M-Z Scienze Giuridiche
Diritto del lavoro
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07 Marzo 2006 – prof. Vettor PRIMA PARTE: DIRITTO DEL LAVORO L’origine della materia e tappe essenziali della cronologia del diritto del lavoro: nasce con la rivoluzione industriale (in Gran Bretagna alla fine del ‘700). Successivamente si è diffusa in altri Paesi. In Italia arriva nell’800. Alla rivoluzione industriale si collegano dei fenomeni collaterali: - inurbamento (spostamento dalle campagne e costituzione di agglomerati urbani intorno ai centri industriali); - trasformazione della struttura famigliare (messa in crisi del modello patriarcale); - perdita della solidarietà famigliare (perché la famiglia diventa di tipo nucleare, limitata nei suoi componenti) - costituzione di una classe operaia, di una forza lavoro applicata, non all’agricoltura, ma al lavoro industriale. La rivoluzione industriale genera la classe operaia ma, al contempo, i problemi per la stessa che li patisce (la morte a causa del lavoro era molto frequente). Da qui la necessità di unirsi per fronteggiare gli eventi nocivi (malattia, morte) del lavoro. C’è, quindi, una presa di coscienza da parte della neo-classe operaia. L’unica possibilità era quella di autoorganizzarsi, per fronteggiare i rischi economici collegati alla malattia, ossia la perdita di reddito a seguito di periodi di non lavoro causati dalla malattia. Era necessario costituire reti di solidarietà. Sono gli anni in cui hanno origine la società di mutuo soccorso (le mutue). Le mutue vengono indicate come l’anno zero del fenomeno sindacale. La Cgl, la Cisl e la Uil hanno origine in questi nuclei di auto-tutela. Il fenomeno delle mutue ha preoccupato il pubblico potere perché in esse si vedeva la possibilità di nascita di conflitti (contropotere). Questo è il motivo per cui fu stabilito per legge (legge 80/1898) lo scioglimento di questi fenomeni associativi e lo Stato si assunse il compito di svolgere la loro funzione (nascita dell’assicurazione per gli infortuni sul lavoro). Le imprese furono obbligate a stipulare tali assicurazioni per tutelare i lavoratori. Questa legge 80/1898 costituisce la struttura portante del vigente testo unico nr. 1124/1965. Vengono gettate le basi del welfare italiano, del diritto previdenziale della sicurezza sociale. Si passa, quindi, da un intervento di tipo privatistico ad uno di tipo statuale: nasce il diritto previdenziale, della sicurezza sociale. Vi sono, quindi, due origini e due elementi del quale il diritto del lavoro è solcato: per un verso il diritto sindacale (che nelle mutue ha la sua primaria origine), per un altro, il diritto della sicurezza sociale che è comunque parte del diritto del lavoro. La legislazione in tema di assicurazione in caso di infortunio sul lavoro risale al 1898, ma in quegli anni c’era una codificazione che si occupasse di regolamentare i contratti di lavoro? No, infatti, in quegli anni, era vigente il codice civile del 1865 che riproduceva il codice napoleonico del 1804, ma in esso c’era una sola norma che poteva riferirsi al rapporto di lavoro, ma dentro lo schema contrattuale della locazione (come potevano essere locati i mezzi, così poteva essere locato il lavoro). In altri termini il lavoro veniva sussunto dentro lo schema locatizio. Nel codice del 1865 non vi è traccia del significato e delle problematiche inerenti il rapporto di lavoro e il lavoratore. Il codice del 1865 non sentì l’esigenza di introdurre il contratto di lavoro perché i principi che portava in sé erano quelli della rivoluzione francese, ossia i valori ispirati all’individualismo, all’idea paritaria tra gli umani, all’uguaglianza (quindi non accoglie l’idea di disparità che può sussistere tra il lavoratore e il datore di lavoro). Nello schema locatizio si trova il germe del contratto di lavoro, ma nulla più. Nel codice civile del 1865 il contratto di lavoro non esiste se non nello schema locatizio. Questa assenza di legislazione si protrae fino al primo ventennio del ‘900, periodo in cui si instaura in Italia il cd. periodo corporativo. E’ un periodo che comincia negli anni ’20 e termina nel ’44 con la fine della seconda guerra mondiale. E’ il periodo che la storiografia individua come il ventennio fascista. Durante questi venti anni, l’auto-tutela collettiva viene relegata nell’area della illiceità penale. Ciò significa che lo sciopero (lo strumento moderno Diritto del lavoro
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attraverso il quale la parte lavoratrice rivendica diritti per sé), cioè l’astensione dal lavoro, è considerata reato e quindi penalmente punibile. C’è da notare che, precedentemente, l’astensione dal lavoro era considerata una libertà (non un diritto, in quanto lo diverrà solo con la Costituzione italiana, all’art. 40), e chi si asteneva dal lavoro era passibile semplicemente di un’azione di inadempimento contrattuale. Sotto il profilo sindacale si può quindi dire che questa fase storica si presenta fortemente connotata da elementi negativi, infatti c’era anche il mancato riconoscimento della libertà sindacale (non era possibile lecitamente dare luogo a fenomeni associativi). A prova di ciò sta il fatto che in quegli anni fu costituito un sindacato unico, rappresentativo, allo stesso tempo, della parte lavorativa e del datore di lavoro. Non c’era dialettica tra i due interessi, come invece avviene oggi con il pluralismo di sindacati. Sotto il profilo dell’intervento legislativo, nel ventennio fascista, vanno sottolineati due corpi normativi che, in qualche misura, segnano il primo consolidarsi del diritto del lavoro: una legislazione in tema di orario (nella quale viene fissata, per la prima volta, la durata massima della giornata lavorativa); e una legislazione che disciplina il rapporto di lavoro degli impiegati (si guarda al ceto sociale più vicino all’imprenditore). Nel 1942, in Italia, viene emanato il codice civile vigente. Che differenze si possono notare tra quest’ultimo e quello del 1865? - nel codice del 1865 il rapporto di lavoro era sussunto nello schema della locazione, mentre nel nuovo codice del 1942, il lavoro acquisisce una sua centralità (libro V) e viene staccato dal corpo di regole che disciplinano rapporti paritari tra le parti contraenti (libro IV delle obbligazioni). Lo spirito che caratterizza il libro V non considera primario il conflitto capitalelavoro, ma considera fondamentale l’interesse superiore della Nazione. I lavoratori e il datore di lavoro dovevano collaborare per ottenere l’interesse superiore della Nazione. Si diceva che il lavoratore doveva essere diligente e i parametri di tale diligenza che si trovavano nella redazione originaria di questa norma, erano: la natura della prestazione, gli ordini impartiti dal datore di lavoro, l’interesse economico generale. 08 Marzo 2006 – prof. Vettor E’ possibile scansionare, nella storia del diritto del lavoro, alcuni periodi: il primo può essere individuato come la fase originaria del diritto del lavoro, enucleatasi attorno alla legislazione sociale che viene risposta alle società di mutuo soccorso (lo Stato fa propria quella tutela fino ad allora realizzata dalle società di mutuo soccorso) Nel 1898 viene posta in essere una legislazione disciplinante l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro che segna l’anno zero della previdenza sociale. Successivamente vi è stato il ventennio fascista durante il quale sono state azzerate alcune libertà fondamentali quali la libertà sindacale, lo sciopero viene relegato nell’area della illiceità penale, e tuttavia ci sono alcune legislazioni che vanno a consolidare il nucleo originario del diritto del lavoro (la legislazione in tema di orario e in tema di disciplina del rapporto di lavoro degli impiegati). Il ventennio si chiude con la redazione del codice civile del 1942, nel quale si trova un’attenzione particolare al lavoro attraverso il libro V, e con ciò si determina una rottura col passato (precedente codificazione del 1865 nella quale il lavoro non aveva un riconoscimento perché quel codice ereditava i principi della rivoluzione francese, ed era inserito solo nell’area generica della locazione). Tuttavia il codice del 1942 risentiva molto dell’ideologia dei principi ispiratori del regime corporativo (infatti non troviamo descritta una relazione conflittuale tra datore di lavoro e lavoratore, non visualizza la contrapposizione tra capitale e lavoro, non identifica una contrapposizione di interessi, ma sacrifica entrambi all’interesse superiore della Nazione, dell’economia). Si dice infatti che le norme del codice civile sono attraversate da uno spirito comunitarista, ove le istanze potenzialmente in conflitto vengono completamente azzerate a vantaggio della Nazione).
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Con la fine della seconda guerra mondiale prendono corpo i diritti sociali o diritti fondamentali (diritti umani), che vengono inscritti nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, ove troviamo il principio della dignità personale, dell’uguaglianza a prescindere da qualsivoglia connotazione. Diviene evidente quanto fosse stato pericoloso porre delle distinzioni in rapporto, per esempio, alla nazionalità o ad altre caratteristiche. Nei costituzionalismi precedenti, i diritti di cui un individuo poteva godere erano comunque collegati all’appartenenza ad una comunità territoriale (infatti, in nome dell’appartenenza o della non appartenenza ad una comunità territoriale si è potuto perseguitare gruppi di persone). Questi problemi della storia hanno fatto sì che l’essere umano, preso nella sua irriducibile umanità, dopo la fine della guerra mondiale, venisse messo al centro dell’attenzione, a prescindere dalla cittadinanza o da altri connotati. I diritti che vengono riconosciuti all’essere umano, ai fini dell’espressione della sua stessa umanità, vanno a costituire il patrimonio dei cd. diritti fondamentali o diritti umani o diritti sociali o diritti di seconda generazione (perché vengono dopo il riconoscimento della libertà). I diritti fondamentali sono caratterizzati da due principi: quello della salvaguardia della dignità personale e quello dell’uguaglianza (in senso sostanziale, per poter accedere al principio di uguaglianza formale). Sono questi i diritti che trovano fondamento nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, che viene dopo la seconda guerra mondiale e che proietterà la sua influenza sulle costituzioni post-belliche europee. Infatti, ha avuto influenza anche sulla Costituzione italiana, ove troviamo scolpiti i diritti fondamentali, nell’ambito dei quali occupano un posto molto rilevante i diritti del lavoro e i suoi corollari. La Costituzione italiana riconosce i diritti dell’inviolabilità dell’essere umano (art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità…”) e dell’uguaglianza (art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Questi due principi sono alla base dei diritti sociali nel cui ambito il lavoro ha un posto centrale. La Costituzione italiana riserva al lavoro una grossa importanza e ciò si evince soprattutto dal titolo III intitolato –rapporti economici- che sia apre con l’art. 35 e si chiude con l’art. 47. Con il titolo III della Costituzione, si dà centralità al lavoro infatti l’art. 35 recita “La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”. L’art. 36 è altrettanto importante e si apre così: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e n ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”; si può notare che con esso si va oltre la semplice idea di proporzionalità, di scambio. Nell’art. 37 viene posto in modo inequivocabile il principio di eguaglianza, tra uomini e donne, nel lavoro; non ci devono essere discriminazioni in ragione del sesso. Lo stesso articolo fa riferimento al limite minimo di età per il lavoro salariato. Tutti questi articoli sono strettamente collegati agli art. 2 e 3 Cost. Nell’art. 37, però, è prevista la possibilità anche di derogare al principio della parità di trattamento, nel caso di maternità della donna perché questo segna il punto di discontinuità nella vita materiale di uomini e donne. E’ l’unica possibile disuguaglianza applicabile. L’art. 38 è fondamentale per la previdenza sociale: “Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto di mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria. Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti
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previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera”. L’art. 39.1: “L’organizzazione sindacale è libera” ribalta i comportamenti tenuti durante il fascismo. L’art. 40 sancisce il diritto di sciopero: “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. Nell’’art. 41 si coglie il primato dell’essere umano sulla ragione dell’economia, dell’impresa: “L’iniziativa economica privata è libera”, tuttavia, nello stesso articolo, vengono posti dei limiti. Il comma 2 cita: l’iniziativa “Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”; quindi, immaginando un sistema gerarchico, prima ci sono questi principi e, al secondo posto, la libertà dell’iniziativa economica privata. Gli altri diritti sociali contenuti nella Costituzione italiana sono il diritto all’istruzione (art. 35) e il diritto alla salute. La dottrina considera le norme della Costituzione norme di tipo programmatico, ossia non immediatamente precettive ma disegnano le linee di principio alle quali la legislazione si deve attenere. Tuttavia, la dottrina ha previsto che alcune delle norme sopra menzionate avessero un’immediata precettività, cioè entrassero direttamente nel patrimonio giuridico del singolo individuo. Un articolo che ha immediata precettività è l’art. 36.1 che, infatti, non ha bisogno di una legge attuativa della disposizione. Anche l’art. 39.1 “L’organizzazione sindacale è libera” è immediatamente precettibile (ciascun lavoratore può partecipare a dinamiche di auto-associazione, ai fini di auto-tutela). Per quanto concerne, invece, le altre norme, si è trattato di integrarle, di attuarle con la legislazione che è venuta successivamente. Tale legislazione può essere suddivisa nelle seguenti fasi: * periodo tra gli anni ’50 e ’60 cd. fase post-costituzionale - legislazioni punitive di quei comportamenti fraudolenti rispetto alle leggi che disciplinano il lavoro. Viene punita, attraverso la legge 1369/1960 (successivamente abrogata) l’interposizione di manodopera ossia il commercio di forza lavoro (oggi la visione è cambiata con società come Adecco, Manpower, etc.) - legislazione sul lavoro a domicilio, anch’essa ispirata a criteri di tutela e garanzia della parte lavoratrice, proprio in forza della particolare debolezza nella quale si trova il lavoratore a domicilio, rispetto a quello inserito nell’impresa - legislazione che disciplina le ipotesi di apposizione del termine ad un contratto di lavoro. Questa legge, la 230/1962, successivamente abrogata nel 2001 con il D.Lgs. 368, è la prima che si occupa di apporre un termine al contratto di lavoro. In questa legge si diceva che il contratto di lavoro subordinato doveva essere per un tempo indeterminato. Tuttavia la legge ammetteva delle eccezioni, espressamente indicate in una elencazione tassativa (al di fuori di questi casi, non era possibile apporre un termine al contratto). Il codice civile del 1942 (vigente al momento dell’emanazione della legge 230), però, prevedeva la regola opposta, ossia che il vincolo contrattuale dovesse essere a termine. Tra le due legislazioni c’è stata la Costituzione italiana che ha riconosciuto i dirittI sociali, la centralità degli interessi della parte lavoratrice e quindi l’indeterminatezza del vincolo contrattuale garantisce molto più di quanto non faccia una regola ispirata al criterio della temporaneità. In altre parole, la 230 si spiega in forza proprio della Costituzione italiana. Perché nel codice civile era previsto un rapporto di lavoro a tempo determinato? La dottrina giustifica ciò con il fatto che era ancora vivo il ricordo dei vincoli ereditati dal passato di “consegna” totale della propria esistenza totale al padrone. Alcuni sostengono che oggi si sia invertita la regola un’altra volta, cioè si sarebbe tornati alla regola del codice del 1942, cioè alla concezione del contratto a tempo determinato. - legislazione disciplinante il licenziamento individuale (legge 604/1966), la quale ha introdotto un principio, ancora presente nell’ordinamento lavoristico, cioè il principio per cui il datore di lavoro non può recedere dal rapporto di lavoro in mancanza di una giustificazione.
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Questo è un principio che va al cuore della dignità personale (si dice che è un principio di civiltà giuridica). * periodo anni ’70 - la legislazione di questo periodo si apre con una legge famosa: lo statuto dei lavoratori, legge 300/1970. Con questa legge viene disegnato il patrimonio giuridico/lo statuto giuridico del lavoratore. In essa si trovano sia norme rafforzative del principio di dignità e uguaglianza (per esempio sono vietate al datore di lavoro indagini pre-assuntive in violazione della privacy, limitando la raccolta di informazioni solo se hanno una rilevanza con l’attività di lavoro che dovrà essere svolta), sia norme nuove. Lo statuto dei lavori riconosce, inoltre, una tutela in caso di licenziamento ancora più garantista di quella riconosciuta nella legge 604/1966, infatti nell’art. 18 (che è una norma sanzionatoria) della legge 300/1970 si sanziona il datore di lavoro che non si è attenuto alle regole disciplinanti il licenziamento individuale. Laddove un’impresa ha 15 o più persone e il datore non si sia attenuto alle regole, il lavoratore viene reintegrato nell’ambiente lavorativo, cioè si dice che il licenziamento non è stato eseguito perché è nullo. Tuttavia può capitare che il lavoratore non abbia più voglia di riprendere il suo posto in quella impresa (perché il contesto relazionale si è guastato, etc.), allora il legislatore consente di monetizzare la reintegrazione che vale 15 mensilità, più 5 mensilità di risarcimento del danno. * periodo tra gli anni ’80 e ’90 - la legislazione di questo periodo è influenzata da varie crisi economiche, per cui la legislazione è meno garantista, meno protettiva della parte lavoratrice. Inizia a prendere corpo l’idea di flessibilità. E’ di questi anni la legislazione disciplinante i licenziamenti collettivi (fino ad allora il legislatore italiano si era occupato di licenziamenti individuali o al massimo plurimi ma dentro numeri contenuti), ma con le grandi crisi petrolifere che si riflettono sulle economie nazionali, sorge il problema di una legislazione contenitiva dei licenziamenti di massa. Inizia ad avanzare, quindi, la garanzia dei cd. ammortizzatori sociali (cassa integrazione, previdenza sociale, etc.): sono legislazioni che non producono occupazione ma cercano di limitare i danni economici e personali della disoccupazione involontaria (sono norme che in qualche misura fanno riferimento all’art. 38 Cost.). * periodo contemporaneo - c’è stata una recente riforma del mercato del lavoro: D.Lgs. 276/2003 che va sotto il nome di riforma/legge Biagi (professore di diritto del lavoro che fu ucciso prima della redazione del documento finale, ma a lui si attribuisce il libro bianco ispiratore della riforma). E’ una legislazione nella quale si trovano parole chiave come “deregolazione” (progressiva riduzione di tutela del patrimonio giuridico collegato al mondo del lavoro); “flessibilità” (all’ingresso e all’uscita dal mondo del lavoro), infatti attraverso una maggior flessibilità si ritiene di ottenere una maggiore occupazione; ed “Europa” (presenza di principi della legislazione comunitaria). 09 Marzo 2006 – prof. Vettor C’è stato un andamento oscillante del contratto a termine: inizialmente non era ammesso, poi nella 230/1962 si avevano dei limiti ben precisi, successivamente i limiti si sono allargati. I giorni nostri sono segnati dalla legge Biagi che è una legge che conta al suo interno più di 80 articoli, molti dei quali hanno avuto bisogno di integrazioni legislative di funzione attuativa. La legge Biagi (D.Lgs. 276/2003) è stata anticipata da una legge di delega nr. 30/2003, a sua volta anticipata da un documento programmatico: il libro bianco. Il professor Biagi è stato l’artefice del libro bianco, che risulta essere, quindi, la matrice del D.Lgs. 276/2003. Le fonti del diritto del lavoro. Nel diritto ci sono le fonti di produzione e le fonti di cognizione, e lo stesso vale per il diritto del lavoro. Diritto del lavoro
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La principale fonte di produzione è la legge, poi vi sono gli atti aventi valore di legge (decreti legislativi e decreti legge), e le fonti extra nazionali che hanno origine al di fuori del confine territoriale dello stato italiano (raccomandazioni, risoluzioni, dichiarazioni, etc.) che provengono dagli organismi dedicati alla tutela della parte lavoratrice, tra cui l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (della ILO o OIL), costituita nel 1919 per monitorare/controllare la tutela degli interessi della parte lavoratrice. Lo statuto dei lavoratori si costruisce sulla base di alcune indicazioni dell’ILO. C’è, inoltre, anche il diritto comunitario che è il più rilevante nella produzione di norme relative al lavoro: vi sono i regolamenti, le direttive, le decisioni. I regolamenti hanno un’immediata precettività ed efficacia mentre le direttive hanno bisogno di una legislazione attuativa (ad esempio: - il D.Lgs. 368/2001 è espressivo di una direttiva europea sul contratto a termine; - la legislazione del 2003 sul parttime è il frutto di una direttiva UE; - il D.Lgs. 626 è espressivo di una direttiva madre degli anni ’80; - la legislazione sui congedi parentali D.Lgs. 53/2000 deriva da una direttiva comunitaria). Le fonti sopra ricordate non manifestano profili di specialità rispetto agli altri rami dell’ordinamento, ma cosa, invece, si segnala come anomalia rispetto alle fonti classiche? La cd. fonte extra ordinem (che va fuori l’ordinario) che è rappresentata dal contratto collettivo. In altri termini, la disciplina del rapporto di lavoro non è solo reperibile nella legge e negli atti ad essa equipollenti, ma è reperibile dentro un contratto sottoscritto tra privati rappresentativi di un soggetto collettivo (i lavoratori da un lato ed il datore di lavoro dall’altro). Per conoscere quanto vale il nostro lavoro in termini economici dovremmo guardare non solo alla legge dell’art. 36 Cost. che dà i parametri generali (la proporzionalità e la sufficienza-a garantire libertà e dignità) ma anche ai contratti collettivi, ove troviamo quanto vale il lavoro, in base ad una mediazione negoziale tra il datore ed i lavoratori (associazioni rappresentative degli uni e degli altri). E’ da far presente che può capitare che, dalla parte del datore di lavoro, vi sia una sola persona che contratta, ma non avverrà mai che un’associazione rappresentativa del datore di lavoro contratti con un solo lavoratore. In un contratto collettivo c’è sempre una associazione rappresentativa dei lavoratori. La contrattazione collettiva può essere di tipo nazionale, locale, aziendale, provinciale/territoriale. Inoltre, ci può essere una contrattazione collettiva di tipo normativo (cd. tipo). Nella contrattazione collettiva è molto importante il principio di libertà sindacale e il diritto di sciopero. Altre fonti ascrivibili al concetto di fonti extra ordinem sono le pronunce giurisprudenziali che hanno una rilevanza fondamentale, nonostante il nostro sia un paese di civil-law. Tuttavia non c’è solo la giurisprudenza che viene prodotta entro i confini territoriali del nostro stato, ma c’è anche la giurisprudenza comunitaria, cioè la giurisprudenza dei giudici dell’Unione Europea. Anche gli interventi interpretativi del Ministero del lavoro sono molto importanti in questa materia. Il D.Lgs. 276/2003 ha disciplinato, tra le altre cose, anche le collaborazioni coordinate continuative (co.co.co.) e il lavoro a progetto, ma quando è entrato in vigore non era ben chiaro cosa dovesse essere delle vecchie collaborazioni coordinate continuative e allora è intervenuto il Ministero del lavoro con una circolare interpretativa. Sempre in riferimento alle co.co.co., ora divenute lavoro a progetto, è intervenuto l’Inps, attraverso una circolare interpretativa, per chiarire la tassazione di tali collaborazioni, a fronte della trasformazione avvenuta. Questi collaboratori, nel 2000, sono divenuti soggetti tutelati sotto il profilo degli infortuni, quindi anche per loro è stata prevista una copertura assicurativa in caso d’infortunio. Essendo tale contributo destinato all’Inail, questa è intervenuta per chiarire la nuova disposizione. Tutti questi documenti sono esplicativi, interpretativi. Tornando alla legge (intendendo anche il D.L. e il D.Lgs.), nel 2001 c’è stata la riforma dell’art. 117 Cost. che disciplina quali sono le competenze di legiferazione: la regola originaria attribuiva la competenza a legiferare allo Stato (Parlamento) e, per alcune materie Diritto del lavoro
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specificate, si cedeva tale competenza alle regioni. Con la riforma si è sostituito un modello in cui si elencano i casi (limitati) in cui lo Stato può legiferare (praticamente la situazione opposta). In questo schema si inserisce, poi, la competenza concorrente (competenza ricondotta alle regioni, nei limiti dei principi stabiliti dal legislatore. Con questa riforma c’è stata una svolta in senso federalista. Nella competenza concorrente si trova molto spesso un rinvio alle regioni, per quanto riguarda il diritto del mercato del lavoro. Per quanto concerne, invece, la disciplina del rapporto di lavoro è rimasta la competenza esclusiva dello stato (per evitare possibili deroghe sulla legislazione). A fronte di ciò, è evidente che la legge, per quanto riguarda il diritto del lavoro, non è solo quella statale ma è necessario guardare anche alle fonti regionali. Qual è l’oggetto del diritto del lavoro? Di chi si occupa il diritto del lavoro? In che modo se ne occupa? Anzitutto c’è da distinguere tra il contratto di lavoro subordinato (prestatore di lavoro subordinato) e il contratto d’opera (lavoratore autonomo). Il diritto del lavoro regge su questa distinzione tipologica. Si dice anche che il diritto del lavoro è strutturato da una specifica dicotomia tipizzante rappresentata dal lavoro subordinato e dal lavoro autonomo. Il nostro ordinamento, a differenza di altri quali Regno Unito, Germania, Francia, ha nozioni generali legali descrittive di questi contratti. Il caso che più si approssima a quello italiano è quello spagnolo ove non esiste una nozione generale di lavoro autonomo, bensì una nozione generale di lavoro dipendente. L’Italia è l’unico paese ad avere, per ciascun tipo contrattuale, una specifica nozione. I francesi hanno ancora il codice Napoleone, ove il contratto di lavoro è inserito nella forma locatizia (era ciò che prevedeva anche il codice civile italiano del 1865). La nozione legale generale di prestatore di lavoro subordinato è nell’art. 2094 c.c., mentre la norma del contratto d’opera –locatio operis- (da cui estraiamo la figura del lavoratore autonomo) è nell’art. 2222 c.c. Art. 2094 c.c.: “Prestatore di lavoro subordinato. E’ prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. Art. 2222 c.c.: “Contratto d’opera. Quando una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente, si applicano le norme di questo capo, salvo che il rapporto abbia una disciplina particolare nel libro IV”. 14 Marzo 2006 – prof. Vettor L’oggetto del diritto del lavoro ha a che fare con una dicotomia tipizzante, ossia vi è una contrapposizione tipologica nella materia ed è determinata dal lavoro subordinato e dal lavoro autonomo. Il primo si ricava dall’art. 2094 c.c. il quale si oppone all’art. 2222 c.c. Cosa risulta dal raffronto letterale delle due norme? Qual è l’elemento che le differenzia? Nella prima si ha la subordinazione di un soggetto, nella seconda no. L’elemento discriminante è, in un caso, la subordinazione, nell’altro caso, l’assenza di subordinazione. I tipi contrattuali nel diritto sono due e l’elemento discriminante dei tipi contrattuali consiste nella subordinazione. A questo punto diventa fondamentale chiarire l’espressione “subordinazione”. Molta della discussione dottrinale ha avuto per tema l’approfondimento del concetto di subordinazione. Si è data tanta importanza all’argomento perché alla subordinazione si collegano degli effetti: nell’ordinamento lavoristico, all’esistenza della subordinazione, in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, conseguono effetti
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specifici sul piano della disciplina applicabile. In altri termini, il diritto del lavoro presuppone per la sua applicazione, l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Per esempio, la legge 604/1966 disciplinante il licenziamento individuale, chiede che l’atto del datore di lavoro sia giustificato da una motivazione. Ciò trova applicazione nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato. Un altro esempio, il D.Lgs. 368/2001 (disciplina del contratto a termine), nell’ambito di applicazione soggettivo della legge, riguarda il lavoro subordinato. Un ulteriore esempio, in tema di procedure in caso di licenziamento collettivo (legge 223/1991) si applica in presenza di un atto espulsivo nei confronti di quei lavoratori che godono della qualifica della subordinazione. L’oggetto del diritto del lavoro è, quindi, il lavoro subordinato, la cui nozione viene ricavata per differenza dalla nozione di lavoro autonomo. Le norme che costituiscono il diritto del lavoro si applicano in via tendenziale ai rapporti che si qualificano nel senso della subordinazione. Nel diritto del lavoro vige il principio della correlazione tra fattispecie ed effetti. Poi ci sono delle normative che hanno natura trasversale e quindi si applicano indifferentemente ai lavoratori autonomi e subordinati. Caratteristiche che si possono individuare nel lavoro subordinato, senza consultare le norme: - il lavoro subordinato è quel lavoro che per essere svolto si deve attenere alle disposizioni impartite da un altro soggetto in posizione gerarchicamente sovra-ordinata al lavoratore - la predeterminazione dei termini di pagamento della retribuzione - l’estraneità della proprietà dei mezzi di produzione - la presenza di un vincolo d’orario e anche del luogo - in un caso c’è un’obbligazione di risultato (e quindi un rischio), nell’altro c’è un lavoro personale cioè un’obbligazione di mezzi Essendoci, inoltre, un contratto tra il datore e il lavoratore, come stabilito dal diritto privato, esso ha forza di legge e pertanto è necessario tener conto anche della volontà contrattuale. C’è pertanto una rilevanza della volontà negoziale privata ai fini della qualificazione del rapporto. E’ estremamente rilevante chiarire cos’è la subordinazione perché solo così si sa se si applica o non si applica il diritto del lavoro. Gli studiosi, nel cercare di fornire una risposta, si sono subito distinti per l’approccio metodologico. Alcuni (prima tesi) hanno ritenuto che la subordinazione fosse qualche cosa spiegabile in base ai criteri contenuti nell’art. 2094 c.c., ossia la fattispecie concreta deve mostrarsi identica alla fattispecie astratta. Ciò presuppone che si conoscano gli elementi identificativi della norma stessa e, leggendo l’art. 2094 c.c., emergono gli elementi di identificazione della fattispecie astratta che sono: la retribuzione, la collaborazione nell’impresa, la dipendenza o l’eterodirezione (la direzione da parte di qualcuno che è estraneo alla mia sfera personale). Quindi, per questo filone dottrinale, la subordinazione attiene agli elementi evincibili dall’art. 2094 c.c.. In altri termini, per questa dottrina, la subordinazione non è qualcosa che può essere descritta in base ad elementi exta-legislativi o extra-normativi. Tuttavia, fra questi elementi (contenuti nell’art. 2094 c.c.) tali studiosi ritengono si debba operare una collocazione ordinata gerarchicamente, posizionando al primo posto l’elemento dell’eterodirezione. In questo senso si dice che la subordinazione viene qualificata in base ad un metodo sillogistico o sussuntivo (in quanto c’è il seguente ragionamento: è lavoratore subordinato quel lavoratore presenti gli elementi di cui all’art. 2094). Altri studiosi (seconda tesi) hanno elaborato negli anni ’60 un’altra tesi e che, ancora oggi, ha una sua attualità e che dice che il lavoratore subordinato non può essere descritto in base agli elementi di qualificazione evincibili dall’art. 2094, perché il lavoratore subordinato è anzitutto caratterizzabile a partire da una disparità socio-economica nei confronti del datore di lavoro. Cioè il 2094 c.c. non consente di visualizzare un dato di realtà caratterizzante la condizione di un lavoratore subordinato (la sua debolezza socio-economica tale da offrire il proprio lavoro per predeterminarsi le condizioni della propria sopravvivenza materiale). E’
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quel soggetto in condizioni socio-economiche diseguali rispetto al datore di lavoro, non menzionate nell’art. 2094 c.c. Per i sostenitori di questa tesi. L’art. 2094 è povero di elementi di qualificazione e comunque parziale nel suo tentativo di descrivere qual è la condizione , le caratteristiche del lavoratore subordinato. Questa è una corrente dottrinale degli anni ’60 che prende il nome di “socialismo giuridico”, in base alla quale, quindi, per poter qualificare un rapporto di lavoro in senso subordinato, bisogna rivolgere l’attenzione non solo all’art. 2094 c.c. ma anche ad elementi extra-testuali, extra-legislativi in grado di rappresentare adeguatamente il profilo di un lavoratore subordinato. Che conseguenze abbiamo sul piano della metodologia della qualificazione? Questa tesi non segue il metodo sillogistico-sussuntivo (perché non basta verificare gli elementi di qualificazione tratti dall’art. 2094 c.c.), ma apre la via (sostenendo l’insufficienza dell’art. 2094 ai fini della qualificazione) al metodo dell’approssimazione, cd. metodo tipologico (basato su un giudizio approssimativo). Questo metodo, di volta in volta, verifica la prevalenza dei requisiti della fattispecie astratta rispetto alla fattispecie concreta; esso addiviene alla qualificazione di un rapporto non in base ad una perfetta coincidenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta, ma addiviene alla qualificazione del rapporto in presenza del maggior numero di indici evincibili dalla norma. Nei due metodi abbiamo, quindi, in un caso la massima valorizzazione del dato legale, nell’altro abbiamo una considerazione di un valore solo indicativo o approssimativo degli elementi legali, al fine della ricostruzione della nozione di subordinazione. 15 Marzo 2006 – prof. Vettor L’elemento distintivo delle due tipologie tipizzanti il diritto del lavoro è la subordinazione. L’individuazione della subordinazione è importante perché permette di capire qual è la disciplina applicabile. L’ordinamento lavoristico si struttura sulla correlazione tra fattispecie ed effetti. Sono state individuate due teorie, in tema di qualificazione: la prima secondo cui la nozione di subordinazione deriva esclusivamente dai dati evincibili dall’art. 2094 (metodo di qualificazione sussuntivo o sillogistico); la seconda per la quale l’art. 2094 visualizza un lavoratore dipendente senza riuscire a ricomprendere la pluralità in situazioni lavorative, perché ad esso manca l’elemento della considerazione della disparità socio-economica; è necessario pertanto considerare anche elementi extra-testuali (metodo tipologico o del giudizio per approssimazione). Oggi qual è il metodo della qualificazione? Come si addiviene alla definizione della nozione di subordinazione? Sotto questo profilo, ancor più della dottrina e degli studi, è necessario guardare in via prevalente all’attività giurisprudenziale. Un primo rilievo da fare è di natura metodologica, cioè come procedono i giudici nell’attività di qualificazione? I giudici, sulla scorta di quelle considerazioni dottrinali volte ad evidenziare l’insufficienza dell’art. 2094 a descrivere esaustivamente la figura del lavoratore, optano per il metodo tipologico o metodo dell’approssimazione (adottano la cd. tecnica del fascio di indici). In altri termini, verificano se, nel caso concreto, sono presenti la maggior parte degli elementi qualificanti la figura socialmente tipica di lavoratore, sussunta nell’art. 2094 c.c. I giudici verificano di volta in volta la presenza di quegli elementi caratterizzanti la figura sociale di lavoratore subordinato, visualizzata nell’art. 2094 c.c. In sostanza, per la giurisprudenza ogni attività umana, in via di principio, può essere ricondotta o nel lavoro autonomo o nel lavoro subordinato. Si tratterà tutte le volte di valutare in concreto, in base alla tecnica del fascio di indici, in base al metodo tipologico o per approssimazione, se quel caso sia riconducibile all’una o all’altra tipologia contrattuale.
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Quali sono, però, questi indici? Esiste una gerarchia fra questi indici? E’ possibile ordinarli in relazione alla loro importanza? Il giudice li considera paritariamente una pluralità di indicatori? La risposta è che esiste una serie di indici collocabili gerarchicamente, cioè ve ne sono alcuni valutati come più rilevanti rispetto ad altri. Secondo studi al riguardo, la distinzione tra gli indici di qualificazione parte dalla bipartizione tra indici essenziali, a loro volta distinguibili in indici essenziali cd. interni ed indici essenziali cd. esterni, ed indici sussidiari. Un indice essenziale cd. interno si definisce in base al suo potere dirimente; ha un valore di qualificazione molto pregnante, particolarmente significativo. Un indice essenziale esterno ha una funzione ugualmente pregnante ma leggermente attenuata rispetto all’indice essenziale interno, il che significa, nella maggior parte dei casi, che avrà bisogno di essere supportato dalla verifica della presenza di altri indici. Gli indici cd. sussidiari sono quegli indici destituiti di una forza di un valore di qualificazione determinante, ai fini della distinzione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, ma hanno una funzione di rafforzamento dell’esistenza o dell’assenza della subordinazione. Sono impiegati in via sussidiaria, in funzione confermativa, rafforzativa della natura del rapporto. Indice essenziale interno L’elemento essenziale interno è rappresentato dalla subordinazione cd. giuridica o personale e cioè esso è costituito dalla cd. eterodirezione. Cioè dalla sottoposizione al potere direttivo, organizzativo e disciplinare. Un’analisi della giurisprudenza non consente di stabilire in modo univoco in che misura debba presentarsi tale potere; in altri termini la giurisprudenza presenta orientamenti sfumati in ordine all’intensità del potere di direzione: per alcuni giudici tale potere dovrà esercitarsi in modo specifico, molto dettagliato, pertanto la discrezionalità del lavoratore sulle modalità di esecuzione della prestazione deve essere estremamente limitata; per altri giudici, invece, anche per effetto delle trasformazioni che ha subito il lavoro (passaggio dal fordismo al cd. post-fordismo) il potere direttivo si avrà sia in caso di dettagliate istruzioni, sia laddove il lavoratore sia soggetto a direttive generali. Indice essenziale esterno Se traballasse l’indice della cd. eterodirezione nella duplice forma che essa assume, ecco che vengono in aiuto gli indici cd. essenziali esterni. Gli indici essenziali esterni hanno un potere di qualificazione ma più attenuato rispetto a quello interno. Gli indici essenziali esterni sono: la continuità, dall’inserimento nell’organizzazione dell’impresa e dalla collaborazione. -continuità Si dice che può essere subordinato solo quel lavoratore il quale eroghi continuativamente nel tempo la propria prestazione di lavoro. La valorizzazione del requisito della continuità origina dalla bipartizione per cui, in un caso, si realizza un risultato (obbligazione di risultato/opera), a prescindere dal tempo necessario per la sua esecuzione, nell’altro invece si realizza l’erogazione della prestazione di lavoro che si rinnova ogni giorno (obbligazione di mezzi). La giurisprudenza non è unanime nel valutare questo indice come indice essenziale: alcuni lo screditano fino a ritenerlo un indice sussidiario (perché con la trasformazione del lavoro, il lavoratore è sempre più legato al risultato e meno alla continuità nel tempo. - inserimento nell’organizzazione dell’impresa Questo requisito viene distinto con molta fatica da quello della collaborazione, infatti sono sostanzialmente analoghi. I giudici tendono a fare questa considerazione: il potere direttivo si esplica nella misura in cui vi è un inserimento del lavoratore nell’impresa (l’inserimento del lavoratore nella struttura organizzativa dell’impresa è specchio dell’esercizio del potere direttivo). Peraltro, vi sono pronunce giurisprudenziali nelle quali questo elemento viene screditato perché è sempre più rilevante la presenza di figure di lavoratore autonomo (per esempio i collaboratori coordinati continuativi, oggi lavoratori a progetto) le quali, ancorché inserite nell’organizzazione dell’imprenditore, non sono soggetti ad un potere di direzione.
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- collaborazione Alcuni giudici considerano rilevante il dato della collaborazione, menzionato nell’art. 2094 c.c., mentre altri lo screditano perché non lo considerano espressivo del potere direttivo (come per l’inserimento nell’organizzazione dell’impresa). Indice sussidiario L’indice sussidiario, preso singolarmente, è privo di potere di qualificazione, semmai svolge una funzione rafforzativa in un senso piuttosto che in un altro. Sono indici sussidiari: l’orario di lavoro, l’oggetto della prestazione, il rischio, le modalità della retribuzione, la volontà negoziale e il luogo della prestazione. Si considera il vincolo dell’orario di lavoro espressione del potere direttivo. Gli elementi dell’oggetto della prestazione ed il rischio sono scarsamente apprezzati perché sono fenomeni entrambi compresenti sia nel lavoro autonomo che nel lavoro subordinato (non sono questi gli elementi che possono far dire se c’è lavoro dipendente oppure no). Premessa: in via generale non esiste un obbligo di forma scritta ab subtantiam in caso di stipulazione di contratto di lavoro subordinato. In caso di stipulazione di un contratto, in che misura deve essere valutata la volontà negoziale? La giurisprudenza si è orientata nel considerare non dirimente questo elemento. Anche la Corte Costituzionale si è occupata di questa questione e ha detto che, nel rapporto di lavoro, le parti non possono disporre del tipo contrattuale. Cioè non è possibile alle parti, in caso di controversia, stabilire il tipo di contratto (la natura del rapporto). E’ il giudice che ha l’ultima parola e stabilisce la natura del rapporto (di quale contratto si è trattato). Nella nostra vita sociale possiamo stipulare contratti di lavoro autonomo ma è sempre possibile domandare all’autorità giudiziale di dichiararsi sulla natura del rapporto, la quale potrà, in ipotesi, sovvertire le dichiarazioni negoziali delle parti. Le parti possono disporre del tipo contrattuale fintanto che non nasca una domanda all’autorità giudiziale sulla effettiva natura del rapporto. Il luogo della prestazione: alcuni giudici non lo considerano rilevante perché ci sono dei lavori, benché subordinati, che non si svolgono nei locali dell’imprenditore (lavoro a domicilio che, nella forma moderna, prende il nome di telelavoro). Si vede come, questo elemento, tempo fa, nelle fabbriche fordiste potesse essere valido ed avesse un senso, mentre lo ha meno al giorno d’oggi. Modalità della retribuzione: i giudici non sono fondamentalmente orientati a considerare subordinato quel lavoratore al quale viene erogato un compenso mensilmente, perché la retribuzione è una forma che si è andata trasformando nel tempo (vi sono premi, parti di retribuzioni differite, diversamente concordate). Per cui anche la retribuzione non è considerato un elemento dirimente. La subordinazione è qualche cosa che si qualifica nel contenzioso, è una questione di rilievo pratico essenziale perché ad essa si connette una disciplina protettiva (ad esempio, in caso di infortunio, come lavoratori autonomi non si avrebbe diritto ad una tutela indennitario e ad eventuali risarcimenti del danno in base alla responsabilità contrattuale, se si è dipendenti sì invece). L’altro rilievo di grande significato è l’estrema incertezza derivante dal metodo tipologico, nel senso che l’uso della tecnica del metodo dell’approssimazione genera incertezza, in quanto possiamo scarsamente prevedere quali potranno essere le conclusioni di un giudice. La tecnica del fascio d’indici non consente di valutare preventivamente quello che potrà essere l’orientamento del giudice perché potremmo essere di fronte ad un giudice che dà un’interpretazione molto elastica oppure restrittiva dell’eterodirezione. Questa è una considerazione della quale la legge Biagi ha voluto occuparsi, essa ha voluto risolvere uno dei problemi, a detta del libro bianco, più rilevanti e cioè il problema dei collaboratori coordinati continuativi. Il libro bianco (documento programmatico) ha considerato i co.co.co. dei lavoratori autonomi (lavoratori autonomi celati) perché le imprese con quella forma contrattuale riescono ad evadere la disciplina del diritto del lavoro. L’obiettivo del libro bianco era quello di sciogliere questi lavoratori dalla forma co.co.co. Pertanto il libro bianco, poi la Diritto del lavoro
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legge di delega 30 e successivamente il 276 attuativo della legge di delega, stabilisce un termine oltre il quale non è più possibile rinnovare quella forma contrattuale (ex art. 409 c.p.c.). Qual è, per il libro bianco, quel lavoratore autonomo che genuinamente possiamo definire autonomo, cioè non espressivo di una evasione dalle norme del diritto del lavoro? Qual è la forma contrattuale che il libro bianco immagina per far transitare le vecchie collaborazioni coordinate continuative nell’area della genuina autonomia? Il lavoro a progetto. Quindi, l’operazione del libro bianco è, per un verso, “non permetto che si stipulino altri contratti di co.co.co.” ex art. 409 c.c. privi di un progetto, programma o fasi di esso. E’ invece possibile stipulare contratti di collaborazione coordinata e continuativa a progetto, perché il lavoro a progetto nel D.Lgs. 276 è la somma di due elementi: l’art. 409 c.p.c. e i suoi elementi definitori più un progetto, un programma o una fase di esso. Per il libro bianco, solo coloro i quali svolgono lavoro coordinato, continuativo a progetto possono considerarsi lavoratori autonomi genuini. 16 Marzo 2006 – avv. Bianchi Il lavoro a progetto così come le collaborazioni coordinate continuative sono fattispecie di lavoro autonomo. Vengono definiti parasubordinati perché hanno delle caratteristiche del lavoro subordinato ma non ne condividono la disciplina. Con il D.Lgs. 276/2003 il legislatore ha deciso di dare una disciplina al contratto di collaborazione coordinata continuativa, inquadrando alcune fattispecie all’interno di quello che è definito lavoro a progetto. Ha creato una disciplina specifica per il lavoro a progetto aggiungendo alcune tutele. Il D.Lgs. 276/2003 parla del lavoro a progetto all’art. 61 e definisce il lavoro a progetto dicendo che “i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409 c.p.c., devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente da collaboratore in funzione del risultato”. Il collaboratore, quindi, ha autonomia nella gestione, l’importante è il risultato (non deve rendere conto dei suoi tempi di lavoro al committente, l’importante è che il progetto sia pronto al termine del contratto). Il lavoratore a progetto può lavorare anche all’interno dell’azienda (ma indipendente dagli altri), tuttavia non deve rendere contro dell’orario di lavoro che svolge, non deve rendere conto delle assenze, non ha ferie (non dovendo avere una presenza in servizio può prendersi le ferie quando vuole). L’art. 62 prevede la stipulazione in forma scritta del contratto di lavoro a progetto e deve contenere, ai fini della prova, questi elementi: definizione della durata determinata o determinabile; la descrizione del progetto; il corrispettivo e i criteri per la sua determinazione; più altri elementi. Cosa succede nei casi in cui questi elementi non vengano rispettati? Lo dice l’art. 69.1: “I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’art. 61 comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto”. Quindi, nel caso in cui il progetto non sia individuato o comunque non sia uno specifico progetto, il rapporto viene convertito da lavoro autonomo a lavoro subordinato e inoltre viene modifica la durata del contratto, trasformandolo in contratto a tempo indeterminato ab origine. Art. 69.2: “Qualora venga accertato dal giudice che il rapporto di lavoro instaurato ai sensi dell’art. 61 sia venuto a configurare un rapporto di lavoro subordinato, esso si trasforma in un rapporto di lavoro subordinato corrispondente alla tipologia negoziale di fatto realizzatasi tra le parti”. La differenza tra il comma uno e il due è: nel primo si ha la mancanza di un requisito costitutivo della fattispecie, nel secondo si ha, anche in presenza del progetto, una modalità di lavoro che non corrisponde a quella del lavoro autonomo. Diritto del lavoro
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Sul lavoro a progetto, dalla sua entrata in vigore (ottobre 2003) ad oggi, ci sono pochissime pronunce giurisprudenziali e sono tutte pronunce di primo grado. Sentenza 05 Aprile 2005, tribunale di Torino (riconoscimento della subordinazione) La causa riguarda dei promoter di un supermercato. Erano circa 80 promoter, di cui alcuni avevano una qualifica superiore (erano coordinatori dello stand) ed altri una qualifica ancora superiore (coordinatori dell’agenzia). La loro attività consisteva di promuovere, nello stand all’interno del centro commerciale, un prodotto multimediale. Avevano un lavoro su turni ed erano coordinati direttamente dal coordinatore di stand. I contratti partivano da contratti di collaborazione occasionale poi si trasformavano magari in contratti a progetto, oppure non c’era nessun contratto. Il progetto era finalizzato alla promozione e distribuzione dei servizi di telecomunicazione ed internet individuati dai clienti della società committente. Al collaboratore era richiesto di presentare i prodotti e i suoi servizi ai soggetti interessati. Quindi l’obiettivo del progetto sarebbe quello del miglioramento e della diffusione dei servizi della società committente. E’ necessario, volta per volta, analizzare se ci sono gli indici della subordinazione o dell’autonomia. Il giudice incaricato di questa causa analizza il progetto, verificando ciò che dice l’art. 61, e il primo indice negativo che trova è la corrispondenza tra l’attività dell’azienda (che non aveva lavoratori subordinati) e l’attività svolta dagli 80 collaboratori. In secondo luogo, il giudice analizza il tempo di esecuzione: i collaboratori lavoravano su turni; addirittura c’è un planning settimanale (ciò contrasta con l’autonomia del collaboratore a progetto). Il terzo indice individuato dal giudice sta nel fatto che i collaboratori erano obbligati ad avvisare preventivamente, in caso di assenza (contrasto con quanto previsto dalla norma). Il quarto indice è il monitoraggio dell’attività: tre/quattro volte al giorno i promoter dovevano comunicare alla società i dati riguardanti l’attività svolta (contrasto con l’autonomia del collaboratore a progetto, al contrario rientra nell’eterodirezione). Il giudice trae e seguenti conclusioni: poiché l’organizzazione di un lavoro a turni appare incompatibile con il concetto di autonomia della prestazione e poiché il tempo impiegato quotidianamente per svolgere il lavoro non deve avere alcun rilievo perché ciò che conta è il risultato finale, manca uno specifico progetto e si ricollega all’art. 69 comma 1 del D.Lgs. 276/2003. Il giudice ne fa, quindi, discendere la costituzione di un rapporto subordinato a tempo indeterminato. Peraltro il giudice, prima di arrivare a questa conclusione, si domanda se il fatto che manca uno specifico progetto deve essere considerato importante ai fini della subordinazione oppure, nonostante la mancanza del progetto, noi possiamo comunque rilevare un rapporto autonomo. Il giudice dice, per la prima volta, chiarendo una parte della norma, che si tratta di una presunzione relativa, quindi, anche in mancanza del progetto, si è comunque tenuti a verificare che effettivamente le modalità di prestazione della collaborazione siano di tipo subordinato e non autonomo, prima di convertire il contratto a rapporto di lavoro subordinato. Questo perché il tipo del contratto di lavoro è indisponibile, cioè sarebbe contrario a Costituzione costringere quello che è un vero rapporto di lavoro autonomo a diventare subordinato per la mancanza di requisiti formali. Ciò che deve mancare sono i requisiti sostanziali. Il giudice, nel caso in questione, verifica anche la presenza di un potere gerarchico e disciplinare (infatti il datore di lavoro mandava dei richiami scritti ai propri collaboratori). Inoltre, c’erano delle direttive scritte sullo svolgimento dell’attività. C’era anche il rapporto gerarchico (alcuni promoter avevano poteri di coordinamento di stand e altri di agenzia, rispetto ai promoter). Per questi motivi, il giudice ha riqualificato il rapporto di lavoro come subordinato a tempo indeterminato. Con quali conseguenze? Questi rapporti di lavoro non erano più in essere, erano già stati risolti per la scadenza del contratto di lavoro a progetto. Con la conversione a rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come stabilito dalla legge, il giudice ha considerato
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che il recesso da questi contratti fosse illegittimo in quanto recesso ad nutum, con l’applicazione della tutela reale e l’applicazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori. La conseguenza è molto grave per il datore di lavoro: ai lavoratori spettava la reintegrazione nella loro posizione lavorativa con la corresponsione di tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento illegittimo, sino alla reintegrazione con un minimo di 5 mensilità (con la possibilità, nel caso in cui non voglia rientrare in azienda, di optare per 15 mensilità). Considerando che un giudizio dura almeno un paio d’anni, le mensilità da retribuire sono molte. Sentenza 24 Novembre 2005, tribunale di Ravenna (conferma del contratto a progetto) Il caso riguarda una collaboratrice che si rivolge al giudice del lavoro sostenendo di essere stata adibita ad un’attività di tipo subordinato, con mansioni di addetta all’ufficio commerciale. Dice di non aver alcun progetto specifico anche se esiste un contratto a progetto, di aver svolto mansioni di centralinista inizialmente e di addetta alla fatturazione in seguito. La ricorrente sostiene di aver lavorato sempre presso la sede dell’azienda e con i mezzi dell’azienda, di essere stata inserita nella gerarchia aziendale (un responsabile le impartiva direttive), inoltre sostiene di aver osservato un orario di lavoro ben definito. La causa è stata generata dal fatto che la società ha risolto il contratto di lavoro. Il giudice individua la mancanza del progetto ben definito ma questa è una presunzione che può essere superata con la verifica degli indici. Il giudice dice che seppure i fatti addotti dalla concorrente sembrerebbero far apparire l’esistenza di un lavoro subordinato, in realtà, le prove raccolte durante il processo dimostrano il contrario. La società datrice di lavoro è riuscita a dimostrare che il progetto (obiettivo) esisteva e consisteva nella realizzazione di un ufficio commerciale operativo pienamente efficiente (dopodiché, una volta diventato operativo l’ufficio commerciale, a seguito dell’addestramento dei dipendenti da parte della collaboratrice, la presenza di quest’ultima sarebbe stata superflua). La società sostiene che era vero che rispondeva gerarchicamente alla responsabile dell’azienda ma, con ella, si coordinava al fine di strutturare l’ufficio commerciale; inoltre sostiene che la collaboratrice non aveva un orario di lavoro e non aveva un badge. Manca la prova che la collaboratrice fosse assoggettata al potere direzionale. Il fatto che si fosse occupata del centralino, di inserimento dati, della fatturazione dipendeva dal fatto che ciò era indispensabile per capire le procedure e creare, quindi, l’ufficio commerciale. Sentenza, tribunale di Milano (conferma del contratto a progetto) Riguarda una persona che ha svolto attività di informatore medico-scientifico (presentava ai medici i prodotti della società). Non è stata fatta nemmeno l’istruttoria in quanto la ricorrente ha dedotto le circostanze sbagliate secondo il giudice, ovvero ha cercato di far riconoscere la subordinazione semplicemente sostenendo l’attività che aveva svolto (dicendo che era un’attività di tipo subordinato) ma senza dedurre quali erano le modalità con cui l’aveva svolta. Questo fa capire la differenza: secondo la Cassazione le attività possono essere tutte svolte sia in modo autonomo sia in modo subordinato. E’ quindi fondamentale, ai fini della prova e quindi del riconoscimento della subordinazione, che il lavoratore dimostri le modalità con cui il lavoro si è svolto. Per cui non è sufficiente che manchi il progetto ma è anche necessario che il lavoratore dimostri che le modalità di svolgimento del rapporto sono state quelle del lavoro subordinato. 21 Marzo 2006 – prof. Vettor Il problema della qualificazione del rapporto è importante perché la subordinazione è il passaggio obbligato per l’applicazione della disciplina lavoristica. Quale è il criterio principale per stabilire la natura subordinata di un rapporto? L’eterodirezione. Come operano i giudici nel processo di qualificazione del rapporto? La metodologia che si è imposta è quella del Diritto del lavoro
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fascio d’indici o metodo tipologico. L’eterodirezione è la sottoposizione ai poteri direttivi, organizzativi e disciplinari del datore di lavoro. Per alcuni giudici l’eterodirezione va valutata in senso molto restrittivo/vincolante (puntigliose indicazioni su cosa fare, lasciando poco margine di autonomia al lavoratore), per altri in senso meno vincolante. Il criterio dell’eterodirezione è fondamentale ai fini della qualificazione, anche se diversamente intesa (in forma più o meno ampia). Quindi si ha: presenza eterodirezione = subordinazione assenza eterodirezione = autonomia Con le trasformazioni della produzione, con il passaggio dal fordismo al post-fordismo sono aumentate le figure autonome per un verso (nell’esercizio della prestazione), ma dipendenti sotto altro aspetto (economico-sociale). Questo fenomeno di crisi dell’eterodirezione è iniziato negli anni ’80 e sta caratterizzando non solo l’ordinamento lavoristico italiano. In questi vent’anni si è cercato di risolvere questa problematica attraverso varie proposte, per arginare il fenomeno della restrizione dell’ambito di applicazione del diritto del lavoro (se decresce il numero di lavoratori subordinati, decresce anche il numero a cui applicare la normativa di tutela). Tra le proposte, il sindacato ha detto di ampliare l’area dei significati possibili attribuibili all’art. 2094 (cioè di concepire una fattispecie di lavoro subordinato tale da ricomprendere non solo il lavoro cd. eterodiretto, ma anche il lavoro dipendente economicamente). Quindi il sindacato ha ritenuto necessario modificare la fattispecie di lavoro subordinato tale da consentire la riconduzione ad essa di ipotesi di lavoro non solo eterodirette ma anche subordinate sotto il profilo economico-sociale. Altri hanno sostenuto che il problema non si pone a livello della fattispecie (art. 2094) ma semmai può essere risolto attraverso un superamento della dicotomia tipizzante. Cioè è necessario immaginare una figura di lavoro costituente un terzum genus, una figura che si collochi a metà strada tra il lavoro autonomo e il lavoro subordinato. Quale disciplina si applica ad una figura di mezzo? Parte della disciplina preventiva del diritto del lavoro. La terza proposta è quella che ritiene necessario scindere la nozione della correlazione tra fattispecie ed effetti. Cioè azzerare la regola della inscindibile correlazione tra fattispecie ed effetti. Questa tesi propone, quindi, l’applicazione del diritto del lavoro anche al di là del lavoro subordinato. Secondo questi studiosi è prioritario, in questo momento storico, tutelare i lavoratori indipendentemente dal tipo di lavoro. Le prime due posizioni dottrinali operano sul fronte della fattispecie, mentre la terza tralascia il problema delle nozioni per affrontare il problema della disciplina applicabile. In questo complicato scenario che vede la trasformazione del lavoro e il dibattito dottrinale/legislativo sulla fattispecie e sulla disciplina applicabile, si è collocato il D.Lgs. 276/2003 con la disciplina del lavoro a progetto. In altri termini, il lavoro a progetto da una risposta a queste problematiche. A due anni dall’attuazione del decreto, soltanto ora si ha il formarsi dei precedenti giurisprudenziali (le tre sentenze trattate con l’avv. Bianchi). Le pronunce giurisprudenziali aiutano a capire quale posizione abbia assunto il legislatore, in ultima analisi, rispetto alle tre posizioni sopra descritte (modifica della fattispecie o superamento della fattispecie o intervento sul fronte della disciplina applicabile). I lavoratori, nelle tre sentenze trattate, si sono rivolti all’autorità giudiziaria perché venisse riconosciuta l’esistenza del lavoro subordinato. Al contrario, il lavoro a progetto è una fattispecie di lavoro autonomo. Il D.Lgs. 276/2003 è l’epilogo normativo di un dibattito ventennale. Aumentano le figure di lavoratori autonomi ma che, tuttavia, si percepiscono dipendenti, cioè aumentano i co.co.co. (sono autonomi eppure coordinati e continuativi). Il legislatore del D.Lgs. 276/2003 ha preso una posizione rispetto al tema della fattispecie e delle tipologie tipizzanti, identificando il lavoro a progetto come lavoro autonomo. Quindi il legislatore ha confermato le due fattispecie già esistenti (non ha creato un terzum genus). Il lavoro a progetto ha sostituito le collaborazioni coordinate continuative, salvo alcuni casi Diritto del lavoro
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espressamente previsti dall’art. 61. La fattispecie del lavoro a progetto è caratterizzata dal progetto o fase di esso il quale, in base alle pronunce giurisprudenziali, non è in grado di sostituirsi al criterio della eterodirezione. Infatti i giudici nel momento in cui applicano il regime sanzionatorio, non possono prescindere, nell’analisi dei casi, dal verificare anche l’assenza dell’eterodirezione. Ciò significa che il progetto non è atto di per sé a distinguere lavoro autonomo da lavoro subordinato (non ha un potere di qualificazione dirimente), esso infatti è da intendersi solo come una presunzione relativa. Nella prima sentenza analizzata, i lavoratori hanno dedotto l’assenza di un progetto e in forza dell’art. 69.1 hanno preteso la conversione del rapporto in rapporto di natura subordinata. A quel punto il giudice ha dovuto operare nel senso della conversione. Alla luce dell’art. 69.1 si poteva ipotizzare che la mera assenza di progetto fosse sufficiente per operare la conversione ma il giudice dice che non può convertire il rapporto di lavoro solo in base all’assenza del progetto, pertanto ha dovuto valutare anche e soprattutto la presenza dell’eterodirezione. Il giudice considera l’assenza del progetto una presunzione di subordinazione; la controparte deve sovvertire la presunzione relativa (sottoponendo altri indici come l’orario di lavoro, la presenza dell’eterodirezione, etc.). Il giudice interpreta in questo modo perché qualunque lavoro è associabile al raggiungimento di un progetto, di un risultato, sia esso autonomo o dipendente. I casi in cui non c’è stata la conversione sono quei casi in cui non è stata superata la presunzione. Il D.Lgs. 276/2003 azzera tutte quelle prospettive emerse dal dibattito e riassorbe le co.co.co. nella figura del lavoro a progetto alle quali aggiunge un ulteriore elemento definitorio: il progetto, programma o fase di esso; poi inserisce una norma sanzionatoria collegata all’assenza del progetto. Questa norma (art. 69.1) aveva fatto pensare a molti interpreti che in tale modo si fosse ritenuto che il progetto sostituisse la verifica dell’eterodirezione, ma dalle analisi giurisprudenziali invece traiamo che il progetto è solo un indice presuntivo della natura subordinata del rapporto. Ciò che dirime in modo definitivo se, nel caso del lavoro a progetto, si è dinanzi ad un vero lavoro autonomo, è l’assenza di eterodirezione (la cui prova grava sul convenuto, mentre la prova dell’eterodirezione grava sul lavoratore). In conclusione la legge Biagi ha confermato la dicotomia delle fattispecie e ha confermato gli indici della qualificazione, a partire dall’indice essenziale interno (la cd. eterodirezione). 28 Marzo 2006 – prof. Vettor Rapporti di lavoro atipici. Tipologie contrattuali atipiche. La legge Biagi D.Lgs. 276/2003 si è occupata anche del problema delle cd. tipologie flessibili (o atipiche) di lavoro. In che modo la legge Biagi ha affrontato questo problema? Attraverso una riarticolazione: modificando, da un lato, le tipologie di lavoro atipiche già esistenti e incrementando, dall’altro, il numero di fattispecie atipiche. Cosa s’intende per “lavoro atipico”? Perché il legislatore del 2003 è stato così attento al tema del lavoro atipico? Il lavoro atipico può essere espresso in due significati: il primo di tipo sociologico (si ha una frammentazione del lavoro standard/tipico) – è un’espressione ampia che segna il venir meno di figure standard; il secondo di tipo giuridico (figure di lavoro che godono di una loro specifica disciplina e che rientrano nel lavoro subordinato, tuttavia, però, diverse dal lavoro subordinato tipico). Di seguito si fa riferimento al lavoro atipico rientrante nell’alveo del lavoro subordinato ma che da esso differisce sotto alcuni specifici aspetti.
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Il legislatore si è dedicato a tale argomento sulla base di una considerazione contenuta nel libro bianco (principale documento programmatico della legge Biagi). Tale considerazione vede un rapporto tra lavoro atipico e diminuzione del tasso di disoccupazione. Secondo il libro bianco, l’incremento dell’occupazione sarebbe realizzato attraverso l’agevolazione del lavoro atipico. Il lavoro atipico è disciplinato in norme meno garantiste, proprio a fronte delle sue peculiarità. Questo legame tra occupazione e lavoro atipico, indicato sul libro bianco, è stato oggetto di dibattito infatti, per molti economisti, questa relazione è indimostrabile. Secondo questi studiosi, l’incremento dell’occupazione può realizzarsi attraverso politiche economiche idonee. Dopo la legge Biagi, le tipologie di lavoro atipico sono numerosissime, addirittura il maggior numero in Europa. Le principali sono: - contratto di lavoro a tempo determinato - lavoro somministrato Il lavoro a termine sembra essere, ad oggi, molto utilizzato dalle imprese (1 accesso su 2 all’impiego). Il lavoro somministrato rappresenta oggi la forma più diffusa per procurare lavoro (le agenzie mediano tra la domanda e l’offerta di lavoro). Con il D.Lgs. 368/2001 si era già regolato il lavoro a tempo determinato. Il lavoro somministrato, invece, vede una buona parte di disciplina nella legge Biagi; questa figura si è sostituita al lavoro interinale che era stato trattato dalla legge 197/1996 (pacchetto Treu). Il lavoro somministrato abroga il lavoro interinale e stravolge il divieto di commercio del lavoro (non è più illegale). Il contratto di lavoro a tempo determinato. Dopo la legge 230/1962 viene consolidato il principio della indeterminatezza del vincolo contrattuale di lavoro. Se si valuta l’aspetto del tempo/durata, la prima figura atipica è il contratto a termine). Se si valuta l’aspetto dell’orario si ha come prima figura atipica il contratto a tempo parziale (part-time), disciplinato con la legge 863/1984. Successivamente è stata abrogata dal D.Lgs. 61/2000 che fu un decreto attuativo di una direttiva comunitaria. Successivamente ancora c’è stato il decreto 100/2001. Nel testo della legge Biagi, l’art. 46 è correttivo dei due decreti precedenti. La legge Biagi ha introdotto due figure nuove: il lavoro ripartito (job sharing o lavoro a coppia) e il lavoro intermittente (job on call o zero hours job). Il lavoro ripartito, nato dall’esperienza dell’azienda McDonald’s, consiste nello svolgimento del lavoro sdoppiato tra due soggetti. Tra i due si instaura un’obbligazione solidale (i due soggetti sono solidalmente obbligati e svolgono una prestazione unitaria). Nel lavoro intermittente il soggetto lavora quando l’impresa ne ha bisogno; esso può prevedere un’indennità di disponibilità ma, in realtà, può anche non esserci. Il legislatore del 2003 ha riconosciuto al lavoro ripartito gli artt. da 41 a 45 e al lavoro intermittente gli artt. da 33 a 40. Un altro insieme di tipologie di lavoro atipico è quello che riguarda la causa (sono aipici in quanto presentano una causa mista): la prestazione di lavoro è retribuita da un lato economicamente e dall’altro con la formazione. In passato questi contratti a causa mista Diritto del lavoro
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erano due: l’apprendistato e il contratto di formazione e lavoro (cfl). Su queste figure il legislatore del 2003 ha agito, riformulando l’apprendistato (ha previsto diverse ipotesi dello stesso contratto in ragione dell’età del lavoratore), disciplinato negli artt. 47 e seguenti; inoltre ha introdotto il contratto di inserimento (disciplinato artt. da 54 a 59) sostituendolo al contratto di formazione lavoro. Ci sono poi altre figure giuridiche (tirocini formativi, stages, borse lavoro, etc.) atipiche dal punto di vista sociologico, in quanto non rappresentano tipi di contratti di lavoro, infatti non hanno retribuzione. La legge Biagi si è occupata anche del lavoro occasionale accessorio, negli artt. 70 e seguenti, il quale ha la caratteristica di rivolgersi ai giovani e ad altre figure cd. svantaggiate (non può superare le 30 giornate lavorative annue e 5.000 Euro retribuiti all’anno). Le prestazioni occasionali accessorie ricoprono lavori come ripetizioni, baby sittering, etc. Le modalità di pagamento sono peculiari: la lavoratrice viene compensata con dei buoni (in origine un buono valeva 7,5 €). Non c’è stata un’ampia diffusione di questo tipo di lavoro, che deriva da un’esperienza belga. 29 Marzo 2006 – prof. Vettor Il D.Lgs. 368/2001, non diversamente dal D.Lgs. 61/2000, costituisce attuazione di una direttiva comunitaria, la nr. 70 del 1999. Il D.Lgs. 368/2001, oltre ad aver attuato la direttiva, ha anche ridisegnato la disciplina del contratto a termine, abrogando, quindi, la legge 230/1962. Quando è possibile apporre legittimamente un termine ad un contratto di lavoro? Il D.Lgs. 368/2001 si regge su questa struttura: 1) la norma art. 1 comma 1, il quale definisce le condizioni generali per la legittima apposizione di un termine: “E’ consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”; 2) tre articoli che, in vario modo, derogano a questa norma centrale: a) art. 3 “Divieti” il quale esplicita i casi che contengono un elenco tassativo di ipotesi alle quali non si applica l’art. 1.1, e sono: - per la sostituzione di lavoratori che esercitano il diritto di sciopero (perché si saboterebbe l’autotutela) - ove nei precedenti 6 mesi siano stati effettuati licenziamenti collettivi (l’impresa non può assumere nuovo personale a tempo determinato per svolgere le stesse mansioni di quello precedentemente licenziato) - nei casi in cui vi siano riduzione d’orario (per periodi di crisi dell’impresa), ad esempio la cassa integrazione - nelle aziende che non hanno redatto la valutazione dei rischi secondo il D.Lgs. 626/1994. Questa è una norma promozionale per l’applicazione della 626/1994 e punitiva per chi non l’ha attuata (che quindi non ha la possibilità di servirsi del contratto a termine). Diritto del lavoro
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Le altre due norme (artt. 2 e 10) ci dicono che è prevista in ogni caso l’apposizione del termine, anche in assenza di quanto indicato all’art. 1. Casi in cui è sempre possibile apporre un termine: b) art. 2 “Disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali”. Questo articolo era già previsto nella legge 230/1962, ma la legge finanziaria ha introdotto un nuovo comma all’art. 2 (comma 1bis) che dice: “Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche quando l’assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di 6 mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di 4 mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15% dell’organico aziendale, riferito al primo gennaio dell’anno cui le assunzioni si riferiscono. ……” c) art. 10 “Esclusioni e discipline specifiche”, sono esclusi dall’applicazione del D.Lgs. 368/2001 alcuni settori in quanto già disciplinati da specifiche normative (contratti di formazione e lavoro, apprendistato, etc.). A fronte di ciò, quindi, quando si può apporre un termine ad un contratto? Art. 1: ove sussista una ragione di natura tecnica, produttiva, organizzativa, sostitutiva. La legge 230/1962 diceva in quali specifiche ipotesi si potesse applicare il termine, oggi invece nel D.Lgs. 368/2001 non c’è più un elenco di ipotesi espressamente enunciate ma un quadro generale con poi divieti ed esclusioni. Si è aperto un dibattito: c’è chi sostiene che, quindi, per ragioni (generiche) oggettive (esclusi i casi particolari di divieto) si possa assumere indifferentemente o a tempo determinato o indeterminato. C’è chi, invece, sostiene che si possa assumere a tempo determinato soltanto nei casi in cui le ragioni oggettive siano temporanee. La norma richiede che tali ragioni vengano indicate “ab substantiam”. Questi ultimi (che ritengono necessaria la temporaneità della ragione oggettiva) sostengono che nel preambolo della direttiva comunitaria è indicato il carattere particolare del contratto a tempo determinato. Mentre i primi dicono che il preambolo non ha valore giuridico. I fautori della temporaneità sostengono che, in base al D.Lgs. 368/2001, è necessario indicare i motivi specifici. Questo dibattito dottrinale si è riflesso sui casi giurisprudenziali. La Cassazione (giudice di legittimità) dice che il D.Lgs. 368/2001 non ha alterato la regola della natura eccezionale del contratto a termine. La giurisprudenza di merito ha poi optato per il requisito, in aggiunta a quello dell’oggettività, della temporaneità, valorizzando i requisiti di forma. In altri termini, è necessario che le motivazioni dell’apposizione del termine siano specificamente indicate (non devono richiamare solo genericamente la legge). Quindi il D.Lgs. 368/2001, grazie all’interpretazione giurisprudenziale (senza di essa poteva sembrare il contrario), ha assunto l’impostazione della 230/1962 secondo cui il termine fa eccezione. Il D.Lgs. 368/2001 disciplina: - regime della proroga (come e quando prorogare il contratto a termine). Non può superare i tre anni totali; - successione dei contratti a termine (sanzioni pecuniarie previste); - oneri probatori (chi ha l’onere di provare le ragioni per cui il termine è stato apposto) Diritto del lavoro
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- regime sanzionatorio. Al contratto a cui sia stato illegittimamente apposto un termine si applica il regime della nullità parziale (la sanzione aggredisce la parte affetta da invalidità) il contratto diventa a tempo indeterminato. Il ruolo della contrattazione collettiva relativa la contratto a termine. In passato i contratti collettivi avevano il ruolo (legge del 1987) di introdurre ulteriori ipotesi, rispetto a quelle elencate nella 230/1962, purché fossero previste entro specifici limiti percentuali. Oggi qual è il ruolo del sindacato nella disciplina del contratto a termine? La situazione si è invertita perché la previsione è generale, quindi il sindacato ha il ruolo di limitare, di apporre dei limiti. Ma la limitazione, secondo il D.Lgs. 368/2001, è applicabile solo ad alcuni casi, secondo l’art. 10 comma 7 (che prevede delle ipotesi ove non è possibile apporre limiti).
30 Marzo 2006 – avv, Capurro Modello datore di lavoro/lavoratore è tipico fordista. Decentramento produttivo • il datore di lavoro si avvale di forza lavoro “esterna” alla propria impresa 1) in che forme si realizza il decentramento produttivo? 2) come si pone l’ordinamento giuridico nei confronti del decentramento? 3) . Forme di decentramento produttivo • somministrazione • appalto • trasferimento di ramo d’azienda (in genere combinata con un appalto) La somministrazione tipi di somministrazione:
1) staff leasing, forma prevista da leggi e contratti collettivi 2) contratto di somministrazione a tempo determinato contratto di somministrazione (forma scritta)
Imprenditore A (somministratore)
Imprenditore B (utilizzatore) pagamento prezzo
contratto di lavoro
A contratto di lavoro a tempo indeterminato B contratto di lavoro a tempo determinato
viene inviato all’utilizzatore per
Lavoratore
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lavorare sotto la sua direzione
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La prima normativa veramente importante che ha interessato la materia è la nr. 1369/1960 che vietava al datore di lavoro di richiedere ad un altro soggetto la mera fornitura di manodopera (il lavoro non era una merce). Questa legge è stata il cardine per 35 anni. La violazione di questo divieto era la costituzione, in capo al datore di lavoro, del rapporto di lavoro utilizzato. La disciplina lavoristica impone al datore di lavoro una serie di responsabilità e di garanzie nei confronti del lavoratore. Negli anni ’90 è iniziato un dibattito relativo al lavoro cd. interinale: se e come introdurre nell’ordinamento italiano la possibilità per i datori di lavoro di ottenere la fornitura di lavoro da altri soggetti. E’ nata le legge 196/1997 (pacchetto Treu) introdotta da un parlamento di centro-sinistra. Sia la 1369/1960, sia la 196/1997 sono abrogate. Il pacchetto Treu diceva che era ammessa la possibilità di ricorrere al lavoro fornito da terzi, con determinate condizioni: il fornitore di lavoro doveva essere stato autorizzato e doveva fornire delle garanzie, vi dovevano essere specifiche causali (tutte con la caratteristiche della temporaneità). Nel 2003 nasce la cd. legge Biagi (D.Lgs. 276/2003) che è una specie di “contenitore” che contiene norme su molti istituti del contratto di lavoro. In realtà ha creato una grossa flessibilità su istituti che non sono tipici. La legge Biagi ha affrontato anche la questione della fornitura di lavoro, liberalizzandola. Oggi, in un’impresa, l’utilizzo della fornitura di lavoro può diventare, da eccezione, la regola. Tipi di somministrazione: • a tempo determinato (ex lavoro interinale) la fornitura di lavoro è concordata per un periodo di tempo circoscritto, per “ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo”. Tra lavoratore e somministratore viene concluso un contratto di lavoro a tempo determinato (disciplinato da D.Lgs. 368/2001), salvo che per quanto attiene a 1) assunzioni successive e 2) proroga. • Staff leasing la fornitura di lavoro è concordata per un periodo di tempo indefinito - causali previste dalla legge - causali previste da contratti collettivi Tra lavoratore e somministratore viene concluso un contratto a tempo indeterminato (disciplinato dalla normativa vigente cioè norme applicabili per il lavoro a tempo indeterminato quali codice civile, statuto dei lavoratori, leggi speciali) salvo che per quanto attiene a 1) indennità di mobilità e 2) recesso Esempi: call center e servizi di pulizia. Paradossalmente si potrebbero avere delle imprese senza dipendenti. Probabilmente si è consentito all’imprenditore di non “appesantirsi” ulteriormente per servizi che non sono quelli principali, come invece lo è la produzione del suo prodotto/servizio. L’agenzia di lavoro cd. interinale guadagnerà qualcosa sul costo orario del lavoratore somministrato. Distribuzione di poteri/obblighi del datore di lavoro • Utilizzatore - potere direttivo Diritto del lavoro
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- potere di controllo • Somministratore - potere disciplinare - obbligo retributivo - obblighi di informazione (salute e sicurezza) salvo accordo contrario tra le parti, risultante anche nel contratto di lavoro. Responsabilità dell’utilizzatore • Responsabilità solidale tra utilizzatore e somministratore per i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali afferenti ai lavoratori somministrati (art. 23, comma 3, D.Lgs. 276/2003) • N.B. ai lavoratori somministrati è dovuto un trattamento economico e normativo non inferiore a quello dei lavoratori dell’utilizzatore. Sanzioni A) Somministrazione irregolare - mancanza di forma scritta del contratto - inosservanza di limiti e condizioni della somministrazione * Sanzione civile il rapporto di lavoro è costituito in capo all’utilizzatore (escluse pubbliche amministrazioni) * Sanzione penale solo in caso di utilizzo di agenzia non autorizzata rato contravvenzionale ammenda per utilizzatore e somministratore di € 50 per lavoratore per giorno B) Somministrazione fraudolenta - specifica finalità di eludere norme di inderogabili di legge o di contratto collettivo * Sanzione penale rato contravvenzionale ammenda di € 20 per lavoratore per giorno C) Percezione di compensi dai lavoratori * Sanzione penale arresto fino ad un anno/ammenda da € 2.500 a € 6.000 + cancellazione dall’albo (sanzione accessoria)
06 Aprile 2006 – avv. Bianchi Interposizione: scissione tra chi “usava” il lavoratore e chi risultava essere formalmente il datore di lavoro. L’appalto di manodopera è sempre stato vietato mentre il contratto di appalto no. Che differenza c’è tra i due? Nel contratto di appalto lecito non si ha interposizione perché la differenza sta fondamentalmente nell’appalto (obbligazione di “fare”), mentre nell’appalto di manodopera c’era un’obbligazione di “dare”. Nella fattispecie vietata il soggetto terzo si limita a dare i lavoratori. Art. 1655 c.c.: definizione di appalto. I requisiti legali sono: - l’organizzazione dei mezzi necessari Diritto del lavoro
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- (con) gestione a proprio rischio L’appaltatore deve essere, quindi, un imprenditore che se ne assume i costi e i rischi. La legge 1369/1960 ha vietato la fornitura di manodopera. Questo è quanto è stato prima della riforma Biagi. Oggi non c’è più la legge 1369/1960 per cui non è genericamente vietata l’interposizione. E’ stato stabilito che la fornitura di manodopera non è più vietata e rientra nella fattispecie del lavoro somministrato. Ma qual è la differenza tra il lavoro somministrato e l’appalto? Oggi esiste il divieto di appalto ai soggetti che non sono stati autorizzati. Se l’appalto non ha quei caratteri stabiliti dalla legge, vuol dire che si è in presenza di lavoro somministrato illecito. L’art. 29 del D.Lgs. 276/2003 definisce la distinzione tra le due fattispecie. Richiama l’art. 1655 c.c. (che è rimasto invariato) e gli elementi indicati dal c.c. e dalla giurisprudenza (come elementi indicatori della fattispecie lecita). Quindi, ancora oggi, l’appaltatore deve essere un imprenditore che si assume i rischi. Pertanto la differenza tra i due sta ancora nell’oggetto del contratto: in quello d’appalto di “facere” (fare), in quello di somministrazione di “dare” (fornire la manodopera). L’art. 29 dice anche, però, che l’organizzazione dei mezzi può, in alcuni casi, risultare dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo. C’è chi interpreta la norma in modo meno restrittivo ma la giurisprudenza ha stabilito che va interpretata in modo restrittivo. L’art. 84 (altre ipotesi di certificazione) stabilisce che devono essere stabiliti degli indici presuntivi in materia di interposizione illecita e appalto genuino (per verificare la reale organizzazione dei mezzi e l’assunzione effettiva del rischio). La certificazione purtroppo però, dà alle parti la possibilità di accordarsi. Alcuni indici elaborati dalla giurisprudenza per valutare la legittimità o meno del contratto d’appalto: - organizzazione di mezzi - non basta l’esercizio del potere direttivo - presenza di elementi dell’appaltatore (capitale dell’impresa, etc. - l’attività deve essere gestita dall’appaltatore (l’apporto del committente deve essere solo marginale) - l’organizzazione dei mezzi deve essere adeguata al risultato - assunzione del rischio d’impresa (l’appaltatore si assume tutti i costi e la direzione reale dei lavori) - prezzo del contratto d’appalto - commistione di personale nell’esercizio dell’attività oggetto del contratto (personale della cooperativa e personale dipendente). Cioè se la stessa mansione viene svolta o da uno o dall’altro, significa che il contratto d’appalto è illegittimo (il personale serve solo per coprire i “buchi”). La tutela dei lavoratori: l’art. 29.2: il committente è tenuto a pagare. Il lavoratore può agire direttamente. Mentre prima la legge 1369/1960 prevedeva qualcosa in più e cioè la parità di trattamento, cosa che oggi c’è per il lavoro somministrato, mentre non c’è più per l’appalto. Nell’art. 7 del D.Lgs. 626/1994 si parla di tutela del lavoratore. E’ possibile
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che, in caso di contrattazione collettiva, in accordo tra le parti, sia ripristinata la parità di trattamento. Conseguenze: art. 29.3 bis: se il contratto d’appalto difetta dei requisiti legali, il lavoratore può chiedere, mediante ricorso, di essere assunto alle dipendenze del committente. Prima, se l’appalto era illecito e l’appaltatore licenziava il lavoratore era come se non ci fosse stato il licenziamento, mentre adesso deve impugnarlo.
11 Aprile 2006 – prof. Vettor
Il lavoro somministrato è atipico sotto il profilo della durata e per la presenza del terzo soggetto. Il vero contratto è quello stipulato tra somministratore ed utilizzatore (imprenditore). L’art. 20 del D.Lgs. 276/2003 detta le “Condizioni di liceità”. L’agenzia deve essere autorizzata. Svolgimento del rapporto di lavoro Lo svolgimento di riferisce a quando il rapporto è già in essere. Le regole che sovrintendono il rapporto di lavoro sono standard. Il tipo di rapporto preso come modello è quello subordinato, a tempo pieno ed indeterminato. Per gli altri casi vengono adottate delle regole specifiche ma, se queste non ci sono, il regime applicabile è quello standard. Le discipline atipiche contengono spesso una norma di non discriminazione. Il sinallagma è la prestazione/controprestazione retributiva e contributiva del rapporto di lavoro. La disciplina standard è sostanzialmente limitativa dei poteri del datore di lavoro perché il lavoratore adempie al suo lavoro con il suo corpo e la sua psiche. Quali sono i principali obblighi gravanti sul lavoratore, quando il rapporto di lavoro è in essere? Gli obblighi legali sono: - art. 2104 c.c.: “Diligenza del prestatore di lavoro. Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale”. - art. 2105 c.c.: “Obbligo di fedeltà. Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. L’obbligo di diligenza implica la buona fede e la correttezza (art. 1175 c.c. rif. contratti e art. 1375 c.c. rif. obbligazioni) L’art. 2104 c.c. (l’obbligo di diligenza) si aggancia ad altri tre aspetti/criteri : - la natura della prestazione dovuta - l’interesse dell’impresa - l’interesse superiore della produzione nazionale Ad oggi, l’ultimo aspetto non è più considerato, infatti è più legato al corporativismo.
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Per esempio, il sistematico arrivo in ritardo sul posto di lavoro determina un disfunzionamento dell’impresa (il comportamento del lavoratore deve essere tale da non inficiare il buon funzionamento dell’impresa). La natura della prestazione dovuta è il criterio centrale ma è alquanto relativo, perché implica a monte che io sappia la natura della prestazione dovuta, che è strettamente collegata al tipo di mansioni da svolgere contenute in contratto. Solo due criteri sono, quindi, operativi al fine della tutela giudiziale.
12 Aprile 2006 – prof. Vettor Art. 2105 c.c. = obbligo di fedeltà. E’ un obbligo che opera anche nel caso in cui la prestazione di lavoro conosce alcune vicende sospensive (es. maternità, scioperi, etc.), a differenza dell’obbligo di diligenza. L’obbligo dell’art. 2105 c.c. si concretizza in una serie di divieti, finalizzati alla protezione degli interessi del datore di lavoro. Art. 2598 c.c. relativo alla concorrenza sleale. La differenza tra l’art. 2105 c.c. e il 2598 c.c. è che nel primo viene presupposta una relazione contrattuale. L’interpretazione giurisprudenziale ha ritenuto che il lavoratore viene meno a quest’obbligo quando svolge mansioni assai simili a quelle svolte dal datore di lavoro. Si tratta di vietare un analogo lavoro nel quale venga impiegato il know-how del datore di lavoro. L’art. 2125 c.c., invece, è relativo al patto di non concorrenza. Il patto limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro a seguito della cessazione del rapporto di lavoro. Il patto è nullo se non è scritto ed esso implica un corrispettivo al prestatore di lavoro e, inoltre, è nullo anche nel caso in cui non abbia specifici limiti in tema di oggetto, tempo e luogo. La disciplina pone un vincolo inderogabile relativo alla durata (art. 2125.2 c.c.): tre anni normalmente, cinque anni per i dirigenti. Se si pattuisce una durata maggiore, essa si riduce a questi due termini. Che cosa succede quando il lavoratore non adempie a questi obblighi? Art. 2106 c.c.: chi viola è passibile di una sanzione disciplinare (sanzione pecuniaria, richiamo verbale, licenziamento, trasferimento, sospensione senza retribuzione, etc.). L’ordine d’intensità delle possibili sanzioni disciplinari è il seguente: - richiamo verbale - richiamo scritto - sanzione pecuniaria - trasferimento - sospensione - licenziamento Quali sono le regole che accompagnano il potere disciplinare? L’esercizio del potere sanzionatorio non può svolgersi al di fuori della tutela della persona. Nell’art. 2106 c.c. ci sono due criteri: 1) quello della proporzionalità (secondo la gravità dell’infrazione); 2) quello delle norme corporative (ma il sistema corporativo è caduto nel 1944), per cui si va a guardare lo statuto dei lavoratori all’art. 7 (legge 300/1970). Quindi il potere disciplinare può essere esplicato soltanto se il codice disciplinare è messo a conoscenza Diritto del lavoro
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di tutti (cosa è infrazione e cosa comporta tale infrazione). Il datore, o stabilisce in autonomia, rendendole note, quali sono le regole disciplinari, o si applicano i contratti di lavoro collettivi. E’ possibile punire per comportamenti non previsti nel regolamento disciplinare? Sì, in funzione degli artt. 2104 c.c. e 2105 c.c. (ad esempio, caso delle molestie dell’operatore della Sip nei confronti della figlia dell’utente). Il datore di lavoro, prima di intimare la sanzione, deve contestarla e consentire al lavoratore di esercitare il suo diritto di difesa. Il lavoratore può farsi assistere da un sindacalista, ma può anche rispondere autonomamente. L’art. 7 indica i limiti rispetto ad alcune sanzioni: la multa non può essere superiore a 4 ore di lavoro, la sospensione può essere al massimo di 10 giorni. Sembra anche che la norma dica che non si può licenziare/trasferire per motivi disciplinari ma sulla questione vi è un dibattito.
20 Aprile 2006 – prof. Vettor I motivi di licenziamento legittimo possono essere: giustificato motivo soggettivo/oggettivo o giusta causa. E’ soggettivo se il motivo è ricollegabile al lavoratore, è oggettivo se il lavoratore è licenziato per motivi che non dipendono da lui (crisi dell’azienda, chiusura, etc.). Se il licenziamento è senza giusta causa o giustificato motivo esso è illegittimo (e quindi impugnabile). Le ipotesi di giusta causa e giustificato motivo soggettivo Sono le ipotesi di licenziamento per causa dei lavoratori. Le fonti sono l’art. 2119 c.c. e la legge 604/1966, il cui art.1 dice che “Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, intercedente con datori di lavoro privati o con enti pubblici, ove la stabilità non sia assicurata da norme di legge, di regolamento e di contratto collettivo o individuale, il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo”. Prima del 1966 erano in vigore solo gli artt. 2118 c.c. e 2119 c.c. Il 2119 c.c. già prevedeva il licenziamento per giusta causa, mentre il 2118 c.c. prevedeva il cd. recesso ad nutum con preavviso, cioè la possibilità, per il datore di lavoro, di recedere anche senza un motivo, con il solo obbligo di dare il preavviso al lavoratore. La legge 604/1966 modifica questo sistema e aggiunge all’ipotesi della giusta causa un ulteriore limite: di risolvere il rapporto di lavoro con il dipendente imponendo la necessità di un giustificato motivo. Art. 3, legge 604/1966: “Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da in notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Nella prima parte, si fa riferimento al motivo soggettivo (inadempimento del lavoratore), nella seconda ci si riferisce al motivo oggettivo. La norma specifica che c’è l’obbligo del preavviso (tipico del giustificato motivo, a differenza della giusta causa). Quando si parla di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore si fa riferimento agli artt. 2104 c.c. e 2105 c.c. (adempimento Diritto del lavoro
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non corretto del lavoro, violazione dell’obbligo di fedeltà, obblighi accessori, etc.). L’inadempimento deve essere notevole, grave, non uno qualsiasi (non si può licenziare per 5 minuti di ritardo, al massimo c’è una sanzione conservativa come previsto dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori). L’art. 1453 c.c. prevede che il contratto possa essere risolto per inadempimento tuttavia il contratto non si può risolvere se l’inadempimento della parte ha scarsa importanza. Secondo l’art. 1455 c.c. (disciplina dei contratti) la rilevanza dell’inadempimento va valutata con riguardo all’interesse per il creditore; nel lavoro l’inadempimento non deve essere rilevante per il datore di lavoro ma ciò che rileva è la valutazione della colpa del lavoratore (es. furto anche di 1 solo Euro, ma nella realtà si valuta anche il grado di colpa del lavoratore che è funzione del rapporto di fiducia col datore di lavoro, a sua volta funzione delle mansioni che il lavoratore ricopre; perciò si sono verificati licenziamenti per il furto di una sola mela e casi di reintegro di lavoratore che aveva rubato anche per parecchi milioni). Qual è la strada da seguire per valutare se una mancanza è suscettibile di licenziamento? L’unico riferimento normativo è l’art. 3 della legge 604/1966. Altri parametri sono forniti dalla contrattazione collettiva ce prevede per i possibili comportamenti del lavoratore, delle sanzioni disciplinari: dal richiamo scritto con multa, sospensione a licenziamento con preavviso e licenziamento senza preavviso (giusta causa). Nel contratto collettivo dei metalmeccanici (è un contratto modello, come quello del commercio) sono previste sanzioni conservative (richiamo scritto, multa, sospensione) per: - non si presenta al lavoro, non giustifica l’assenza, lo sospende, esce prima - lieve insubordinazione verso i superiori - eccessiva lentezza o negligenza nelle sue mansioni - per disattenzione o negligenza causa guasti alle attrezzature - sia trovato ubriaco/divieto di fumare - lavori in concorrenza fuori dall’azienda - lavori fuori dall’orario di lavoro, usando macchine dell’azienda, con materiali propri (non dell’azienda) - trasgredisce gli obblighi contrattuali E’ previsto, invece, il licenziamento con preavviso (al contrario non è previsto dal contratto collettivo del commercio) quando: - infrazioni alla disciplina del lavoro non così gravi da prevedere il licenziamento per giusta causa - sensibile danneggiamento colposo al materiale di lavorazione o al materiale dello stabilimento -esecuzione di lavori c/terzi fuori dall’orario e senza materiali aziendali (capita nel terziario con l’uso del computer) - rissa nello stabilimento fuori dai reparti di lavorazione (anche nel parcheggio) - abbandono del posto di lavoro da parte di personale cui siano affidate mansioni di controllo/sorveglianza
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- assenze non giustificate prolungate per oltre 4 giorni consecutivi oppure lavoratore che non rientra dalle vacanze, con disagio dell’organizzazione dell’azienda (es. ferie non fruibili dai colleghi) - condanna a pena detentiva del lavoratore anche se non connessa all’attività lavorativa (lede l’immagine dell’azienda). Dal contratto dei metalmeccanici si nota che tra i vari tipi di sanzione esiste una differenza: - le mancanze di lieve entità sono sanzionate con sanzioni conservative - se le mancanze sono notevoli sono sanzionate con licenziamento con preavviso - le mancanze più gravi sono sanzionate con licenziamento senza preavviso Ad esempio, l’insubordinazione ai superiori può diventare grave, può essere reiterata nel tempo, anche se per piccoli/futili motivi Licenziamento per giusta causa art. 2119 c.c., la causa non deve consentire la prosecuzione anche provvisoria del rapporto di lavoro (fatto grave). Chi lo vuole far valere deve contestarlo con immediatezza (non dopo 1 o 2 mesi…) e questo giustifica la mancanza del preavviso. Anche il lavoratore può recedere per giusta causa. Differenza tra licenziamento senza preavviso e licenziamento con preavviso. Il preavviso ha natura reale: se c’è il licenziamento con preavviso e il lavoratore si ammala, la malattia sospende il periodo di preavviso. D’altra parte il licenziamento con preavviso permette di non pagare il periodo di preavviso. Quindi è importante vedere quando il licenziamento con giusta causa è legittimo. Il giudice può anche convertire un licenziamento in un altro. La differenza sarebbe la gravità dell’inadempimento. Vi è, però, opinione diversa che sostiene la differenza qualitativa: secondo questi la giusta causa può essere per fatti esterni che mirino la fiducia del rapporto di lavoro, anche non per violazioni contrattuali. Ad esempio, impiegato di banca che fa una rapina a 1000 km di distanza; spaccio di stupefacenti da parte di addetti di farmacia; furti da parte di personale di vigilanza (commessi fuori dall’azienda). La dottrina cerca di giustificare la mancanza di fiducia nelle ipotesi di licenziamento con giusta causa, riferendosi all’art. 1159 c.c. (relativo alla somministrazione) per le prestazioni periodiche continuative. Nel rapporto di somministrazione (art. 1564 c.c.) si ha la risoluzione del contratto (venir meno della fiducia). Il limite da considerare è l’art. 8 dello statuto dei lavoratori “E’ fatto divieto al datore di lavoro di fare indagini”: questo limite è mobile, ossia stabilito dal giudice. Secondo il contratto dei metalmeccanici, il licenziamento per giusta causa può avvenire per (rileva la gravità): - grave insubordinazione ai superiori - furto nell’azienda; in ogni caso e di ogni entità - danneggiamento volontario a macchine e attrezzature - abbandono del posto di lavoro a cui possa derivare pregiudizio all’incolumità delle persone Si applica l’art. 7 dello statuto dei lavoratori ai licenziamenti per giusta causa o per giustificato motivo? Secondo l’art. 7.4 non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino modifiche sostanziali nel rapporto di lavoro. Diritto del lavoro
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I due licenziamenti sono ontologicamente disciplinari, nonostante il comma 4, si devono applicare le garanzie dell’art. 7 al licenziamento per giustificato motivo o per giusta causa.
26 Aprile 2006 – prof. Vettor Differenze tra giusta causa e giustificato motivo soggettivo: sostanzialmente è la gravità dell’inadempimento della parte lavoratrice. Il giustificato motivo oggettivo è (seconda parte art. 3, legge 604/1966) legato a motivi produttivi dell’impresa. L’autorità giudiziaria che deve giudicare sulla legittimità di un recesso con tale motivo, non può sindacare sulle scelte dell’imprenditore (libertà ex art. 41 Cost.). L’autorità giudiziaria può, però, controllare se l’imprenditore ha valutato la possibilità di “ripescaggio” del lavoratore (impiegandolo in altri segmenti dell’attività produttiva). Secondo l’art. 2103 c.c. il datore di lavoro può cambiare le mansioni del lavoratore in senso verticale (solo se migliorativo) o in senso orizzontale (su mansioni equipollenti). Viene impedito, quindi, al datore di lavoro di operare delle modifiche in senso peggiorativo. Tuttavia ci sono delle eccezioni: per esempio, la lavoratrice in gravidanza, nel caso in cui tale stato contrasti con le mansioni per cui è stata assunta, il datore può peggiorare la sua situazione lavorativa (per tutelare la salute della lavoratrice e del nascituro). L’art. 2103 c.c. ha lo scopo di tutelare la professionalità del lavoratore e questa tendenza può essere invertita per scongiurare il caso maggiore di sanzione, ossia il licenziamento. Il tema del recesso per giustificato motivo oggettivo è legato al tema del licenziamento collettivo (art. 11, legge 604/1966). Infatti, si può applicare o tale legge, oppure la legge 223/1991 per i licenziamenti collettivi. E’ sempre necessario giustificare un recesso? Fino alla legge 604/1966 il datore di lavoro poteva recedere dal contratto senza fornire alcuna giustificazione. Successivamente è stato introdotto il principio della giusta causa. Prima della legge 604/1966, valeva l’art. 2118 c.c. (“ad nutum”) per cui le parti potevano recedere, fatto salvo il preavviso (entrambe le parti, senza alcuna differenziazione). Questa regola è rimasta come eccezione nel nostro ordinamento, ma nell’ambito di ipotesi previste tassativamente e cioè: - lavoratori in prova (discipl. Art. 2096 c.c.). Il patto di prova deve essere antecedente o contestuale, e deve essere stipulato (pena la nullità) in forma scritta; - lavoratori domestici (in ragione del tipo di rapporto fiduciario); - dirigenti (in ragione del rapporto tra il datore di lavoro e i suoi dirigenti). Comunque in contrattazione collettiva sono avviati degli accordi per ridurre tale libertà del datore; - lavoratori ultrasessantacinquenni in possesso dei requisiti pensionistici.
27 Aprile 2006 – avv. Bianchi
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Licenziamento per colpa del lavoratore. Viene valutata la colpa per l’impossibilità di continuazione del rapporto. Gli inadempimenti minori, se ripetuti, assumono una maggior gravità. Il licenziamento per giusta causa è dovuto ad atti così gravi da non consentire la continuazione, anche temporanea, del rapporto di lavoro. Caso pratico 1 Lavoratore addetto al banco della carne, con mansioni di banconiere, in un supermercato. Egli ha acquistato della carne nello stesso supermercato, tuttavia ha eseguito personalmente la prezzatura (in realtà, dovrebbe farla qualcun altro) e, al controllo alla cassa, è risultato che il valore di ciò che c’era nel sacchetto era superiore al prezzo applicato. Il datore procede al licenziamento per giusta causa (sanzioni disciplinari ex art. 7 dello statuto dei lavoratori). Il datore, per prima cosa, contesta il comportamento al lavoratore, il quale entro 5 giorni deve rispondere. Le possibili difese, in questo caso, sono: - ammissione della colpa ma il danno subito dal supermercato è minimo; - non ammissione della colpa, sostenendo l’errore; - tentativo di scaricare la colpa su un altro dipendente, dicendo che ha preparato lui il pacchetto. Anche nei casi di negligenza sono previste sanzioni per il lavoratore (di tipo conservativo). In questo caso pratico, il lavoratore potrebbe anche invocare la mancanza di proporzionalità (tra il licenziamento e l’atto compiuto). In questo caso si può far valere la tesi della gravità del comportamento perché il lavoratore ha usato le sue mansioni/compiti, con dolo, per trarne vantaggio. La Corte di Cassazione ha stabilito che, ai sensi dell’art. 2106 c.c., deve essere attribuita rilevanza all’entità del lucro, ai fini di valutarne il licenziamento. La Cassazione fa riferimento, oltre alla legge 604/1966, anche ai supremi valori tutelati dalla Costituzione (il licenziamento toglie sostentamento al lavoratore ed alla sua famiglia). Ci deve essere proporzionalità tra il danno subito dal datore di lavoro e il valore del lavoro stesso. La Cassazione sostiene, inoltre, che se il danno è di lieve entità non è interrotto il rapporto fiduciario. Tuttavia la giurisprudenza ha effettuato anche interpretazioni differenti (danno lieve ma interruzione del rapporto di fiducia). Non ci sono mai soluzioni univoche per ogni caso. Sentenza Cassazione nr. 3270/1998 Assistente di volo Alitalia, viene trovata con 8 g di Marijuana sul volo di ritorno da Caracas. L’Alitalia licenzia la lavoratrice che viene però reintegrata sia in giudizio di primo grado, sia in appello. La Cassazione fa un’analisi delle decisioni dei giudici di primo e secondo grado per stabilire se hanno operato correttamente nel dichiarare illegittimo il licenziamento. Secondo la Cassazione, il giudice di merito avrebbe dovuto valutare se il comportamento della lavoratrice violava la professionalità nello svolgimento delle mansioni. Non basta valutare i fatti astrattamente. La Cassazione ha rimesso il caso al giudice di merito. Caso pratico 2 Lavoratrice presso azienda di raccolta e commercializzazione di mele. Sono state trovate delle mele nell’armadietto della stessa. Dopo il licenziamento è stata Diritto del lavoro
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reintegrata, infatti il giudice di merito ha valutato che le mansioni svolte non erano collegate al rapporto fiduciario. Infatti svolgeva mansioni di semplice operaia: l’episodio era unico ed era improbabile che ci fosse reiterazione di reato. Ella non era addetta al controllo di altro personale, né alla custodia del materiale. Caso pratico 3 Addetto alla cassa di una banca. Ha fatto un prelievo di £ 2.000.000 senza restituirli. Egli ha sostenuto che si era dimenticato di restituirli. Nel caso, si è valutato il lavoro (anche con mansioni di responsabilità) e, quindi, la gravità di tale atto. Caso pratico 4 Autista che sottraeva parte del gasolio dall’autocarro. Il licenziamento è stato considerato legittimo, perché: - è stato preso in flagranza di reato; - gli sono stati sequestrati una tanica e una pompa col tubo per togliere il gasolio (presunta reiterazione). Tale comportamento lede il vincolo fiduciario con l’azienda. 02 Maggio 2006 – prof. Vettor Obblighi gravanti sul datore di lavoro: - controprestazione retributiva; - obbligo di sicurezza (ex art. 2087 c.c.). Il datore di lavoro ha l’obbligo della tutela della salute, dell’integrità morale del lavoratore (si deve guardare alla particolarità e alla tecnica del lavoro). L’art. 2087 c.c. è una norma che esplica la sua funzione sia sotto il profilo della prevenzione, sia sul piano risarcitorio (in base a questa norma, infatti, i giudici hanno valutato il risarcimento del danno). Sarà il datore di lavoro a dover provare di aver adempiuto. L’art. 2087 c.c., avendo un contenuto indeterminato, è servito ex-post (quando la lesione si era presentata), fallendo sotto il profilo della prevenzione. Negli anni ’50 si assiste ad un fenomeno di produzione di normative molto intenso, ad integrazione di tale articolo. I caratteri di tali normative sono: estrema analiticità, estremo tecnicismo, estrema specificità (quasi inconoscibile dal giurista ma di dominio, invece, di ingegneri e tecnici). Ad esempio: Dpr 55 per la costruzione dei ponteggi, Dpr 203 per la rimozione di polveri sui luoghi di lavoro. Negli anni ’90 c’è stato un secondo gettito di normative, in forza dell’intervento dell’Unione Europea. A esempio: direttiva quadro (madre) nella quale vengono indicati gli obblighi generali relativi alla sicurezza, da attuare nei singoli Stati membri. Subentra un nuovo concetto per il quale alla sicurezza devono partecipare, non solo il datore di lavoro, ma anche i lavoratori. Cambia, quindi, la filosofia relativa alla concezione di sicurezza sul lavoro. Il D.Lgs. attuativo 626/1994 ha risposto a tale direttiva e si è andato ad aggiungere alle normative già vigenti. Attualmente il quadro in Italia, relativo alla sicurezza sul lavoro, è la risultanza di art. 2087 c.c., del D.Lgs. 626/1994 e delle altre normative. Con la spinta comunitaria si ha che entrambi (datore e lavoratore) devono Diritto del lavoro
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partecipare al raggiungimento della sicurezza. La 626 contiene un obbligo di informazione della parte lavoratrice sui rischi del lavoro e i sistemi di prevenzione. I lavoratori devono frequentare uno specifico corso. Il lavoratore, inoltre, nello svolgimento del suo lavoro, deve attivarsi in via prevenzionale. La 626 prevede come principale obbligo delle imprese, la valutazione dei rischi e le soluzioni per la riduzione/eliminazione degli stessi. Le imprese che non hanno redatto la valutazione dei rischi non possono assumere lavoratori a tempo determinato. La 626 prevede delle figure di mediazione (RLS - Responsabile Lavoratori Sicurezza): per le imprese con meno di 15 dipendenti il RLS può essere eletto tra i lavoratori; per le imprese con più di 15 dipendenti la figura deve essere prevista nelle rappresentanze sindacali. La 626 non ha abrogato la legislazione degli anni ’50. La 626 è il punto di avvio della seconda fase di produzione di norme. Sono state emanate anche ulteriori norme (utilizzo dei videoterminali, etc.) Nel 1978, con la riforma del sistema sanitario, è sorto il problema: come è possibile conoscere tutte le normative/obblighi? Si è posto il problema di redigere un testo unico, con le varie normative suddivise per settore. Tale testo unico (che era stato redatto) è stato bocciato nel 2005. L’art. 2087 c.c. è da considerarsi abrogato? No! è una norma ancora vigente che definisce degli obblighi ulteriori rispetto alle altre normative vigenti. Esso stabilisce un principio entro il quale il datore di lavoro non è più imputabile per inadempimento, infatti si dice che l’art. 2087 c.c., in forza dei criteri di particolarità, esperienza e tecnica, costituisce chiusura alla normativa. Il datore non sarà più responsabile nella misura in cui egli ha soddisfatto il criterio della massima sicurezza tecnologicamente possibile. Quindi il datore di lavoro può essere considerato inadempiente anche se ha rispettato la legislazione vigente, e ciò può avvenire se egli non ha soddisfatto il criterio della massima sicurezza tecnologicamente possibile.
03 Maggio 2006 – prof. Vettor
L’art. 2087 c.c. entra in vigore anche se le parti non l’hanno espressamente previsto. Neanche se si è derogato, infatti non è derogabile in senso peggiorativo. L’art. 2087 c.c., sotto il profilo prevenzionistico, non ha avuto esito positivo perché ha un contenuto troppo generico. La figura del RLS Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza non è un obbligo ma un onere. Può, quindi, non esserci. I corsi di formazione sono, invece, un obbligo. L’azienda può usufruire di agenzie che possono avere o no l’impegno delle risorse economiche per la sicurezza; se questa è in capo al lavoratore egli ne risponde anche penalmente. L’art. 2087 c.c. è una normativa di chiusura ed impone un obbligo di diligenza al datore di lavoro (es. deve mettere a disposizione i DPI più adatti e tecnologicamente migliori). Cause di sospensione del rapporto di lavoro
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Quando è possibile sospendere legittimamente la prestazione di lavoro senza sciogliere il vincolo del rapporto di lavoro? Nei casi come malattia, gravidanza, puerperio, infortunio, servizio militare, richiamo alle armi, riposo settimanale, congedo matrimoniale, ferie, aspettativa (per motivi di salute, personali, cariche elettive, etc.), sciopero, permessi studio. Si distingue la sospensione per impossibilità sopravvenute nel rapporto di lavoro (malattia, infortunio, puerperio, gravidanza, servizio militare) e le altre sospensioni. Quanto detto è riferito al rapporto di lavoro subordinato, infatti molte delle figure sopra esposte non trovano applicazione nel lavoro autonomo. Gravidanza e puerperio Il nostro ordinamento prevede nell’art. 37 Cost. la parità di lavoro indipendentemente dal sesso. E’ possibile operare una diversificazione nei trattamenti giuridici, nel caso della maternità. Sotto il profilo della disciplina antidiscriminatoria per motivi di sesso, la legislazione è costituita da: - legge 903/1977 (legge italiana); - legge 207/1976 (legge attuativa di una direttiva comunitaria Nella legge 903/1977 si tutelava l’uguaglianza formale (non è possibile non assumere in ragione del sesso, etc.). Questa legge attuava la Costituzione, secondo quanto previso nell’art. 3. Una successiva legge 125/1991, è entrata in vigore a seguito di una raccomandazione dell’U.E. (non di una direttiva). Il legislatore del 1991 riteneva necessaria l’introduzione di norme ad esclusivo beneficio delle lavoratrici, proprio per favorire un’eguagliamento delle stesse rispetto agli uomini. E’ il fenomeno delle pari opportunità. IL D.Lgs. 145/2005 (attuativo di una direttiva comunitaria) ha ulteriormente modificato il quadro legislativo e ha modificato le leggi 903/1977 e 207/1976, soprattutto sotto il punto di vista delle molestie sessuali e della discriminazione indiretta. Prima del 2005 i casi di molestie venivano trattati in via giurisprudenziale (perché non c’era la specifica legge, cioè il D.Lgs. 145/2005). Quando i giudici hanno dato una tutela lo hanno fatto spesso ex art. 2087 c.c. perché il datore di lavoro deve assicurare l’integrità fisica e morale dei lavoratori. Spesso le discriminazioni sono anche per razza, orientamento sessuale, etc. Le cause di sospensione per gravidanza, infortunio, malattia e puerperio sono previste all’art. 2110 c.c. e, per il servizio militare, all’art. 2111 c.c. Nel primo caso il trattamento retributivo non viene sospeso e viene così erogato: 80% grava sull’Inps (il datore anticipa il trattamento per poi rivalersi sull’istituto previdenziale). Tale 80% può raggiungere il 100% (totalità della retribuzione) se previsto dalle rappresentanze sindacali (in tal caso la differenza grava sul datore di lavoro). La tutela della maternità trovava sede nella legge 1204/1971 nella quale si diceva: - la lavoratrice, dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno del bambino, non poteva essere licenziata, salvo eccezioni tassative espressamente previste (colpa grave, se il contratto era a termine, in caso di una cessazione dell’impresa);
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- riconoscimento dell’astensione obbligatoria ( 2 mesi prima del parto e 3 mesi dopo). Se la lavoratrice si presentava in tale periodo, doveva essere allontanata (perché mirava alla tutela della salute); - riconoscimento di un ulteriore periodo di astensione (di natura facoltativa, non obbligatoria) per un massimo di 6 mesi, entro il primo anno di vita del bambino. In tale periodo, se attivato, era prevista la retribuzione per il 30%. Nel 2000, il D.Lgs. 53, attuativo di una direttiva comunitaria,ha modificato questa legislazione, per cui la tutela deve essere riconosciuta non solo alla madre ma anche al padre, nell’ottica della funzione genitoriale. Il D.Lgs. 53/2000 prevede: - l’astensione obbligatoria diventa “congedo di maternità” o “congedo di paternità”. La retribuzione resta dell’80%, salvo contrattazione collettiva. Totale durata 5 mesi (3+2). - è possibile, previa presentazione della documentazione medica, ridurre l’astensione pre-partum e ampliare quella post-partum. - il padre gode del congedo di paternità ma di natura derivata (se la madre non ne beneficia). Egli potrà beneficiare di 3 mesi di astensione dopo la nascita del bambino. Ad oggi, c’è il testo unico relativo alla tutela della maternità e paternità , che è il D.Lgs. 151/2001: - l’astensione facoltativa diventa “congedo parentale” ed èd un diritto che spetta ugualmente a lavoratori e lavoratrici. La durata massima è di 6 mesi (la somma tra la madre e il padre non può superare i 10 mesi e il singolo può prenderne al massimo 6). Per incentivare i padri a prendere l’astensione, il legislatore ha previsto che se il padre usufruisce del congedo per 3 mesi consecutivi, gli viene “regalato” un mese in più. Il congedo parentale può essere usufruito entro gli 8 anni di vita del bambino. Tale legge fornisce una tutela anche ai genitori non biologici. Mentre nel caso del genitore solo, il totale di cui può usufruire è 10 mesi. 04 Maggio 2006 – prof. Vettor Le norme costituzionali che delineano le linee programmatiche per la tutela della lavoratrice madre e del nascituro sono l’art. 3 (principio di uguaglianza) e l’art. 37 (nella parte riferita alla lavoratrice madre). La legislazione ordinaria, invece, si è occupata dei principi della non discriminazione e della tutela della maternità attraverso la legge 903/1977 (recepimento di una legge comunitaria), relativa alla non discriminazione sessuale in ambito lavorativo. Successivamente è stata emanata la legge 125/1991, la quale però non ha carattere cogente, infatti è nata a seguito di una raccomandazione dell’Unione Europea. La legge 125/1991 introduce il principio di produrre un uguagliamento delle condizioni socioeconomico, solo attraverso questo sistema si può dire che il principio di eguaglianza è effettivamente attuato. La normativa si è ulteriormente sviluppata con il D.Lgs. 145 /2005, anch’esso strumento di recepimento di una direttiva Europea, che ha analizzato ulteriori aspetti quali le molestie sessuali. Per quanto concerne la maternità, la prima legislazione che se ne è occupata è la 1204/1971 i cui tre punti di forza sono: 1) c’è un’interdizione al potere di recesso del datore di lavoro, tale interdizione va dal momento dell’insorgere della gravidanza fino al primo anno di vita del bambino. In questo periodo, nel caso si determinasse un atto di recesso, ci sarebbe una presunzione di comportamento illegittimo, infatti, il licenziamento sarebbe di natura discriminatoria; Diritto del lavoro
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2) c’è un periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, che va da due mesi prima della data presunta del parto e tre post-parto. In tale periodo la lavoratrice è obbligata a sospendere l’attività lavorativa per tutelare la propria salute e quella del nascituro e comunque ha diritto alla retribuzione. Il trattamento economico previsto è del 80% che può essere esteso al 100% attraverso accordi collettivi. L’80% è a carico dell’Inps, il quale non lo eroga in prima battuta in quanto viene anticipato dal datore di lavoro che poi si rivale sull’Inps. Mentre per le eventuali differenze concordare oltre l’80% esse sono a carico del datore di lavoro. 3) c’è l’astensione facoltativa fino a sei mesi, in cui però la retribuzione viene diminuita fino al 30%, salvo altri accordi attraverso i contratti collettivi. Con l’ultimo D.Lgs. 53/2000 questa tutela è stata ampliata, infatti prevede un congedo parentale del quale può usufruire anche il padre. Inoltre muta la durata dell’astensione, il periodo entro cui l’astensione può essere usufruita ed il trattamento economico. Per quanto riguarda la durata del congedo parentale, ciascun genitore può astenersi dal lavoro per 6 mesi, senza alcun diritto di retribuzione, però la sommatoria dei due periodi non può superare i 10 mesi. L’unica eccezione, effettuata per incentivare la richiesta del congedo da parte dei padri, è la possibilità di un mese bonus, a seguito della richiesta di un periodo continuativo di 3 mesi (pertanto il totale della sommatoria diventa 11 mesi). La richiesta del congedo può avvenire non più entro il compimento di un anno del bambino, bensì entro gli 8 anni. Il congedo parentale, proprio perché valorizza la funzione genitoriale, di spalma su un arco temporale più ampio. Il trattamento economico del congedo parentale prevede una retribuzione minima del 30%, salvo la possibilità per il lavoratore di chiedere quota del TFR per pareggiare il minor introito. Il congedo parentale funziona, in sostanza, in questo modo: se si decide di usufruire di tutta l’astensione subito (entro il primo anno di vita del bambino) si ha diritto al 30% della retribuzione; laddove invece si decidesse di scaglionare l’astensione per usufruirne successivamente, non è più garantito il 30% della retribuzione, ma solo se il nucleo famigliare non supera un certo reddito. Mentre in passato l’astensione facoltativa prevedeva un versamento del 30% a carico dell’Inps, salvi ulteriori %, a carico del datore di lavoro, derivanti da accordi collettivi. Il genitore solo può usufruire del congedo parentale per la totalità dei 10 mesi. Nei casi particolari di infermità fisica di uno dei due genitori, l’altro viene considerato “solo” e può usufruire del congedo come “solo”. La malattia è un'altra di quelle ipotesi di sospensione per incapacità sopravvenuta che comportano, quindi, la conservazione del posto e della retribuzione (art. 2110 c.c.). Tuttavia, la conservazione del posto non è a tempo indeterminato, infatti ci sono delle soglie che se superate, il rapporto può essere legittimamente risolto. Tali soglie sono stabilite nei contratti collettivi (o secondo gli usi) e prevedono la valutazione del comporto secco (singolo evento di malattia) e del comporto per sommatoria (in un certo arco di tempo), definendone i valori. Il lavoratore ha l’obbligo di avviso tramite raccomandata con ricevuta di ritorno. Un’altra possibile causa di sospensione è il servizio militare (viene sospeso l’obbligo retributivo ma rimane quello della conservazione del posto). Il D.Lgs. 53/2000 ha poi previsto ulteriori pause/permessi, quali, i congedi formativi, i congedi famigliari, i congedi per malattia del bambino (tutti a costo zero per il datore di lavoro). Queste tutele non sono previste per i lavoratori autonomi e per quelli a progetto. La tutela della maternità per le lavoratrici a progetto è prevista solo nella forma dell’astensione obbligatoria. Il congedo di maternità per la lavoratrice a progetto è previsto per i 5 mesi e, di conseguenza, il termine del progetto (durata del contratto) si prolunga di 5 mesi. La lavoratrice a progetto però, a differenza di quella di subordinata, non ha l’obbligo di astensione, infatti può, per ipotesi, lavorare fino all’ultimo giorno prima del parto ed usufruire dei 5 mesi tutti post-partum (la lavoratrice dipendente ha l’obbligo dell’astensione e, al massimo, può portare da 2 ad 1 i mesi prima del parto). Questo perché il lavoro subordinato, Diritto del lavoro
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proprio perché tale, è soggetto all’eterodirezione e la lavoratrice non vi si può sottrarre, pena la violazione dell’obbligo di diligenza (perciò il legislatore interviene impedendo che la lavoratrice si presenti fisicamente sul luogo di lavoro). Per il lavoro autonomo, proprio in quanto autonomo, si ammette che la lavoratrice possa continuare ad esercitare la propria attività lavorativa, proprio perché libera di auto-organizzarsi in modo libero, svincolata dall’eterodirezione (il legislatore non ha quindi la necessità di intervenire con un divieto per alzare la soglia di protezione). L’altro elemento di differenza è che, sotto il profilo della retribuzione, interviene l’Inps; diversamente dalla lavoratrice dipendente qui si ha l’erogazione della prestazione retributiva direttamente dall’Inps a cui è necessario fare domanda diretta (cambiano i tempi in quanto non è definito il tempo di retribuzione da parte dell’Inps). Un’ulteriore differenza è che mentre la lavoratrice dipendente non risente dell’anzianità contributiva (anche se è una neo assunta, usufruisce dell’80% della retribuzione), la lavoratrice a progetto risente dell’anzianità contributiva. Anche per quanto concerne la malattia vi sono delle differenze rilevanti: c’è un comporto secco. La cessazione del rapporto di lavoro in riferimento al licenziamento individuale. E’ legittimo nella misura in cui è sorretto da una giustificazione (requisito sostanziale) e rispetta alcuni requisiti formali o procedurali (requisito formale). Nel momento in cui il datore decide di porre termine al vincolo contrattuale, ha l’obbligo di indicare i motivi del licenziamento? La legge 604/1966 (e successive modifiche) non prevede l’obbligo contestuale dei motivi, tuttavia prevede, in quanto è onere del datore di lavoro la prova della sussistenza di una ragione del licenziamento, che il lavoratore richieda l’indicazione dei motivi. Tale richiesta può essere inoltrata decorsi 15 gg dal ricevimento della lettera di licenziamento. A quel punto scatta sì un obbligo e il datore di lavoro deve entro i successivi 7 gg indicare i motivi del recesso. Quindi i requisiti formali consistono ella forma scritta del recesso (in altri termini, il recesso è illegittimo se viene intimato oralmente). Sia l’assenza dei requisiti sostanziali, sia l’assenza dei requisiti formali può integrare motivi di illegittimità del recesso. Un recesso intimato senza motivi configura un’ipotesi di nullità del recesso, ma analogamente configura un’ipotesi di invalidità anche l’assenza del requisito formale. Nell’ipotesi in cui il recesso sia giudicato illegittimo, le sanzioni intimabili nei confronti del datore di lavoro sono differenti a seconda della differenza numerica dell’impresa: - fino a 15 dipendenti si applica la disciplina della legge 604/1966 (si parla di tutela obbligatoria), - oltre i 15 dipendenti si applica l’art. 18 dello statuto dei lavoratori (si parla di tutela reale). Nella tutela obbligatoria, laddove il licenziamento sia illegittimo, il legislatore prevede una tutela di tipo alternativo: per un verso prevede la riassunzione o una tutela di tipo indennitario. Le due tutele sono alternative: la scelta tra una e l’altra viene effettuata dal datore di lavoro, il quale potrà quindi scegliere di adempiere alla sanzione o riassumendo il lavoratore o pagandogli l’indennità sostitutiva. Nell’ipotesi di riassunzione del lavoratore, il legislatore considera che il precedente rapporto di lavoro sia da intendere concluso e ad esso, in via sanzionatoria, subentrerà un nuovo rapporto di lavoro. Ciò implica l’azzeramento di tutti gli istituti retributivi collegati al precedente rapporto di lavoro (devono essere liquidati tutti i trattamenti come TFR, ferie maturate, etc.). Dal momento della nuova assunzione iniziano a ricorrere ex novo tutti gli istituti retributivi. Nell’ipotesi di pagamento dell’indennità sostitutiva, il datore di lavoro può pagare da 2,5 mensilità fino ad un massimo di 6 mensilità. Se il lavoratore ha un rapporto ultradecennale si può arrivare fino a 10 mensilità (l’anzianità ha la sua influenza). Il giudice opta per la massima sanzione delle 6 mensilità quando c’è un grave omissivo comportamento da parte
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del datore di lavoro. In termini concreti, un datore di lavoro di una piccola impresa può sostanzialmente recedere ad nutum, salvo il pagamento di una penale. Nella tutela reale si presuppone che il rapporto non si sia mai interrotto nella misura in cui è dichiarato illegittimo, ed è per questo che si parla di tutela reale: se il rapporto non si è mai interrotto, ciò implica che il lavoratore dovrà essere reintegrato con analoghe mansioni, più il pagamento di 5 mensilità a titolo di risarcimento del danno. In più, visto che non è possibile adempiere al posto del datore di lavoro, il legislatore ha ideato un meccanismo di coazione indiretta che favorisca la tempestiva attuazione dell’ordine del giudice: il pagamento delle retribuzioni al lavoratore a partire dalla data della sentenza (è come se il licenziamento non fosse mai stato intimato, in quanto giudicato illegittimo). 16 Maggio 2006 – prof. Vettor I requisiti sostanziali e formali del licenziamento individuale: quello sostanziale è la motivazione (giusta causa disc. art. 2119 c.c., giustificato motivo oggettivo/soggettivo disc. Legge 604/1966); quello formale è la forma scritta ab sustantiam. La lettera raccomandata può anche non contenere i motivi del recesso, dopodiché il lavoratore può accettare il licenziamento oppure richiedere, entro 15 gg, che gli vengano indicate, in forma scritta, le motivazioni. Il datore di lavoro deve rispondere entro 7 gg. Se il datore di lavoro non dovesse indicare le ragioni del recesso, avrebbe un onere di prova sui motivi del recesso? Sì, perché la legge 604/66, all’art. 5, prevede l’onere della prova dei motivi del recesso in capo al datore di lavoro. Il dirigente può essere licenziato oralmente? No, infatti anche per esso sussiste la forma scritta, però non è necessario addurre una giustificazione (in quanto il rapporto si basa sulla fiducia).Pertanto, per il dirigente si configura un’ipotesi di recesso ad nutum (disciplinato all’art. 2118 c.c.). Le altre ipotesi di libero recesso sono collaboratori domestici, lavoratori in prova, lavoratori ultra sessantacinquenni in possesso dei requisiti pensionistici). Quando il recesso è ritenuto illegittimo dall’autorità giudiziaria, si innesca il meccanismo della tutela ed entra in funzione l’apparato sanzionatorio. E’ necessario distinguere le imprese con più o meno di 15 lavoratori: nel primo caso si parla di tutela reale, nel secondo di tutela obbligatoria. La tutela obbligatoria prevede due possibilità per il datore di lavoro: egli può o riassumere il lavoratore (il primo rapporto è concluso e ne subentra uno nuovo, quindi i trattamenti relativi al precedente rapporto devono essere liquidati e gli istituti retributivi vengono azzerati); oppure, in alternativa, il datore può pagare un’indennità che va da 2,5 a 6 mensilità. A seconda della gravità dei motivi dell’illegittimità viene definita dal giudice l’entità di tale indennità. La tutela reale prevede che, se il licenziamento viene considerato illegittimo dal giudice, il rapporto non si sia mai concluso, pertanto il datore di lavoro deve reintegrare il lavoratore e pagargli la retribuzione per tutto il periodo in cui questo non ha lavorato (retribuzioni pregresse), fino al momento in cui il lavoratore viene reintegrato (questo è uno strumento di coazione indiretta per far sì che il datore attui la decisione del giudice quanto prima). Inoltre, il datore deve al lavoratore 5 mensilità per il risarcimento del danno. Il lavoratore, come previsto dall’art. 18 legge 300/1970, se ritiene difficoltosa la sua reintegrazione in azienda, può esercitare il diritto di opzione, ossia scegliere di monetizzare la reintegrazione e ciò corrisponde a 15 mensilità (da aggiungere alle 5 mensilità per il risarcimento e alle altre mensilità relative al periodo decorrente dall’illegittimo recesso alla decisione del giudice). Il potere di recesso del datore di lavoro, nei limiti della 604/1966, è libero. Ci sono casi in cui il potere di recesso viene interdetto comunque, anche in presenza di una giusta causa (purché non si presenti particolarmente grave)? Sì, la maternità, infatti, l’interdizione al Diritto del lavoro
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legittimo recesso va dall’inizio della gravidanza a…. Un recesso nel periodo di gravidanza a puerperio è considerato di natura discriminatoria. Il recesso motivato da ragioni discriminatorie (per motivi sindacali, etnico-razziali, di orientamento sessuale, religiosi, politiche, etc.) è vietato. In questi casi, l’art. 18 trova attuazione anche nelle aziende con meno di 15 dipendenti. I licenziamenti collettivi (legge 223/1991) sono differenti dai licenziamenti individuali, infatti è la stessa legge 604/1966, all’art. 11 comma 2, a dichiarare la propria estraneità al problema dei licenziamenti collettivi per riduzione del personale. Il problema dei licenziamenti collettivi non è stato trattato da una legge, bensì dall’autonomia collettiva, cioè ha costituito oggetto di accordi, i contratti collettivi. Questi consentivano una pluralità di licenziamenti per motivi organizzativi/aziendali a patto che tali licenziamenti si sottoponessero ad una specifica procedura. Per un lungo periodo la materia è stata regolata da accordi collettivi, i quali, per loro stessa natura, non trovano un’applicazione generalizzata ma trovano applicazione nei confronti di chi sono iscritti alle organizzazioni sindacali stipulanti l’accordo. La tutela, quindi, c’era ma copriva alcuni settori e non altri; copriva le vicende di licenziamento rispetto a quelle aziende che fossero iscritte alle organizzazioni sindacali stipulanti l’accordo. Per le altre imprese non vi era alcuna disciplina. Ad un certo punto l’Unione Europea, negli anni ’70, in coincidenza con le prime grandi crisi di tipo economico (di tipo petrolifero), interviene con una sua regolamentazione e lo fa in tre volte: la prima appunto negli anni ’70, poi successivamente e poi recentemente con una terza direttiva che è un po’ la somma delle due precedenti. L’ordinamento italiano, dopo aver avuto due procedimenti di infrazione per mancato adempimento delle direttive, decide, solo nel 1991, di disciplinare la materia e di colmare, quindi, il vuoto legislativo, solo in parte riempito dall’intervento dell’autonomia negoziale collettiva. Nasce la legge 223/1991 che affronta la nozione di licenziamento collettivo. La definizione che viene data si appoggia su due criteri (requisiti definitori): il primo criterio si può definire di tipo numerico-temporale, il secondo di tipo qualitativo. Il criterio numerico-temporale stabilisce che siamo di fronte ad un licenziamento collettivo quando esso coinvolge almeno 5 lavoratori, in uno specifico arco temporale di 120 gg. Un altro criterio numerico è rappresentato dalla consistenza numerica dell’impresa che deve avere un’unità produttiva superiore/uguale a 15 dipendenti. Il criterio qualitativo determina che il licenziamento deve essere caratterizzato da una specifica causale e la legge dice che deve essere conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività di lavoro (causale di natura oggettiva). Questi criteri devono ricorrere tutti contemporaneamente per richiamare la nozione di licenziamento collettivo, se ne manca uno si ricade nella disciplina del licenziamento individuale per motivi oggettivi. Come si accede ad un licenziamento collettivo? In cosa consiste la disciplina applicata al licenziamento collettivo? Si può accedere alla procedura di licenziamento collettivo per due vie: in via diretta o in via indiretta. Comunque la disciplina è unica. Per via diretta è quando l’imprenditore, in presenza di una crisi aziendale di tipo irreversibile, decida di intimare una serie di licenziamenti. Per via indiretta è quando l’imprenditore, dato che con il decorso un certo periodo le cose si potrebbero risanare, chiede l’aiuto dello Stato attraverso un ammortizzatore sociale e cioè la cassa integrazione straordinaria (l’INPS interviene nell’erogazione della retribuzione). Dopo tale periodo si potrebbe avere un rientro della crisi aziendale oppure un’inevitabile espulsione della parte lavoratrice eccedente attraverso il licenziamento collettivo che qui viene a chiamarsi licenziamento per messa in mobilità. In realtà le due ipotesi non sono differenti, solo che una è differita e l’altra è immediata. Come per il licenziamento individuale, per il licenziamento collettivo la tutela non si spinge alla valutazione nel merito delle scelte aziendali (l’ordinamento non interviene a sindacare le Diritto del lavoro
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scelte organizzative imprenditoriali), ma c’è una procedimentalizzazione, infatti, la legge impone all’imprenditore l’osservanza di una determinata procedura (mentre per il licenziamento individuale la legge richiede che ci sia la possibilità di un ripescaggio). Tale procedura si articola in due fasi: una fase sindacale necessaria e una successiva eventuale di tipo amministrativo (da attuare solo nei casi in cui la prima fase ha dato esito negativo). La fase sindacale consiste in una comunicazione scritta, che il datore di lavoro deve produrre in capo alle rappresentanze sindacali aziendali (RSU o RSA), contenente la sua volontà di “espellere” un certo numero di dipendenti, offrendo una serie di alternative al recesso. Se l’impresa e il sindacato non si accordano sulle scelte alternative, si passa alla seconda fase cioè quella di tipo amministrativo che si svolge dinanzi all’autorità amministrativa (direzione provinciale del lavoro) la quale invita a sua volta le parti ad un nuovo tentativo di conciliazione. Se anche tale tentativo fallisce, si ha la possibilità per l’impresa della messa in mobilità dei lavoratori. Come avviene la scelta dei 5 o più lavoratori da licenziare? I criteri di scelta sono stabiliti dalla legge e sono: i carichi di famiglia, l’anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Questi criteri sono di natura sussidiaria rispetto a quelli che possono essere individuati dai sindacati in sede di contrattazione collettiva. Quindi, la contrattazione collettiva diventa fonte primaria di disciplina. Anche il licenziamento collettivo, ai fini della validità, richiede la forma scritta. Pertanto un licenziamento privo della forma scritta o che non ha seguito correttamente tutta la procedura, è inefficace e comporta il reintegro. 17 Maggio 2006 – prof. Vettor I licenziamenti collettivi, prima della legge 223/1991, erano disciplinati dagli accordi quadro (l’autonomia negoziale collettiva) ma questi erano insufficienti perché erano applicabili solo ai soggetti iscritti alle organizzazioni stipulanti l’accordo. Gli elementi essenziali della disciplina della 223/1991 sono: criterio numerico temporale e qualitativo. La differenza tra il licenziamento individuale e quello collettivo sta, per quest’ultimo, sotto il profilo numerico temporale e non causale. Le vie per accedere al licenziamento collettivo sono due: diretta ed indiretta. La tutela, in caso di licenziamento collettivo, si articola in un procedimento: c’è una procedimentalizzazione degli obblighi datoriali (invece, nel licenziamento con giustificato motivo oggettivo la garanzia è rappresentata, non dal procedimento ma, dall’obbligo del ripescaggio). La procedura si articola in due fasi: quella sindacale e quella, eventuale , amministrativa. Se entrambe le fasi falliscono, si ha la possibilità del datore della mobilità dei lavoratori. I soggetti da licenziare vengono discriminati attraverso dei criteri di scelta, ossia: carichi di famiglia, anzianità, esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Questi criteri operano in via sussidiaria (assenti i criteri negoziali), infatti la determinazione dei criteri è oggetto della contrattazione collettiva. SECONDA PARTE: DIRITTO SINDACALE I rinvii al diritto sindacale sono numerosi nel diritto del lavoro. Dal primo fenomeno associativo (società di mutuo soccorso) ha origine il diritto sindacale. I principali argomenti del diritto sindacale sono: 1) la libertà sindacale, cui si collega il tema attività sindacale; 2) la contrattazione collettiva; 3) il diritto di sciopero. A questi temi si collegano altrettante sfere dell’agire collettivo. La libertà sindacale Questo tema rinvia al fenomeno dell’associazionismo, della coalizione dei lavoratori. Un primo “assaggio” del fenomeno associativo si è avuto con la costituzione delle società di mutuo soccorso (uno stare assieme dei lavoratori per aiutarsi a fronte di eventi che caratterizzano la vita umana). In varie fasi della storia, questo fenomeno era connotato da Diritto del lavoro
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elementi di illiceità (nel ventennio fascista). Le cose cambiano in modo radicale con la Costituzione italiana: l’art. 39 disciplina espressamente il tema della libertà sindacale. Con ciò prende avvio anche uno sviluppo successivo della legislazione ordinaria, in funzione attuativa/integrativa, di questo articolo 39.1. La legislazione ordinaria che si occupa della libertà sindacale è la legge 300/1970 (statuto dei lavoratori), nel cui ambito troviamo il titolo II “della libertà sindacale” interamente rivolto ad integrare profili giuridici connessi al tema della libertà sindacale, ma altresì il titolo III “dell’attività sindacale”. Questa legislazione è esplicativa di indicazioni e raccomandazioni provenienti dall’organizzazione internazionale del lavoro (ILO). Con la Costituzione italiana viene accolto il principio della libertà sindacale, mettendo una pietra sul passato. Si ha una legittimazione costituzionale della libertà sindacale e, successivamente, negli anno ’70, un’integrazione da parte del legislatore. Art. 39.1 Cost.: “L’organizzazione sindacale è libera” * A chi si applica? Cioè qual è l’efficacia soggettiva di questa norma? Vi è una duplicità di opinioni: alcuni ritengono che questo articolo esplichi efficacia nei confronti dei solo lavoratori, mentre altri considerano la norma applicabile ad entrambi i fenomeni (lavoratori e datori). La prima interpretazione implica che ci si chieda se esista una norma, disciplinante il fenomeno associativo delle organizzazioni datoriali, diversa dall’art. 39. La risposta si trova nell’art. 18.1 Cost. “I cittadini hanno libertà di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”. C’è da fare, però, la seguente considerazione: mentre in un caso il legislatore costituente considera intrinsecamente lecita l’organizzazione sindacale, nel caso dell’art. 18 costituisce un diritto nella misura in cui il fine dello stesso non sia vietato ai singoli dalla legge penale. In altri termini, il fenomeno associativo datoriale non viene affermato come valore di per sé stesso ma risente di un vaglio di liceità, mentre per quanto concerne il fenomeno associativo della parte lavoratrice l’art. 39.1 non subordina ad alcuna condizione l’organizzazione sindacale. Secondo l’altra interpretazione l’art. 39 dovrebbe essere uniformemente applicato sia alle organizzazioni datoriali, sia alle organizzazioni sindacali della parte lavoratrice. * “L’organizzazione sindacale è libera”: perché organizzazione e non associazione o gruppo? Perché il legislatore costituente ha cercato di scegliere una espressione massimamente inclusiva di tutti i fenomeni associativi. L’espressione “organizzazione” è la più ampia e quindi maggiormente adatta a rappresentare la pluralità di fenomeni associativi che si potevano dare nella realtà. * La parola “sindacale” all’interno dell’art. 39.1 è un’espressione che non può essere interpretata né sulla base di un indagine lessicale, né servendosi del linguaggio costituzionale. Per trarre il senso di questa parola, infatti, si dice che si deve guardare a dati di esperienza (anche la nozione di sciopero è qualcosa che discende da ciò che il senso comune in un momento storico intende essere “sciopero”). Lo studioso del diritto sindacale Gino Giugni, dice che per trarre il significato dell’espressione “sindacale” bisogna ispirarsi a due criteri: un criterio teleologico (o finalistico) e un criterio strutturale. In base al criterio teleologico è sindacale un atto o un’attività diretti all’autotutela di interessi collegati a relazioni giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro. L’attività di lavoro per cui si parla di autotutela sindacale può anche non essere da lavoro dipendente, ma può anche essere collegata l lavoro autonomo. E’ rilevante dichiarare un atto come attività sindacale. In base al criterio strutturale è sindacale l’atto o l’attività che presuppone l’aggregazione dei soggetti (una collettività). Ma attività sindacale attiene anche al singolo, dimensione individuale che non va esclusa (promozione, proselitismo ai fini di autotutela: queste attività godono della copertura sindacale). * La parola “libera” all’interno dell’art. 39.1, come deve essere interpretata? Significa forse anche che posso sottrarmi a fenomeni associativi, restare fuori da organizzazioni sindacali?
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Sia da parte datoriale che da parte dei lavoratori, tale libertà è da interpretarsi sia in un’accezione positiva che negativa. Ci sono anche altri due articoli che contengono tali concetti e precisamente sono gli artt. 14 e 15 dello statuto dei lavoratori (legge 300/1970). Art. 14: “Diritto di associazione e di libertà sindacale. Il diritto di costituire associazioni sindacali, di aderirvi e di svolgere attività sindacale, è garantito a tutti i lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro”. L’art. 14 richiama l’art. 39.1 Cost. per rafforzarlo, chiarendo che la libertà d’organizzazione sindacale è anche nei luoghi di lavoro (dove potrebbe essere più fortemente repressa). Art. 15: “Atti discriminatori. E’ nullo qualsiasi patto od atto diretto a: a) subordinare l’occupazione di un lavoratore alla condizione che aderisca o non aderisca ad una associazione sindacale ovvero cessi di farne parte; b) licenziare un lavoratore, discriminarlo nella assegnazione di qualifiche o mansioni, nei trasferimenti, nei provvedimenti disciplinari, o recargli altrimenti pregiudizio a causa della sua affiliazione o attività sindacale ovvero della sua partecipazione ad uno sciopero. Le disposizioni di cui al comma precedente si applicano altresì ai patti o atti diretti a fini di discriminazione politica, religiosa, razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali”. In questo articolo la lettera a) è l’opposto della legislazione americana. 18 Maggio 2006 – avv. La Ratta La condotta antisindacale, regolata dall’art. 28 dello statuto dei lavoratori. L’art. 28 prevede un particolare procedimento volto alla repressione della condotta antisindacale. E’ un procedimento molto efficace per rendere effettivo il principio di attività sindacale e il diritto di sciopero, quindi l’art. 28 dello statuto dei lavoratori è chiaramente a tutela dei diritti sindacali (libertà e attività) e il diritto di sciopero. E’, pertanto, una norma fondamentale. Art. 28.1: “Repressione della condotta antisindacale. Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse, il pretore del luogo ove è posto in essere il comportamento denunziato…..” Questo è uno strumento volto a reprimere tutti i comportamenti del datore di lavoro diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale, nonché il diritto di sciopero. Leggendo questo articolo si evince che la condotta antisindacale si ha tutte quelle volte in cui ci si trovi di fronte ad un comportamento del datore di lavoro diretto ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale e del diritto di sciopero. Non c’è, quindi, una definizione specifica di “condotta antisindacale”. Quindi di tale comportamento non sono specificate le caratteristiche strutturali, bensì l’individuazione della condotta sindacale si ha in base all’idoneità del comportamento a ledere i beni protetti (libertà e attività sindacale e diritto di sciopero). La condotta antisindacale, così come è regolata dall’art. 28 della legge 300/1970, non è individuata con una fattispecie specifica bensì con una fattispecie aperta. Ogni volta che si fa un procedimento ex art. 28, il giudice non si troverà di fronte una norma che individua già la fattispecie, ma dovrà analizzare il comportamento del datore di lavoro per capire se lede i diritti protetti. Come mai il legislatore non ha dato una definizione di condotta antisindacale precisa? Perché si è pensato che questo potesse essere uno strumento di tutela migliore rispetto a quello probabilmente previsto se ci fosse stata una fattispecie specifica descritta. Questo perché una fattispecie così aperta permette di ricomprendere all’interno della norma stessa tutti i comportamenti, purché mirati a ledere i diritti di libertà sindacale e di sciopero. E’ significativo il termine usato: “comportamento”, infatti ciò vuol dire che la repressione della condotta antisindacale, nel particolare procedimento previsto dall’art. 28 dello statuto dei lavoratori, si applica a tutti i comportamenti (non solo ad atti giuridici,
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bensì anche a veri e propri comportamenti materiali, per esempio minacce,comportamenti omissivi). Nella norma c’è scritto anche (comportamenti) “diretti ad impedire…”, però la parola “diretti” non vuol dire intenzionali. Nel senso che la condotta antisindacale non presuppone la volontarietà dell’atto stesso ma, ai fini della qualificazione di un comportamento come antisindacale, è sufficiente che il comportamento sia oggettivamente idoneo a ledere il bene, anche solo in via potenziale. Il giudice deve vedere se il comportamento denunciato potenzialmente lede o limita i diritti protetti, non deve verificare anche se il datore di lavoro che l’ha posto in essere voleva proprio con quel comportamento ledere un diritto protetto. Il comportamento è comunque antisindacale. Ci sono dei casi, in realtà, in cui questo cd. animus antisindacale può assumere rilievo, e sono i cd. casi di plurioffensività: sono tutti quei casi che possono rappresentare una lesione di diritti su più profili (nel caso di specie, sono quei comportamenti che possono rappresentare sia una lesione dei diritti sindacali tutelati dall’art. 28, sia possono rappresentare una lesione di un diritto del singolo lavoratore). Per esempio, un caso di licenziamento di un lavoratore è chiaramente una lesione della tutela giuridica del lavoratore però, tale licenziamento potrebbe essere conseguenza dell’attività sindacale svolta dal licenziato e, quindi, tale licenziamento, in via indiretta, lede anche l’attività del sindacato a cui era iscritto il lavoratore. Per cui questo comportamento è plurioffensivo. Ne consegue che l’art. 28 può esser applicato anche nei casi i cui ci sia una lesione di un interesse del singolo lavoratore, questo perché, dopo una prima interpretazione restrittiva della norma che diceva che l’art. 28 era stato pensato solo per tutelare gli interessi collettivi del sindacato, si è detto che (interpretazione odierna) l’art. 28 dello statuto dei lavoratori è una norma che deve tutelare i diritti sindacali in senso ampio. Chiaramente anche i singoli lavoratori sono titolari di diritti sindacali e quindi un comportamento del datore di lavoro che leda il diritto del singolo lavoratore può essere considerato antisindacale anche perché va a ledere comunque il diritto sindacale che ha quel singolo lavoratore e, per via indiretta, quindi anche l’interesse collettivo del sindacato in senso generale. In sostanza, l’art. 28 è esperibile anche nei casi di lesione di diritti soggettivi del singolo lavoratore, proprio perché spesso i comportamenti antisindacali sono plurioffensivi. In altri casi, un licenziamento disciplinare (sanzione più grave del potere disciplinare che ha il datore di lavoro) di un lavoratore che non svolga attività sindacale potrebbe essere un legittimo esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro. Quindi, la giurisprudenza dice che per individuare un comportamento antisindacale è necessario trovale l’animus antisindacale del datore di lavoro. Ciò vuol dire che è necessario provare, non solo che il comportamento lede l’attività sindacale, ma anche che l’intento del datore di lavoro era proprio quello di limitare l’attività sindacale. Quindi se tendenzialmente la giurisprudenza dice che per la qualificazione della condotta antisindacale non è necessario trovare la volontà del datore di lavoro di ledere i beni protetti, bensì basta provare che il comportamento stesso è idoneo a ledere i beni protetti, in questi casi, invece, la giurisprudenza dice (nella maggior parte dei casi) che bisogna trovare un qualcosa in più che è questo animus antisindacale. E’ chiaro però che è difficile riuscire a dare una prova della presenza di questo animus antisindacale, pertanto, per questo motivo, c’è un’interpretazione un po’ meno restrittiva che dice che anche in questi casi comunque l’elemento soggettivo non può avere una rilevanza assoluta ai fini della qualificazione della condotta antisindacale. Questo è un po’ quel principio che c’è nei casi di discriminazione, nel senso che il nostro ordinamento prevede una tutela per la discriminazione, in cui la prova della discriminazione stessa la si può avere non in via diretta ma mediante degli indizi (altrimenti non si riuscirà mai a trovarla). E’ sufficiente che ci siano una serie di circostanze ed indizi per cui si presume che quell’atto sia discriminatorio. La fattispecie di comportamento antisindacale dettata dalla norma è aperta. Ma quali sono le ipotesi individuate dalla giurisprudenza, nel corso degli anni? Nell’analizzare le ipotesi di condotta antisindacale è necessario tenere distinti il concetto di antisindacalità di fatto e Diritto del lavoro
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antisindacalità giuridica e quindi tutelata dall’art. 28, perché spesso vanno a confondersi, mentre esiste nell’ordinamento il normale conflitto datore/lavoratore. Occorre distinguere tra condotta antisindacale e conflitto. Caso per caso, sarà , quindi, necessario analizzare il caso specifico e vedere se il datore supera la cd. antisindacalità di fatto e si pone in lesione dei diritti sindacali previsti dal nostro ordinamento. * Un primo tipo di ipotesi di condotta antisindacale è collegato allo svolgimento delle trattative tra il datore di lavoro e il sindacato. Nel nostro ordinamento, in realtà, non c’è un obbligo a trattare, per il datore di lavoro. Nel caso di trattative, come si fa a dire quando il datore di lavoro non rispetta le prerogative sindacali? Bisogna interpretare il comportamento del datore di lavoro in base ai criteri di buona fede e ragionevolezza (è normale che ci sia conflitto perché questo fa i suoi interessi, ma deve rispettare il principio di buona fede). Ad oggi comunque, gli stessi contratti collettivi prevedono le materie da trattare e delle apposite procedure, pertanto è necessario rispettarle, per non cadere in ipotesi di comportamenti antisindacali. * Un’altra ipotesi di condotta antisindacale è collegata al diritto di sciopero. Si potrebbe avere un comportamento antisindacale tutte le volte in cui il datore di lavoro si pone in lesione del diritto di sciopero. Tuttavia, ci sono una serie di comportamenti che sono di difficile qualificazione: le cd. forme di sciopero anomalo. Per esempio lo sciopero degli straordinari. In questi casi il datore di lavoro ha dei diritti anche lui ed è pertanto necessario valutare, volta per volta, come si pone in reazione a queste forme di sciopero. In realtà comunque la materia dello sciopero, ai fini della qualificazione del comportamento antisindacale, è semplice da interpretare perché ormai ci sono determinate procedure da seguire; rimangono però fuori tutte quelle situazioni di sciopero anomalo, di forme di lotta non specifiche, in cui, volta per volta, si dovrà andare a vedere il comportamento del datore di lavoro, ai fini della qualificazione come antisindacale del comportamento stesso. * Un’altra ipotesi di comportamento antisindacale consiste in realtà in un legittimo esercizio di poteri previsti dall’ordinamento per il datore di lavoro (esempio precedente dell’esercizio del potere disciplinare in senso ampio o anche del potere direttivo). Per esempio, il cambio di mansioni ad un lavoratore che svolge attività sindacali: da un lato può essere visto come esercizio del cd. ius variandi, quindi del potere del datore di lavoro di cambiare mansioni del lavoratore; ma se è una punizione per l’attività sindacale, in tal caso deve essere qualificato come antisindacale. In questi casi il discrimine l’antisindacalità giuridica e il legittimo esercizio di un potere del datore di lavoro passa dall’accertamento dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento del datore di lavoro di ledere o limitare l’attività sindacale, i diritti sindacali o il diritto di sciopero. Negli ultimi anni si è assistito ad una specie di procedimentalizzazione del potere del datore di lavoro, cioè ci sono state leggi che, nel tentativo di delimitare i poteri del datore di lavoro, hanno stabilito tutta una serie di obblighi di informazione e partecipazione nei confronti del sindacato. Ad esempio nei casi di licenziamento collettivo, ove il datore di lavoro ha la possibilità di porre in essere più licenziamenti, rispettando però una procedura per arrivare alla scelta dei lavoratori. * Se il datore di lavoro non dà informazione ai sindacati di voler avviare questa procedura o se non rispetta la procedura per identificare i lavoratori da licenziare, si ha una condotta antisindacale. Quindi, un’altra ipotesi di condotta antisindacale può sussistere in tutti i casi in cui il datore di lavoro non rispetta questi diritti di informazione e partecipazione aventi fonte legale. Questa è l’interpretazione maggioritaria (non è scritto). C’è un altro caso, molto singolare perché il legislatore prevede proprio la conseguenza dell’antisindacalità del comportamento, che è quello del trasferimento d’azienda: c’è una specifica norma che dice che devono essere date informazioni ai sindacati e se ciò non succede, il comportamento è antisindacale ai sensi dell’art. 28 dello statuto dei lavoratori (è un caso di tipizzazione della fattispecie di antisindacalità, che invece, ai sensi dell’art. 28, non ha una sua definizione specifica). Diritto del lavoro
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I diritti di informazione e partecipazione (o di concertazione) sono oggi spesso contenuti nei contratti collettivi. La finalità dell’art. 28 è la repressione della condotta antisindacale, ma chi può attivare questo procedimento? In riferimento alla legittimazione attiva, ossia quali sono i soggetti che possono adire in giudizio con l’art. 28, la norma dice che sono gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. Da ciò scaturiscono i due requisiti che devono avere le organizzazioni sindacali perché possano essere considerate legittimate ad agire ex art. 28: 1) organismi locali; 2) associazioni sindacali nazionali. I requisiti devono essere entrambi presenti. L’organismo locale è quella articolazione periferica di una struttura nazionale (normalmente coincide con i sindacati provinciali di categoria). La ratio di questa scelta sulla legittimazione attiva dell’art. 28 è collegata al fatto che si pensa che gli organi periferici siano più vicini alle concrete situazioni di lavoro e quindi quelli che meglio possono valutare i risvolti antisindacali della condotta del datore di lavoro che si vuole censurare. Il primo elemento dell’organismo locale normalmente coincide con il sindacato provinciale di categoria, questo però con riferimento alle tre sigle sindacali e cioè Cgl, Cisl e Uil, ma negli ultimi anni si sono affacciate nuove sigle sindacali (es. Cobas) che hanno deciso di organizzarsi in maniera diversa da quella delle tre sigle principali, quindi, a volte, non hanno neanche una struttura provinciale di categoria, allora ci si è chiesti: qual è in questi casì l’organismo locale che può agire in giudizio ex art. 28? Si è detto che in questi casi si fa riferimento allo statuto dell’organizzazione stessa per individuare qual è l’organismo più territoriale che c’è e questo avrà diritto ad agire ex art. 28. L’altro requisito è la nazionalità la quale deve essere valutata con un criterio di effettività, ossia ci la nazionalità ci sarà tutte quelle volte in cui il sindacato svolga attività sindacale più o meno sull’intero territorio nazionale. La valutazione con il criterio di effettività vuol dire che (diversamente da quanto detto per l’altro requisito) in questo caso non basta che un sindacato si proclami come nazionale per dire che, allora, è in possesso del requisito previsto dalla norma. Bensì deve effettivamente svolgere attività sindacale sull’intero territorio nazionale (deve dare prova di avere una diffusione, etc.) Per quanto riguarda, invece, la legittimazione passiva, ossia chi può esser chiamato in causa da un’associazione sindacale avente i requisiti sopra detti, l’art. 28 stabilisce che sono i datori di lavoro (si è di fronte ad un contratto di tipo subordinato). Il procedimento previsto dall’art. 28 è di tipo sommario, cioè deve essere, ai sensi della norma, veloce e quindi necessariamente non può essere a cognizione completa. Ciò vuol dire che il giudice deve decidere velocemente sulla base di un’istruttoria minima, alla fine della quale il giudice decide. L’art. 28 addirittura dice che il procedimento dovrebbe durare solo 2 gg (anche se non succede mai). Il procedimento finisce con un decreto motivato che può essere opposto, in quel caso si aprirà un procedimento ordinario a cognizione piena (il giudice potrà esercitare tutti i poteri istruttori per vedere se veramente quel comportamento è antisindacale o meno). Se non vi è opposizione della parte che perde, il decreto è definitivo. Il giudice con il decreto ordina la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Anche in questo caso la norma non è specifica, infatti non individua i provvedimenti che il giudice deve adottare, quindi, caso per caso, il giudice, oltre ad ordinare la cessazione del comportamento, è libero di adottare ogni tipo di provvedimento purché sia tale da eliminare gli effetti della condotta antisindacale. Per esempio, nel caso di licenziamento di un lavoratore per motivi antisindacali, il giudice, con decreto ex art. 28, per rimuovere gli effetti, ad esempio, dovrà ordinare al lavoratore di rientrare al posto di lavoro. Si ha quasi un ordine di reintegro come quello previsto dall’art. 18 dello statuto dei lavoratori. Visto che il fine del procedimento è la repressione della condotta antisindacale e, per questo, viene dato al giudice un potere molto ampio, un requisito implicito che si deduce è che la condotta antisindacale, perché possa essere eliminata con l’utilizzo di questo strumento, deve essere attuale (al momento della domanda devono persistere ancora quegli effetti).
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23 Maggio 2006 – prof. Vettor
Libertà sindacale (rif. art. 39 Cost.): “L’organizzazione sindacale è libera”. Ci sono le due tesi: vale solo per i lavoratori, vale anche per i datori di lavoro. Il termine “organizzazione” è usato di proposito. Il termine “sindacale” ha una definizione teleologica e una strutturale. Il tema “libertà” va inteso sia in senso positivo, sia in senso negativo (sono libera di prendervi parte come no). Ciò è chiaro nell’art. 15 della legge 300/1970. Art. 28 dello statuto dei lavoratori. Si applica quando si determina una condotta antisindacale (della libertà sindacale, della condotta sindacale e il diritto di sciopero art. 40 Cost. “Diritto di sciopero”). Causale generale: licenziamento per giusta causa, nozione di contratto a termine, licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Procedimento ex art. 28 (nel caso di licenziamento per motivi antisindacali): il sindacato adisce il giudice del lavoro, se egli ritiene che la violazione sussista, ordina con decreto al datore di lavoro la cessazione del comportamento illegittimo. La contrattazione collettiva Si era prodotta con una caratteristica che, a seguito dell’avvento della Costituzione, si è persa. Nel periodo corporativo esisteva il sindacato unico (non c’era una dialettica) che era un soggetto di diritto pubblico. Dopo la Costituzione, le organizzazioni sindacali sono, invece, privatistiche. Nel primo art. delle preleggi il contratto collettivo costituiva una fonte e quindi aveva un’efficacia erga omnes. Con la Costituzione cambia tutto. L’art. 39 Cost. definisce come bene la libertà sindacale; in questo art. si vede quali dovevano essere le caratteristiche del contratto collettivo (39.2 obbligo di registrazione; 39.3 gli statuti dei sindacati devono seguire il principio democratico; 39.4 il sindacato può stipulare contratti collettivi-ciascuno in proporzione dei suoi iscritti-con efficacia erga omnes per la categoria rappresentata. Dopo la Costituzione, i sindacati hanno queste caratteristiche e il contratto collettivo è efficace? No. Infatti l’art. 39, dal comma 2 in poi, non ha trovato attuazione per due motivi: - i sindacati di allora non avevano alcuna intenzione di sottoporsi a controlli pubblici sulla loro composizione (a causa dell’esperienza avuta nel periodo fascista). Quindi i sindacati non sono persone giuridiche. - la particolare opposizione alla legge relativa alla consistenza numerica da parte del sindacato (allora Cisl) espressivo della maggioranza di governo di allora (DC). Ciò ha ostacolato una legge attuativa dell’art. 39 che sancisce il diverso peso, in sede di stipulazione degli accordi, in ragione della consistenza numerica. I sindacati sono quindi associazioni private disciplinate dal Codice Civile nel titolo delle persone. Come è il contratto collettivo post-costituzionale? (terzo modello di contrattazione). Quali sono le sue caratteristiche?
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- non è efficace erga omnes, infatti è un contratto di diritto privato non diverso, in linea di principio, di quello stipulabile tra privati. Quindi la disciplina applicabile è la parte delle obbligazioni sul Codice Civile. Il contratto collettivo corporativo era un contratto tipico (rif. artt. 2070 c.c. e seguenti, ma adesso non più applicabili). Oggi il contratto collettivo viene definito di diritto comune. In conclusione, i modelli sono tre: corporativo, costituzionale e post-costituzionale (o di diritto comune). E’ un contratto “extra ordinem” e quindi non ha efficacia erga omnes.
24 Maggio 2006 – prof. Vettor Transizione dal modello di contrattazione costituzionale a quello di diritto comune. L’inattuazione dell’art. 39 Cost. ha generato un vuoto di regolamentazione applicabile ai rapporti di lavoro. Nel 1944 viene meno il sistema corporativo e, quindi, viene meno l’apparato di regole che quel sistema aveva prodotto. L’art. 39 Cost., di conseguenza, si pone il problema di sostituire a quel modello contrattuale un nuovo modello capace di regolare il rapporto di lavoro. Nella fase post-costituzionale i rapporti di lavoro risultavano privati di gran parte delle regole derivanti dal contratto corporativo, a causa dell’inattuazione dell’art. 39. Chi ne risentiva di questa mancanza di regole? La parte lavoratrice. Nel 1959 fu emanata la legge 741 (legge Vigorelli), la quale stabiliva l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi che fossero stati recepiti con decreti (l’efficacia viene data in forza di un atto di legge). In concreto, si sono andati a registrare i contratti corporativi collettivi che venivano recepiti come decreto il quale avrebbe poi esplicato i suoi effetti nei confronti di tutti. I giudici costituzionali hanno constatato l’incostituzionalità di tale meccanismo nel momento in cui si è cercato di reiterare la legge Vigorelli. Infatti, essa doveva essere solo provvisoria, svolgere la funzione di “tappo”. Nel momento in cui il legislatore volle rendere tale meccanismo permanente, i giudici lo dichiararono illegittimo (in violazione dell’art. 39 Cost.). Ad oggi c’è ancora la situazione dell’inattuazione dell’art. 39 Cost. e il contratto collettivo resta disciplinato dal diritto privato ed efficace nei confronti delle parti stipulanti aderenti alle organizzazioni sindacali. Anche recentemente effetti generalizzati delle contrattazioni collettive ma non più in via legislativa ma in via d’interpretazione giudiziale. Attraverso l’interpretazione estensiva, è stato possibile anche, in alcuni casi, applicare le pattuizioni contrattuali collettive a tutti i lavoratori anche se non aderenti al sindacato. L’inattuazione dell’art. 39 Cost. pone il problema dell’efficacia della contrattazione di diritto comune. Il contratto collettivo rappresenta una contrattazione in tutela della parte lavoratrice; il contratto collettivo è destinato a designare regole di protezione della parte lavoratrice (in quanto viene considerata in una posizione di debolezza contrattuale, rispetto al datore di lavoro). La disciplina ha sviluppato alcune regole costitutive il diritto sindacale, relative al teme della derogabilità/inderogabilità delle stesse regole. Le regole sono date principalmente Diritto del lavoro
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da: legge, contratto individuale (ad esempio, anche se non è espressamente richiamata dalle parti, la regola di fonte legale applicabile l’obbligo di sicurezza oppure l’obbligo di fedeltà, di diligenza, della retribuzione, etc. – parlando di contratto di lavoro dipendente). Poi ci sono anche le pattuizioni individuali, per esempio aumento del nr. di giorni di ferie o comunque negoziazione di qualcosa in più di quanto preveda la legge. Non è possibile, in via di contrattazione individuale, derogare in senso negativo (peggiorativo) proprio per la ratio protettiva del lavoratore e per l’inderogabilità in pejus. Come si atteggia il contratto collettivo rispetto alle contrattazioni individuali? La dottrina ha stabilito, in una prima fase, che il contratto collettivo rispondesse alle stesse logiche del contratto privato, rispetto alla legge (deroga solo in senso migliorativo, mai in senso peggiorativo). Questo non soltanto nei confronti della legge ma anche nei confronti del contratto individuale. In base a quale quadro legale la dottrina ha fatto stabilire questo principio dell’inderogabilità in pejus? 1) per la ratio stessa del diritto del lavoro (a protezione del lavoratore) 2) attingendo dalla disciplina tipizzata del contratto collettivo corporativo (art. 2060 c.c. e seguenti). Nella fattispecie, si fa riferimento all’art. 2066 c.c. “Inderogabilità”. L’art. 2113 c.c., modificato nel 1973, prevede che accordi/rinunzie che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili (della legge, dei contratti collettivi) non sono valide. Ci sono quindi norme disponibili e norme indisponibili nel contratto collettivo.
25 Maggio 2006 – avv. La Ratta La contrattazione collettiva è quella attività normativa di regolazione che le parti sociali svolgono seguendo dei modelli codificati dalla prassi. Tale attività non è regolata da alcuna legislazione, quindi le procedure si sono formate nel tempo per prassi. Le regole pertanto non sono fisse. Non è possibile fare una classificazione dei tipi di contrattazione collettiva. Dopo il contratto corporativo inizia la contrattazione collettiva che si sviluppa per accordi interconfederali (stipulati tra confederazioni dei lavoratori e dei datori, che hanno ambito di applicazione in un determinato settore economico). I contenuti interconfederali di questo periodo disciplinavano anche le tabelle di minima retribuzione. Ciò, però, si scontrava con l’esigenza di differenziare le retribuzioni tra le varie categorie interne al settore stesso. Agli inizi degli anni ’50 inizia a svilupparsi la contrattazione a livello di categoria (anche se rimane quella interconfederale). La contrattazione di categoria (per esempio, quella dei metalmeccanici) inizialmente si occupa dell’aspetto retributivo. Il contratto collettivo regola una disciplina centralizzata (valida per tutto il territorio nazionale). Negli anni ’60 nasce la cd. contrattazione articolata: a livello interconfederale viene prevista una disciplina con dei rimandi per alcune materie. Vi è, quindi, la disciplina nazionale che detta le regole generali e poi l’altra per la regolazione di alcuni istituti.
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Alla fine degli anni ’60 questo sistema salta perché inizia a svilupparsi la contrattazione collettiva aziendale. Questo viene definito il periodo della contrattazione non vincolata. Spesso gli accordi nazionali intervengono solo dopo e non fanno altro che recepire ciò che era stato accordato a livello aziendale. Negli anni ’70 il sistema si ricentralizza e si ricompone. Negli anni ’80 le parti sociali iniziano a cambiare atteggiamento ed il sindacato inizia a farsi carico della crisi economica del periodo. Il sindacato cerca, quindi, di gestire la politica economica del momento. Gestione della flessibilità. In questo sistema vengono in luce quegli accordi definiti “triangolari” (accordi in cui il governo non fa solo da arbitro tra i sindacati, i lavoratori e i datori di lavoro, ma diventa una parte e si assume degli obblighi per garantire una determinata politica economica). Negli anni ’90 viene stipulato il protocollo del 23 luglio 1993 che disciplina i redditi e, inoltre, al suo interno, ha una parte che disciplina gli assetti contrattuali (i livelli della contrattazione, i rapporti tra i livelli stessi e le procedure). Inoltre, si dà anche il compito di regolare i sindacati. E’ un protocollo, quindi un accordo contrattuale e non ha valore di legge ma è importante perché vuole risolvere i problemi. Non essendo una legge, se viene violato, non ci sono sanzioni. Gli assetti contrattuali prevedono: il contratto nazionale di categoria (CCNL) e, di secondo livello, la contrattazione territoriale o aziendale. A livello nazionale, pertanto, definisce degli aspetti ed individua, poi, delle materie di competenza della contrattazione di secondo livello. Per evitare conflitti si definisce che tali materie siano ben distinte. Il protocollo del 23/07/93 prevede anche la procedura per la stipula dei contratti collettivi e la loro efficacia temporale. Lo scopo del protocollo è anche quello di evitare contrasti tra i due livelli, indicando specificamente le materie di competenza di uno e dell’altro. Il protocollo stabilisce che il contratto collettivo ha valore per 4 anni per la parte normativa, mentre per la parte economica vale 2 anni. Al termine di questi anni deve essere firmato un nuovo contratto collettivo. Il protocollo dice che le piattaforme contrattuali per il rinnovo del CCNL devono essere presentate 3 mesi prima della scadenza. Nel mese successivo alla scadenza le parti non possono prendere iniziative unilaterali. Subentra poi l’indennità di vacanza contrattuale. Cosa succede se un contratto collettivo è peggiorativo rispetto a quello precedente? Ci sono due teorie: la prima è quella dell’incorporazione per la quale la disciplina collettiva è incorporata nel rapporto di lavoro individuale e quindi tali condizioni rimangono lì e non possono essere modificate; la seconda ritiene che la disciplina collettiva sia eteronoma e quindi le condizioni possono essere riviste anche in pejus, basta che non vengano “toccati” i diritti acquisiti già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore. Nei contratti c’è una clausola di ultra attività che permette al contratto scaduto di produrre effetti fino alla stipula di quello successivo (per evitare vuoti legislativi). Ciò è contenuto anche nell’art. 2074 c.c. valevole, però, per i contratti corporativi, pertanto per i CCNL non può essere applicato, ecco il motivo per cui viene inserita la clausola dell’ultra attività. Se ci sono dei contrasti tra i due livelli di contrattazione, quale prevale? Se il contratto aziendale ha una disciplina peggiorativa rispetto a quella nazionale, quale si applica? Ci sono differenti teorie: Diritto del lavoro
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- attuare quella più favorevole; - attuare il criterio gerarchico, con la prevalenza di quello nazionale su quello aziendale; - attuare il criterio della specialità, con la prevalenza di quello che disciplina il caso specifico (quindi, dovrebbe prevalere quello aziendale su quello nazionale) - attuare il criterio della competenza (questo è il sistema considerato più idoneo), con riferimento alla competenza di uno o dell’altro contratto nel disciplinare una determinata materia. Si vanno a vedere le competenze che erano state stabilite precedentemente. Nei casi però, per esempio, in cui la contrattazione aziendale è uscita dalle materie di sua competenza, non si può dire che le condizioni stabilite siano nulle (perché non stiamo parlando di leggi ma di contratti). Per il settore pubblico, invece, il problema è risolto perché c’è un articolo del testo unico che stabilisce che, in caso di contrasto, prevale quello nazionale (è nullo quello territoriale). I vari livelli di contrattazione sopra detti, riguardano il modello di lavoro subordinato standard (a tempo indeterminato).
30 Maggio 2006 – prof. Vettor Con la caduta dell’ordinamento corporativo si ha il ripristino della libertà sindacale e le organizzazioni sindacali perdono i connotati pubblicistici e rientrano nell’area del diritto privato. Di conseguenza, nella mancata attuazione dell’art. 39, la contrattazione collettiva diviene espressione di autoregolamentazione di interessi di soggetti privati. Con la legge Vigorelli 741/1959 - “norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori” - (legge di delega) veniva chiesto al governo, sia, di emanare decreti legislativi con la funzione di estendere condizioni minime di tutela, sia che si tenesse conto, nello sviluppo di questi decreti, delle clausole contenute nelle contrattazioni. Si chiedeva, cioè che, nella stipulazione, si tenesse conto delle clausole dei contratti collettivi privatistici, privi del requisito della generalità, perché quella contrattazione era di tipo privatistico. Si è detto che la legge Vigorelli ha costituito un escamotage, un modo per aggirare il problema dell’inattuazione dell’art. 39. Il Parlamento aveva fatto un tentativo per rendere più stabile, cioè meno provvisorio e più permanente, il meccanismo di estensione dei contratti collettivi, emanando una legge (legge 1027/1960) che prorogava di 10 mesi i termini per il deposito dei contratti collettivi, consentendo così ancora al Governo di emanare i decreti legislativi di estensione dei nuovi contratti stipulati nel frattempo. La Corte Costituzionale annullò la legge 1027/1960 affermando che “anche una sola reiterazione della delega toglie alla legge i caratteri della transitorietà e dell’eccezionalità”. Censurata la legge di proroga, la Corte salvò invece la legittimità costituzionale della legge Vigorelli. Con questa legge il legislatore non aveva voluto dare attuazione all’art. 39, ma si era limitato a collegare il regime dei contratti di diritto comune con il regime dei contratti con efficacia generale, per mezzo di un regolamento transitorio. Il contratto collettivo che si produce prevalentemente è il contratto collettivo di diritto comune che però non costituisce l’unica tipologia di contratto collettivo (ci sono anche altre ipotesi contrattuali come quella post-costituzionale, corporativo, oppure ex decreti legislativi a seguito della legge Vigorelli, etc.) che è un contratto di diritto privato, disciplinato dalle norme del codice civile che regolano le obbligazioni. Il principale aspetto problematico generato da questo tipo di contratto è l’efficacia. In base alle regole civilistiche, esso vincola soltanto gli aderenti alle organizzazioni sindacali Diritto del lavoro
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stipulanti. Questo è il problema dell’efficacia soggettiva (a chi si applica). L’altro aspetto problematico è come questo contratto si inserisce nell’ambito delle fonti che tradizionalmente regolano un rapporto di lavoro. Questo è il problema dell’efficacia oggettiva (come si relazione con le altre fonti). Il problema dell’efficacia, sia sotto l’aspetto oggettivo, sia quello soggettivo, si pone in relazione non a tutti i contenuti caratterizzanti un contratto collettivo, ma si pone nei confronti della sua parte/funzione normativa (parte in cui un contratto collettivo stabilisce minimi di trattamento economico-normativo). In relazione a questa parte si discute e si sono sviluppate regole di risoluzione del problema dell’efficacia (che non ha valore erga omnes). Il tema dell’efficacia oggettiva può essere così sintetizzato: problema del rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale .Si è detto che la legge è inderogabile in pejus da parte delle contrattazioni private individuali. Il rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale è regolato dal meccanismo dell’inderogabilità in pejus; ciò significa che il contratto individuale non può derogare in senso peggiorativo al contratto collettivo (ma solo in senso migliorativo). Naturalmente ciò è vero nella misura in cui alle parti stipulanti il singolo contratto individuale sia applicabile quel contratto collettivo. Questa questione attiene al problema dell’efficacia soggettiva. Nel contratto collettivo corporativo, che era un contratto tipico, infatti aveva una sua specifica disciplina, l’inderogabilità in pejus era disciplinata dall’art. 2077 c.c. Nel contratto collettivo post-corporativo c’è una regola che ci indichi con certezza questo meccanismo? Esiste, ma questa regola è uscita dopo che la dottrina e la giurisprudenza avevano cercato di dare una soluzione interpretativa a questo problema, dato che era assente una specifica disciplina. Qual è la regola che ha definito in modo chiaro questa relazione dell’inderogabilità in pejus/derogabilità in melius? L’art. 2113 c.c. il quale dice che il contratto individuale non può derogare al contratto collettivo nella misura in cui esso stabilisce norme inderogabili/imperative/non disponibili; cioè nelle parti in cui il contratto collettivo stabilisce regole inerenti al trattamento economico-normativo del lavoratore. Prima che si arrivasse alla soluzione del problema attraverso l’art. 2113 (nato a seguito della riforma della processo del lavoro, nel 1973, legge 503), la dottrina aveva cercato di spiegare l’inderogabilità in pejus in due possibili modi: richiamandosi ai generali principi del diritto civile, oppure valorizzando dati normativi estranei ai principi civilistici. Il primo modo risolutivo è riconducibile allo studioso Santoro Passarelli che risolve il problema attraverso la seguente successione di ragionamenti: l’autonomia collettiva negoziale di un soggetto rappresentativo di un insieme di persone è espressione di un interesse collettivo, pertanto tale interesse deve prevalere sull’interesse individuale. Egli si appoggia al codice civile e in particolare alle norme sul mandato irrevocabile (artt. 1723 e 1726 c.c.) Il secondo modo risolutivo, appoggiato da altri studiosi, si basa su dati normativi estranei al codice civile: la prevalenza del contratto collettivo su quello individuale va ricercata nell’atto di adesione di un singolo soggetto al sindacato. Entrambi le tesi però non riuscirono a spiegare il carattere reale dell’inderogabilità in pejus, ossia a spiegare la sostituzione automatica della disposizione contenuta nella contrattazione peggiorativa. Per questo motivo si sono formate ulteriori tesi per spiegare, appunto, il carattere reale dell’inderogabilità e qui si possono annoverare quelle tesi che si sono appoggiate all’art. 39 Cost. e cioè la supremazia gerarchica dell’autonomia collettiva su quella individuale. Oppure la tesi, molto diffusa sino agli anni ’70, di coloro hanno richiamato l’art. 2077 c.c. ma i contrari hanno sostenuto che tale articolo non era applicabile in quanto riferita al contratto collettivo corporativo. Successivamente, a seguito della riforma del ’73, si addivenuti all’art. 2113 c.c. che sancisce la regola dell’inderogabilità in pejus di tutte le norme di carattere imperativo. Il tema dell’efficacia soggettiva.
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Le regole codicistiche prevedrebbero l’estensione del contratto collettivo soltanto nei confronti di chi aderisce all’organizzazione sindacale stipulante quel contratto, tuttavia si è cercato di trovare vie alternative al fine di produrre un’estensione quanto più ampia di applicazione del contratto. Le estensioni che si sono prodotte sono derivate in via dottrinale/giurisprudenziale (interpretativa) oppure in via legislativa. Per le estensioni in via giurisprudenziale si distinguono due situazioni: a) caso in cui il datore di lavoro aderisce all’organizzazione sindacale stipulante b) caso in cui il datore di lavoro non è iscritto ad alcuna organizzazione sindacale stipulante il contratto a) laddove il datore di lavoro sia iscritto all’organizzazione sindacale stipulante, egli dovrà applicare il contratto collettivo non solo nei confronti dei lavoratori iscritti, ma anche nei confronti di coloro che non siano iscritti. Questo perché si ritiene che sia interesse del datore di lavoro avere una uniformità di trattamenti economico-normativi. In questo caso si avrebbe quindi un’estensione automatica a tutti i lavoratori. b) per il caso in cui il datore di lavoro non sia iscritto ad alcuna organizzazione sindacale stipulante, si sono escogitate varie soluzioni per favorire l’applicazione del contratto di lavoro. Ci sono tre possibili vie di soluzione: - rinvio esplicito: nel momento in cui si ha, in un contratto individuale, un richiamo esplicito ad un contratto collettivo vigente o da stipularsi in un determinato periodo, si ha l’applicazione di quel contratto collettivo. Si ha quindi un’applicazione automatica, pur essendo assente il requisito dell’adesione. - richiamo per fatti concludenti: anche dove non si abbia alcun richiamo esplicito, ma si abbia un comportamento concludente conforme al contratto collettivo, si evidenzierebbe la volontà di dar luogo a quel contratto collettivo - applicazione del combinato disposto: meccanismo che si regge sull’applicazione del combinato disposto art. 36 Cost. e art. 2099² c.c. 31 Maggio 2006 – prof. Vettor Il contratto collettivo = contratto di diritto privato (nel sistema post-corporativo, postcostituzionale). Il contratto collettivo post-corporativo non è l’unico possibile, infatti, per esempio, vi sono: il modello corporativo (art. 39 comma 2 e 3 – 1° comma: “l’organizzazione sindacale è libera”, gli altri commi parlano, invece, delle condizioni che deve avere il contratto collettivo); il modello ex decreto legislativo a seguito della legge Vigorelli 741/1959 (questa legge chiedeva al governo di emanare decreti legislativi che permettessero di riconoscere minimi di trattamento economico-normativi, inoltre la legge di delega prevedeva anche che si tenesse conto di quelle clausole contenute nei contratti collettivi che però non si potevano generalizzare a causa dell’inattuazione dell’art. 39). Successivamente si è cercato di rendere permanente questo meccanismo, attraverso la legge 1027/1960, ma la Corte Costituzionale ha stabilito l’illegittimità della proroga, in quanto il meccanismo della legge Vigorelli doveva essere transitorio, di tamponamento di una situazione di vuoto regolativo dei rapporti di lavoro in forza del venir meno del sistema corporativo. Si è parlato del problema dell’efficacia soggettiva e oggettiva.Visto che questo contratto è di diritto comune e quindi vincolerebbe soltanto le parti aderenti alle organizzazioni sindacali stipulanti, allora ci si è posti il problema se sia possibile estendere l’applicazione anche a chi non ha aderito (questo è il problema dell’efficacia soggettiva). Mentre l’aspetto dell’efficacia oggettiva si chiede quale sia la collocazione del contratto collettivo rispetto alle fonti concorrenti la regolazione del rapporto di lavoro, in primis il contratto individuale. Il problema dell’efficacia soggettiva/oggettiva si pone solo per la parte del contratto relativa alla funzione normativa. Diritto del lavoro
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Per quanto riguarda l’efficacia oggettiva, la soluzione è stata trovata con la regola dell’inderogabilità in pejus o derogabilità in melius. Questo è un meccanismo di natura reale, ciò significa che, nel caso in cui il contratto individuale derogasse in pejus al contratto collettivo, automaticamente si applicherebbe il contratto collettivo. Ci sono due teorie che hanno cercato di spiegare il meccanismo dell’inderogabilità in pejus. La prima richiamava il diritto civile sostenendo la prevalenza del contratto collettivo su quello individuale in funzione della motivazione per cui il contratto collettivo esprime l’interesse collettivo che pertanto deve prevalere sull’interesse individuale. Questa teoria si richiamava alle norme del mandato irrevocabile (artt. 1723² e 1726 c.c.). La seconda teoria si appoggiava ad aspetti estranei al codice civile e, seconda essa, la prevalenza del contratto collettivo su quello individuale era giustificata dall’atto di adesione del singolo al sindacato (quell’atto è sufficiente a motivare la prevalenza della norma. Tuttavia queste due teorie non guardavano al carattere reale, per cui si sono create nuove tesi, alcune in relazione all’art. 39 e altre all’art. 2077 c.c. che regolava la contrattazione corporativa. Successivamente, finalmente, si è arrivati ad una soluzione legislativa, con l’art. 2113 c.c., che sancisce l’inderogabilità in pejus delle norme del contratto collettivo di carattere imperativo. Per quanto riguarda l’efficacia soggettiva, le soluzioni interpretative di tipo dottrinale sono state le seguenti. Se il datore di lavoro è iscritto si ha un’estensione automatica del contratto collettivo anche ai lavoratori non iscritti. Se il datore di lavoro non è iscritto, ci sono diverse soluzioni e cioè: richiamo esplicito, comportamento concludente, azione del combinato disposto dell’art. 36 Cost. e art. 2099 c.c. Sempre in riferimento all’estensione dell’efficacia soggettiva, vi sono state soluzioni interpretative anche di tipo giurisprudenziale. L’estensione dei trattamenti economici si è potuta effettuare attraverso l’uso combinato di due norme, una costituzionale (art. 36 Cost.) e una codicistica (art. 2099²). Questa operazione parte dal presupposto secondo cui l’art. 36 Cost. avrebbe un’immediata precettività, cioè dice l’art. 36 Cost., nella parte in cui riconosce al lavoratore un trattamento economico proporzionato e sufficiente alla quantità e qualità del lavoro e tale da consentire una vita dignitosa per sé e per il proprio nucleo famigliare, costituisce un diritto soggettivo perfetto che è immediatamente azionabile da parte del lavoratore. Nel momento in cui un lavoratore si rivolgeva al giudice perché adduceva l’insufficiente o mancato riconoscimento del diritto retributivo nei termini previsti dall’art. 36 Cost., i giudici consideravano nulla (come inesistente) quella clausola retributiva in contrasto con la norma costituzionale (in base al concetto dell’immediata precettività dell’art. 36 Cost.). Il venir meno di una clausola sul punto, determinava la necessità di un’integrazione, cioè che qualcun altro integrasse la regola mancante perché considerata nulla. Sotto questo profilo veniva in soccorso l’art. 2099² c.c. ai sensi del quale la retribuzione deve essere determinata dal giudice (la regola decostruita deve essere ricostruita dal giudice) il quale può ricostruirla, come previsto dall’art. 2099², secondo equità. L’equità è espressione del senso di giustizia del giudice ma, onde evitare che questo senso di giustizia defili entro pericolosi soggettivismi, egli deve, nella definizione del livello retributivo, richiamarsi a quanto definito sul punto dalla contrattazione collettiva di settore (ove erano indicati i minimi retributivi). Si è trovato, quindi, un modo per aggirare il problema dell’efficacia soggettiva e questo modo è stata la tecnica più efficace escogitata a livello giurisprudenziale. Le soluzioni dell’estensione dell’efficacia soggettiva, delle quali si è occupato il legislatore, sono, invece, le seguenti. Per stimolare l’applicazione di un contratto collettivo, una tecnica molto utilizzata è stata quella di riconoscere ai datori di lavoro agevolazioni/benefici perlopiù fiscali e contributivi, nella misura in cui essi applicavano condizioni uniformi a quanto veniva stabilito nei contratti
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collettivi. Il prototipo di questa tecnica è l’art. 36 dello statuto dei lavoratori intitolato “obblighi dei titolari di benefici dallo Stato e degli appaltatori di opere pubbliche”. Un’altra tecnica che stimola l’estensione dell’efficacia soggettiva, è quello che si trova nella legge che disciplina il trattamento dei lavoratori straneri (cittadini extra-comunitari) e cioè la legge testo unico D.Lgs. 286/1998 sulla quale, nel 2002, è intervenuta una riforma cd. BossiFini. Nel D.Lgs. 286/1998 si trova l’art. 22³ (rimasto immodificato dalla riforma) nel quale si dice che il trattamento contrattuale dei lavoratori stranieri non dovrà essere differente da quello riconosciuto ai lavoratori italiani. Nota a parte: nel sistema della contrattazione collettiva di diritto comune, la categoria perde della sua pregnanza. Nella misura in cui io sono vincolata in quanto aderisco all’organizzazione sindacale stipulante, è nella mia libertà sindacale aderire al sindacato che più mi aggrada (e lo stesso vale per il datore di lavoro). Il datore di lavoro, per esempio, può scegliere di aderire o di rinviare per via esplicita o per fatti concludenti, a contratti collettivi che non asseriscono il mio settore merceologico. Si potrebbero avere delle segretarie che hanno come contratto collettivo applicabile quello dei metalmeccanici. Quindi, nel sistema del contratto collettivo di diritto comune, vale l’adesione all’organizzazione sindacale stipulante, non vale la categoria. Esiste il fenomeno, molto esteso, dei contratti collettivi espressamente previsti dalla legge, che è questione diversa da quella dell’estensione legislativa del contratto collettivo. I contratti collettivi espressamente previsti dalla legge sono contratti che fuoriescono, assumono tratti di specialità rispetto alla generica categoria del contratto collettivo di diritto comune. Ciò perché questi contratti espressamente previsti dalla legge non costituiscono una mera/spontanea espressione dell’autoregolamentazione di interessi privati, ma sono contratti, espressamente previsti dalla legge, chiamati a svolgere una funzione di tipo integrativo e, in certi casi, addirittura sostitutiva, della stessa legge. Questo perché il legislatore ritiene che per alcuni profili di disciplina sia meglio una regola collettiva, cioè che la mediazione collettiva riesca meglio a rappresentare gli interessi contrapposti, di quanto non riesca a fare il legislatore. Lo considera uno strumento migliore, più adeguato (infatti molto spesso il legislatore conferisce una disciplina di cornice e per molti profili di disciplina rinvia alla mediazione collettiva). Le tecniche utilizzate sotto tale profilo sono diverse, ma essenzialmente due: 1) la norma legale pone in essere una regola di massima, attribuendo al contratto collettivo il compito di integrare questa regola. Per esempio, nel D.Lgs. 61/2000 (successivamente modificato) relativo al part-time; 2) la norma legale pone in essere una regola suppletiva, da applicare quando la materia non è stata regolata da un contratto collettivo. Per esempio, nei criteri di scelta per i licenziamenti collettivi, indicati dalla legge in via suppletiva (art. 5 della legge 223/1991). I contratti collettivi espressamente previsti dalla legge godono di un trattamento diverso, rispetto ai contratti collettivi di diritto comune, sotto due principali profili: a) dei soggetti stipulanti; b) dell’efficacia. a) i soggetti della parte lavoratrice che possono sottoscrivere il contratto collettivo, in particolare in relazione ai soggetti rappresentativi della parte lavoratrice, sono qualificati o nominati e sono essenzialmente le rappresentanze sindacali aziendali rsa, oppure soggetti maggiormente rappresentativi a livello comparativo. In altri termini, questo contratto collettivo gode di un trattamento speciale nella misura in cui la parte lavoratrice sottoscrive tale contratto in una forma rappresentativa qualificata. Tali soggetti sono individuati dalla legge. b) hanno efficacia generale nella misura in cui, anche implicitamente, la legge riconosce al contratto tale efficacia. Però sorge il dubbio di illegittimità costituzionale: ma come è possibile estendere l’efficacia aggirando l’art. 39? La dottrina è arrivata a tale conclusione: nella misura in cui questo contratto, proprio in quanto ad esso è attribuita una funzione
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integrativa/suppletiva, collabora alla realizzazione della volontà legislativa, allora non si ritiene di non essere in presenza di una violazione dell’art. 39, commi 2, 3, 4. Questi tipi di contratto, quindi, derogano la regola della non efficacia generale. 01 Giugno 2006 – prof. Vettor Le rappresentanze sindacali. Il fenomeno delle rappresentanze sindacali, espressive della parte lavoratrice, che godono di una particolare attenzione da parte del legislatore e ciò proprio in ragione di alcuni requisiti, che tali rappresentanze devono avere, esplicative della loro rappresentatività. Il legislatore sostiene queste rappresentanze attraverso il riconoscimento dei cd. diritti sindacali. La cd. legislazione di sostegno trova sede nel titolo III dello statuto dei lavoratori, intitolato “Dell’attività sindacale”, che è una parte di necessario compendio al titolo II “Della libertà sindacale”, cioè nella misura in cui la legislazione riconosce la libertà sindacale, insieme costruisce delle regole a sostegno del fenomeno associativo, affinché esso possa estrinsecarsi con azioni materiali, nella misura in cui questo associazionismo assume determinate caratteristiche di rappresentatività. Nell’art. 20 e seguenti troviamo elencati i cd. diritti sindacali (referendum, permessi, etc.). Il fenomeno associativo destinatario dei diritti sindacali è quello visualizzato nell’art. 19 dello statuto dei lavoratori, che è l’articolo di apertura del titolo III. Il riconoscimento dei diritti sindacali opererà in tutte le imprese o solo in quelle con determinate caratteristiche? Ci sono casi in cui il titolo III non trova attuazione? Sì, laddove l’impresa non raggiunga le 15 unità. Quindi, i diritti sindacali non vengono riconosciuti nei casi in cui l’impresa non raggiunge una certa soglia dimensionale. Tali diritti sindacali presuppongono una selezione di soggetti, cioè vengono presi in considerazione solo quelli di cui all’art. 19 “Costituzione delle rappresentanze sindacali aziendali”. Il problema da porsi è: perché il legislatore, tra i possibili soggetti fruitori dei diritti sindacali, ne ha selezionati solo alcuni che diverranno gli unici destinatari di tali diritti? Il legislatore si è posto il problema di selezione perché i diritti sindacali, nella maggior parte dei casi, presuppongono un onere (permessi retribuiti, etc.) per il datore di lavoro. E quindi è necessaria l’individuazione di un soggetto con un buon peso rappresentativo (proprio in quanto è più rappresentativo di altri giustifica e motiva l’aggravio che il datore di lavoro dovrà sostenere). Pertanto non tutte le possibili aggregazioni sindacali saranno fruitici dei diritti sindacali, ma solo quelle menzionate all’art. 19 legge 300/1970. Art. 19.1: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito: [a) delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale]; b) delle associazioni sindacali, [non affiliate alle predette confederazioni], che siano firmatarie di contratti collettivi [nazionali o provinciali] di lavoro applicati nell’unità produttiva”. Le parti indicate nelle parentesi [ ] sono state abrogate a seguito del referendum popolare del 1995. Quindi, dagli anni ’70 a prima del 1995, i soggetti destinatari erano quelle rappresentanze costituite ad iniziativa dei lavoratori nell’ambito delle associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. In altri termini il legislatore consentiva le rappresentanze aziendali purché fossero espressive nella misura in cui erano espressive delle confederazioni maggiormente rappresentative e cioè fossero espressive del sindacalismo storico italiano (Cgl, Cisl e Uil). Questa è una norma che rinvia al criterio della maggior rappresentatività, la cui nozione giuridica era data dalla consistenza numerica, dalla presenza della confederazione sul territorio nazionale, dal concetto di intercategorialità, dalla consistente attività contrattuale. Queste caratteristiche costituivano l’ossatura del sindacalismo storico italiano. La parte a) dell’art. 19.1 non è più vigente perché abrogata dal referendum del 1995. La lettera b) nella stesura originaria diceva che era possibile costituire Diritto del lavoro
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rappresentanze sindacali aziendali anche nell’ambito di associazioni, ancorché non affiliate alle predette confederazioni, che fossero firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali, applicati all’unità produttiva. In altri termini, questa seconda possibilità di costituzione della rappresentanza, era data in presenza di associazioni che, pur non affiliate alle predette, fossero comunque capaci di stipulare contratti collettivi di livello nazionale o provinciale, applicati nell’unità produttiva. Nell’architettura dell’art. 19, ante referendum del 1995, era previsto che si premiasse anche il fenomeno del sindacalismo autonomo (non espressivo delle tre confederazioni Cgl, Cisl e Uil). A quale filtro selettivo fa riferimento in questa norma il legislatore per individuare i soggetti del sindacalismo autonomo? Non vale il criterio della maggior rappresentatività garante della rappresentatività della rappresentanza aziendale, ma la garanzia che il soggetto sia effettivamente rappresentativo (e perciò fruitore dei diritti sindacali e capace di imporre al datore di lavoro degli oneri/costi) è data dal fatto che risulti una sua attività contrattuale (nella legislazione originaria, a livello nazionale o provinciale) e che sia applicata nell’unità produttiva. Questa norma, in questa configurazione, non esiste più perché è stata riformata dal referendum del 1995, durante il quale sono state poste le domande se si volesse abrogare integralmente l’art. 19 oppure se si volesse integrare parte di esso (ha prevalso la seconda soluzione). Ma perché qualcuno ha voluto che l’art. 19 scomparisse? Perché le organizzazioni sindacali di formazione recente non erano rappresentate e quindi non avevano i requisiti dell’art. 19 e dunque non avevano le caratteristiche per godere dei diritti sindacali. Chi ha diritto ai diritti sindacali oggi? (l’art. 19 applicabile oggi è quello senza i contenuti nelle parentesi quadre) pertanto l’area dei soggetti si è ampliata. Il filtro selettivo è di natura concreta cioè si misura sulla concreta attività negoziale. Il venir meno di [nazionali o provinciali] ha conseguenze di grande rilievo, infatti è sufficiente che l’associazione sindacale sia firmataria di un solo contratto aziendale in nome di un solo piccolo gruppo di lavoratori, per godere dei diritti sindacali. Si ha quindi il prodursi di un fenomeno rappresentativo non più misurabile a livello nazionale o provinciale ma addirittura misurabile in base alla stipulazione di contratti a livello aziendale o di altro tipo ancora. Chi sono le rappresentanze sindacali aziendali? Chi sono i soggetti titolari dei diritti sindacali? Quella organizzazione/associazione che ha stipulato contratti collettivi applicati nell’unità produttiva. E’ necessario ricordare, però, i limiti di applicazione del titolo III, per cui si può avere una rappresentanza senza diritti sindacali, sotto i 15 dipendenti. E’ possibile costituire una rappresentanza sindacale anche sotto i 15 dipendenti? Certamente sì, altrimenti si avrebbe la violazione del principio della libertà sindacale. Tali rappresentanze, al di sotto dei 15 dipendenti, avranno diritto a godere dei diritti sindacali? No, perché la legge li prevede al di sopra dei 15 dipendenti, tuttavia il datore di lavoro potrebbe concederglieli (ma essi non possono pretenderli). 06 Giugno 2006 – prof. Vettor Le rappresentanze sindacali aziendali (abbr. RSA) sono rappresentanze qualificate perché così risulta dall’art. 19 che apre il titolo III della legge 300/1970, nella quale si trovano i requisiti di qualificazione delle rappresentanze sindacali aziendali. Questa norma è stata modificata dal referendum del 1995. Il legislatore degli anni ’70 non si è limitato a ribadire (“ribadire” perché è un principio scolpito nell’art. 39.1 Cost.) il principio della libertà sindacale ma ha anche cercato di trovare un sistema normativo capace di sostenere in concreto l’esercizio della libertà sindacale (non è sufficiente introdurre obblighi per il datore di lavoro). E’ necessario introdurre un apparato Diritto del lavoro
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normativo a sostegno del concreto libero esercizio della libertà sindacale. Ed è ciò che il legislatore ha fatto negli anni ’70 con il titolo III dello statuto dei lavoratori. In questa parte della legislazione troviamo i cd. diritti sindacali. I diritti sindacali, come detto, non sono riconoscibili a qualsivoglia organizzazione con fini di autotutela, ma nei confronti della rappresentanze sindacali ex art. 19. La limitazione imposta è legata al fatto che i diritti sindacali implicano dei costi e comunque un comportamento collaborativo da parte del datore di lavoro. Il filtro selettivo è rappresentato dall’art. 19. Come operano in concreto questi diritti sindacali? Alcuni diritti sono contenuti nell’art. 20 “Assemblea”, art. 25 “Diritto di affissione”, artt. 23-24 “Permessi retribuiti” e “Permessi non retribuiti”. Art. 20.1: “Assemblea. I lavoratori hanno diritto di riunirsi, nella unità produttiva in cui prestano la loro opera, fuori dall’orario di lavoro, nonché durante l’orario di lavoro, nei limiti di dieci ore annue, per le quali verrà corrisposta la normale retribuzione. Migliori condizioni possono essere stabilite dalla contrattazione collettiva”. SI parla del diritto di riunirsi in assemblea: non si parla di un generico diritto di riunione ma di uno specifico modo di riunirsi cioè in assemblea. Infatti il semplice diritto di riunione attiene al diritto alla libera espressione del proprio pensiero che è un diritto che dovrebbe essere già compreso dal primo art. dello statuto dei lavoratori, nel quale, appunto, viene ribadito il principio costituzionale della libera espressione del proprio pensiero. Da questa norma appare evidente la collaborazione che viene richiesta al datore di lavoro ai fini della concreta fruizione di questo diritto; proprio per questo l’art. 20 stabilisce dei limiti agli oneri del datore di lavoro. Innanzitutto il diritto di riunione si esplica in via principale fuori dall’orario di lavoro, oppure durante l’orario di lavoro però con il limite invalicabile in senso peggiorativo delle 10 ore annue. Per avere la retribuzione per queste ore il lavoratore deve necessariamente partecipare alle riunioni (la ratio della norma è di incentivare la partecipazione alle riunioni). Art. 20.2: “Le riunioni che possono riguardare la generalità dei lavoratori o gruppi di essi sono indette, singolarmente o congiuntamente, dalle rappresentanze sindacali aziendali nell’unità produttiva, con ordine del giorno su materie di interesse sindacale e del lavoro e secondo l’ordine di precedenza delle convocazioni, comunicate al datore di lavoro”. Un altro limite costitutivo al diritto di assemblea è che ci vuole una convocazione ad opera delle RSA (può essere esercitata singolarmente o congiuntamente), tale convocazione deve essere comunicata al datore di lavoro. L’oggetto della riunione in assemblea deve concernere materie di interesse sindacale e del lavoro. Quindi la giurisprudenza ha teso a sottolineare l’ampiezza di significati ricompresi in questa espressione. Si è anche detto in via giurisprudenziale che le questioni sulle quali convocare legittimamente un’assemblea potranno anche concernere temi più ampi rispetto alle problematiche sindacali della specifica azienda. Art. 20.3: “Alle riunioni possono partecipare, previo preavviso al datore di lavoro, dirigenti esterni del sindacato che ha costituito la rappresentanza sindacale aziendale”. Quindi alle riunioni possono partecipare anche dirigenti esterni del sindacato cui fa capo la RSA, a condizione che venga dato il preavviso al datore di lavoro. Per quanto concerne il datore di lavoro, egli non può partecipare (salvo naturalmente che sia stato invitato). Art. 20.4: “Ulteriori modalità per l’esercizio del diritto di assemblea possono essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, anche aziendali”. La contrattazione può modificare/introdurre aspetti di regolamentazione inerenti la materia, con il limite della inderogabilità in pejus (per esempio, un accordo in cui il limite delle dieci ore sia ridotto, sarebbe contro la legge). Art. 25: “Diritto di affissione. Le rappresentanze sindacali aziendali hanno diritto di affiggere, su appositi spazi, che il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all’interno dell’unità produttiva, pubblicazioni, testi e comunicati inerenti a materie di interesse sindacale e del lavoro”. Il datore di lavoro ha l’obbligo di predisporre appositi spazi in luoghi accessibili a tutti i lavoratori all’interno dell’unità produttiva. E’ un diritto che limita i poteri datoriali. I materiali da affiggere devono essere in relazione alle materie di interesse Diritto del lavoro
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sindacale e del lavoro e la loro pertinenza a tali materie è piuttosto insindacabile (è una valutazione della rappresentanza a ritenere tali documenti inerenti alle materie del lavoro). Il concetto di affissione si è evoluto anche in forza della tecnologia e dell’informatica (possono esserci bacheche virtuali, soprattutto nelle grandi imprese). Artt. 23-24: “Permessi retribuiti” e “Permessi non retribuiti”. Con questi si ha un’ulteriore compressione del potere datoriale. Queste due norme si occupano di regolare il diritto di assentarsi dal lavoro per svolgere attività sindacali. Il numero dei permessi è variabile in funzione della consistenza numerica di cui è espressione la RSA. Di tali permessi possono usufruire i dirigenti delle RSA (il dirigente sarà colui che, secondo l’art. 36 c.c. –in tema di associazioni non riconosciute-, è stato nominato secondo le procedure previste dallo statuto dell’organizzazione e tale nome viene comunicato al datore di lavoro). Nell’ambito dei permessi retribuiti (art. 23) per usufruirne è necessaria una comunicazione in forma scritta fornita, al datore di lavoro, almeno 24 ore prima. Assolta questa procedura, il datore di lavoro non si può opporre alla fruizione di tale diritto che è un diritto potestativo (si assiste quindi alla messa in secondo piano dell’esigenza organizzativa/produttiva del datore di lavoro). Nell’ambito dei permessi non retribuiti (art. 24), la norma fa riferimento all’oggetto di questi permessi (partecipazione a trattative sindacali o a congressi o a convegni di natura sindacale). Anche qui deve avvenire una comunicazione scritta ma 3 giorni prima e anche qui, assolta questa procedura, ci deve essere la fruizione del permesso. Sotto il profilo della causale del permesso retribuito e del permesso non retribuito, i confini sono assai labili. 07 Giugno 2006 – prof. Vettor I dirigenti sindacali, proprio per la loro posizione, godono di ulteriori benefici e vantaggi, al fine di preservarne l’attività e la funzione sindacale. Il legislatore, infatti, nei confronti di tali soggetti ha ulteriormente articolato la tutela, prevedendo regole specifiche (solo ad essi applicabili) in relazione a licenziamenti arbitrari e/o discriminatori. Stabilisce, inoltre, regole peculiari anche per quanto concerne i trasferimenti. E’ da notare che la disciplina protettiva di tali soggetti perdura anche dopo la cessazione formale dell’incarico, infatti essa perdura fino all’anno successivo la cessazione dell’incarico. Quanti possono beneficiare di queste tutele? Si è formata l’opinione prevalente per cui il numero dei soggetti beneficiari è stabilito dall’art. 23 (relativo ai permessi) ed è in relazione, quindi, alla consistenza dell’impresa. Per quanto concerne l’ipotesi di licenziamento arbitrario, a venire in considerazione una norma che è al di fuori del titolo III e cioè l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, nei commi dal 7° al 10°. L’art. 18 dello statuto dei lavoratori disciplina la tutela reale (disciplina sanzionatoria in relazione ai licenziamenti sopra le soglie definite dalla legge 604/1966. Nei commi dal settimo al decimo troviamo una specifica tutela riconosciuta solo nei confronti del dirigente sindacale che sia stato licenziato, nella misura in cui si sospetta che il suo licenziamento sia collegato a motivi discriminatori, proprio in ragione dell’attività svolta da questo soggetto. E’ una norma che configura una specifica procedura giudiziaria: si apre una vertenza e la norma consente la produzione di un’istanza rivolta al giudice. L’istanza dovrà essere fatta congiuntamente dal lavoratore dirigente sindacale e dal sindacato cui conferisce mandato, adducendo la natura arbitraria del licenziamento. Ricevuta l’istanza il giudice può, in ogni stato e grado del giudizio di merito, disporre con ordinanza (quindi, ancor prima che si vada a sentenza) la più immediata reintegrazione del lavoratore e ciò appunto lo fa laddove ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova in quanto alla giustificazione del recesso forniti dal datore di lavoro. In base al comma decimo di questo art. 18, c’è un altro elemento di anomalia rispetto alla disciplina prevista in generale per i licenziamenti individuali, data dal Diritto del lavoro
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fatto che se il datore di lavoro non ottempera all’ordine di reintegrazione disposto con ordinanza, oltre alle retribuzioni dovute al lavoratore, dovrà versare una somma pari a queste ultime al fondo adeguamento pensioni. Per quanto riguarda l’ipotesi del trasferimento, il legislatore dedica l’art. 22 dello statuto dei lavoratori, il quale stabilisce che i dirigenti sindacali possono essere trasferiti, dall’unità produttiva nella quale essi prestano la loro opera, solo previo nulla osta delle associazioni sindacali cui appartengono (quindi, di un soggetto esterno). E’ da sottolineare che questa disposizione non concerne i trasferimenti nell’ambito della stessa unità produttiva. L’art. 26 riguarda l’attività di proselitismo e i contributi sindacali. S’intende di fare propaganda orale o scritta ed autorizza anche la raccolta di contributi in favore delle proprie organizzazioni sindacali. Il diritto riconosciuto ai lavoratori all’interno dei luoghi di lavoro. Entro quali limiti? La norma dice “senza pregiudizio del normale svolgimento dell’attività aziendale”. Questa disposizione costituisce la naturale conseguenza di quanto stabilito nell’art. 1 dello statuto dei lavoratori (libera espressione del proprio pensiero) ed è inoltre strettamente collegata all’art. 14 dello statuto dei lavoratori (“Diritto di associazione e di libertà sindacale”). Si è posta in giurisprudenza la questione a come interpretare correttamente il limite entro cui è legittimo il proselitismo: i giudici hanno considerato questo limite non astrattamente definibile ma hanno sostenuto la necessità di valutare, caso per caso, tale limite (non è possibile una valutazione ex ante di cosa possa costituire pregiudizio, semmai ex post cioè in concreto). La norma associa all’attività di proselitismo anche l’attività di raccolta di contributi sindacali. Un contributo sindacale è quella quota che ciascun iscritto è tenuto a versare all’associazione cui aderisce, in relazione a quanto stabilito dalle disposizioni statutarie e dalle deliberazione degli organi sociali della medesima associazione, e ciò al fine di costituire fondo comune dell’associazione. Questo diritto si declina su due fronti (il proselitismo e la raccolta di contributi sindacali). L’art. 26 è stato modificato dal referendum del 1995: lo ha parzialmente abrogato (nella versione originaria era il datore di lavoro a raccogliere i contributi sindacali e poi cedeva il credito, con la modifica è venuto meno il meccanismo della cessione del credito). E’ rilevante un’anomalia che presenta l’art. 26, rispetto agli diritti sindacali: non si rivolge alle rappresentanze sindacali ma ai lavoratori (è una norma che non utilizza alcun filtro selettivo sotto il profilo dei soggetti destinatari). Era così anche prima del referendum del 1995 e ciò perché questa norma è espressione riflesso dell’art. 1 e 14 dello statuto dei lavoratori. L’art. 21 si occupa del tema del referendum. Vi si trova un obbligo cioè quello di consentire il referendum tra la generalità dei prestatori dell’unità produttiva o tra lavoratori appartenenti alla stessa categoria produttiva. Le condizioni di esercizio di questo diritto sono: tale diritto si esercita fuori dall’orario di lavoro e coinvolge il datore di lavoro nella misura in cui dovrà predisporre il libero accesso ai locali (chiama in causa un comportamento attivo che riduce i margini di libertà del datore di lavoro); è un diritto che si attiva a seguito della indizione da parte di tutte le RSA, ciò è spiegato dall’intento di garantire/stimolare l’unità sindacale (il referendum è uno strumento che viene attivato in fase iniziale di trattativa contrattuale o in fase di raggiungimento dell’accordo - questo perché i contratti collettivi post-costituzionali hanno efficacia limitata dalle disposizioni del codice civile, e quindi si vuole, attraverso il referendum, consolidare un consenso). L’indizione unitaria viene prevista per scoraggiare l’attivazione di procedure referendarie che frammentino l’unità sindacale su alcuni temi. 08 Giugno 2006 – avv. La Ratta Il diritto sindacale e la contrattazione collettiva applicati al lavoro parasubordinato. La libertà sindacale costituzionalmente garantita è relativa solo al lavoro subordinato o no? Sia in dottrina, sia per interventi della Corte Costituzionale si è affermato il principio per cui la Diritto del lavoro
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libertà sindacale, e quindi il diritto stabilito dall’art. 39 Cost., è riferibile anche ad alcuni lavoratori autonomi, però non tutti. Il principio è che sicuramente sono titolari di libertà sindacale anche lavoratori non subordinati ma non tutti, anche perché i principi della Costituzione sul diritto sindacale hanno la funzione di dare un potere particolare ai lavoratori in forza di una loro debolezza contrattuale, così da cercare di giungere all’uguaglianza sostanziale. Quindi, se tale diritto venisse dato indifferentemente a tutti i lavoratori, verrebbe a mancare questa caratterizzazione. Pertanto sono titolari di libertà sindacale non solo i lavoratori subordinati ma anche taluni lavoratori autonomi che si trovino in una situazione di dipendenza economica e, per questi motivi, hanno bisogno, al pari dei lavoratori subordinati, di una tutela specifica e quindi del principio di libertà sindacale. Diritto di sciopero. E’ un altro diritto che dà concretezza al diritto di libertà sindacale. E’ un diritto fondamentale perché è la forma di lotta/di pressione più efficace prevista dalla legge. Il diritto di sciopero è una forma di protesta che consiste nell’astensione dal lavoro e si sviluppa parallelamente ai primi fenomeni di aggregazione ed autotutela sindacale. Inizialmente questa forma di protesta era penalmente perseguita (prima della nascita della Costituzione); con la Costituzione, invece, per la volontà di garantire al lavoratore dei mezzi per autotutelarsi, l’art. 40 prevede il diritto di sciopero. Viene superata la concezione di Stato liberale per raggiungere quella di Stato sociale. L’art. 40 Cost. prevede il diritto di sciopero nelle modalità previste dalla legge ma, in realtà, fino agli anni ’90 non è mai stata emanata alcuna legge che disciplinasse l’esercizio di tale diritto. Solo negli anni ’90 il legislatore interviene dettando una normativa inerente lo sciopero nei servizi pubblici essenziali, perché col tempo si era sentita l’esigenza di limitare il diritto di sciopero per i servizi pubblici essenziali (soprattutto per i trasporti, per garantire comunque ai cittadini un certo servizio). La disciplina intervenuta, quindi, regola solo parzialmente l’esercizio del diritto di sciopero. Si dice che il diritto di sciopero è un diritto pubblico di libertà perché tutela sia un diritto collettivo che un diritto individuale, inoltre è un diritto che il lavoratore ha sia nei confronti dello Stato, sia nei confronti del datore di lavoro (il quale non potrà attuare alcuna conseguenza). Chi ha diritto di sciopero? Tutti i lavoratori subordinati. Il problema nasce quando si vuole spostare tale diritto oltre la subordinazione, cioè oltre il lavoro tipico. I lavoratori autonomi sono titolari del diritto di sciopero? L’estensione di tale diritto è stata affermata anche ad alcuni lavoratori autonomi e il la differenza tra chi gode del diritto e chi no è sempre questa concezione di dipendenza economica (proprio per la ratio del diritto di sciopero che è quella di dare una forza contrattuale maggiore al lavoratore stesso). Una completa estensione del diritto di sciopero porterebbe ad uno spostamento dello stesso anche in capo all’imprenditore, ma con ciò si avrebbe la serrata (il datore decide di chiudere l’azienda e non fare lavorare per un giorno) che non è un diritto ma un reato. Pertanto il diritto di sciopero non è esteso a tutti. Però è anche vero che, soprattutto nel corso degli ultimi anni, si sono verificate forme di protesta oltre i limiti del lavoro subordinato tipico e perciò hanno creato notevoli problemi. Ad esempio, l’astensione degli avvocati, che sono liberi professionisti (quindi non possono essere considerati lavoratori parasubordinati, in quanto per lavoro parasubordinato s’intende il lavoro a progetto – ex co.co.co. – cioè lavoro autonomo ma con caratteristiche che lo avvicina al lavoro subordinato). Nel caso di astensione degli avvocati non può essere applicata la legge relativa ai servizi pubblici essenziali, in quanto non è una forma di protesta attuata da lavoratori subordinati. Come cercare di regolamentare questa situazione? Nel 1996 è intervenuta la Corte Costituzionale affermando l’estensione della normativa sull’esercizio dello sciopero nei servizi pubblici essenziali anche a queste ipotesi di forme di protesta. La conseguenza è stata che nel 2000 il legislatore ha riformato la precedente legge, cioè la legge 146/1990, e ha fatto sì che l’ambito di applicazione dei limiti e delle procedure si Diritto del lavoro
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estendesse anche a queste astensioni collettive dei lavoratori autonomi. La legge che ha riformato la legge 146/1990 è la legge 83/2000 ed è stato introdotto l’art. 2bis il quale prevede che “L’astensione collettiva dalle prestazioni, ai fini di protesta o di rivendicazione di categoria, da parte di lavoratori autonomi, professionisti o piccoli imprenditori, che incida sulla funzionalità dei servizi pubblici di cui all’art. 1, è esercitata nel rispetto di misure dirette a consentire l’erogazione delle prestazioni indispensabili…….”. Quindi, attualmente la legge che regola l’esercizio del diritto di sciopero, a tutela degli altri diritti che ha il cittadino, non è applicabile solo ai lavoratori subordinati ma anche a tutti queste astensioni collettive dei lavoratori autonomi e questo potrebbe sembrare un controsenso di quanto detto sopra ma è da notare che la legge, volutamente, non dice “sciopero” ma “astensione collettiva”, infatti rimane tuttora il dubbio di come debbano essere qualificate giuridicamente le astensioni collettive. In sostanza, parlando di sciopero, nel senso previsto dall’art. 40 Cost., è vero che si estende oltre la subordinazione ma solo in riferimento al concetto di dipendenza economica; tutte le altre ipotesi sono astensioni collettive che hanno comunque una disciplina identica a quella che hanno le manifestazioni di sciopero classiche. Non sono la stessa cosa. Resta un problema di qualificazione giuridica anche se gli effetti sono gli stessi. Per quanto riguarda l’applicazione della contrattazione collettiva anche al lavoro parasubordinato, ci sono dei dati normativi per i quali è possibile dire che essa è applicabile anche ai lavoratori autonomi parasubordinati (ex co.co.co. e attuali lavoratori a progetto). I lavoro a progetto è disciplinato dal D.Lgs. 276/2003 e, l’art. 61 prevede un rimando alla contrattazione collettiva. Art. 61.4: “Le disposizioni contenute nel presente capo non pregiudicano l’applicazione di clausole di contratto individuale o di accordo collettivo più favorevoli per il collaboratore a progetto”. Vuol dire che la contrattazione collettiva è possibile anche per i lavoratori a progetto e, se favorevole, prevarrà rispetto alla disciplina dettata dal testo di legge. Ma nel passato, è sempre stata possibile la contrattazione collettiva anche oltre i limiti della subordinazione? Vi sono due disposizioni da tener presenti e sono l’art. 2113 c.c. e l’altra l’art. 409 c.p.c. L’art. 2113 c.c. è una norma che riguarda le rinunce e transazioni e dice”Le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi, concernenti i rapporti di cui all’art. 409 c.p.c., non sono valide”. Questa norma afferma il concetto di inderogabilità dei diritti previsti dalla legge o dagli accordi collettivi. L’art. 409 c.p.c. è la norma che dice quali sono i rapporti di lavoro che beneficiano del processo del lavoro (lavoro subordinato, collaborazioni coordinate continuative, rapporti di agenzia). Dal collegamento tra queste due norme emerge: 1) la possibilità che vi siano dei contratti collettivi relativi anche ai rapporti di lavoro parasubordinato; 2) se esistono, sono inderogabili in pejus dalla volontà del lavoratore (sono inderogabili al pari delle disposizioni contrattuali relative al lavoro subordinato). Questo problema era soprattutto per il passato perché adesso per i lavoratori a progetto è già la legge che riconosce la possibilità dell’esistenza di contratti collettivi e la possibilità di accordi migliorativi. Tutto ciò è importante per il fatto che la contrattazione collettiva è intervenuta, prima della legge, per cercare di dare una tutela anche a questi lavori atipici. Prima dell’introduzione del lavoro a progetto i co.co.co. non avevano alcuna disposizione normativa che prevedesse un diritto (c’erano solo le norme sopra dette). Soprattutto negli anni ’90 queste forme di lavoro crescono sempre di più e quindi questo dibattito era estremamente attuale in quanto si sentiva l’esigenza di ampliare le tutele oltre il lavoro subordinato a tempo indeterminato (quindi per il lavoro subordinato atipico e per il lavoro parasubordinato). Nel 1996 le tre sigle confederali decidono di creare, al loro interno, tre sigle sindacali con lo scopo di rappresentare e tutelare i lavori atipici (nella Cgl nasce il Nidil, nella Cisl l’Alai e nella Uil il Cpo). Queste nuove sigle vogliono tutelare, oltre il lavoro parasubordinato, anche il lavoro interinale ma ciò è piuttosto difficile a causa della modalità di organizzazione stessa del Diritto del lavoro
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sindacato e della tipologia dei lavoratori. Infatti, le caratteristiche intrinseche di questi tipi di lavoro sono: temporaneità e trasversalità, cioè sono spesso lavori precari e sono presenti in più settori merceologici (per cui è difficile creare un’aggregazione tra essi. L’altra difficoltà è rappresentata dalla forma mentis del sindacato che è da lavoro subordinato. A differenza della norma organizzazione sindacale, queste tre sigle sono trasversali cioè non rappresentano un solo settore merceologico ma vogliono rappresentare tutta la tipologia lavorativa. Nonostante le difficoltà legate anche a fattori sociologici, qualche risultato c’è stato: qualche contratto collettivo è stato firmato, però prevalentemente a livello aziendale. Questi accordi si concentrano su alcuni aspetti cruciali del rapporto di lavoro (proprio perché non c’era nulla): 1. retribuzione, corrispettivo, 2. durata del rapporto, 3. tutela dell’ipotesi di sospensione (maternità, malattia ed infortunio), 4. cercare di dettare una normativa per le ipotesi di recesso (in quanto non c’è nessuna tutela sulla stabilità del posto di lavoro). 1. sono stati individuati dei minimi di pagamento e i tempi di pagamento; 2. c’erano accordi che prevedevano una durata minima e una massima; 3. si è cercato di garantire il diritto del collaboratore, nel caso si ammali, ad esempio, alla sospensione del rapporto di lavoro per lo stesso lasso temporale (il periodo si recupera dopo); 4. cercare di limitare la facoltà di recesso per ogni ipotesi, quindi i contratti collettivi dicevano che il recesso era ammissibile per giusta causa e venivano dettate delle ipotesi per cui era possibile recedere dal contratto. Tutti i contratti collettivi, inoltre, prevedevano la forma scritta, sempre per dare una minima garanzia al lavoratore. Andando a vedere quello che prevede la legge oggi per il collaboratore a progetto, si nota che rispecchia molto ciò che era stato definito dalla contrattazione collettiva. Quindi, ad oggi, sembra quasi che il legislatore abbia fatto propri i risultati della contrattazione collettiva. E’ rimasta comunque la possibilità per il sindacato di portare avanti un’azione di contrattazione collettiva per aggiungere delle tutele in senso migliorativo. Il sindacato, anche dopo la tutela del lavoro a progetto, ha firmato degli accordi collettivi anche a livello nazionale (soprattutto per i call center) ma non si sono ottenuti miglioramenti nella tutela perché l’impostazione di base e sbagliata in quanto i call center non sono un vero e proprio contratto a progetto, in realtà sono solo lavori subordinati mascherati con la forma dei contratti a progetto. Pertanto non ci sono stati apporti sostanziali migliorativi rispetto a quanto previsto dalla legge.
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