sommario 04
EDITORIALE: ALCOOL
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28 giorni, prima.
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Apologia del bere: ciò che rende felici da secoli
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Droghe e alcol nel mondo della musica: Drogarsi per suonare o suonare per drogarsi?
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Sempre più frequente l’uso di alcol e sostanze stupefacenti tra i giovani.
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Fanculo, moccioso! [cit.]
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Le droghe. Lo svilimento, l’autodistruzione.
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19 12
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sommario 19
L’intimo che seduce.
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Intervista a OTP
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San Buca
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Breath of Life
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Intervista a Baloooo
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Ancora violenze in India: stuprata a scuola una bimba
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Vincitori secondo turno writers
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Scomparsa Rita Levi-Montalcini, premio Nobel nel 1986.
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KAMoSCANS
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Smile zone
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editoriale
Alcool e Droga
Autore: Mauro Mauro Aka Various (13 febbraio1987) è un informatico valtellinese, attualmente codirettore del OUReports. Sognatore incazzato. Prova un amore folle verso gli animali e ne possiede di diverse specie. Scrivere è per lui uno sfogo, un momento di riflessione fra se e il mondo che sta dentro di lui.
www.tamalife.com
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Questo numero parlerà di droga e alcool, parleremo sopratutto di alcool. Nella nostra testa l’alcool è una cosa buona la droga no. La legge attuale in vigore, la Fini-Giovanardi, è proibizionista, repressiva (non distingue né tra uso e abuso di sostanze, né tra droghe leggere e droghe pesanti). Cosa ha portato questa legge? A una diminuzione dello spaccio o una diminuzione del consumo? In entrambi i casi la risposta è no. Il consumo di cannabis resta stabile, scende l’eroina, mentre cocaina e ecstasy sono in aumento. Conseguenza purtroppo di una legge che non fa differenze: proibendo tutto e bollando tutte le sostanze come male assoluto, quello che fa pensare a un ventenne che la pasticca e la sniffata di coca sia uguale a un tiro di canna: sbagliato. L’uso (e non l’abuso) di cocaina e la pasticca producono danni cerebrali che in alcuni casi possono anche essere irreversibili, mentre l’uso (e non l’abuso) di marijuana e hashish invece produce una lieve perdita di memoria a breve termine, e se la qualità è bassa o si utilizza l’ammoniaca per il taglio, mal di gola o mal di testa. Parallelamente a questo aspetto legislativo c’è un aspetto ben più preoccupante: quello dei titoli di giornali a effetto. Negli ultimi tempi si sono moltiplicati i casi di cronaca in cui adolescenti vengono scoperti con quantità di stupefacenti e criminalizzati, quasi fossero pedofili o pluriomicidi. Capita di leggere sui giornali locali: “preso con due grammi di cannabis”. Domanda: ma che notizia è? Lo sanno i giornalisti che due grammi di erba o fumo corrispondono a circa 4 canne? È come se nella prima pagina di un giornale ci fosse questa notizia: “catturato universitario con mezza bottiglia di vodka alla pesca”. E allora? Chi se ne frega. “Ma il problema è che la cannabis è illegale, e l’alcol legale”, obietteranno alcuni lettori. Giusto. Dovrebbe essere illegale anche versare lo spumante ai bambini delle elementari il primo dell’anno, come avviene in molte famiglie italiane. Legale e illegale sono categorie umane: chi decide cosa è legale e cosa è illegale? L’uomo. Errare humanum est, quindi una legge non deve essere un dogma. Basta pensare al proibizionismo alcolico negli Stati Uniti degli anni ’30, un grande regalo a Al Capone e alla mafia e una sconfitta in termini di dissuasione al consumo.
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Recensioni
28 giorni, prima.
Autore: Max Max alias Massimiliano: C’è perché c’è, fa quel che fa, è quel che fa. Talvolta riesce ad essere ciò che vuole. Talvolta è quel che è: Max, ma per pochi. Instabile, maneggiare con cura. Tenere fuori dalla portata dei bambini. Il prodotto è composto da parti tossiche pericolose. Evitare il contatto con occhi e mucose, qualora questo dovesse avvenire contattare un medico. Non è un prodotto medicinale.
http://sottounosguardo.tumblr.com
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Sembra che il numero ventotto sia piuttosto fortunato nel novero dei titoli cinematografici. Ad esempio la saga dei ventotto zombie con Ventotto giorni dopo e Ventotto settimane dopo oppure, per citarne giusto un altro dato che tria sunt gratiae ricordo lo sconosciutissimo e vagamente soft porno 28 Hotel Room che, anche se di zombie non parla, resta sempre un film in cui, essendo le infedeltà coniugali il fil rouge… bè i mariti e le mogli traditi, o non se ne accorgono perché tramutati in morti viventi, o sono stati vittima di espianto di cervello da quest’ultimi perché la loro cecità non si potrebbe spiegare altrimenti. Vedere per credere. In questo caso parliamo di 28 giorni, senza prima né dopo. Film del 2000 diretto da Betty Thomas, la stessa di John Tucker Must Die, in Italia con il titolo Il mio ragazzo è un bastardo, e dietro la camera anche ne Il Dottor Dolittle, affronta il tema dell’alcolismo e della dipendenza da droghe con un occhio particolare, vagamente romanzato e tendente al patetico per cui non sempre efficace. Piccolo sguardo alla trama. La reporter e scrittrice Gwen Cummings, sullo schermo col volto di Sandra Bullock, incoraggiata dal prode fidanzato Jasper, glissa sulle difficoltà della sua vita, della sua carriera e della sua relazione concedendosi una vita in cui la parola limite è tabu. E così inizia, prosegue e cementa l’abuso di sostanze alcoliche e stupefacenti. Fin qui un classico. Punto di svolta è il matrimonio della sorella della protagonista, Lily Cummings, interpretata da Elizabeth Perkins, già vista in Miracolo nella 34ma strada, in cui la protagonista, frustrata e depressa per la felicità della sorella si prende una sbronza colossale e le rovina il matrimonio. Interviene la giurisprudenza e la obbliga a ventotto giorni di terapia presso una clinica per la disintossicazione e la cura all’alcolismo. In questa sede si assiste all’incontro con Eddie Boone, ossia il Viggo Mortensen de Il Signore degli Anelli, un giovane e promettente giocatore di baseball professionista che cede all’alcol per soffocare la paura che la fama e le aspettative dei fans generano in lui. Storia d’amore, frustrazione e tradimenti… insomma lo spoiler è finito. Un occhio critico al film. Quasi insopportabile il buonismo sotteso in tutta la trama. Ad esempio la dipendenza dei protagonisti è vista con un occhio perbenista e giustificante. La reporter beve, il giocatore beve, il manager beve, ma è la
vita, le pressioni sociali, le amicizie sbagliate che incitano, spingono e giustificano la dipendenza. Quasi che la società, inventando l’alcol e le responsabilità, incita i soggetti ad abbandonarsi. A disperdersi. Consentitemelo: freudismo spicciolo, degno di Giletti. Non si può essere assolutamente certi che ogni uomo di responsabilità, ogni chirurgo pediatrico o ogni giudice siano tossicodipendenti o alcolisti solo per il peso del ruolo che sono chiamati a servire. Abbastanza diseducativo, per commentare in maniera accordata con la pellicola in questione. Piatta è anche la trama: prevedibile e piuttosto scontata. Ad un certo punto l’argomento fondamentale del film arriva addirittura a smarrirsi tra abbracci, lacrime e storie d’amore. Quindi non proprio un film di denuncia. Ma, c’è sempre un ma, il film s’impenna gradevolmente in conclusione. Gwen Cummings, la protagonista, affronta una personale battaglia in se ipsum sconfiggendo il demone della dipendenza incarnato dal ragazzo Jasper, non solo deciso a non abbandonare il suo sgradevole stile di vita ma, resosi conto che la bottiglia era il principale collante della sua relazione, convinto e ancor più deciso a riportare, ricattandola emotivamente, Gwen sulla triste via dei bevitori. Stranamente ben sceneggiato e gradevolmente reso sullo schermo, non patetico e non scontato. Un finale che permette di soprassedere su buona parte del film. In definitiva è una pellicola da guardare, ma senza pretese, poco di denuncia e molto romanzata. Consigliato a chi ama le storie d’amore, da evitare a chi crede che Sandra Bullock abbia, nella sua filmografia, una pellicola realisticamente decente e degna di nota.
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tema: Alcool e Droga
Apologia del bere: ciò che rende felici da secoli
Autore: Laudica Laudica aka Lucienne De Rubempré (02/12/1993). Studentessa universitaria, si dedica ventiquattrore su ventiquattro ad amare l’arte, la musica, la letteratura. Canticchia arie delle opere di Mozart e venera Honoré de Balzac (come Antoine Doinel, ha anche lei un altarino in onore allo scrittore, in camera). Nel tempo libero fa razzie nella sua libreria di fiducia, o va a farsi prendere da crisi di Stendhal multiple in qualche museo, dopodiché si reca ad ingozzarsi in un sushi bar.
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Probabilmente la ragazza qui a fianco si è sdata, durante il veglione del trentuno, ed ecco come ci si ritrova con un after alle spalle. E che after! Non serve ricordare che chi si dà alla pazza gioia a Capodanno… Il resto è storia. Ma come lo passavano, il veglione, queste persone? Senz’altro si dovrebbe distinguere tra classi sociali, famiglie più o meno perbene, ma la sostanza è la solita: divertirsi, dimenticare i problemi, rendere unico il festeggiamento. E in che modo far sì che questo accada? Con l’alcol, ovviamente. Immaginiamo balere, salotti mondani impregnati di fumanti sigari e pipe, piazze addobbate alla bell’e meglio, banchetti, banchine, banconi di taverne, sofisticate cene post-opera del calibro del “Rigoletto” di Verdi (e per riprendersi dalla tragicità del “Rigoletto”, ce ne vogliono di brindisi!). Unite il tutto a persone festaiole di natura, magari con qualche soldo dietro, all’aria fredda e all’atmosfera di perpetuo folleggiar che aleggia disordinata per le vie della città, una qualunque città. Otterrete senza alcun dubbio un conto alla rovescia e tanti gomiti che si alzano impertinenti. Non ha importanza l’epoca, non ha importanza il meridiano, quel che conta è la festa. Da tempo immemore l’ebbrezza ha significato allegria. Il nostro teatro, per esempio, pone le sue lontanissime radici nella tradizione greca. Ce lo dice il buon Aristotele nella sua “Poetica”, secondo cui la commedia e la tragedia greca altro non sarebbero che evoluzioni del cosiddetto “ditirambo satiresco”, cioè un tipo di spettacolo che si svolgeva in occasione delle celebrazioni in onore al dio Dioniso, in particolare per le Grandi Dionisie. Durante i nostri marzo/aprile si sospendevano i conflitti in corso, le questioni politiche, le inimicizie, e addirittura si liberavano i prigionieri dalle carceri, cosicché tutti pensassero solo e soltanto al divertimento. Venivano organizzate quattro giornate di gare fra drammaturghi, completamente gratuite per il popolo. E così, una festa dedicata al dio dell’ubriachezza, della gioia, dell’erotismo, diventava un evento incredibilmente benefico per tutti i cittadini, ateniesi e non. Certo, non è sempre stato tutto rose e fiori; nei vari tempi di crisi che l’uomo ha attraversato, ha imparato ad abusare dei più svariati mezzi per estraniarsi dalla realtà: bere, assumere strane sostanze ed esternare il proprio stato d’animo in modi anch’essi poco ortodossi, sono sempre state le soluzioni più adottate, col risultato di macchiare irreparabilmente la reputazione delle suddette abitudini. Ma che potrà mai fare un innocente sorso di buon Pastis, preso a stomaco pieno, se non rallegrare l’atmosfera?
La questione è stata trattata da migliaia di individui fra scrittori, artisti, musicisti, politici, insegnanti, genitori, psicologi, e il più delle volte per denunciarne solo i lati negativi. Simenon, nel suo meraviglioso “Betty”, introduce una donna la cui unica destinazione è l’oblio: dalle prime righe ci viene presentata barcollante, con le calze strappate e la faccia di una che ha in testa una cosa sola, ovvero continuare a bere. Una faccia smorta tanto quanto quella della ragazza del quadro. Il tutto per alleviare il peso di un’esistenza difficile, certo, ma questa signora (eh sì, proprio una signora, sposata e con figli) non ha preso la questione del bere nel modo giusto. L’impressione è che un sacco di personaggi femminili di Simenon non ne siano capaci. Lo stesso infatti vale per Aline Calas (“Maigret e il corpo senza testa”), Nathalie Charles (“Maigret e il Signor Charles”), e tante altre. Eppure Simenon non era certo un alcolista, anzi! Sarebbe una perfetta icona per la propaganda della causa “bere è cosa buona e giusta”: ha spesso ammesso di non vergognarsi affatto delle proprie sbronze, e anche nei suoi romanzi descrive gli effetti delle pesanti bevute dei propri personaggi con dignità, senza molestare la loro buona immagine. Ma allora perché le cronache di sane ubriacature da compagnia sono in così netto svantaggio, rispetto a quelle devastanti? Forse perché l’apollineo non va più di moda, e i personaggi dannati fanno più audience. Eppure, se andassimo a controllare un po’ di quei polverosi libri sulla storia dell’arte, certamente troveremmo molti più dipinti di un qualche gaio banchetto, che non scene di appartate figure le quali riversano i contenuti dei loro stomaci in un vicolo. E questo perché darsi all’alcol è bene, perché è da centinaia di anni simbolo di festa, allegria, rossore di guance (che piace a tutti!). Ringraziamo Dioniso, ringraziamo il meraviglioso idromele del Valhalla, e da qui tutti i vari Chianti, Cassis e Stella Artois che si sono succeduti ai primi ‘Adami liquidi’. Versatili compagni: gioiscono con noi nella vittoria e ci compatiscono nella sconfitta. Che poi qualcuno decida di abusarne, quello è un discorso a parte. “Il vino e l’uomo mi fanno pensare a due lottatori tra loro amici, che si combattono senza tregua, e continuamente rifanno la pace. Il vinto abbraccia sempre il vincitore.” Charles Baudelaire
[Immagini presenti, in ordine di apparizione: E. Degas, L'absinthe, 1875-1876, Musée D'Orsay, Paris e M. Buonarroti, Bacco (particolare), 1496-1497, Museo Nazionale del Bargello, Firenze]
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tema: Alcool e Droga
Droghe e alcol nel mondo della musica: Drogarsi per suonare o suonare per drogarsi?
Autore: SangueBlues Vengo dalla provincia di Napoli, una città abbastanza caotica ma di cui, fin’ora, tra le città che ho visitato, non sono riuscito a trovarne una al pari, per magia, fascino, ricchezza artistica e vitalità. Suono il pianoforte e le tastiere in una band rock-blues con testi in napoletano, di cui compongo le canzoni. Adoro anche scrivere, in particolare racconti incentrati soprattutto sull’attualità, ma anche poesie e articoli.
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Il termine rockstar è spesso accostato alle parole droga e alcol. Come anche sregolatezza, eccentricità, e via dicendo. Molte volte è addirittura inimmaginabile una figura come questa senza la presenza delle droghe, dell’alcol e delle varie sostanze allucinogene, nella sua vita privata quanto in quella artistica. Quasi come non si potesse diventare una rockstar se non si beve birra né vino, né superalcolici, se non ci si è fatti nemmeno un tiro di spinello, se non si è mai pippato, se non si sono mandati a cagare almeno una volta i genitori, sbattendo la porta di casa. E a questo punto, una domanda candida, ma saggia, che potrebbe sopraggiungere è “Ma non basta che un musicista componga e suoni? Cosa c’entra la sua vita privata?” È molto difficile stabilire quando la droga, o almeno le droghe pesanti hanno fatto il loro ingresso nel mondo della musica. All’inizio del ‘900, periodo di benessere economico, negli Stati Uniti si consumavano enormi quantità di eroina. Negli anni ’20-’30 molti bluesmen della zona del Delta del Mississippi facevano uso, oltre che di grandi quantità di alcol, di droghe varie, e negli anni ’40 forse pochi sanno che molti jazzisti del genere bebop (basti pensare a Charlie Parker) già facevano abuso di eroina. E questo punto potremmo facilmente rispondere alla domanda iniziale. Molti, tra cui gli stessi musicisti del tempo, avrebbero affermato che questa droga permetteva un maggiore sfruttamento delle proprie capacità creative, tanto da diventare una vera e propria fonte di ispirazione. Andando un po’ più avanti con la storia, nella seconda metà degli anni ’60, al tempo dell’LSD, gli acidi allucinogeni che “condirono” a dovere le esibizioni e la pacifica ed esemplare atmosfera di Woodstock nel 1969, incontriamo le sperimentazioni, di cui molte ben riuscite, di musica psichedelica, sonorità visionarie, fatte di arpeggi che evocavano il senso di mistero, situazioni meditative. Basti menzionare le creazioni dei Pink Floyd, Simon & Garfunkel, i Cream di Eric Clapton, i Led Zeppelin. A detta di molti musicisti, ciò che li aiutava maggiormente a stimolare la propria immaginazione erano proprio le droghe allucinogene, che permetterebbero di vivere nuove dimensioni, visioni insolite, lontane dal quotidiano. Coleridge, poeta visionario inglese del Romanticismo, assumeva con una certa frequenza oppio sciolto in alcol puro. “Il Poeta si fa veggente attraverso un lungo, immenso, ragionato sregolamento di tutti i sensi” sosteneva Arthur Rimbaud. E gli psichedelici, infatti, cercavano probabilmente di spiazzare, di vedere al di là, oltre ciò che un uomo comune riusciva a vedere. L’uso di droghe è allora una scelta ben precisa dell’artista, quindi del musicista, che cerca a tutti costi una nuova ispirazione, che vuole sorprendere, che vuole essere genio? È molto difficile dirlo
con sicurezza. Attualmente è pressoché impossibile reperire rendiconti scientifici a corroborare questa ipotesi. Molti altri musicisti, a detta anche di loro stessi e di altri loro colleghi, come afferma anche Lenny Kravitz, si rifugiano nella droga per soffocare in essa un vecchio e inguaribile dolore, una mancanza, quella malinconia dell’artista, dovuta a tanti fattori, che non permette la serena conduzione di periodi stressanti di concerti e di apparizioni in cui devi mostrarti al massimo della forma e devi dare tutto te stesso per non deludere i fan. In questo è stata spesso di grande aiuto la cocaina, che è capace di far vincere anche la tensione, l’emozione da performance. Ma si dice anche che la droga la compri quando hai tanti soldi, che ti permettono di soddisfare un nuovo bisogno sopraggiunto, alimentato enormemente dalla società consumistica (come quella degli U.S.A. nel dopoguerra be-bop) e dall’ambiente in cui vivi, fatto di persone avvezze al divertimento più sfrenato, in cui la malavita organizzata si inserisce facendo leva sulle tentazioni dell’uomo moderno, e in particolar modo su quelle dell’artista dalla vita sregolata. In questo caso spesso si avverte la forte voglia di trasgredire e di provare nuove e provocanti sensazioni, tra cui, talvolta, anche quella di sentirsi onnipotente, libero di assaporare tutto ciò che la vita ti propone. E fondamentalmente quella del musicista rock o jazz è una professione che non richiede, necessariamente, un costante stato di lucidità, è un’attività creativa, non di responsabilità o di precisione, il che può rendere liberi di lasciarsi andare a queste tentazioni. Eppure molte performance più complesse e lavori in sala di registrazione richiederebbero proprio una certa lucidità mentale. Se a tutto ciò, poi, aggiungiamo la possibilità che un musicista possa pensare di drogarsi per creare il personaggio di sé, per una sorta di moda creatasi intorno al prototipo di artista rock, è facile farsi una ragione di come, nel corso degli anni, la droga si è inserita soprattutto in questo mondo, specialmente tra gli artisti più noti, tanto che è diventato quasi impossibile trovare una sola rockstar che non abbia mai provato droghe pesanti. Possiamo citarne una come Edoardo Bennato, ma se solo ci spostiamo tra quelle più famose della storia del rock, l’impresa diventa più che ardua. Eppure essa è stata anche fonte di scioglimento di band, e spesso e volentieri di morte. Ricordiamo la fine di Jim Morrison, Janis Joplin e via dicendo, e all’allontanamento dai Pink Floyd di Sid Barrett, che fece perdere al gruppo, nonostante gli enormi successi che pur seguirono, una fucina di creatività da fare invidia. Inoltre niente ha mai provato che il musicista sotto l’effetto di stupefacenti rende sempre al meglio nelle performance dal vivo. Joseph Williams, ad esempio, terzo cantante dei Toto, band di Africa e Rosanna, grandi professionisti dello strumento oltre che compositori e rockers, nella seconda metà degli anni ’80, era capace di essere travolgente nelle registrazioni in studio, ma nettamente stonato e fiacco dal vivo, proprio a causa dell’abuso di alcol e stupefacenti, tanto che gli altri furono costretti a licenziarlo. L’assunzione di sostanze alteranti il funzionamento del cervello e altre parti dell’organismo, da parte di musicisti moderni di fama mondiale, ha tante motivazioni. Ma di certo, l’accostamento rock-droga, o arte-droga, non ci ha mai fornito elementi che possano escludere il poter condurre una vita simile senza l’inquietante presenza di queste.
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tema: Alcool e Droga
Sempre più frequente l’uso di alcol e sostanze stupefacenti tra i giovani.
Autore: Daniele Studente universitario speranzoso di diventare giornalista. “Chitarrista” a tempo perso; vive di musica e libri. Pensatore fallito. Agnostico praticante. “[...] And I will spend the rest of forever trying to figure out who I am”.
http://italianvoices.altervista.org
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Da alcuni anni i dati dell’Istat riguardanti l’uso di alcol e sostanze stupefacenti, soprattutto tra i giovani, sono allarmanti: emerge infatti non solo un aumento nel numero di giovani che dichiarano di farne uso abitualmente, ma al tempo stesso tende a diminuire l’età in cui si comincia. Le ultime ricerche svolte dall’istituto statistico mostrano come si inizi a bere già a 13-14 anni con un cambiamento rispetto al modello di consumo mediterraneo – incentrato prevalentemente sul vino e simili, consumato durante i pasti e con moderazione – verso un modello più articolato e legato alle tendenze nordeuropee – caratterizzate all’utilizzo di birra e superalcolici anche fuori dai pasti. Sempre più diffuso è il fenomeno del binge drinking, cioè la pratica di bere diversi tipi di bevande alcoliche in poco tempo: mentre la percentuale di uomini che lo praticano è di 14,7%, per le donne la percentuale è notevolmente inferiore, il 6,3% – che sale tuttavia al 9,7 nel caso delle ragazze tra i 18 e i 24 anni. Più in generale, nel decennio 2000-2010, la quota di persone nella stessa fascia d’età che bevono abitualmente alcol fuori dai pasti è salita dal 33,7% al 41,9% confermando un trend che colloca l’Italia ai primi posti in Europa per la vendita di alcol ai giovani; il nostro Paese è inoltre ai primi posti per l’uso di alcolici tra i ragazzini di età compresa tra gli 11 e i 14 anni.
Forti sono le preoccupazioni sui contraccolpi di queste pratiche sulla vita sociale e relazionale – pensiamo ad esempio alle maggiori difficoltà di apprendimento, alle difficoltà scolastiche o all’aumentato ricorso alla violenza – oltreché, soprattutto, sulla salute sia a livello psichico-emotivo che a livello fisico: incapacità di gestire le emozioni, limitate capacità cognitive, sviluppo di dipendenza, problemi cardiaci, danni al fegato. Sebbene il tasso di mortalità correlata all’uso di alcol sia diminuito, le relazioni europee mostrano che un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni muore per l’abuso di bevande alcoliche, che sono anche il primo fattore di invalidità e malattia cronica tra i giovani; tra il 40 e il 60% delle morti seguite a ferite intenzionali e/o volontarie sono dovute al suo utilizzo; più in generale è molto elevato il numero di incidenti autostradali, spesso mortali, che vedono coinvolte persone in stato di ebrezza. Difficile valutare l’efficacia degli interventi politici e sociali orientati a contrastare il fenomeno: il divieto, vigente da alcuni anni, di vendere alcolici ai minorenni sembra non rappresentare un deterrente efficace per i proprietari di bar, pub e discoteche che escogitano strategie di vendita ad hoc o semplicemente ignorano quanto recita la circolare appesa dietro i banconi, mentre le campagne di sensibilizzazione difficilmente riescono ad influenzare comportamenti così radicati. D’altra parte anche le stesse campagne sociali portate avanti dai privati – spesso dalle stesse case produttrici di bevande alcoliche, come nel caso della Heineken che è stata la prima a muoversi in tal senso – e che ricordano di “bere con moderazione”, oltre ad apparire per certi versi paradossali e pure formalità, hanno mostrato di avere un’incidenza tutto sommato contenuta.
Anche le sanzioni previste per chi guida in stato di ebrezza, con il divieto categorico di bere per i neopatentati e il limite fissato allo 0,5 per gli altri, sembrano aver avuto un effetto tutto sommato modesto. Ad aumentare ulteriormente le preoccupazioni a questo proposito contribuisce anche il fatto che, sempre più spesso, oltre ad abusare dell’alcol i più giovani ricorrono anche a sostanze stupefacenti legali e illegali. Mentre diminuisce il consumo di droghe rispetto al totale della popolazione, aumenta il numero di ragazzi che ne fanno uso costantemente. Minore è l’utilizzo di cocaina ed eroina; tuttavia l’uso di cannabis e stimolanti di varia natura è più elevato, soprattutto tra gli studenti che spesso li utilizzano per ridurre l’ansia e i problemi adolescenziali. Il parere degli psicologi in materia è, infatti, illuminante: durante l’adolescenza – generalmente intesa come il periodo di ridefinizione dell’identità e dell’autonomizzazione rispetto alla famiglia che va dai 14 ai 20 anni – i soggetti sviluppano un atteggiamento oppositivo verso la famiglia, si allontanano da essa per identificarsi con uno o più gruppi amicali – spesso si sforzano di essere accettati nei cosiddetti gruppi di riferimento, cosa che li porta anche a comportamenti devianti pur di inserirsi al loro interno – e hanno uno sviluppo psichico più rapido rispetto a quello fisico. I motivi che portano all’uso di droghe sono diversi e vanno dalla pura ricerca di nuove sensazioni alla volontà di alterare il proprio stato di coscienza per accedere ad un “nuovo livello di consapevolezza”, dalla necessità di integrarsi ed essere accettato alla volontà di rafforzare la propria autostima: spesso infatti dietro questi comportamenti si nascondono profondi problemi interiori legati all’insicurezza, alla fragilità, all’incapacità di distaccarsi dai genitori – a volte a causa dello stesso atteggiamento oppressivo di questi ultimi – o a separazioni, divorzi e lutti, così come a vere e proprie malattie e patologie. Naturalmente l’uso regolare di sostanze stupefacenti non determina la tossicodipendenza: perché questa si verifichi è necessario che ci sia un intenso desiderio psichico della droga, che diventa una sostanza irrinunciabile per chi ne fa uso. Molti studi hanno sottolineato l’incidenza delle condizioni familiari nei tossicodipendenti: ad esempio emerge spesso una madre assente o incapace di espressione emotiva verso il figlio, spesso essa stessa ancora legata alla sua famiglia di appartenenza e non autonoma; anche la figura paterna tende ad essere assente e, in ogni caso, dimostra di non assolvere pienamente al suo ruolo di padre e di considerare il figlio come un soggetto distinto rispetto a sé. Tutto questo influenza profondamente il ragazzo, che mira a diventare indipendente rispetto ai genitori ma che, contemporaneamente, dipende da loro per il mantenimento e i soldi e che tende poi a sviluppare a sua volta atteggiamenti simili nel nucleo familiare che formerà in futuro. Per questi motivi i tossicodipendenti spesso faticano ad uscire dalla famiglia, perché la vedono come un guscio protettivo di fronte alla loro incapacità di porsi come soggetti autonomi; questo può portare a sua volta a migliorare la situazione familiare, poiché la consapevolezza del disagio del figlio spinge generalmente i genitori ad impegnarsi per il suo benessere. Gli studi sottolineano peraltro come, accanto all’utilizzo di sostanze stupefacenti, queste condizioni psico-sociali portano anche a sviluppare altre patologie da dipendenza – in particolare l’alcol e il gioco
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d’azzardo, usati per fuggire dai propri problemi – ma anche a comportamenti ossessivi e violenti, soprattutto con il proprio compagno/a. Gli strumenti di contrasto dell’abuso di droghe sembrano essere più efficaci e aver ottenuto migliori risultati, sebbene da più parti si lamenti la debolezza delle cliniche di cura: dal 2010 sono stati chiusi 26 stabilimenti e gli altri versano in difficili condizioni economiche. In generale, il fenomeno dell’abuso di sostanze stupefacenti sembra ormai pratica abituale e radicata in tutta la popolazione, specie fra i più giovani, per motivazioni psicologiche e sociologiche di varia natura. A queste si devono aggiungere poi retaggi culturali più o meno forti che vedono soprattutto l’alcol – e, a partire da certi periodi, anche le droghe – come elemento quasi tipico e folkloristico delle diverse società. Inoltre fatica a radicarsi l’idea che alcol e droga siano, a lungo andare, entrambi dannosi per l’uomo, mentre si tende a discriminare soprattutto la seconda – evidentemente ritenuta più nociva e degna di condanna sociale . Sembrano invece essere ormai del tutto superate quelle impostazioni che attribuivano l’uso di queste sostanze alle classi più disagiate: quello che poteva essere vero alla fine dell’ottocento oggi sembra non essere più valido, dato che la figura dominante per queste dipendenze tende ad essere quella del giovane appartenente a classi sociali medio-alte.
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tema: Alcool e Droga
Fanculo, moccioso! [cit.]
Autore: Max Max alias Massimiliano: C’è perché c’è, fa quel che fa, è quel che fa. Talvolta riesce ad essere ciò che vuole. Talvolta è quel che è: Max, ma per pochi. Instabile, maneggiare con cura. Tenere fuori dalla portata dei bambini. Il prodotto è composto da parti tossiche pericolose. Evitare il contatto con occhi e mucose, qualora questo dovesse avvenire contattare un medico. Non è un prodotto medicinale.
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Chi è James Hillman? Mi tocca dirvi tutto, altrimenti ci si perde nel discorso. E voi trovate difficoltoso leggermi? Va bé… Allora, chi diamine è James Hillman? Ve lo dico io: classe 1926, è uno psicologo analista di matrice junghiana molto rinomato per la sua capacità di fondere psicologia, filosofia ed antropologia. Se vi state domandando dov’è la gran difficoltà di quest’opera è presto detto: a differenza di quanto si sostiene questi tre termini (psicologia, filosofia ed antropologia) benché afferiscano a discipline che spesso collaborano mai e poi mai devono essere assimilati. La psicologia è una scienza. Come la medicina. Se ci presentiamo in pronto soccorso e ci sottoponiamo all’anamnesi il medico di turno applica al nostro dolore o disturbo un’etichetta. L’etichetta, o la definizione della tua malattia non solo rende possibile la cura o guarigione (anch’essi non sinonimi ma lasciamo perdere…) ma, soprattutto, esclude tutte le altre possibili terapie. Conosci il nome, definisci una linea programmatica di cura. La filosofia invece non appone etichette. Perché? Per non dare risposte. Banalizzando il filosofo fa la domanda, sta a chi l’ascolta la domanda, se riesce a capirla, l’arduo compito di dare risposte. Se mai la filosofia desse “risposte” sarebbe religione… non è necessariamente un male in senso stretto, è semplicemente un’altra cosa. L’antropologia, tautologicamente per etimo, rivela la sua raison d’être, quindi passiamo oltre. Che queste discipline collaborino perché hanno l’uomo come fulcro è ovvio e necessario. Il modo in cui lo facciano, modernamente parlando, è Hillman. Escludiamo assolutamente tutto ciò che concerne quest’autore, sarebbe dispersivo ed estremamente fuorviante, e, a piè pari, introduciamo il concetto di archetipo. Centro dinamico, o quantomeno uno dei due, della polarizzazione dell’assetto della personalità, è il punto di congiungimento delle tre discipline sopracitate che verticalizzano in un unicum concettuale. Cos’è l’archetipo: è la definizione, scevra da elementi connaturati al soggettivo e personale, d’un aspetto ben definibile di un soggetto inserito in un assetto collettivizzato. Bella definizione, ma che diamine vuol dire? Presto detto, anche se con una banalità che sfiora l’insulto ai danni dell’autore: ognuno di noi, nel suo rapportarsi con se stesso e con gli altri ha delle figure fisse (o archetipiche) che ne condizionano l’esistenza. E, la più importante, non foss’altro che è quella che cronologicamente generiamo prima rispetto alle altre, è la quella del puer. Per i non ossessionati dal latino in un’età in cui il latino dovrebbe essere solo una parola e non una mitragliata di versioni, sono lieto d’annunciare che puer significa semplicemente fanciullo.
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Abbiamo un fanciullo dentro ognuno di noi? Sì. È questa una figura assimilabile alla sfera concettuale di psicologia spiccia di matrice disneyana? Assolutamente no. Il puer non è, a tutti gli effetti, qualcosa di tenero e batuffoloso, che ispira coccole e fanciullezza spensierata. È, per buona pace dei mocciosi, una creatura ottusa e volitiva, che s’impone egocentricamente su tutte le altre. Non comprende e non impara, come un bambino per l’eternità condannato a non superare i tre anni d’età anagrafica. Esige e pretende, senza immagine del futuro. Non conosce la morte e il semplice concetto di domani e conseguenze. È competitivo, è cieco. È un bambino con la forza d’imporsi di mostro gargantuesco e la capacità d’amare d’un mostro gargantuesco. Ama se stesso, e solo se stesso. L’alterità per lui è funzionale ad un suo scopo, non riconoscitiva della sua posizione. Visto, è un soggettino difficile con cui trattare, ma resta, a tutti gli effetti esistente in noi. Hillman basa l’intera definizione di “dipendenza” sull’esistenza dell’archetipo puer nell’uomo. Si prenda un’anoressica. Si rifiuta di nutrirsi, distruggendosi, coltivando l’idea che questo le conferirà un maggior benessere. Ma, provate a non mangiare. La fame è in agguato. Quindi, per diventare anoressici, ed autodistruggersi, è necessario combattere se stessi. Combattere l’impulso della fame, l’istanza più basilare di sopravvivenza. E solo il puer riesce a farlo. Non conosce futuro, non conosce conseguenze. Tranne quelle da lui auspicate. Ma, come un bambino, esso è testardo. Quando incontriamo un’affetta\o da anoressia e ci stupiamo per la sua straordinaria e a tratti disumana magrezza ed esprimiamo questo sdegno estetico con cordiali ma appropriate parole, il fanciullo puer ne è lusingato. È incentivato a proseguire questa impervia via in salita nella quale l’istinto di sopravvivenza è una scomoda e dolorosa zavorra. Ma, come si spiega l’anoressico lo sdegno ed il disgusto che causa negli altri? Come un bambino: pensa che gli altri siano invidiosi della sua magrezza e che cercano di farlo mangiare non per tenerlo in vita, ma semplicemente perché, consapevoli di non essere in grado di raggiungere un tale livello esemplare d’autodisciplina, per pura invidia cercano di farlo fallire. Lo tentano come il diavolo tentò il figlio dell’Altissimo nel deserto. E combattono, combattono strenuamente come i bambini: intestardendosi, arroccandosi, predisponendosi alla morte piuttosto che alla resa. Idem per gli alcolisti. Quale che sia la situazione archetipale o animale (da animus, l’archetipo speculare al puer) che induca un soggetto a cadere nel vortice fisiologico di dipendenza, questo è facilmente superabile con la volontà. Ma, ingurgitare quantitativi d’alcol dolorosi e inumani, è, a tutti gli effetti, difficile. Ancora una volta, come con la fame, il soggetto combatte contro lo stordimento ed i rigurgiti, impulsi fisici che, come spie d’allarme, dovrebbero indurci a smettere di massacrarci. Ancora una volta sovviene in nostro aiuto il puer. Lui solo è ottuso, ed in grado di far fronte a questa necessità. Lui solo è così egocentricamente maniaco, a tal punto da ridurre al silenzio tutte le altre istanze umane. Lui solo vuole, e prende.
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Ma, sempre un ma, c’è un unico e solo modo per sconfiggere il puer. Ossia trattarlo come un bambino. Spiegare a lui l’insensatezza delle sue posizioni cementate ed indiscutibili. E, nella terapia di supporto per un qualsiasi tipo di dipendente da qualsivoglia sostanza, si traduce nell’ammissione. Solo se un anoressico ammette d’avere un problema, se un alcolista ammette d’avere un problema, è possibile iniziare un processo di cura. Ammissione, badate bene, non verbale, ma intima. Non semplici parole, ma un volontario e volitivo autoconvincimento. Che urli più forte, che strepiti più a lungo del fanciullo ribelle. Che lo zittisca, che lo domini. Inutile moraleggiare, bere non fa male. Fare una piccola revisione del proprio regime alimentare ancor meno. Ma, ancora una volta, con moderazione. Moderazione di cui solo un adulto è capace, non certo un puer. Per cui, se vedete qualcuno che si sbronza eccessivamente, o che si sottopone a regimi dietetici che impietosirebbero un bambino del terzo mondo siete più che autorizzati a dirgli: “Fanculo moccioso”. Fa bene a lui, allieta voi, e potete addurre, a posteriori, una giustificazione scientifica del calibro di Hillman.
Autore: Luca Luca: studente di ingegneria per professione, mente matematica per predisposizione, poeta fallito per vocazione. Classe ’90, quasi ’91: nato precisamente il 28 Dicembre 1990. Sognatore irriducibile, innamorato, felice (ora). Giocatore di pallacanestro, se preferite basketball, ex tennista praticante ora la più economica versione da tavolo. Segni particolari: supercazzola sempre pronta, tendenza a coltivare la propria barba. Indole pacifica e
Le droghe. Lo svilimento, l’autodistruzione.
socievole, con tendenza alla buffoneria.
http://www.half.adbjournal.com Si potrebbe interrogare la società d’oggi e chiedere come sia possibile che questa strada venga offerta, che sia materialmente possibile intraprenderla. Si potrebbe indagare nell’oscura mente dell’uomo che sceglie di drogarsi. Si potrebbe cercare una soluzione per tutti quelli che cadono nella “trappola” della curiosità, che cedono all’offerta suadente, alla proposta martellante. La verità è che potremmo fare tante congetture, intraprendere molti sentieri di studio del fenomeno, sviscerare dal tema tante implicazioni, osservare le molteplici facce della stessa medaglia, ma ritorneremmo sempre a chiederci il perché, se è giusto o sbagliato, se esiste un rimedio, se serve un rimedio. Le droghe costituiscono una realtà sempre più concreta nella nostra società. Dall’antichità ad oggi questa realtà si è fatta sempre più celata e al contempo sempre più opprimente e discussa. Possiamo dire, guardandoci attorno oggi giorno, che queste sostanze non hanno una prerogativa religiosa o esoterica; al declino spirituale o psicologico dell’individuo sono associate raramente come palliativo, più frequentemente ne sono la causa; e il loro utilizzo medico è completamente avulso dalla figurazione umana della società, così come ogni altra loro connotazione scientifica. Allora, da spettatori, come le possiamo caratterizzare? La visione d’insieme è uno “spettacolo” degradante: queste sostanze sono madri di squallore, sono lussi capricciosi, vezzi, singolari esperienze che mutano in tenebrosi vizi. Non sono mezzi, poiché non esiste uno scopo; non sono strumenti, poiché l’uomo non può utilizzarle a suo piacimento –ne diventa schiavo. Sono errori del singolo e sono un fallimento per la società. La lingua ispiratrice di un animo sanguigno e poetico direbbe: “sono insensatezze che avvizziscono l’uomo, perle oscure che lo seducono, rapiscono, e infine lo consegnano alla morte”.
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La lingua giudiziosa di un animo pragmatico direbbe: “sono esperienze controverse, vie di fuga che talvolta possono essere capite –ma che è compito dell’individuo ributtare fermamente”. E nel mezzo ci stanno tante altre lingue, tanti altri animi. Analizzando l’immediata conseguenza dell’assunzione di droghe, vale a dire la contraffazione/distorsione della realtà, possiamo trovare una chiave di lettura della loro diffusione. L’uomo assume queste sostanze per la sedicente libertà che esse forniscono. L’individuo ha la sensazione di essere pienamente padrone di se stesso, della propria vita. Ciò che lo agogna viene dimenticato o portato all’esasperazione e confuso nel malessere onnipresente; ciò che prima lo frenava e ne moderava il comportamento diventa uno stimolo per l’esatto opposto, cioè la sregolatezza, da cui trarre un’evanescente e falsa gioia. L’esperienza genera esperienza e in questo affascinante evento l’uomo perde completamente la sua peculiare capacità di razionalizzare. Sia il malessere, l’ignoranza, la curiosità, la follia o quanto altro a spingere l’uomo verso questa strada, è l’alterazione della visione e della percezione che si cerca infine in queste sostanze.
Attenzione però: com’è tipico del comportamento umano, ciò che non è d’immediata risoluzione viene spesso dimenticato, o scarsamente considerato. L’uso di qualsiasi droga svilisce l’uomo e lo consuma, lo logora. A nulla serve la famosa distinzione tra droghe “leggere” e “pesanti”: se è vero che alcune droghe, assunte con estrema moderazione, non hanno gravi effetti sulla salute, è pur vero che degradano l’uomo dal punto di vista intellettuale, corrompendone le capacità di pensiero. Le droghe sono perciò, a tutti gli effetti, degli agenti di distruzione dell’individuo. Spesso l’uso diventa rapidamente indistinguibile dall’abuso (e forse non sussiste proprio questa distinzione). A volte il processo è reversibile, ma solo entro i limiti di una certa soglia, di là della quale diviene un’obliante caduta. In questa involuzione itinerante, questo stillicidio nauseante, molti sono i casi in cui lo svilimento, in principio, è una scelta volontaria, ma di certo non lo è mai la conseguente e inevitabile autodistruzione. La volontà di porre fine alla propria vita attraverso questo lento processo di annichilimento non è una scelta, ma piuttosto il fatale effetto collaterale di una cura sbagliata, l’ineluttabile fine di un errore, un errore che si amplifica giorno dopo giorno.
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L’intimo che seduce. Corsetti, bustini e guêpière. Stretto, atroce, ed ancora impunito! Il corsetto ha una storia insospettabilmente lunga, che prende le mosse dai primi busti correttivi creati nel XVI sec., ma ancor prima dai busti utilizzati dagli antichi greci. I busti seicenteschi erano principalmente modelli in metallo, da chiudere a molla o utilizzando una chiave, molto scomodi e stretti. A questi modelli si abbinava solitamente una sottogonna per plasmare ulteriormente la figura femminile. Il settecento vide il trionfo di bustini strettissimi, spesso affiancati al panier, un ampio cesto di forma ovale da utilizzare con la gonna. Dopo un periodo di scarse fortune nell’ottocento si torna al busto, utilizzato stavolta sin dall’infanzia per rafforzare (così si credeva) la colonna vertebrale delle donne. Il busto è dunque al servizio di una pratica allora considerata molto nobile, ottenere una vita piccola e stretta, anche a costo di grandi sofferenze. Sofferenze che i primi corsetti non hanno mai mancato di causare, stringendo le ossa e gli organi interni e provocando difficoltà respiratorie, digestive o svenimenti. In ambito medico non si sapeva poi granché sulle reali funzioni del busto, e non mancarono i presunti innovatori e i grandi sostenitori dello stesso. Il busto maschile fu introdotto all’incirca nel milleottocento in ambito militare come aiuto per le marce, e in seguito utilizzato anche per modellare la vita eliminando la pancia e snellendo la figura.
Autore: Elisabeth Elisabeth Hair Stylist dalla mente contorta e insana. Amore folle per gatti e felini, scrittrice notturna incompresa. Appassionata di letteratura inglese e poesia, vive in un universo parallelo con la dedizione per la moda in tutte le sue forme.
http://insaname.blogspot.it/
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Nel novecento abbiamo i primi modelli di corsetti lunghi, poi velocemente abbandonati. La moda entra in campo solo nel 1910 con Paul Poiret, che inventando una nuova linea di abiti a vita alta, abolisce il busto quasi definitivamente. Aggiungiamo anche che nei primi anni del secolo la guêpière, diventa prepotentemente di moda sostituendo in maniera quasi definitiva i corsetti classici. Un bustino allungato sull’addome che termina con dei reggicalze regolabili (quattro, due per ogni calza ) ed è chiuso da ganci sulla schiena. Composta di stecche che modellano il corpo della donna e spesso (ma non sempre) ferretti che sostengono il seno ed è realizzata in pizzo, tulle o lycra. E’ Christian Dior nel dopoguerra a rilanciare l’abito stretto rivisitandolo: creando un caratteristico “effetto clessidra”.
Dagli anni ottanta dello scorso secolo abbiamo numerose rielaborazioni del corsetto, che lo trasformano in vero e proprio protagonista dell’intimo all’insegna della seduzione. Guaine e bustini, oggi sono articoli di lingerie molto diffusi anche per via delle martellanti campagne promozionali che li hanno resi a tutti gli effetti d’uso comune. Testimonial per eccellenza del bustier è Madonna, da sempre fruitrice di corsetti e guêpière, per lei realizzati da Jean Paul Gaultier (noto anche per la fragranza Classique Femme) e Dolce&Gabbana. Oggigiorno il corsetto ha perso quasi del tutto la funzione costrittiva che aveva un tempo. Ma il vero corsetto era e resta ancora un’armatura, che non sarà mai del tutto comoda e vestibile. I corsetti di un tempo erano dei “banali” corpetti realizzati con strisce rinforzate, in corno, ossa di balena o tela rigida. L’allaccio avveniva generalmente sulla schiena. Un’alternativa alle stecche erano i gambetti delle piume d’oca, raggruppati per formare delle strisce piuttosto compatte. Oggi i modelli più in voga sono ricoperti di tessuti più eleganti e alla moda. Tra i materiali di base abbiamo tessuti flessibili ma resistenti come la pelle, il PVC, il cotone o il cotuil, rinforzati dalle stecche a loro volta incastrate in scanalature presenti nella stoffa.
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Un capo che ritorna dunque in prima linea sui manichini delle boutique, ma anche dei meno blasonati negozi d’intimo, in una variegata proposta che spazia dai prodotti di alta sartoria ai meno affidabili pseudocorsetti economici, ripopolando anche l’immaginario erotico maschile. Corsetto è oggi sinonimo di seduzione, originalità, classe, femminilità, sensualità. Assieme a bustini, babydoll, guêpière, chemise e corsetti da intimo, per il trionfo delle lingerie nelle sue mille declinazioni.
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Il Burlesque. Nel XIX secolo, negli USA e in Gran Bretagna, il burlesque era uno spettacolo che parodiava il mondo, le abitudini e i passatempi dell’aristocrazia e dei ricchi industriali, per divertire le classi meno abbienti. C’era una trama, per quanto esile; delle canzoni, dei numeri di ballo e tanta comicità. Ora, a più di un decennio di distanza dall’inizio della riscoperta, possiamo dire che il neo-burlesque non è una moda. Dalle prime esibizioni che copiavano spudoratamente il look e il gusto del passato, sono stati aggiunti tocchi di novità, dialoghi e giochi di scambi con molte subculture come il punk, il gothic, il rockabilly, elaborando i propri “striptease” e avvicinandoli, talvolta alle performance degli artisti d’avanguardia. Ma non si cerchi per forza il messaggio o il contenuto: nel burlesque contemporaneo la caratteristica ironica si è fatta sì più forte che nel passato, ma non è più rivolta all’ambito sociale, bensì a se stesso, finendo per essere totalmente autoreferenziale. La maggior parte delle artiste, soprattutto americane, ama proporre delle esibizioni che si rifanno sfacciatamente a quelle tradizionali degli anni venti, trenta e quaranta, parodiandole in tutti i modi: si parte dalla musica (a volte con i brani dell’epoca), passando dalle acconciature (parrucche cotonatissime e coloratissime), per arrivare ai vestiti e agli accessori. Eccesso grafico, ma non sul versante della nudità, bensì su quello dello spettacolo. Le parole d’ordine sembrano essere kitsch e camp: quanto più lontano dalla satira ci possa essere. Da un certo punto di vista, quindi il burlesque è diventato un mondo chiuso in se stesso, una riserva di disimpegno quasi totalmente priva di contatti con la realtà. Molte casalinghe si stanno lanciando nell’arte riportata agli onori della cronaca da Dita Von Teese, diva per eccellenza del burlesque. Stuzzicate dall’idea di riuscire a percepire di nuovo il proprio corpo, la propria femminilità, a prescindere dal peso (anche se il vero burlesque è fisicamente abbastanza faticoso).
Seducete con eleganza o audacia per il partner e soprattutto per voi stesse. Compiere qualche piccola follia, non può farvi altro che bene!
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(Hi Ball Burlesque Group)
Intervista
Intervista Other Times
Productions Continuano le interviste di OUReports alle personalità più interessanti della rete. Questa è la volta di Maurizio Colombo, fondatore della Other Times Productions.
Autore: Galdo Marco aka Galdo, del clan Esposito. Convinto assertore della diceria secondo la quale “Un animo nobile titaneggia nel più piccolo degli uomini” (Jebediah Springfield), intervista cani e porci. Architetto abusivo, studente paranoico, baseball player, alfiere della fratellanza, esecratore dell’arroganza.
http://galdo81.tumblr.com
1) Come ci puoi presentare questo progetto? Il nostro progetto di produzioni cineamatoriali è nato da una serie di fattori determinanti. Io sono un appassionato di cinema, in particolare delle origini e sperimentale, e quando nel dicembre del 2011 un progetto scolastico riguardante la moralità me ne ha dato l’opportunità ho preso la telecamenra e ho coinvolto un gruppetto di amici per girare un breve cortometraggio: Morality Fiction. Era una parodia scherzosa del titolo “Pulp Fiction” e un modo di coniugare la sperimen tazione cineamatoriale con splendide musiche di Luis Bacalov, compositore che negli anni ‘70 firmò la colonna sonora di un grande noir italiano: “Milano Calibro 9” di Fernando di Leo. In quell’occasione ci divertimmo molto e grazie all’aiuto dei miei amici, che si erano fidati della mia stranezza e, decisi ad andare fino in fondo, pubblicando il video sul web, venne fuori un corto semi-serio, estremamente eterogenero ma di cui, nel nostro piccolo, fummo contenti. Fu proprio quel video a spingerci a continuare l’esperienza con un mediometraggio che riprendesse il medesimo tema: Intrigo Criminale, appunto. A quel punto, visto che il nostro progetto proseguiva bene, Lorenzo Comar, uno dei miei compagni d’avventura, mi propose di dare un corpo di produzione alle nostre attività e così fondai uffi cialmente la “Other Times Productions”, “Produzioni d’altri tempi”. 2) Da dove nasce il nome “Other Times Productions”? Nel nome “Other Times Productions” ho voluto inserire una rimando a “Tempi Moderni” di Charlie Chaplin. Scrivevo prima della mia passione per il cinema delle origini e classico, il nome della casa voleva essere specchio dei nostri prodotti che strizzano l’occhio a grandi esempi cinematografici del passato e al contempo si proiettano verso tempi futuri. Insomma “Other Times” si può leggere come ispirazione al passato, ma anche come proiezione verso un futuro di nuove sperimentazioni. 3) Quali sono le apparecchiature che usate per le riprese e per il montaggio? Essendo un progetto nato dal niente, per molto tempo abbiamo girato con una semplice telecamera e montato con il pratico (ma insufficiente!) editor video di Windows, tuttavia ora ci
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stiamo atrezzando per rendere il materiale girato di maggiore qualità. Oltre al prossimo acquisto di una videocamera più potente, ci siamo forniti di un editor più efficente come AVS Video, un microfono, un’apparecchiatura per registrare su nastro magnetico le sovrapposizioni audio, un cavalletto e dei costumi di scena. Siamo ancora in fase di assetto, anche perché non guadagnamo ovviamente nulla dai nostri filmati e li gestiamo con soldi che mettiamo a nostra discrezione, ma pian piano va a formarsi un gruppo via via più preparato. 4) Tra i vostri riferimenti ci sono il genere Pulp e l’universo poliziottesco caro a Tarantino. Come mai questa vicinanza estetica? Cosa permette di esprimere meglio questo linguaggio? Ciò che mi ha attratto in prima persona e poi lo ha fatto con gli altri miei compagni nel Pulp e nel poliziottesco noir è la cromatura delle trame, molto bassa e vicina agli strati più degradati dell’uomo. Pulp Fiction di Tarantino è un racconto di degrado, nel quale domina una solitudine alienante e una violenza totalmente priva di senso, come la maggioranza dei dialoghi. Nel migliore poliziottesco italiano la figura del protagonista è molto spesso anche quella del criminale, capace di annientare la propria vita per i suoi interessi. La musica di Bacalov, per tornare a citarla, è drammatica e di ampio respiro, non arrabbiata col mondo. Coglie il dramma umano. Un controsenso! Certo, come i tanti che abitano l’animo umano. Ecco cosa il buon cinema pulp e poliziottesco noir ci possono dire sull’uomo ed ecco cosa ho cercato di inquadrare nelle storie con la collaborazione dei miei amici. In seconda battuta gli sceneggiatori e registi di questi film hanno avuto uno spiccato senso per la dinamica scenica, incalzante e stringente, e questo ci ha ispirato sotto un piano puramente visivo. Certo passare dall’ispirazione alla pratica non è semplice e a volte abbiamo filmato materiale che più che riflettere fa sorridere, ma da qualche parte di deve pur partire… 5) Come intendete mouvervi per espandere il progetto? Diciamo sempre che la OTP (acronimo della casa) è una società in divenire, trasforma cioè i suoi contenuti per raggiungere sempre nuove forme e obiettivi. Attualmente stiamo girando un film che conclude le nostre prime produzioni, riassumendone lo spirto e i contenuti, dal titolo “BlueShoes”. Realizzato questo mi dedicherò alla scrittura di sceneggiature in previsione di proprorle a concorsi di sceneggiatura e regia sia a livello regionale che nazionale. Nel frattempo le p iù semplici e sperimentali potranno essere tradotte in video come abitualmente facciamo. Non posso pretendere che anche i miei compagni abbiano l’intenzione di proseguire questo cammino assieme alla casa, ma personalmente intendo mettermi in gioco perchè credo di avere qualcosa di abbastanza originale da proporre in ambito cinematografico. Non è presunzione ma ambizione, voglia di dare un contributo. Motivazione che ha concorso alla creazione di questa casa e che credo la nostra realtà necessiti.
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6) In Intrigo Criminale le ambientazioni dell’ufficio del boss sono delle aule di scuola. Il boss si trova in una posizione che abitualmente è riservata al docente. È una scelta casuale o vuole essere un rimando alle gerarchie a cui ci abituano fin da piccoli? Le scene del boss in Intrigo Criminale sono state girate nell’Istituto Duca degli Abruzzi di Treviso e oltre a rappresentare una location ovviamente facile da ottenere per noi, volevano suscitare domande simili alla tua. Che relazione c’è tra il criminale e il posto dove riceve? È emblematico che sia un luogo pubblico e non una casa privata. Perché proprio una scuola? Per stessa ammissione del boss (interpretato da un nostro grande attore, Marco Gasparini) è un luogo che copre bene i giri torbidi che hanno luogo in esso. Ben lungi dall’accusare l’istituzione scuola, volevamo creare una relazione tra potere statale e criminale. Non significa che stiamo accusando lo Stato, ma che, come esemplifica bene Kafka nel suo libro “Il processo”, esistono dei movimenti di cui noi non vediamo apparente soluzione perché provengono da soffocanti gerarchie sociali che, benché combattute, non portano ad alcun risultato. È piuttosto inquietante vedere un boss in un contesco scolastico, come lo sarà ancora di più vedere in Amen (nuovo film OTP, attualmente in montaggio) un vescovo anche criminale, convinto tuttavia di essere dalla parte giusta. Insomma, una rappresentazione dell’angoscia collettiva per la quale anche i capi più saldi vacillano e riservano insicurezze talvolta paurose. 7) Quanto è difficile trovare delle ambientazioni appropriate? Le ambientazioni ci fanno spesso penare. Vuoi per la troppa gente, vuoi per il meteo, vuoi per la timidezza di chi lavora con noi e non vuole recitare in pubblico. Di solito ci spostiamo in determinate zone della città, Treviso (a cui do bbiamo un documentario, attualemente in ultimazione), dove
c’è il giusto mix di suggestione e quiete dei passanti. Utilizziamo gli spazi della scuola, a cui siamo grati, e, visto che i nostri prodotti hanno fin ora riguradato un filone specifico, torniamo nei luoghi dei precedenti film, quindi già collaudati. Uscire dalla città è più difficile ma è stato fatto, serve solo più organizzazione. Sognamo un futuro con meno problemi: c’è sempre chi si lamenta se per caso finisce nell’inquadratura! 8) Sempre nello stesso mediometraggio, ci sono delle lunghe scene che sono dedicate ai viaggi, alle camminate. Hanno avuto una particolare attenzione e ci piacerebbe sapere perché. La camminata è un tratto distintivo del nostro primo mediometraggio. Vi ho anche dedicato una sezione nel blog OTP alla voce “Trilogia Criminale” perchè è effettivamente qualcosa che salta subito all’occhio e può anche apparire eccessivo. Prima ti parlavo del noir come uno dei tanti modi per dire qualcosa sull’uomo. Max, il protagonista, è in costatante spostamento, spesso entra ed esce di scena nella stessa sequenza, sale le scale, percorre vicoli, senza avere che pochi secondi di pace in un bar o su un treno (quindi ancora in viaggio). Persino il suo scopo è un viaggio: vuole trasferirsi a Milano con il compenso che gli ha promesso il boss per il suo lavoro. Questo è un
modo per far capire la sua falsa convinzione. Dice di essere consapevole del suo egoismo, ma non è in pace con se stesso, è frustrato e distante dalla realtà. L’alienazione è la sua dimensione e l’unico modo che ha per combatterla è intraprendere un viaggio molto lungo e non concluso. Non sono sicuro che a Milano si fermerà: vorrà di più e rincorrerà le sue convinzioni come un’anima in pena, perché questa è la natura umana, descritta da millenni con miti e epopee, romanzata e raffigurata, seppellita e nascosta ma sempre presente. Max si colloca nel vasto parco di quelle persone che hanno cercato la propria strada e che continueranno a farlo illusi di avere certezze, mentre tutto intorno a loro parla di insicurezza. 9) Parliamo ancora di difficoltà: sempre in Intrigo Criminale c’è un lungo fermo immagine. Raccontaci quel particolare. Accidenti, pensavo che quel fermo immagine passasse inosservato… Scherzo, quello è un tipo esempio di cosa voglia dire improvvisare l’organizzazione. La scena del boss è stata la prima che abbiamo realizzato, proprio un anno fa, ed è stata l’unica che abbiamo completamente rigirato. Purtroppo in fase di montaggio la prima lunga inquadratura della seconda versione della scena è andata perduta, devo averla cancellata per errore. Vedeva la testa del boss in primo piano e Max in piedi davanti a lui, a ricordare vagamente la prima inquadratura de
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“Il Padrino” di Coppola, ma nella prima versione Max portava gli occhiali, mentre nella seconda no e quindi le due versioni non potevano combaciare. Ho dovuto riparare al mio errore prendendo un immagine e montando l’audio della prima versione, per non perdere quella importante battuta. Ma è solo uno degli errori del film: ad esempio in una scena Lorenzo, Max nella storia, legge le sue battute, oppure il taglio dei capelli è differente, o ancora ci sono degli sguardi in camera ecc… ecc… Oppure ci sono i problemi più seri: la prima versione del film prevedeva una colonna sonora non nostra ed era stato bloccato per mesi su Youtube, ma per fortuna recentemente un nostro compagno, Giovanni Strazzabosco, ha coinvolto la sua nascente band musicale, The USB Sound, per fornirci una nuova musica di rock progerssivo. Sono le imperfezioni della cineamatorialità, a volte divertenti, ma che è bene eliminare. Una cosa è certa: d’ora in avanti terrò ogni file filmato nella sua apposita cartella! 10) Cosa ne pensi dell’introduzione del 3D nei cinema? Penso del 3D come del sonoro o del colore quando sono stati introdotti. Il sonoro ha disorientato il 90% degli attori e dei registi che sono entrati in crisi con esso perché non in grado di gestirlo. Il colore, secondo i benpensanti critici, distoglieva l’attenzione dal contenuto della pellicola. Adesso, il 3D non è necessario ed è solo uno strumento economico. Quindi noi che esperienza visiva dovremmo fare? In una scala di grigi a due dimensioni e muta? No, il 3D è la nu ova e naturale frontiera del cinema. Ben venga, anzi: finalmente! Ma innanzi tutto deve dare vera profondità e non “far uscire le cose dallo schermo” (non siamo in un film di Woody Allen), deve essere disponibile su larga scala, più della attuale e usato non solo a scopi commerciali. Poi deve passare del tempo prima che entri nell’immaginario collettivo. Ma se ne viene fatto un uso coscienzioso è il ver o progresso del cinema, la vera rivoluzione. 11) Cosa ti piace di quello che viene trasmesso in televisione? Persolamente ho eliminato il guardare la televisione dalle attività quotidiane. Credo che ormai siamo ad un livello di saturazione tale di programmi utili solo a fare studi sull’inutilità che si debba andare oltre, anche visto il calo degli ascolti. Ci vorrebbe una profonda trasformazione del mezzo, ma per spiegarla impiegherei altro spazio oltre a quello che già ho sorpassato da righe e righe.
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San Buca Lo chiamavano il San Buca, un metro e sessanta di effluvi alcolici terminanti su una chioma ormai rada e nascosta da un buffo cappello da pescatore. Il naso, rosso come un’esplosione di capillari, sembrava un gigantesco bottone per l’autodistruzione. La barba, lunga ma ben curata, era la nota dissonante che gli permetteva di mantenere un minimo di credibilità. Era produttore, commerciante e primo consumatore di liquori, e in paese tutti adoravano sentire le sue storie. Raccontava di botti, grandi quanto silos, che si erano impossessate del suo laboratorio, il suo segretissimo laboratorio a cui non era possibile avvicinarsi. Si burlava delle usanze della gente e delle sciarpe “Quelle lì – ripeteva con un sorriso da marinaio – quelle lì sono il nettare proibito dei pavoni [N.d.R.: vedi numero sul pesce d’Aprile], io non le indosso. Ho visto che effetti provocano e non voglio rischiare di ritrovarmi un pavone in crisi d’astinenza alla porta”. Aveva un’opinione per ogni argomento e ogni argomento era opinabile. Per due anni smise di utilizzare la lettera E, convinto che fosse partita per il Nicaragua, dopo l’ennesimo abuso di cognac. Dovevate vedere come era contento, il giorno in cui riapparve “Sono felice che sia tornata – andava dicendo in giro – è terribile provare a vendere della Tquila, ve lo assicuro”. Commerciava alcool da sempre, nessuno sapeva quanti anni avesse, tutti se lo ricordavano e tutti se lo ricordavano conciato così. Ad alcuni diceva di avere settant’anni, ad altri cento, ad altri ancora mille. I bambini si riunivano in piazza per sentirlo parlare, affascinati da quella lingua che intelaiava racconti come una fabbrica tessile, rapiti da un sibilo che soleva accompagnare il suo sproloquio. Adorava i bambini e odiava gli adulti. Non sopportava la spocchia e la superiorità che ponevano nei suoi riguardi. Erano irrispettosi. Irrispettosi e desiderosi solo di inondarsi la gola con ciò che produceva. In quello era davvero un maestro, sembrava Bacco nel corpo di Vulcano, artigiano di effetti stroboscopici. Ciascuna bevanda avvicinava la gente al benessere sensoriale, demolendo ogni altro bisogno. Di questo viveva e per questo si rammaricava. Diceva sempre che il buon Dio l’aveva maledetto con quel dono, che era un marchio che si portava addosso. Non sapeva fare altro che quello e non riusciva a vivere senza un bicchiere sottomano, condizionato dal perenne desiderio di bere. Una mano sporgeva da una coperta sudicia, il parco è veramente un postaccio per prendere sonno, e quella notte c’era un freddo siberiano che tagliava le carni. La panchina, esposta alle intemperie, sorreggeva il peso di un corpo stanco e della sua coperta malridotta. Un buffo cappello da pescatore salutava dalla punta del manto maleodorante. Per terra, una bottiglia di sambuca, a testimoniare l’ennesimo patto tra l’uomo e la fantasia.
Autore: Dioneo Dario, bello e dannato, vive di luce propria. Disperato, intellettuale, ubriacone. Cercatore di stimoli e stimolatore di cerche, aspirante ludolinguista, chiuso in una parentesi graffe…
http://dariocaldarella.blogspot.it/
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Breath of life
Autore: Federica Studentessa all’ultimo anno del Liceo quasi pronta per l’Università, amante della Filosofia e Pedagogia. Appassionata di Libri e Fotografia. Insomma...appassionata di tutto quello che inizia con la parola: Arte. http://www.poesieracconti.it/community/utenti/LiliumCruentus
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Tremo al pensiero di te onnipotente e grande trascendente divino. Potere. Grande Uomo che credi in chi ti ascolta ma sferri la tua ira non c'è più speranza. Date tutto quello che potete per scoprirvi per cambiare per seguire il Vostro percorso che è anche il Suo. Ma la mano è grande guidata dalla mente piccola dinanzi all'anima evanescente divina sporca. Purezza non esiste tutta da cercare qui pochi la troveranno, il mio cuore piccolo esplode dinanzi alla tua potenza. Grande uomo che scatenerai la tua ira su chi degno non è. Gli occhi grandi presi nel suo profondo: amali scrutali loro sono tutto quello che ti serve per comprendere.
Intervista
Intervista a BALOOOO Nome: Andrea Lo Grande Età: 22 anni Città: Palermo – “magnifica ma allo stesso tempo maledetta” Hobbies: Cucina – la sua più grande passione. “Mi piace tantissimo cucinare per amici e familiari quando possibile” Musica (come tutti i teenagers) Videogames (come tutti i ragazzi brufolosi) Calcio
1) Egregio SbaBaloo, ci può illuminare sulla scelta del suo nickname? Il mio nickname deriva da un soprannome dato dai miei amici, ai tempi delle scuole medie, e deriva dalla mia somiglianza al famoso orso della Disney.
2) Credi che la vita internettiana complichi, completi o menomi la vita reale? La vita internettiana ha prodotto molti benefici alla nostra società, in primis l’accorciamento delle distanze, ma ha anche prodotto diversi svantaggi, tra cui l’assenza di vita al di fuori del web. Detto questo, secondo me bisogna equilibrare le due cose in modo tale da non notare la differenza tra la vita virtuale a quella reale. 3) Qual è il tuo rapporto con alcol, fumo e stupefacenti? Dopo Capodanno 2010 il mio rapporto con l’alcool è abbastanza difficile: da allora il mio organismo non riesce più di tanto ad assorbire gli alcolici. Ad esempio se bevo una normale birra inizio ad appisolarmi, per non parlare dei vari cocktail. Capitolo diverso il fumo e le sostanze stupefacenti: ho il vizio del fumo da ormai 6 anni e fumo occasionalmente marijuana. 4) Qual è la differenza tra l’effetto dell’alcol e quello delle droghe cosiddette leggere? Quale preferisci? Sono quasi identici. Tutti e due sono inibitori ma la vera e propria differenza sta nel post assunzione: chi beve tanto ha una sensazione molto sgradevole di vomito; chi fuma, invece, male che vada avrà un leggero mal di testa. Personalmente preferisco le droghe leggere. 5) Credi che siamo informati sugli effetti che gli stupefacenti hanno sull’economia, sulla società, sulla criminalità organizzata e sulla salute?
Autore: Galdo Marco aka Galdo, del clan Esposito. Convinto assertore della diceria secondo la quale “Un animo nobile titaneggia nel più piccolo degli uomini” (Jebediah Springfield), intervista cani e porci. Architetto abusivo, studente paranoico, baseball player, alfiere della fratellanza, esecratore
Assolutamente no. I media nella maggior parte dei casi non sono obbiettivi, perciò a noi le notizie arrivano distorte. Secondo me la miglior risposta sta in questo post. http://www. beppegrillo.it/list…..nabis.html 6) Hai una tua personale ricetta per risolvere i problemi che derivano da queste sostanze? Certo che si! ognuno di noi ha qualche ricetta per risollevarci della sbornia! quella che uso spesso è bere caffè amaro: il gusto e l’aroma mi aiuta tantissimo.
dell’arroganza.
http://galdo81.tumblr.com
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7) Alcol e droga hanno effetti sulla creatività? E sul godimento della musica? E sul sesso? Certo che si! credo che a ognuno di noi leggendo la Divina Commedia o qualsiasi brano di Pirandello sia passato in mente che gli autori dei testi fossero strafatti, ma l’alcool o la droga non fa diventare grandi artisti, dà solo una spinta! Avete mai provato ad ascoltare Beethoven strafatti? è una sensazione davvero magnifica ed unica! Qua mi è molto difficile rispondervi per il semplice motivo che non ho mai fatto sesso sotto assunzione di droga o alcool. Ma credo che in questo caso la droga o le sostanze stupefacenti non aiutino. 8) Consigliaci un cocktail! Come avrete ben capito non sono un grande amante di alcool, ma quando voglio bere preferisco bere bene, perciò vi consiglio un 4 bianchi composto in questo modo: 1/4martini 1/4vodka 1/4tequila 1/4rum in aggiunzione Cointreau o liquore all’arancia 9) Perché l’alcol è legale e le cosiddette droghe leggere no? Onestamente, cari lettori di OUReports, mi sono chiesto tantissime volte il motivo di tale scelta, secondo me alquanto stupida. Il motivo più facile da pensare credo che sia il mancato introito della vendita, però non capisco perché lo Stato non si metta all’opera per monopolizzarla. È noto che ogni anno la Repubblica Italiana spende miliardi per affrontare tale “sciagura”, perdendo miseramente. 10) Ti ha mai beccato chi non ti doveva beccare? Fortunatamente no,anche perché non ho mai fumato erba a casa, soltanto a casa di amici o in luoghi abbastanza appartati. Discorso diverso per la sigaretta: per circa due anni mi nascondevo come un ladruncolo ma poi ho confessato
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Attualità
Ancora violenze in India: stuprata a scuola una bimba di 7 anni
Autore: Daniele Studente universitario speranzoso di diventare giornalista. “Chitarrista” a tempo perso; vive di musica e libri. Pensatore fallito. Agnostico praticante. “[...] And I will spend the rest of forever trying to figure out who I am”.
http://italianvoices.altervista.org
All’inizio del mese la notizia della violenza sessuale e della successiva morte della giovane vittima ha fatto il giro del mondo, rimbalzando di testata in testata. La ragazza il 16 dicembre si trovava su un autobus quando, secondo l’accusa e le prove fornite dagli inquirenti – tra cui l’analisi delle tracce di dna ritrovato sul suo corpo -, è stata aggredita, violentata da cinque uomini – l’autista dell’autobus, il fratello e tre amici; la procura ha accusato anche un altro ragazzo di soli 17 anni – e abbandonata morente. Subito sono scattate in tutto il Paese manifestazioni di solidarietà verso la famiglia della vittima che sono sfociate nelle agitazioni del 7 gennaio scorso, in occasione della prima udienza del processo: gli accusati sono stati arrestati e accusati di sequestro di persona, stupro di gruppo e omicidio e, fino all’ultimo momento, tutti gli avvocati del tribunale di Nuova Delhi si sono rifiutati di fornire loro assistenza. A scatenare le manifestazioni è stata proprio la decisione di uno di essi di rendersi disponibile e che, oltre alle dimostrazioni in piazza, ha portato anche a un’accesa discussione tra gli stessi magistrati. La seduta è stata infine sciolta – tra le altre cose l’aula non era in grado di ospitare fisicamente tutti gli accusati – e rinviata, con la decisione di chiudere le porte ai media per le prossime udienze. Se i cinque – cui si aggiungerebbe il minorenne – risultassero colpevoli sarebbero condannati alla morte per impiccagione. Ancora: il 3 gennaio quattro bambine – che avevano cinque, sette, otto e dieci anni – sono state stuprate da un uomo di quaranta, con tutta probabilità il responsabile di un negozio di generi alimentari in cui le vittime erano andate per comprare una torta. Come era prevedibile ci sono state nuove manifestazioni di solidarietà e rabbia in tutto il territorio, che hanno costretto anche il dispiegamento delle forze armate per evitare possibili disordini. In seguito a queste vicende il governo ha emanato un provvedimento con il quale si obbligano le studentesse ad indossare il soprabito per ridurre gli stupri; decisione questa che ha causato la protesta della società civile indiana, della “All indian democratic women’s association” e dell’opinione pubblica di tutto il mondo che hanno accusato il governo – in particolare il ministro dell’istruzione Thiagarajan – di minimizzare il problema e, in qualche modo, colpevolizzare le donne per le violenze subite. Il politico ha comunque ribadito che “Siamo impegnati al massimo a proteggere la sicurezza delle nostre ragazze, e per questo abbiamo deciso che esse dovranno portare un soprabito e muoversi in autobus di loro esclusivo uso. Inoltre nelle scuole sarà proibito utilizzare i telefoni cellulari”. 31
Il 14 gennaio l’ennesima notizia: una bimba di sette anni è stata violentata a Vasco, nell’India meridionale, nel bagno della scuola che frequentava. La polizia ha denunciato la direttrice dell’istituto, accusata di aver tardato a denunciare il reato ostacolando così le indagini, e sta attualmente cercando il colpevole. Stando alle prime indiscrezioni la bambina sarebbe stata attirata nel bagno – tra l’altro vicinissimo alla presidenza – da un ragazzo di circa vent’anni durante l’intervallo; tornata in aula si sarebbe lamentata per dolori al basso ventre. Da qui la decisione di allertare la famiglia e i medici che hanno infine confermato la violenza sessuale. Per molte ore il personale scolastico non ha potuto lasciare l’edificio a causa della folla che si era posizionata tutt’intorno ad esso per l’ennesima dimostrazione contro quella che, sempre più, appare come una piaga sociale. I media indiani hanno infatti attribuito grande visibilità alle notizie – ricordiamo anche il suicidio di una donna di 45 anni il cui corpo mostrava evidenti segni di violenza – contribuendo a diffondere un clima di indignazione nell’opinione pubblica, rafforzato dall’indagine dell’International centre for research on women e l’Institudo promundo brasiliano pubblicata dal quotidiano “The Time of India” secondo cui almeno un indiano su quattro avrebbe commesso una violenza sessuale e l’India sarebbe all’ultimo posto nella classifica dei Paesi per la tutela e la dignità delle donne. La situazione del Paese asiatico è quindi estremamente grave: nonostante la lunga colonizzazione inglese, nonostante lo sviluppo economico e democratico avviatosi dopo la decolonizzazione e il messaggio
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pacifista di Gandhi gli stupri sono all’ordine del giorno, segno questo della debolezza della democrazia indiana e di una cultura profondamente diversa – e, da uno sguardo etnocentrico che ci colloca come giudici incontrastati delle culture altrui, arretrata – che tollera la subordinazione della donna all’uomo, nonostante le forti agitazioni dell’ultimo mese facciano ben sperare in un lento processo di cambiamento e civilizzazione anche da questo punto di vista.
Sogno: Slam di El_Maxp Seta. Seta immersa nel buio. L’oscurità più nera, un abbagliante riflesso di buio pesto che accarezza gli occhi occupa tutto lo spazio disposto intorno a me. Seta. Ancora. Sempre. Morbida e calda presenza setosa di pelle accanto alla pelle. Sulla pelle. Una pellicola di profumo si stacca dalla Seta al mio fianco. Lambisce questo scontato mare d’aria come un’onda spumosa ed increspata carica di promesse. Calda come le braci ardenti. Si promana placida e sicura, incede con la cadenza silenziosa di un vincitore che s’accosta alla sua preda indifesa. Meravigliati i miei sensi esplodono. Osservo con l’olfatto. L’oscurità ovattante che opprime i miei occhi spalancati e ciechi s’illumina di nero splendente, guidata dal mio naso che avverte una presenza accanto a me e ne traccia sommari contorni. Non disegna sagome ma impone una sinuosa linea di demarcazione tra oscurità spaventosa ed oscurità invitante. Un inadeguato suggerimento, uno sprono ad abbandonare il torpore. Osservo col mio occhio interiore la mia mano staccarsi dalla mia coscia e protendersi verso quella fonte d’odor rosa. Spettatore di me stesso. Vedo in punta di polpastrelli. Delicato, intimorito, mi concedo un primo contatto. Velluto. Solo Velluto che s’innalza e s’abbassa al ritmo di uno sbuffo silenzioso. Non mi impongo d’arrestare i cinque serpenti curiosi accompagnati dal palmo che, ancora insicuro ed attonito, non nasconde un leggero tremore. Poggio i miei nuovi occhi su quella presenza. Traccio i suoi fianchi godendo dal contrasto tra l’asperità superficiale della mia mano e l’assoluta porcellanea perfezione della Seta. Una sensazione di calore si promana da quel corpo a me. Incendia i miei polpastrelli rendendoli ciechi, immobilizzandoli. Mi scivola dentro sino a raggiungere muscoli, tendini, vene ed infine sangue. Un fiotto di calore che dalle estremità trasforma il sangue in magma per incenerirmi il cuore. Lo spasmo dell’anima si traduce in un singulto della schiena. Energia nei muscoli: inattesa, ma di certo non inutilizzata. Scopro d’avere un fianco destro nel momento in cui affido a lui l’intero peso del mio corpo. Scopro d’avere un corpo perché il mio fianco urla in protesta, e la mia spalla in risposta. Perle di paura e desiderio si formano sulla mia fronte. Minuscole lacrime aspre sorgono dagli strati più interni del mio essere sino a condensarsi, ovali e scintillanti, dapprima sulla mia fron-
te, poi su resto del corpo. L’oscurità più nera. Desidero che i miei occhi mi rivelino qualcosa di più del nero più pesto! E quelle lacrime improprie rispondono. Danzano sinuose sulla mia fronte, imperlano le mie labbra. Sfruttano la gravità inesistente per scivolarmi addosso. Mi imbrigliano della mia stessa paura, del mio stesso desiderio. Tracciano linee sottili sul mio corpo silenzioso definendone spazi e confini. Due Corpi. Due Corpi nell’oscurità più nera. Lo spasmo di desiderio disatteso flagella il mio stomaco, spezza il mio diaframma. Col respiro mozzo ed ansante mi protendo verso la Seta, le braccia due rettili striscianti che l’avvolgono esplorandola. L’oscurità più nera si carica di sapore. Sollecita il mio labbro superiore un gusto nuovo, un gusto di cui conosco l’esistenza ma che non posso qualificare ancora. La mia bocca si dischiude e lascia la mia lingua libera di assecondare le sue brame ingorde. Scivola sul mio labbro e lo avvilisce appropriandosi del nuovo splendore che lo impreziosiva. Quel sapore mi solletica, mi incita. Lascio che il mio corpo s’adagi al suo, che le mie braccia si trasformino in corde e catene infrangibili. Aderisco alla Seta con la carne perché le anime si fondano. Lecca la mia pelle col suo respiro ritmico. L’alito d’un angelo. Una lingua d’aria gloriosa e terrificante. Se la Morte avesse sostanza sarebbe quel respiro. Ma la Morte ha sostanza! È questa oscurità che ottenebra la mia vista, la Morte. Avverto l’impellenza di adagiare il mio volto accanto al suo, dovessi staccarmi la perderei. Dovessi staccarmi perire di dolore. Gli occhi tattili che avevo in punta di mani si moltiplicano improvvisamente divenendo una miriade indicibile: uno per ogni cellula minuscola del mio derma. E con questo nuovo senso la osservo: declivi e asperità, anfratti e pianure… la Pangea, magnifica, appena creata e risorta dalle acque, si staglia accanto a me con tutte le promesse e le devastazioni di cui è capace. Cerco di respirare, ma riesco solo ad emettere supplici ondate di desiderio. Come se l’aria che fuoriesce dai miei polmoni fosse, in qualche modo, di quantità sempre appena superiore all’aria che inspiro. Un senso di vuoto organico che amplifica il vuoto del mio essere.
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Vuoto e bisogno. Seta emette un respiro strozzato. Schiocca le labbra e scuote il capo. Non teme come me, non deve esplorare nulla. In un attimo comprende la situazione come se ciò che per me è oscurità per lei fosse luce, devastante luce. Come se quella luce fossero i suoi occhi. Dinanzi ai me, cinta dalle mie braccia, muta e si trasforma. Calda, plastica, assume le forme dei vuoti del mio corpo imperfetto. Scivola su di me come un rivolo d’acqua accarezza una pietra nel mezzo del suo incedere. Scivola e resta immobile. Con la gola riarsa mi disseto della sua pelle. Accarezzo le sua fronte con le mie labbra, delicato. Come se fosse un vaso di cristallo che potrebbe rompersi, o come se fosse una bestia adamantina che potrebbe divorarmi in un istante, non saprei dirlo con certezza. Conscio di questo contatto resto beato mentre sento le sue mani farsi strada nell’intrico delle mie membra superiori e cingermi. Non mi sta esplorando. Mi reclama come suo nel buio più nero. Ha perso il possesso di me avvolto dall’oscurità più nera. Artigli si piantano nella mia schiena mentre un palmo si dischiude sul mio petto. Credo d’essere appena stato toccato da una rosa che sboccia. Quelle dita si fanno strada, a mani immobili, verso il centro del mio corpo. M’afferra il cuore e lo fa suo. Posso restare in vita finché almeno una porzione infinitesimale del mio corpo resta in contatto col suo. Dovessi perdere la grazia, morirei eviscerato dell’anima. Ho paura del distacco, possibile quanto improbabile, e l’afferro con le mie gambe. Cingo le sue e temo di poterle procurare dolore. Seta è plastica, plastica e calda. S’adatta a questa nuova sollecitazione come una ballerina risponde ai passi del partner in una coreografia. Una coreografia stupenda ed improvvisata. Il collo si protende mentre il mio s’abbassa. Dischiude le labbra nel momento in cui avverto, non vedo, l’impellenza di fare altrettanto. Un contatto leggero, una nuvola al vento che resta impigliata al mio respiro. Il cuore tuona, il sangue ribolle. L’oscurità esplode gettandomi in una nuova luce abbagliante. Labbra di seta invitano le mie a farsi docili, le dischiudo mentre impongo alla mia lingua di farsi coraggio e assaggiare quella benedizione. Sento che è mia e… Benvenuti su Radio 143 FM, puntualissimi come ogni mattina, per una nuova puntata di “Buongiorno con Radio 143 FM”. Sono le otto in punto e siete appena usciti dalle braccia di Morfeo, sorgete e brillate! E con questo brano noi in studio vi auguriamo buon giorno! Decapito quell’ammasso sfocato che mi è davanti e lancio la sua testa ciarliera e fastidiosa per aria con un solo fluido movimento degno d’uno zombie. S’infrange contro il muro emettendo, quasi fosse un regalo o un saluto, un rumore tintinnate vagamente familiare nell’istante preciso in cui comprendo d’aver rotto l’ennesima sveglia e saluto il nuovo giorno con le mie prime parole: “Che palle!”.
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Sogno: Inconsistenza dei sogni di Banshee
Sono la regina di un regno privo di sensi, assopito nell'ameno immaginario. Sto fluttuando tra occhi che mi fissano nel buio scivolando nel nonsense, la mia testa si stacca dal mio corpo, i-o sono libera dal pensare, libera da quel giogo che dovevo trascinarmi appresso. Credo che ora esploderĂ la mia mente un tonfo BUM VUOTO Mi rialzo, forse non colgo che sto camminando sulle spine, su parole vuote che appesantiscono i miei passi, e se mi volto vedo solamente un mondo di pietra che si sgretola quando riapro gli occhi.
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l’amore sofferto: Libero e la Luna.
di Halfhearth Era bastato uno sguardo, evocato da poche parole che arrivavano da lontano. Libero ed Elena erano amici fin dall’infanzia, irriducibili, inseparabili. “Vieni a trovarmi! Napoli non è poi così distante. L’estate qui è bellissima, la città è tutta da scoprire e la gente è diversa. Sono certa che ti divertiresti. E poi…mi manca il mio compagno di risate! Ho conosciuto delle persone fantastiche, che vorrei farti conoscere. Dai, vieni, potresti stare con noi e svagarti un po’! Ti prometto che non sentirai la mancanza della tua amata nebbia. Con tanto affetto, Elena”. Libero sarebbe partito l’indomani, colmo d’intenzioni, di parole mai dette e lacrime mai svelate; pronto a confessare in ginocchio il suo amore, a sostenere lo sguardo di lei sussurrando emozioni, ricordi, frasi d’amore. Tre anni, due mesi e qualche giorno: da tanto non si vedevano. Elena era partita con la sua famiglia. Erano tornati a vivere nella loro città, tra la loro gente, vicino al loro mare, e Libero aveva sofferto a lungo senza la sua unica amica. Poi, lentamente, aveva cominciato a soffrire diversamente: era un malessere più profondo, meno lunatico, più freddo e viscerale, meno romantico, più rigido e ossessionante; un dolore senza possibilità di conforto. Soffriva…senza il suo unico, vero amore. Libero guardava nella notte, sorridendo al pensiero del viaggio, dell’incontro, dell’abbraccio. Non aveva paura del confronto e dei suoi sentimenti, né di quelli di Lei. E parlava alla luna e diceva: “se t’amo non mi corrispondi poiché sei lontana, ma se solo potessi raggiungere i tuoi segreti! Allora mi ameresti, perché il mio amore è puro ed eterno”. E sognava carezze commosse, parole di Lei, le più belle. Sognava le notti, con lei, le più felici e profonde. Sognava il mare incresparsi e le stelle brillare più intense, sognava le labbra bagnarsi, le sue sulle labbra di lei sconfinare, parlare d’amore, sfiorarsi, e sognava il battere forte del cuore; nel silenzio più assorto questo sognava, ed era felice, perdutamente felice. Ma raggiunta Napoli s’accorse che il tempo che scorre è impietoso, nasconde e ferisce, e quegli anni erano troppo: troppo per loro, per lei, per quel filo che s’era spezzato. La lontananza li aveva separati.
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Svanirono negli occhi tristi di lei tutti i suoi sogni. Libero rimase senza parole, quelle parole che in Lei non erano mai nate. Nel vitreo silenzio, tra il dolore e il rammarico, in quel baratro che mai si sarebbe ricucito…Libero pensò: “come l’uomo dinnanzi alla luna”. E il mito di Elena cadde, come una scure, sul cuore di Libero.
l’amore sofferto: Letale.
di Sunny Trattieni il mio respiro sospeso sulle tue labbra: ogni tua parola è desiderio di essere amata.
Sei aria in vena acqua in gola.
E non riesco piĂš a fare a meno di te.
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Attualità
Scomparsa RITA LEVI MONTALCINI premio Nobel nel 1986.
Autore: Daniele Studente universitario speranzoso di diventare giornalista. “Chitarrista” a tempo perso; vive di musica e libri. Pensatore fallito. Agnostico praticante. “[...] And I will spend the rest of forever trying to figure out who I am”.
http://italianvoices.altervista.org
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Lo scorso 30 dicembre, all’età di 103 anni, è morta Rita Levi-Montalcini, uno dei personaggi più importanti della storia italiana per il suo enorme contributo dato alla ricerca scientifica che gli valse anche il premio Nobel conferitele nel 1986. Nata a Torino il 22 aprile 1909 da genitori ebrei, a vent’anni si iscrisse alla facoltà di medicina presso l’università della città – nonostante le perplessità espresse dal padre, portatore di una visione tradizionalmente patriarcale della famiglia e convinto che questa decisione potesse rompere l’equilibrio coniugale – probabilmente in seguito alla morte della sua governante a cui era particolarmente attaccata. Nel 1936 conferì la laurea in neurologia e iniziò la specialistica in neurologia e psichiatria ma fu costretta ad interrompere gli studi in seguito alla promulgazione delle leggi razziste del 1938, che la costrinsero a trasferirsi in Belgio dove continuò gli studi presso l’università di Bruxelles fino all’invasione tedesca del ’40. Poco tempo prima era tornata a Torino e aveva allestito un laboratorio domestico, con l’aiuto del suo professore nonché assistente: Giuseppe Levi. Le ricerche si concentrarono sull’influenza dei fattori genetici e ambientali nella differenziazione dei centri nervosi che le permise di individuare l’apoptosi, malattia nervosa che aveva portato alla morte intere popolazioni. A causa dei ripetuti bombardamenti i due furono costretti a spostarsi per tutta la penisola, fino a quando si fermarono a Firenze – nonostante dovettero cambiare spesso abitazione per evitare la deportazione. In quegli anni mantenne stretti rapporti con il Partito d’azione e divenne medico per le forze alleate diventando medico presso il quartier generale in cui doveva curare le malattie infettive e di tifo addominale particolarmente diffuse all’epoca; attività che dovette abbandonare in quanto non riusciva a mantenere un distacco emotivo con i pazienti. Conclusa la guerra poté riprendere i suoi studi concentrandosi sullo sviluppo del sistema nervoso negli embrioni di pollo. Nel 1947 venne invitata come professoressa di neurobiologia all’università di Washington, dove continuò i suoi studi grazie ai quali analizzò il processo di differenziazione neuronale e la crescita delle fibre nervose, collaborando con alcuni tra i più illustri ricercatori a livello internazionale e, successivamente, una specifica proteina – la Nerve Growth Factor (NGF) – responsabile della crescita e differenziazione delle cellule nervose sensoriali e simpatiche nonché una molecola tumorale tra le cause del cancro, dell’Alzheimer e del Parkinson. Questa scoperta, perfezionata nei decenni successivi – vi lavorò fino
al pensionamento, nel 1977, continuando la sua attività accademica negli USA -, le permise di conquistare l’ambito premio Nobel nel 1986 la cui assegnazione fu, tra l’altro, contestata negli anni novanta. Una parte del premio venne consegnata alla comunità ebraica italiana per la costruzione di una sinagoga a Roma, mentre nell’87 ricevette dal presidente Reagan la National medal of science, la massima onorificenza scientifica. Durante questo trentennio, comunque, svolse numerose attività accademiche anche in Italia: fondò un suo gruppo di ricerche, diresse il Centro di ricerche di neurobiologia presso l’Istituto superiore di sanità, divenne direttrice del Laboratorio di biologia cellulare del CNR e nel 1983 divenne presidente dell’Associazione italiana sclerosi multipla. Continuò a lavorare per tutti gli anni novanta come “superesperto” presso l’Istituto di neurobiologia del CNR e l’Istituto dell’enciclopedia italiana, mentre nel 1999 divenne presidente del FAO. Tra le altre cose collaborò all’Accademia dei Lincei e all’Istituto europeo di ricerca sul cervello, da lei stessa fondato nel 2001. A parte il suo enorme impegno scientifico, Rita Levi-Montalcini si è distinta anche per i suoi interventi in campo sociale: sostenne la parità di genere – nonostante abbia rifiutato di sposarsi e di metter su famiglia, privilegiando in ogni momento la ricerca alla vita privata – e il diritto all’aborto, si batté contro l’utilizzo delle mine anti-uomo, per un più equilibrato utilizzo delle risorse naturali e per la fine del proibizionismo ma, soprattutto, si distinse per il suo interesse verso i giovani ai quali dedicò la fondazione che ancora oggi porta il suo nome: mossa da un senso di fiducia verso le capacità dell’uomo, ha sempre invitato i ragazzi a non concentrare l’attenzione su sé stessi ma sugli altri; a riconoscere la bellezza della vita e ad impegnarsi attivamente per il miglioramento del mondo. Nominata senatrice a vita dal Presidente Ciampi nel 2001, ha rifiutato la carica di Presidente del senato in occasioni della
caduta del secondo governo Prodi per motivi di salute – essendo diventata parzialmente cieca all’età di 90 anni. Oltre i riconoscimenti già citati si ricordano cinque lauree honoris causa, il premio Max Weinstein, il William Thomson Wakeman award, il Lewis S. Rosentiel award, il Louisa Gross Horwitz, l’Albert Lasker basic medical research award, il premio Feltrinelli e il Wendell krieg lifetime achievement award. È inoltre membro della American academy of arts and sciences, della National academy of sciences e dell’Accademia nazionale delle scienze, nonché Presidente onorario del Comitato nazionale per la bioetica. Rita Levi-Montalcini è morta nella sua casa di Roma; il primo gennaio si è tenuto il funerale in forma privata mentre il giorno seguente quello in forma pubblica. La donna, dichiaratamente atea, è stata cremata e le ceneri sepolte nel cimitero di famiglia. Con la sua morte l’Italia ha perso una delle più illustri personalità dell’ultimo secolo, sia per la sua costante attività di ricerca sia per la sua lungimiranza e per il suo forte impegno civico. Ci sembra quindi dignitoso concludere questo breve riconoscimento con una sua celebre affermazione: «Oggi, rispetto a ieri, i giovani usufruiscono di una straordinaria ampiezza di informazioni; il prezzo è l’effetto ipnotico esercitato dagli schermi televisivi che li disabituano a ragionare (oltre a derubarli del tempo da dedicare allo studio, allo sport e ai giochi che stimolano la loro capacità creativa). Creano per loro una realtà definita che inibisce la loro capacità di “inventare il mondo” e distrugge il fascino dell’ignoto.»
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smile zone
Autore: H Alessio, conosciuto nei testi sacri come Hyena, fin da bambino si cimenta in varie discipline che l’hanno portato ad essere un profeta, uno scrittore, un doppiatore, un musicita, un compositore, un dj, un filosofo, un animatore, una guida turistica, un attore, nonchè PR. Normale essere umano nel tempo libero.
Autore: H Alessio, conosciuto nei testi sacri come Hyena, fin da bambino si cimenta in varie discipline che l’hanno portato ad essere un profeta, uno scrittore, un doppiatore, un musicita, un compositore, un dj, un filosofo, un animatore, una guida turistica, un attore, nonchè PR. Normale essere umano nel tempo libero.
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