbol che al contrario ribadiscono la completa abdicazione del libero arbitrio in favore di qualcosa (o qualcuno) che possa tracciare la nostra faccia, il nostro profilo, i nostri gusti. Nella fotografia, l’avvento del digitale ha portato tutti a scattare milioni di foto inutili, perché lo spazio di archiviazione è pressoché illimitato: dove prima bisognava effettuare delle scelte perché le foto a disposizione erano una ventina a seconda del rullino, ora non c’è limite all’inquinamento visivo, che ha trovato nel web un formidabile veicolo che non soltanto è iperveloce, ma ti arriva a casa. L’identità perduta ha portato migliaia di disperati a cercare spasmodicamente un certificato di esistenza dagli altri: guardate dove sono andato, guardate i miei figlioletti, guardate cosa sto mangiando, guardate cosa mi piace, vi scongiuro mettetemi un “mi piace”, dimostratemi che sto vivendo. L’arte contemporanea, che dovrebbe essere spiazzante e interrogarsi come è sua prerogativa
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proprio sull’identità, ha fatto del multimedia e delle installazioni un ricettacolo di brutture che esistono solo per la sconfinata ignoranza e frettolosità di un pubblico che si lascia guidare nei propri gusti da critici o intellettuali che formano quello che Baudrillard chiamava “Il complotto dell’arte”. Il miope narcisismo della maggior parte di artisti che non si guardano più attorno, che non vogliono confrontarsi con altre identità per paura di perdere la propria (se mai l’hanno avuta) ha collaborato al declino dell’arte contemporanea come antenna che capta prima di altri le frequenze del futuro. L’identità poggia su valori, creatività, indipendenza e desideri: se ci fate caso sono gli elementi in via di estinzione. Claudio Pozzani
Nel considerare l’impatto dei social media sull’identità individuale e sulla sua rappresentazione, credo che sia decisivo evitare discorsi eccessivamente deterministici. I media ci cambiano, non c’è dubbio; ma l’uomo non ha perso il pelo il giorno dopo aver inventato il vestito. Penso ai discorsi che sono stati fatti sull’egotismo dei “millennials”. Non siamo “selfish” perché facciamo “selfie”. Facciamo “selfie” perché chi ha progettato lo smartphone a un certo punto ha pensato che poteva metterci una doppia camera: una rivolta verso il mondo, l’altra rivolta verso di noi. Un prodotto non inventa mai un bisogno: ne intuisce la necessità, per poi estenderla anche a chi non la avvertiva. Sarà che l’autoscatto esiste da quando esiste la fotografia, e l’autoritratto da quando esiste la pittura (o meglio l’idea di autore in pittura); sarà che veniamo subito dopo quello che è stato chiamato The Century of the Self; sarà che tanta gente si contorceva per fare selfie prima che fosse tecnologicamente determinato; sarà che lo schermo ha sempre avuto uno stretto legame con lo specchio. Sta di fatto che ora molti di noi hanno in tasca un oggetto che ci consente di fotografare, archiviare e pubblicare al ritmo a cui respiriamo, o quasi. Sicuramente fotografiamo di più di quando una fotografia era il prodotto di un dispositivo autonomo, che registrava l’immagine su un coso costoso chiamato “rullino” dotato di uno spazio di archiviazione limitato, e che poi andava costosamente “sviluppato” per avere accesso, con un certo ritardo, all’immagine. E certamente, l’accesso universale ai mezzi di distribuzione erode fortemente il limite tra pubblico e privato. Questa è probabilmente la vera novità: nell’era dei social media, l’immagine fotografica diventa un dispositivo sociale. Oggi, ogni volta che metto mano alla fotocamera, ho in mente un potenziale destino pubblico per l’immagine che produco; un destino che in molti casi non si attualizza, ma che è lì, già contemplato nell’atto fotografico. Scatta, migliora, condividi con… uno, nessuno, centomila. Questo significa che siamo diventati tutti modelli in un unico, grande casting? Che la rappresentazione del sé ha perso l’autenticità consentita da media precedenti? Non credo. Non c’è mai autenticità nella mediazione, ci sono solo vari livelli di menzogna. Chiunque sia consapevole di stare per diventare un’immagine, si mette in posa, costruisce la propria immagine pubblica. Racconta. Finge, e nel farlo dice anche qualcosa su di sé. Ritraendoci più spesso, forse impariamo a farlo meglio; e presumendo una circolazione pubblica dell’immagine, sicuramente impariamo a farlo in maniera più consapevole. Domenico Quaranta
L’identità Nell’epoca Della Sua Riproducibilità Tecnica “Il problema dello sfondo sociale nel quale si realizza l’identità dell’individuo” – scriveva Gianfranco Bruno nell’introdurre una mostra significativamente intitolata La ricerca dell’identità, allestita nel Palazzo Reale di Milano sul finire del 1974– “assume impressionante rilievo in coincidenza con l’instaurarsi di meccanismi di vita artificiosamente organizzata. (…) La variabilità del linguaggio espressivo, non riconducibile alla logica cristallizzata dei sistemi sociali, offre allora ipotesi di realtà alternative: nell’ambito vasto che va dal documento d’esistenza o di
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storicità determinata, all’impulso verso un’invenzione del mondo e verso il recupero di un’identità reale”. A quarant’anni di distanza la realtà in cui si calava questo discorso – che peraltro mantiene una sua legittimità -appare profondamente mutata. La caduta delle grandi narrazioni e delle identità collettive che ne portavano l’impronta, da un lato, e il vertiginoso processo d’innovazione delle modalità comunicative dall’altro hanno reso la situazione sempre più complessa, privando l’individuo di riferimenti certi e rendendo ancora più acuta l’esigenza di un’autorappresentazione che al tempo stesso lo assimili al corpo sociale e ne consacri l’unicità. Questa aspirazione, sintetizzata da Andy Warhol nella celebre frase che recita “in futuro ognuno sarà universalmente famoso per quindici minuti”, ha trovato sbocchi popolari nei social networks, in ambienti virtuali come Second Life e nella pratica pervasiva del selfie, fenomeno narcisistico,autoritratto degradato dal solipsismo e intensificato dall’ossessiva ripetizione. Sullo sfondo di una congerie di format televisivi (Grande Fratello e simili) che mettono in scena una visibilità totale e di pratiche come la chirurgia estetica, che traspone il maquillage (o l’applicazione dei correttivi del software fotografico)in un vero e proprio restauro “fisico” della propria immagine. L’arte del Novecento, al pari della filosofia e della letteratura, ha scandagliato l’ambito della crisi del soggetto e del suo disagio esistenziale, con opere capitali che, in questa sede, non è il caso di evocare; ne ha delineato l’atteggiarsi attraverso procedimenti di deformazione, di azzardo, di gestualità impulsiva, di iterazione, di rovesciamento dello sguardo, di frammentazione; ne ha rimarcato la dialettica tra i poli dell’annichilimento e dell’esibizione mediante la simbologia della maschera, l’enigmaticità metafisica,il travestimento, la raffigurazione metonimica, il détournement, la messa in scena del corpo, la riproduzione iperrealista e le suggestioni concettuali. Oggi, se gli artisti “hanno rinunciato, perché costretti” – come osserva Alberto Boatto – “a quella centralità che fino al tramonto dell’Ottocento avevano esercitato nel settore dell’immagine”, mantengono però il privilegio di sviluppare, in una sfera di (pur relativa) libertà, una ricerca che “consiste nel disseminarsi in un essere fluido e errante” - aggiungerei: tanto singolare quanto collettivo –“così da transitare da possibile a possibile, da identità a identità”. Solo per questa via, forse, nel preveggente scenario immaginato nel 1964 da Isaac Asimov per il nostro tempo, dove “l’umanità è gravemente afflitta dalla noia, una malattia che si diffonde sempre più ampiamente, crescendo ogni anno d’intensità”, l’arte potrà continuare il proprio corpo a corpo con gli specchi dell’io. Sandro Ricaldone
Tratto dal testo di Mariella Rossi Una metafora identitaria. I nodi concettuali dedicato a Stefano Cagol, scritto nel 2001 e quindi ben prima della nascita dei social network, ma che risulta perfettamente calzante con l’idea attuale dell’identità. L’arte è anticipatrice! Il testo è stato inserito nella pubblicazione della mostra “All’esedra” a cura di Daniel Marzona, Villa Manin, Codroipo-Udine, 2001 alla quale Cagol partecipava: IMMAGINE Una stretta relazione tra oggetto osservato e soggetto osservatore, che sembrano entrare l’uno nell’altro e fondersi […] tanto da diventare entrambi protagonisti del reciproco “sguardo interpretante” (M. Canevacci, 1995), l’uno commento dell’altro, in uno scambio incessante. IDENTITÀ Immagini che si susseguono senza sconvolgimenti improvvisi, ma sempre diverse, metafora del percorso di appropriazione dell’identità. Viaggio, in costante divenire, fatto non di mete definitive, ma di infinite possibilità che formano “un’accumulazione costruttiva” (D. Sparti, 1996) ed intessono la tela dell’identità […]. Mariella Rossi - Stefano Cagol
L’uomo è un essere complesso e ambiguo, soggetto a pressioni esterne che lo spingono a conformarsi al gruppo, alla società. Spesso “reinterpreta” la propria vita per farla collimare con il sistema, perché ha bisogno di trovare un equilibrio tra la comunità e la propria dimensione individuale. Infatti, quando una persona fa fatica ad identificarsi con la collettività cerca un’altra identità, che spesso è artefatta e a volte anche distorta. Oggi i social
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media hanno un ruolo di prioritaria importanza in questo contesto: veicolano modelli distanti dalla realtà, per lo più basati sul benessere economico, sull’edonismo. Ci si crea un “io” alternativo, una personalità attraente, vincente, un’identità altra sempre più mediata dal sistema. Una volta si parlava di maschere per dissimulare e adattare il proprio modo di essere: una maschera per la famiglia, una per il lavoro, una per gli amici e così via... Tante maschere per affrontare tante situazioni diverse, per presentarsi nella maniera più “socialmente” giusta. Ma, in fin dei conti, nel corso dei secoli ben poco è cambiato. L’auto rappresentazione ha sempre sfruttato i mezzi a lei più congeniali ed è sempre stata al passo con i tempi. La globalizzazione non ha fatto altro che accentuare la necessità dell’uomo di mostrarsi nella maniera che ritiene più adeguata agli stimoli che riceve. Claudia Sensi
Si è potuta vedere la falsificazione intensificarsi e scendere sino alla fabbricazione delle cose più banali, come una nebbia appiccicosa che si accumuli a livello del suolo di tutta l’esistenza quotidiana. Si è potuto veder pretendere all’assoluto, sino alla follia “telematica”, al controllo tecnico e poliziesco degli uomini e delle forze naturali, controllo i cui errori proliferano proprio allo stesso ritmo dei mezzi. Si è potuta vedere la menzogna statale svilupparsi in sé e per sé, avendo così ben dimenticato il proprio legame conflittuale con la verità e con la verosimiglianza, in modo tale da poter dimenticare anche se stessa e sostituirsi di ora in ora. Citare Guy Debord e “La società dello spettacolo” mi pare in assoluto il modo più concreto per analizzare e fermare il pensiero sul groviglio quotidiano dell’immagine. Profetico visionario, il libro legge oggi con lucidità estrema il nostro contemporaneo di cui tutti siamo sucubi, attori ignari e consapevoli. Una grande macchina del falso, l’apologia e l’apoteosi del nulla che ci investe quotidianamente ci ruba il tempo, inghiotte la naturale normalità in una posa filtrata di cattivo gusto innaturale, segmentata dallo schermo. Se qualcosa ci salverà sarà la fotografia, la fotografia contro l’immagine almeno nel suo momento spontaneo, vero non filtrato non sedotto dallo schermo. Stefania Seoni
Del testo a cui mi rimandi e che se ho ben capito è il filo rosso di una mostra, salto la evidenza di una domanda che ha natura sociologica o poco più. Dei media e dei social e il loro agir come frullatori del soggetto ne dicono molti e quasi tutti con ragione. Salto anche di precipitare sul soggetto e la sua rappresentazione: D’altronde quando mai il soggetto è altro da una rappresentazione ? Che sia di Twitter o del Vangelo non importa: cambia il “rappresentante” e ben poco la rappresentazione. Altra questione se il soggetto e l’identità siano rivolti all’opera d’arte. L’arte è forse la più squisita pratica per togliersi dalle scatole il soggetto: sia questo il presunto tema del lavoro di un artista o ancora peggio il suo io. L’arte non entra in questione con il soggetto o l’io o la sua rappresentazione : spazza via tutto invece. Quel che supera un opera non la riguarda. Non sa nulla di te di noi di Twitter o quel che vuoi. A dispetto del maquillage che anche l arte adotta per rendersi forse più masticabile al proprio tempo in realtà non lo avverte. L’arte (e per fortuna ) è sempre (se) la stessa. Nihil sub sole novum. Ivano Sossella
Siamo giunti ad un’identità camuffata, storpiata e fittizia, nonostante l’evidente ed il previdente, nonostante volti e gesti “immortalati”. Quanta presunzione in questi scatti, nascosta da linee ovvie e strarifatte, in tutto questo ondeggiare non si sa dove inizia il vero e dove muore la finzione.
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Siamo milioni di vite, infinite identità mostrate dal mercificare di questa tecnologia, che buttata nelle mani del consumatore diventa arma di finzione. Pochi hanno occhi, pochissimi nel vedere se stessi. Rari gioielli emergono dal calderone dell’“evidente”, quelli che davanti l’obiettivo non si sentono puntati come da un cannone, quelli che dinanzi a quelle lamelle “vivono” e non muoiono, se non di piacere nel posare. Ricercarsi, vedersi e trovarsi è una sfida ogni giorno per chi muta e diventa medicina di un rinnovarsi costante, intraprendente e perturbante. Una visione dell’“IO” che genera ibridanti pensieri, senza la ricerca del come, ma solo la ricerca persistente del “sè”. Siamo pose, messe in scena sul calderone del visibile. Non resta più l’ombra della minima illusione. Qualcuno rimane qualcuno si cerca sono rarisono veri. Benedetta Spagnuolo
Se Andy Warhol poteva dire negli Anni Sessanta che “in futuro ognuno avrà diritto ad un quarto d’ora di celebrità” con l’avvento di internet e di fenomeni come Facebook la sua profezia è stata già di gran lunga oltrepassata. Oggi ognuno di noi può essere visto dal mondo intero e sentirsi una celebrità (con migliaia di contatti) in ogni momento del giorno. Il desiderio di esprimere la propria individualità da una parte e lo spirito di emulazione dall’altra fanno si che più le nostre vite sono definite e condizionate dall’organizzazione sociale più cresce il bisogno di individuazione e identificazione del singolo. All’inizio, grazie alla diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, i divi del cinema e le star della musica, come nuovi dei dell’Olimpo, hanno catalizzato i sogni e le aspirazioni di migliaia di fans, desiderosi di sognare vite che a loro, comuni mortali, era impossibile vivere. Oggi chiunque può affidare al web la costruzione di un’identità aumentata, se non fittizia, e avere l’illusione di narrare se stesso come un personaggio dello star system. I momenti più banali della vita quotidiana diventano scatti che sembrano destinati al pubblico di un immaginario tabloid: la nuova pettinatura, il nuovo cappotto, cosa ho cucinato stasera… Il narcisismo è socialmente accettato e anzi incentivato, percepito come capacità di saper esprimere e comunicare se stessi anche se la comunicazione è unilaterale e sembra sconfinare piuttosto in un disturbo di personalità, in un gioco di specchi che si moltiplica all’infinito. La possibilità di alimentare continuamente il proprio profilo sui social, in presa diretta attraverso gli smartphone, sempre accesi e connessi, genera una confusione tra reale e virtuale dove l’individuo da una parte agisce e dall’altra subisce le sue stesse costruzioni. L’impressione è che l’alternanza continua tra real e unreal vada spesso a discapito del real: più si arricchisce la vita virtuale, coltivata quotidianamente, più si impoveriscono la vita reale e le vere relazioni. Lo sdoppiamento genera frustrazione nei confronti della vita reale, che messa in confronto a quella virtuale non può che uscirne sconfitta: scontrarsi con la realtà dà un senso di impotenza mentre i nostri avatar inseriti in altri mondi possono vivere illimitate esperienze e successi, come in un rifugio consolatorio. Federica Titone
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I social media, compresi nella loro totalità, sono il cuore dell’irrealismo della società reale….il modello presente del’immagine pubblica…la realtà sorge nel linguaggio di massa, ed il mainstream diventa reale. Caterina Tomeo
Risucchiati dall’illusione di una intimità acquisita, dove lo spazio online è considerato l’estensione di quello offline, si finisce in quel vortice di autocelebrazione: espressione ideale di una società egocentrata. Meccanismo di involuzione identitaria che, tra narcisismo e carenza d’autostima, si avvia ad una fase inevitabilmente implosiva. Roberta Vanali
Other Identity, che privilegio! A chi non piacerebbe avere un altra identità, una per ogni occasione d’uso, probabilmente sempre migliore rispetto a quella che già conosciamo così bene. Il social network è il luogo perfetto, è lo spazio dove tutto è vero e anche la menzogna è magicamente altra verità e non importa se per un attimo o per l’eternità. Altre identità si possono moltiplicare a nostro piacimento, perchè guardare un’altra “nostra” identità, ci rende più liberi di credere di essere davvero qualcosa che non saremo mai per tanti motivi e altrove. Esattamente per questo è nata in rete Venette Waste,il fumetto icona dell’organizzazione che valorizza gli sprechi della moda, lei rappresenta bene tutto quello che io vorrei essere, è il mio lato migliore ma anche di più, è la mia guida, guru, binario, punto fermo, è la mia trasgressione autentica.Io naturalmente sono la sua prima follower,infatti la seguo ma sarebbe forse più corretto dire che la inseguo e voglio credere che riuscirò a prenderla ma solo perché so perfettamente che fuori da quel mondo virtuale non esisterà più.....Nell’era dell’uomo dominata da Narciso, Other Identity è l’alter ego perfetto, quello che ci consente di vivere più tranquillamente la nostra segreta, sconosciuta, magnifica imperfezione fatta di mille squisite fragilità e debolezze. Sul percorso dell’acquisizione di questa nuova consapevolezza dell’io, l’arte di Other Identity ci illumina e io voglio ringraziare Francesco Arena per questa grande opportunità. Venette Waste
Potrebbe non trattarsi di me, se non altro perché sono io. Da quando ho capito chi sono evito di riconoscermi. Non dubito del dubitare, sono dubbioso del dubitante. Se avessero raccontato di me non ci avrei creduto. Non vedo perché gli altri dovrebbero credermi. Sapete niente sul mio conto? Io l’ho perso. Bruno Wolf
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ORGANIZZAZIONE Francesco Arena È un artista, un fotografo, un curatore indipendente; opera da anni nel campo dell’arte realizzando progetti anche site specific; oltre a serie fotografiche e polaroid, struttura installazioni che interagiscono con l’utilizzo di oggetti, fotografie e video proiezioni. Ha realizzato numerose personali in Italia ed all’estero ed è presente in molte collezioni private e pubbliche. Di recente anche curatore ,ideatore e direttore artistico del progetto Other Identity. Nei suoi lavori indaga sul ruolo delle immagini nella società contemporanea e sulla possibilità di ribaltare le nostre abitudini interpretative. Hanno scritto di lui numerosi critici tra cui: Luca Beatrice; Michela Bompani; Valentina Caserta; Luisa Castellini; Enzo Cirone; Viana Conti; Monica Dall’Olio; Vittorio Fagone; Elena Forini; Matteo Fochessati; Joseph Gerighausen; Maria Flora Giubilei; Marta Casati; Ferruccio Giromini; Fattori Testori (Giancarlo Norese); Emilia Marasco; Paola Magni; Ivana Mulatero; Massimo Palazzi; Federica Pinna; Ludovico Pratesi; Ivan Quaroni; Franco Ragazzi; Sandro Ricaldone; Marco Rosci; Elisabetta Rota; Maurizio Sciaccaluga; Franco Sborgi; Marco Senaldi; Sandra Solimano; Gabriella Ventaglio; Marisa Vescovo; Maria Grazia Toderi. Per i progetti curatoriali: “Other Identity”, 2016: Giampaolo Abbondio, Edoardo Acotto, Alessandra Arnò, Claudia Attimonelli, Lidia Bachis, Emanuele Beluffi, Chiara Boni, Marco Bruschi, Bettina Bush, Anita Calà, Lorenzo Canova, Mario Casanova, Giulia Cassini, Annalisa Cattani, Piera Cavalieri, Claudio Cerritelli, Maurizio Cesarini, Rossana Ciocca, Anna d’Ambrosio, Valerio Deho, Amalia Di Lanno, Isabella Falbo, Anna Fiordiponti, Matteo Fochessati, Patrizia Gaboardi, Alessandra Gagliano Candela, Carlo Gallerati, Francesca Galliani, Roberto Garbarino, Nunzia Garoffolo, Carlo Garzia, Ferruccio Giromini, Caterina Gualco, Romina Guidelli, Chiara Guidi, Flavia Lanza, Amelì Lasaponara, Marla Lombardo, Karolina Mitra Lusikova, Luciana Manco, Angelo Marino, Gianluca Marziani, Chiara Messori, Roberto Milani, Lorenzo Mortara, Ivana Mulatero, Maya Pacifico, Massimo Palazzi, Luca Panaro, Sabrina Paravicini, Claudio Parentela, Claudio Pozzani, Domenico Quaranta, Sandro Ricaldone, Mariella Rossi-Stefano Cagol, Claudia Sensi, Stefania Seoni, Ivano Sossella, Benedetta Spagnuolo, Federica Titone, Caterina Tomeo, Roberta Vanali, Venette Waste, Bruno Wolf.
Contatti Mob.: +39 340 2540631 E-mail: francesco.arena.visualart@gmail.com Skype: francesco.arena66 Sito: www.francescoarena.it Youtube: www.youtube.com/c/FRANCESCOARENA-visualart Facebook: www.facebook.com/francesco.arenavisual.art
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Benedetta Spagnuolo/ARTISTI ITALIANI - arti visive e promozione “ARTISTI ITALIANI - arti visive e promozione” è un’organizzazione che si occupa della promozione delle arti visive e contemporanee valorizzando, in modo particolare, gli artisti italiani che operano su tutto il territorio nazionale ed internazionale. ARTISTI ITALIANI si occupa di tutti gli aspetti promozionali e curatoriali dell’arte, dalla comunicazione web all’ organizzazione di eventi espositivi Benedetta Spagnuolo è laureata all’Accademia di belle arti di Catania. Durante il suo percorso di vita, unisce elementi come la scultura, il teatro, la danza e la fotografia, ed è proprio quest’ultima che rappresenta per lei la base per un innovativo ed eclettico percorso artistico. Dal 2009 si avvicina al mondo curatoriale ed inizia così a scrivere i suoi primi pezzi critici e si dedica a tempo pieno all’organizzazione di eventi; fonda successivamente anche “Artisti Italiani - arti visive e promozione”. Tra i testi più incisivi, scritti finora, troviamo “L’Androgino come icona dal ‘900 ad oggi - Tra mito, spettacolo e fotografia”, mentre tra le collaborazioni più di spicco citiamo quella con Celeste Prize 2017. Attualmente lavora come critico e curatore artistico ed è contributor presso la rivista “Juliet Art Magazine”. Contatti Mob.: +39 320 4868376 E-mail: artisti_italiani@libero.it Sito: www.artistiitaliani.eu www.benedettaspagnuolo.com Facebook: www.facebook.com/Artisti.italiani www.facebook.com/benedettaspagnuolo.officialpage
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CON IL PATROCINIO DI
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Regione Liguria
Comune di Genova
Contatti www.regione.liguria.it
Contatti Via Garibaldi 9, Palazzo Tursi, 16124 - Genova www.smart.comune.genova.it
IN COLLABORAZIONE CON Goethe-Institut Genua È l’istituto culturale ufficiale della Repubblica Federale di Germania, incaricato dal Ministero degli Affari Esteri di promuovere la lingua e la cultura tedesca all’estero, di curare la collaborazione culturale internazionale e di trasmettere una sempre attuale immagine della Germania; organizza e sostiene numerosi eventi che promuovono la collaborazione internazionale e presentano la cultura tedesca in Liguria. Contatti Via Assarotti, 19/12° – 16122 - Genova Tel.: +39 010 574501 Fax: +39 010 5745035 E-mail: info@genua.goethe.org Sito: www.goethe.de/genova
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ABC-ARTE ABC-ARTE fonda la propria attività sulla promozione e la diffusione dei linguaggi contemporanei lavorando principalmente in due direzioni: il sostegno di artisti di recente generazione, impegnati nella sperimentazione di linguaggi e formati, e l’approfondimento di maestri internazionali del Novecento, con una predilezione per l’astrazione, in particolare di taglio gestuale. Nell’uno e nell’altro caso ai progetti specifici si affianca la pubblicazione di una collana di volumi (a colori, bilingue e provvisti di apparati scientifici) a cura di studiosi internazionali. Grazie alla sua posizione nel centro storico di Genova, affacciata sulle arcate del Mercato Orientale, la galleria unisce la propria vocazione di punto di riferimento nella scena dell’arte contemporanea italiana a un’apertura verso la città, con azioni specifiche tese a creare un rapporto anche con un pubblico meno convenzionale
Contatti Via XX Settembre 11°, 16121 - Genova Phone: +39 010 8683884 E-mail: info@abc-arte.com Sito: www.abc-arte.com
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Guidi&Schoen - Arte Contemporanea La galleria promuove la pittura e la fotografia, il video, l’installazione e la scultura, senza seguire una linea o un media specifico, ma piuttosto ciò che è profondo nel significato e sofisticato formalmente. Negli anni la galleria ha partecipato ad alcune tra le più importanti fiere internazionali in Europa e negli Stati Uniti, in città come Parigi (Paris Photo), Madrid (ARCOmadrid), Mosca (Art Moscow), Miami (PULSE Miami Beach), New York (VOLTA NY), Bologna (Arte Fiera), Torino (Artissima). Ha inoltre collaborato con alcune delle più importanti istituzioni internazionali nel campo dell’arte contemporanea come il Mart di Trento e Rovereto, il Vietnam National Fine Art Museum di Hanoi, la Biennale d’Arte e la Biennale di Architettura di Venezia, il Centre Pompidou di Parigi, il Centro Pecci per l’Arte Contemporanea di Prato, Phillips De Pury a New York, il Foam Museum di Amsterdam, l’Hangaram Art Museum di Seul, la Fondazione Quadriennale di Roma, l’Avesta Art Foundation in Svezia e il Leopold Museum di Vienna. Articoli dedicati agli artisti della galleria e alla sua attività sono apparsi sull’Herald Tribune (edizioneglobale del New York Times), Digital Photo, El País, Silver Shotz, Arte, Espoarte, Exit, Evolo, Flash Art, FotoMagazin, Frame, Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, la Repubblica, La Stampa.
Contatti Piazza dei Garibaldi, 18R, 16123 - Genova Phone: +39 010 2530557 E-mail: info@guidieschoen.com Sito: www.guidieschoen.com
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SPONSOR
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SPONSOR Radio Babboleo Il sistema babboleo Tre stazioni radiofoniche e un sito internet, ognuno con un’identità chiara, ma con un’unica missione: informare e divertire la Liguria. Questo è il sistema Babboleo: Radio Babboleo, Radio Babboleo News, Radio Babboleo Suono e babboleo.it raggiungono ogni giorno migliaia di persone. Nata nel maggio 1976, Radio Babboleo è stata una delle prime radio private italiane e si è subito affermata come punto di riferimento dell’ascolto nel panorama ligure. Il sistema Babboleo permette oggi all’ascoltatore di farsi una radio su misura attingendo a tre frequenze diverse e integrando un sito internet sempre aggiornato, grazie al quale conoscere tutti gli eventi culturali e musicali della Liguria, ed essere sempre aggiornati sulle notizie principali. Babboleo: una radio locale, con più di 30 anni di storia alle spalle, che è uscita dagli schemi tradizionali ed è diventata la più originale, nel panorama delle radio private, grazie al Sistema Babboleo. Radio babboleo È la stazione radio dell’intrattenimento. Trasmette ogni giorno la musica migliore dagli anni ‘90 a oggi, selezionata secondo un gusto adulto, alla ricerca di ballate e di scelte pop, di suoni caldi, conosciuti ed emozionanti. I conduttori di maggior appeal e l’informazione in breve di Radio Babboleo accompagnano la giornata con tutto ciò che di interessante accade a Genova e in Liguria. Babboleo news È la stazione radio dell’informazione. Cosa succede a Genova ed in Liguria? La risposta giunge da una qualificata redazione che rende viva e continuamente aggiornata un’emittente completamente parlata, sempre interessante, mai noiosa. Il ritmo dei fatti di Genova e della Liguria è scandito ogni giorno da Babboleo News, la prima stazione locale news/talk d’Italia. Babboleo suono È la stazione radio della musica anni ‘70 e ‘80. Dai Pink Floyd ai Police, dai successi di Michael Jakson ai Genesis, spaziando tra la migliore selezione pop che ha reso unico un periodo musicale vivo ancora oggi. Sequenze musicali mozzafiato sempre pronte per ricaricare la giornata di ricordi e di nuove emozioni. Babboleo.it È il sito internet del Sistema Babboleo, attraverso il quale conoscere tutto quel che ruota attorno al mondo Babboleo: il palinsesto delle tre stazioni radio, i volti e la personalità di conduttori e giornalisti, le frequenze. Ma anche per essere costantemente aggiornati sui fatti di cronaca e di politica, sugli eventi culturali e musicali di Genova e della Liguria, e sulle ultime notizie sportive. Oltre che per riascoltare i giornali radio e le interviste realizzate ogni giorno. Contatti Sms: +39 340 9929750 Tel.: + 39 010 2467888 E-mail: diretta@babboleo.it Sito: www.babboleo.it
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Il Secolo XIX - Italiana Editrice S.p.A. Il Secolo XIX è il quotidiano leader della Liguria: possiede il primato italiano di penetrazione a livello regionale. Il Secolo XIX, infatti, punta ad una completezza di informazione, sia essa internazionale o nazionale, che lo fa essere “il primo giornale”, ed è talmente radicato nella realtà ligure che, negli anni, è diventato un punto di riferimento autorevole ed efficace per tutti i problemi regionali. Il formato è tabloid con full colour fino a 96 pagine, con 5 edizioni locali (Genova/Basso Piemonte, Levante, La Spezia, Savona, Imperia/Sanremo) e l’edizione nazionale.
Contatti Segreteria di redazione Mariangela Ferrari Marina Olita E-mail: segreteria@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388426 Web Diana Letizia E-mail: letizia@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 632 Politico Vittorio De Benedictis E-mail: francesco.ferrari@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 628 Interni - Esteri Roberto Scarcella E-mail: scarcella@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 483
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Economia e Marittimo Francesco Ferrari E-mail: francesco.ferrari@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 628 Cronaca di Genova Claudio Caviglia E-mail: caviglia@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 629 Sport Paolo Giampieri E-mail: giampieri@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 631 XTe (Cultura, Spettacoli, Album) Andrea Plebe E-mail: plebe@ilsecoloxix.it Fax: 010 5388 626
Locanda di Palazzo Cicala Affascinante hotel a Genova in centro proprio di fronte al Duomo di San Lorenzo vicino al Porto antico, all’Acquario di Genova e alla Stazione dei Treni. Palazzo Cicala nel Centro storico di Genova rappresenta la scelta strategica per vivere con brevi passeggiate tanto la città d’arte - il Palazzo Ducale, il Polo Museale di via Garibaldi, il teatro Carlo Felice, i carrugi medievali, le grandi chiese- quanto la città moderna e d’affari - il Porto Nuovo, il Cotone Congressi, la Fiera, l’Università, la Regione, il Municipio e le eleganti vie dello shopping. L’albergo per famiglie con bambini è a Genova l’indirizzo di riferimento per la scoperta dell’Acquario e della Città dei bambini, che si raggiungono in pochi minuti. Esternamente è caratterizzato da un’impotente facciata settecentesca sulla piazzetta delle Scuole Pie e dalla loggia medievale su piazza San Lorenzo. Il portone d’ingresso e la monumentale scala conservano la suggestiva magia degli aristocratici palazzi genovesi. La hall, che gode della visione trionfale del Duomo gotico, sintetizza lo stile dell’hotel, un’attualizzazione degli spazi del passato attraverso forme e colori del design contemporaneo, dove toni chiari e sobri ma accesi da tocchi vivaci regalano una nuova freschezza e fruibilità. Un’accoglienza affabile è a disposizione degli ospiti per informazioni sulla città, i musei, le fiere, i ristoranti, gli spettacoli, gli eventi, gli itinerari in barca, le offerte speciali, i pacchetti per famiglie e quant’altro. Le camere della Locanda, che si affacciano quasi tutte sulla tranquilla piazza Scuole Pie, sono ampie e luminose, con alti soffitti a volta decorati da eleganti stucchi, evidenziano e conservano atmosfere e memorie di agi e raffinatezze d’antan. All’interno, l’arredo, ricercato ed essenziale, rivela l’armonioso incontro tra spazi antichi, design contemporaneo e alcuni mobili d’alta epoca. Le tecniche dell’illuminazione rispecchiano i migliori prodotti della più avanzata progettazione, primo esempio fra gli alberghi di Genova. Le suite sono l’ideale per le famiglie in viaggio con i bambini; a disposizione su richiesta il servizio di baby-sitter. l’hotel dispone infatti di connessione internet wi-fi sempre a disposizione dei propri. Contatti Piazza San Lorenzo, 16, 16123, Genova Tel.: +39 010 2518824 Fax: +39 010 2467414 E-mail: info@palazzocicala.it Sito: www.palazzocicala.it Skype: locanda cicala
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EdARTE - Associazione Culturale Siamo undici giovani laureati con diversi background, ma tutti provenienti dall’ateneo genovese: Storia dell’Arte, Architettura, Archeologia, Lingue e Lettere moderne sono i nostri campi di studio. Dopo l’esperienza del Servizio Civile Nazionale nell’anno 2017/2018 presso le sedi museali genovesi di Palazzo Spinola di Pellicceria e Palazzo Reale abbiamo deciso di creare insieme l’Associazione di promozione sociale EdArte. Tramite la nostra associazione vogliamo promuovere e diffondere la cultura attraverso una partecipazione attiva e collettiva: la nostra mission è quella di ideare, organizzare e realizzare attività inerenti al campo storico - artistico - architettonico - demo-etnoantropologico e culturale tramite percorsi tematici, laboratori didattici per scuole e famiglie, mostre, eventi e incontri.
Contatti Mob.: +39 340 2785243 E-mail: edarte.associazione@gmail.com Sito: www.facebook.com/edarteassociazione
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Valentino Visuals Valentino è un fotografo freelance e un film-maker indipendente. Con un’esperienza eclettica, riesce a realizzare con profonda visceralità le sue visioni, e a far diventare realtà quelle degli altri. Attraverso il suo sguardo cattura con selvaggia istintività le diramazioni della psiche e racconta le corrispondenze nei frammenti di vita quotidiani. Milioni di fili invisibili si protendono dal sottosuolo, intrecciandosi nell’aria in leggere danze da decifrare. Valentino abita i fili di queste corrispondenze. I suoi film sono l’estenuante ricerca, il malinconico vagabondìo, il selvaggio e istintivo desiderio dell’inesplorato. La sua fotografia é poetico salto nella tela del mondo.
Contatti Sito: www.valentinovisuals.com
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AA Photography di Alessandro Arnò e M. Lucia Menduni Alessandro Arnò Mi dedico da diverso tempo alla fotografia che mi permette di attuare una sintesi di ciò che amo di più: il viaggio, il ritratto, raccontare storie sempre diverse e fare nuove conoscenze. Tutto ciò, oltre ad essere estremamente stimolante, mi conferisce una certa abilità nell’affrontare le situazioni più disparate. Ho ereditato la passione per la fotografia dalla mia famiglia; in particolare ricordo mio nonno ore ed ore in camera oscura a sviluppare rullini. Quell’immagine, sin da bambino, mi ha sospinto ad esplorare questo meraviglioso mondo e la frequentazione del liceo artistico mi ha ulteriormente aiutato a consolidare le mie conoscenze in quest’ambito. Essendo una professione in costante sviluppo non ho mai rinunciato a tenermi aggiornato attraverso workshop e master in tutta Italia, maturando negli anni il mio stile che si identifica in quello del reportage, prediligendo una foto autentica ad una posa plastica e allontanandomi dalla freddezza degli automatismi. Dovendo cogliere “attimi rubati” la mia presenza sarà quanto più discreta possibile ed essendo consapevole della responsabilità di cui sono investito, sono sempre in prima linea per adattarmi alle esigenze dei clienti con empatia e attenzione. Maria Lucia Menduni Curiosa, poliedrica ed eclettica per natura, sono sempre stata attratta da ogni manifestazione artistica ed espressiva che ho avuto modo di incontrare. Durante il mio vivace e sfaccettato percorso esperienziale ho cercato di sviluppare le mie competenze organizzative, comunicative e relazionali conservando sempre un’impronta estetica e creativa il più personale possibile. Per continuare la mia ricerca nell’ambito fotografico ho frequentato la Visual Accademy e l’Accademia Internazionale di Comics, che mi hanno permesso di indagare ancor meglio le varie sfaccettature di questa professione. Sobrietà, delicatezza e sensibilità sono le basi imprescindibili del mio approccio professionale, costantemente rivolto non solo a rispettare bensì a valorizzare il più possibile l’unicità irripetibile che caratterizza inevitabilmente ogni individuo, momento e circostanza.
Contatti Mob.: Alessandro Arnò +39 340 6887898 E-mail: alessandoarno7@gmail.com Gallery: www.500px.com/alessandroarno7 Instagram: arno_alessandro Facebook: www.facebook.com/alessandro.arno.397 Mob.: Maria Lucia Menduni +39 342 0972007 E-mail: marialuciamenduni@yahoo.it Facebook: www.facebook.com/marialucia.menduni
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“Other Identity” “OTHER IDENTITY” Altre forme di identità culturali e pubbliche | seconda edizione Un grazie a tutti gli artisti ed agli autori dei testi, al loro entusiasmo e al loro appoggio. A tutti quelli che hanno compreso più di altri lo spirito e il valore del nostro lavoro e dei nostri sforzi. Un ringraziamento a tutti i collaboratori e in particolar modo a Chico Schoen, Antonio Borghese e Davide Traverso, Laura Sailis, Gianna Caviglia per la loro ospitalità, accoglienza e disponibilità; a Roberta Canu per il suo sostegno; al nostro grafico Davide Ape, per la pazienza con la quale ci ha seguito; a Benedetta Spagnuolo per il suo supporto fondamentale per la riuscita dell’evento. Francesco Arena
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