SPAZIO ARCHITETTONICO tra fotografia e disegno

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COGHI PAOLA _ 205032

tra fotografia e disegno

SPAZIO ARCHITETTONICO



tra fotografia e disegno

SPAZIO ARCHITETTONICO

POLITECNICO DI MILANO Facoltà di Architettura e Società Scienze dell’Architettura a.a.2007-2008

COGHI PAOLA _ 205032 RELATORE _ Prof. Luigi Cocchiarella


indice _ introduzione

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1. realtà e rapprese ntazione 1.1 Póiesis, Mímesis, Tékhne 1.2 la rappresentazione come “strumento di conoscenza” 1.3 la rappresentazione come “atto critico” 1.4 finalità della rappresentazione

7

2. dalle

tre alle due dimensioni: due tecniche di rappresentazione

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“grammatica” della rappresentazione: for me e convenzioni

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elementi della rappresentazione: spazio, tempo e misura

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2.1 il disegno d’architettura 2.2 la fotografia d’architettura 3. la

3.1 il concetto di forma 3.2 la geometria come strumentazione dell’architetto 3.3 forme proiettive e non proiettive 3.4 macchina fotografica e “macchina” prospettica 3.5 la fotogrammetria

4. gli

4.1 il concetto di spazio 4.2 il concetto di tempo 4.3 i concetti di dimensione, misura e scala 4.4 il rilievo 5. storia

della fotografia

6. protagonisti ed opere 6.1 Nicéphore Niépce 6.2 Louis-Jacques-Mandé Daguerre 6.3 William Henry Fox Talbot 6.4 Nadar 6.5 Lewis Hine 6.6 Man Ray 6.7 Aleksandr Rodčenko 6.8 László Moholy-Nagy 6.9 Walker Evans 6.10 Henri Cartier-Bresson 6.11 Gabriele Basilico

65 77

_ conclusione

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_ bibliografia

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introduzione Nell’affrontare questa tesi, il primo tentativo è quello di affrontare un discorso che nasce dal mio rapporto con la fotografia – interesse che, seppur ancora allo stato embrionale, è sempre più deciso e decisivo nella mia esperienza personale – e con la rappresentazione, non potendomi astenere dal riconoscere questa come fattore assolutamente appassionante per la mia condizione di “futuro architetto”. Spesse volte in questi anni, il ritrovarmi con la macchina fotografica tra le mani, per immortalare cose, fatti, momenti, persone e, non ultimo, architetture che quotidianamente mi era dato di incontrare, mi ha fatto sempre più desiderare di poter conciliare quello che è un mio interesse personale, con il mio essere studentessa nella facoltà Architettura. L’obiettivo di questa tesi non è quello di spiegare compiutamente la storia e le tecniche di rappresentazione che si sono venute a creare dall’antichità ai giorni nostri, bensì quello di scoprire a piccoli passi quanto la fotografia, il disegno e l’architettura siano intimamente e intrinsecamente legati tra loro.

5


6


1. 2. 3. 4. 5. 6.

realtĂ e rappresentazione

7


Guglielmo Mozzoni, Casa di via Francesco Sforza, Milano

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Póiesis, mímesis e tékhne sono tre concetti fondamentali della rappresentazione. In prima approssimazione si riferiscono rispettivamente all’attività poetica del produrre, alla relazione imitativa della riproduzione ed al sistema delle conoscenze e capacità tecniche che consentono di comunicare, di esprimere visibilmente, di trasformare ed oggettivare l’idea in una cosa, nel nostro caso in uno o più elaborati grafici. Nei confronti del disegno, la póiesis costituisce un contenuto estetico in grado di porsi in modo perfino autonomo e indipendente nei confronti di ogni motivazione e finalità “altra” rispetto al disegno stesso. La rappresentazione dispone sempre di un doppio statuto: da una parte, essa rappresenta qualcosa d’altro; dall’altra, presenta se stessa. Mentre nell’architettura è più rilevante il primo aspetto, nelle arti visive prevale il secondo e la rappresentazione arriva a coincidere con l’opera. Strettamente ed intrinsecamente legati al fare “poietico”, processo che conduce alla forma, sono tutti gli strumenti: non “dopo” l’ideazione della forma e funzionalmente ad essa, ma “come” ideazione e sua qualità, che comprende ed integra le qualità della materia e l’intera dimensione antropologica. Schematicamente, la mímesis si presenta come un rapporto che istituisce una corrispondenza fra classi diverse di elementi, una delle quali sia l’esaustiva “rappresentazione” dell’altra. Nel “ritratto”, essa definisce l’immagine imponendone la rassomiglianza: a “quel” volto, a “quella” chiesa, a “quel” paesaggio…; nel “genere”, definisce la figura: di “un” volto, di “una” chiesa, di “un” paesaggio…; nel “tipo”, contribuisce a definire la forma rendendola strutturalmente riconoscibile quale elaborazione ed attuazione di un modello. Essa riveste dunque un ruolo cer-

tamente normativo e regolatore, se non deterministico. La mímesis che cercherò di analizzare in questa tesi, studiandone le modalità e la portata, non è quella che si limita alla riproduzione al livello dell’immagine e dei processi percettivi, ma quella che riesce ad esprimere “poeticamente” – dunque produttivamente e progettualmente – il contenuto più profondamente architettonico dell’opera, la sua storicità ed i suoi rapporti con la teoresi. Quanto alla tékhne, essa è sì tecnica grafica, abilità manuale, ma è pur sempre fondata su un sistema di conoscenze. Per essere realizzata, la mímesis richiede una definizione precisa dell’oggetto e, soprattutto, necessita della tékhne. Se lo scopo immediato della rappresentazione è innanzitutto la mímesis figurativa e percettiva – e dunque l’equivalenza e la sostituibilità della percezione dell’immagine e del rappresentante a quella del reale e del rappresentato – dobbiamo tener presenti i suoi processi. Considererò analoghi e simmetrici quelli del disegno e della fotografia: produttivo e grafico il primo, proiettivo ed ottico il secondo; ma entrambi strutturati e regolati dalla proiezione: sul foglio di carta e per il tramite degli strumenti grafici l’uno, sulla pellicola e per il tramite dell’apparecchio fotografico l’altro.

«Sia il disegno che la fotografia

di architettura, proprio in quanto tali e non in quanto generiche opere grafiche, non possono che essere intrinsecamente legati alla stessa architettura, alla sua consistenza di cosa edificata, alla sua fisica spazialità 1.

»


1.1 Póiesis, Mímesis, Tékhne

Inoltre, essi appartengono da un lato alla classe degli oggetti, ad un sistema rispetto al quale possono essere classificati ed assumere un senso ed un valore, come qualsiasi altra opera d’arte; dall’altro lato, disegno e fotografia esprimono un metodo, un modo d’agire, una sequenza di operazioni, che peraltro non possiamo separare dal prodotto finale se non a partire da un provvisorio punto di vista analitico. Sorge dunque il problema della confrontabilità tra i procedimenti del pensiero di chi progetta, che concepisce, elabora e fissa l’idea, quelli della fisica e materiale edificazione dell’opera e quelli propri della rappresentazione, che in qualche modo si pone, come abbiamo visto, quale mediazione e modello per entrambi, pur nella sua irriducibile e necessaria alterità nei loro confronti. Certo è che, come abbiamo già detto, mai un’architettura può essere ridotta a puro pensiero e immagine figurativa.

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Frank Lloyd Wright, Guggenheim Museum, New York, 1956-59

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Non c’è dubbio che la più comune ed usuale esperienza dell’architettura sia solitamente più legata all’evidenza visiva, tattile e funzionale delle architetture che viviamo nella nostra quotidianità come luoghi edificati, piuttosto che alle loro implicazioni teoriche o alle vicende storiche di questi. Si tratta così di un’esperienza soggettiva, relativa e parziale, che dipende dai luoghi che frequentiamo abitualmente, da quelli che abbiamo visitato nei nostri viaggi, dalla memoria di quelli in cui abbiamo vissuto nella nostra infanzia. Ad essa si sovrappone e si integra l’esperienza mediata dalle rappresentazioni: dalla pittura al disegno, dalle descrizioni letterarie alle immagini fotografiche… che tendono a fornirci la conoscenza di opere di cui, non necessariamente, abbiamo avuto esperienza diretta. Ciò che in ogni caso, per quanto fedele possa essere, sembra venir meno nella rappresentazione è precisamente la materialità delle architetture, il loro statuto di “cose” e di “luoghi”, la concretezza degli spazi edificati, il loro carattere tattile.

Ma tuttavia una fotografia o, in modo diverso, un brano letterario in cui compaia l’architettura (o un’opera di architettura) come soggetto o come sfondo non vengono mai interpretati come pura immagine grafica o pura narrazione.

«Tramite

la rappresentazione quelle architetture descritte possono venire in qualche modo sperimentate, confrontate sia tra di loro sia con quelle di cui abbiamo avuto esperienza diretta; e possono così suscitare un nostro giudizio motivato 2.

»

Il principale problema – o meglio – la sfida più interessante della rappresentazione, in architettura, consiste allora precisamente in questo: nel riuscire a render conto di tutte le sue determinazioni qualitative, materiche e metriche per mezzo di un suo simulacro; consentirne l’esperienza e la co-


1.2 la rappresentazione

come “str umento di conoscenza”

noscenza mentre essa non è presente. E la funzione veritativa della rappresentazione ha una duplice valenza: deve rivelarci sia la verità dell’opera, come fedeltà della “copia” prodotta nei confronti di un “originale” attualmente assente; sia quella della rappresentazione stessa come interna coerenza del procedimento riproduttivo. Il primo aspetto che voglio trattare in questa tesi è dunque questo: se è certo che la rappresentazione è un “doppio” del reale (esistente o progettato), quali sono i rapporti che intercorrono tra essa e la realtà, quali codici possono garantirne il carattere veritativo, l’aspetto di analisi, in che modo realtà e rappresentazione si integrano nel processo della conoscenza e della progettazione architettonica? La rappresentazione, perciò, può non esse-

re vista solo come mera tecnica o insieme di operazioni più o meno meccaniche, ma anche e soprattutto come forma e fonte di conoscenza, intimamente connessa all’architettura e alla sua storia. Non bisogna dimenticare che, nella maggioranza dei casi, il nostro rapporto abituale con l’architettura è mediato dal disegno – e, più in generale, dalla rappresentazione (quando non è ad essa limitato) –, dal momento che non sempre si ha un rapporto di diretta contiguità con la materialità delle opere di architettura. Ma anche andare di persona, essere presenti, può non bastare ad una comprensione esauriente: talora senza il confronto di rappresentazioni come mappe, piante e sezioni possiamo incontrare difficoltà a comprendere esaurientemente quanto abbiamo di fronte.

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Le Corbusier, villa Savoye, Poissy, 1926-29

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Abbiamo visto che, in quanto tale, la rappresentazione non coincide mai con la mera copia, così come sia la narrazione e la documentazione dello storico, che il ritratto del pittore o del fotografo non coincidono mai con la mera duplicazione di un “originale” o della sua immagine; né è possibile o utile documentare e rappresentare “tutto” senza che la forma si affievolisca in un neutro indistinto.

«Se la parola “critica” etimologi-

camente denota una cernita, una selezione, il primo atto critico della rappresentazione consisterà appunto nella scelta degli elementi significativi, quindi nella discretizzazione di quel continuo che è un edificio o un ambiente naturale. Ogni rappresentazione autentica procede in modo altamente critico, selettivo ed elettivo, presupponendo comunque un fondamento teorico di riferimento 1.

»


1.3 la rappresentazione

come “atto critico”

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Anche la fotografia, che come si è detto è un particolare modo di rappresentare, non si limita a registrare il reale riproducendone in modo neutrale la continuità, dal momento che infinite sono le variabili che un fotografo può e deve gestire. Quando durante un sopralluogo, ad esempio, prendiamo degli appunti, come schizzi o fotografie, decidiamo di fissare un’immagine particolare scegliendo tra tutte quelle che sono state iscritte dalla nostra facoltà recettiva. L’aspetto affascinante di questo meccanismo è che, come ci insegna l’esperienza, differenti persone poste di fronte allo stesso soggetto reagiscono in maniera diversa.

Quando un architetto prende l’appunto di una situazione, esegue uno schizzo o una fotografia, lo fa in una maniera peculiare. Analogamente fa il fotografo: di fronte ad un soggetto sceglie di fissare tra le infinite immagini osservate dal suo occhio quelle da iscrivere nella traccia della pellicola in un processo che coinvolge, insieme alla percezione, l’immaginazione. Anche se materialmente le immagini della fotografia sono una sorta di calco ricavato da un procedimento chimico-meccanico, il fotografo non può sottrarsi all’interpretazione e questo significa che nel processo agiscono tutte quelle componenti tipiche dei prodotti estetici dell’immaginazione.


Steven Holl, Y House, New York, 1997-99

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1.4 finalità della rappresentazione

La rappresentazione può avere diverse forme e finalità. Se ci riferiamo alla rappresentazione architettonica, prima tra tutte, quella in cui il disegno viene fatto con lo scopo ultimo di essere trasformato in edificazione ed opera realizzata. La figura principale è quella dell’architetto che elabora il proprio progetto “nel disegno” e, a partire da un’idea o da un’intuizione iniziale, ne elabora la formalizzazione e ne analizza i contenuti specificamente architettonici. Forma privilegiata di questo processo è lo schizzo, l’appunto grafico, il disegno che può riguardare tanto l’impostazione sommaria del progetto, quanto una sua caratterizzazione stilistica, un dettaglio, un particolare uso dei materiali, etc. Una seconda tipologia di rappresentazione riguarda poi il disegno come registrazione del costruito (il rilievo) ed in generale tutte le rappresentazioni analitiche. La rappresentazione di un oggetto è possibile soltanto dopo aver rilevato e misurato quest’ultimo: il rilievo si conferma così modo, e non semplice strumento della conoscenza. Sia l’architetto che il fotografo, così come

l’uomo di scienza e l’artista, non possono che iniziare dall’oggettività del reale, presupponendo sempre la possibilità di una sua prima conoscenza tramite la misura e la rappresentazione, sebbene le elaborazioni successive possano seguire strade diverse. Un’ulteriore modalità di rappresentazione è quella propria dei “manuali” di architettura: non si tratta più di disegni di progetto, ma di esemplificazioni parziali, schemi funzionali e distributivi, diagrammi e particolari costruttivi… che offrono al progettista una vasta possibilità di scelte costruttive. Abbiamo così introdotto una prima differenza tra schizzo e fotografia. La diversità tra queste due tecniche di rappresentazione non consiste nell’appartenenza a due categorie distinte di segni; ma sta nel fatto che, mentre lo schizzo di un architetto che affronta un progetto prepara l’avvento dell’architettura, ne è una sorta di traccia anticipata o di annuncio, la fotografia è una scrittura successiva, possibile a cose avvenute, anche se la sua rilettura critica può egualmente stimolare il progettista.

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2. 3. 4. 5. 6.

dalle tre alle due dimensioni: due tecniche di rappresentazione

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Laboratorio di progettazione 3, Centro di design, Milano Porta Genova, 2008 Planivolumetrico e prospetti

Per quanto la rappresentazione dell’architettura possa anche consistere in diagrammi, descrizioni verbali o tabulati di dati parametrici, i due riferimenti che prenderò in esame in questa tesi sono il disegno e l’immagine fotografica.

Le convenzioni basilari del disegno d’architettura hanno origini molto antiche ma, nonostante la grande varietà di stili architettonici succedutisi nel tempo, prima dell’introduzione del “computer aided design”, non si sono registrati mutamenti sostanziali, né nei materiali né nelle convenzioni del disegno tecnico; la planimetria, il prospetto, la sezione trasversale e la prospettiva, pur realizzati con strumenti da disegno manuali, costituivano il vocabolario di base della rappresentazione architettonica.

N

18

planivolumetrico 1.500


2.1 il disegno d’architettura

«Per “convenzione del disegno

architettonico” si intende il segno – tracciato di consueto su una superficie bidimensionale – che traduce in forma grafica un aspetto (ad esempio la pianta o il prospetto) di un progetto architettonico o di un edificio esistente. […] È una convenzione arbitraria, ma, una volta

accettata, ha valore solo quando assume identico significato sia per un qualsiasi osservatore che per chi la utilizza; è dunque un mezzo di comunicazione. Una volta stabilita una determinata convenzione architettonica, essa è in grado di mantenere nel tempo una coerenza sorprendente 1.

»

sud 1.200

est 1.200

nord 1.200

ovest 1.200

19


Laboratorio di progettazione 3, Centro di design, Milano Porta Genova, 2008 Piante

-2.00

20

+1.60 biblioteca

+0.00 atrio biblioteca

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+6.00 spazi espositivi dei laboratori

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Occorre fare una prima considerazione sugli strumenti e i materiali del disegno. In primo luogo la carta, che, introdotta nel mondo occidentale nel XIV secolo, consentì per la prima volta di fissare idee e suggestioni in forma di schizzo; la pergamena utilizzata fino ad allora era riservata solamente alla redazione dei disegni definitivi, in quanto generalmente troppo costosa e poco adatta a schizzi e studi preparatori. I fogli di carta non sono neutrali rispetto ai disegni che vi vengono tracciati. Il disegno dipende dalle dimensioni, dal colore, dalla tessitura e dalla densità del supporto. Nelle prospettive, il foglio rettangolare è assimilabile ad una finestra attraverso la quale viene osservato l’oggetto; vi è pertanto un’indiscutibile corrispondenza tra la tecnica della proiezione prospettica descritta da Leon Battista Alberti nel 1435, poco dopo l’introduzione della carta, e il formato del foglio. La gamma di tecniche e metodi di rappresentazione esistenti è molto ampia: si va dalle proiezioni ortogonali adottate da geometri ed archeologi, alle vedute degli acquarellisti, che integrano paesaggi ed edifici sfumandone i contorni con contrasti di colore o di luci e ombre. Le superfici e gli strumenti da disegno sono scelti in funzione dello scopo e dell’effetto cercato; nel disegno geometrico, può essere una sottile linea tracciata su carta da disegno con sottile pennino d’acciaio, oppure incisa su una lastra di metallo; in quello figurativo, invece, possono essere tocchi di colore dati a pennello su superfici a grana diversa.

«Non solo ogni momento storico

di rappresentazione tenta di esplicitare un particolare messaggio con i mezzi più adeguati, ma ogni osservazione è anche il prodotto di un modo individuale di percepire e comunicare una sensazione. Il disegnatore seleziona gli edifici da disegnare con uno scopo specifico e personalissimo, che influirà sia sull’oggetto che sul metodo di rappresentazione: in questo consiste la “retorica del disegno” 3.

»

L’esplicitazione grafica di una sensazione implica l’adozione di una simbologia convenzionale, paragonabile a quella della scrittura, che varia in funzione dello stile del tempo e del luogo ove viene eseguita. Analogamente, come vedremo, anche le fotografie di un edificio sono soggette ai medesimi valori personali e culturali che condizionano il disegno. In conclusione, si può quindi dire che il disegno architettonico non è solamente un documento che raccoglie dati e informazioni specifiche, ma reca inevitabilmente l’impronta dello stile e della personalità dell’autore, oltre a quella dell’epoca e del luogo in cui egli opera.

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Archivio Alinari, Palazzo Riccardi; Palazzo Vecchio e Portico degli Uffizi; Ponte Vecchio Firenze

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Analogamente al disegno, la fotografia d’architettura ha fatto la sua comparsa in un periodo specifico della storia ed ha fissato delle convenzioni che sono rimaste immutate per più di un secolo e mezzo, nonostante l’evoluzione della tecnologia abbia consentito periodici affinamenti delle sue potenzialità creative. Un primo aspetto interessante da notare è il modo in cui i primi fotografi, equipaggiati di questo nuovo strumento, stabilirono le modalità di rappresentazione degli edifici: con tutta probabilità, essi fecero riferimento alle tecniche di rappresentazione grafica preesistenti. Seppur inconsapevolmente, furono infatti adottate molte convenzioni relative alla rappresentazione architettonica: tra queste, le posizioni da cui fotografare facciate ed absidi di chiese, gli interni degli edifici, la scelta dei dettagli ecc. In secondo luogo, dal momento che scopo della maggior parte delle fotografie architettoniche era la documentazione di edifici storici, è necessario esaminare quando e in

che modo una fotografia può essere considerata un documento, ma anche quando e se una fotografia può identificarsi in un’opera d’arte. In tale ottica, è possibile anche esaminare i motivi che determinano la scelta del fotografo di documentare alcuni edifici e non altri, alcuni dettagli piuttosto che altri… Un altro aspetto della fotografia è che spesso non siamo in grado di stabilire fino a che punto le immagini fotografiche possano essere definite semplici specchi della realtà, oppure dipendano da fattori soggettivi (come soggetto, posizione, inquadratura, luce, messa a fuoco ecc.). In ogni modo, dobbiamo renderci conto di quanto le tecniche fotografiche stesse condizionino taluni effetti espressivi (la velocità di esposizione, la potenza degli obiettivi, la granulosità, gli effetti di tono su oggetti colorati ecc.). Come abbiamo già detto, la fotografia può avere infine anche valore di strumento utile al restauro e alla conservazione dei monumenti storici.


2.2 la fotografia d’architettura

23


L. Moholy-Nagy, Scala, 1936

24 24


L’immagine fotografica può essere definita come il risultato della cooperazione tra la realtà fisica, oggetto della ripresa, e la capacità del fotografo di selezionare, comporre ed organizzare il materiale grezzo in qualcosa di significante. Pertanto risulta evidente che, anche se la sensibilità del fotografo è un fattore di grande importanza, non è solo ad essa che deve essere affidata la riuscita di una descrizione soddisfacente e completa dell’oggetto d’architettura. Fotografie che siano in grado di descrivere l’architettura devono rispondere ad alcuni requisiti tecnici fondamentali. Tra questi, il primo è che nelle immagini fotografiche vi sia, per quanto possibile, assenza di ambiguità, siano esse o no intenzionali, che possano indurre l’osservatore in errori d’interpretazione. Nella delicata fase di ripresa, l’operatore deve mettere in campo tutta la propria conoscenza storica (e non) dell’oggetto, per evitare che, con la scelta di un non opportuno punto di vista, oppure con l’uso di un’ottica poco adatta, o di un’errata illuminazione, l’osservatore rimanga confuso o disorientato. Tuttavia la fotografia, come il disegno, può anche ricercare delle “suggestioni” spaziali, magari proprio grazie ad un impiego “non ortodosso” delle tecniche. Le immagini devono poi avere un certo rigore geometrico, sia in se stesse che nella composizione. Questo è fondamentale per evitare che l’osservatore sia costretto, oltre il necessario, ad un continuo confronto con altre immagini pertinenti, per interpretare correttamente i rapporti dimensionali dell’oggetto architettonico rappresentato.

Il controllo dell’immagine avviene mediante una serie di operazioni che in parte precedono ed in parte seguono lo scatto. Precederanno lo scatto il concepimento del cosa e del perché si vuole eseguire una fotografia, la scelta dell’inquadratura, ossia la composizione delle parti che costituiscono l’immagine, la messa a fuoco del soggetto, la valutazione della corretta esposizione. Seguiranno lo scatto, le operazioni di sviluppo, di stampa, di ritocco e di presentazione dell’immagine. Per avere una completa descrizione fotografica può essere inoltre necessario dover riprendere l’architettura da punti di vista non ottimali, coprire una partitura architettonica con diverse immagini così da poter formare un mosaico, effettuare cambiamenti di rappresentazione prospettica delle singole immagini perché sia possibile una loro composizione coerente, effettuare riprese con tempi lunghissimi in modo da eliminare oggetti in movimento. Affinché l’immagine fotografica sia rappresentativa delle forme architettoniche oggetto delle riprese, occorre poter esercitare un controllo compositivo su di essa. Quel che risulta essere interessante in queste prime osservazioni sulla fotografia d’architettura, è la possibilità di arrivare a capire il ruolo che lo strumento fotografico può svolgere all’interno del processo di conoscenza dell’architettura, che tipo di indagine sull’architettura ci consente di compiere, come può arrivare a descriverla compiutamente.

25


26


3. 4. 5. 6.

l a ‘g ra m m a t i ca’ della rappresentazione: forme e convenzioni

27


28

Il fatto che i Greci avessero almeno sette vocaboli distinti per definire il termine “forma” (êidos, idéa, morphé, rythmós, trópos, skhêma, plásis…) è indicativo della difficoltà che si può trovare nel cercare di dare una definizione precisa di questo concetto. Innanzituto, è necessario distinguere l’immagine come dato essenzialmente percettivo, dalla forma come struttura che va oltre il mero visibile riassumendo la consistenza spaziale e storica dell’architettura. Se da una parte l’immagine viene presa in considerazione per ottenere un modello geometrico che sia l’oggetto del procedimento proiettivo, dall’altra nella forma risiede ciò che in primo luogo la rappresentazione deve tendere a registrare ed esprimere. L’accezione greca di idéa o êidos, denota quella componente della forma che si riferisce alla visione, ma che implica una percezione sostanzialmente intellettuale, una modellizzazione astratta del dato contingente. Mentre il termine morphé esprime un’apparenza non perfettamente distinta che cela una realtà più concreta, rythmós denota il risultato dell’abbinamento di elementi uguali, o di una certa partitura dimensionale. Trópos si riferisce al genere, alla maniera (del discorso) o al comportamento (delle persone). Ma i vocaboli greci che maggiormente si relazionano con la rappresentazione sono lo skhêma e la plásis. Il primo perché si riferisce ai dati strutturali della cosa, alle sue specifiche proprietà; la seconda perché indica chiaramente un’azione ed il suo esito: l’azione del formare, del plasmare ed il suo prodotto. La mímesis non riguarda perciò solo la semplice immagine visiva da riprodurre “con gli stessi mezzi”, ma si riferisce anche alla forma in senso strutturale e produttivo.

Allo stesso modo le forme della rappresentazione sono tali perché non si servono della mímesis come mezzo, ma la “producono con mezzi diversi”. Il paradigma della lente di Galileo, che Vittorio Ugo cita in Fondamenti della rappresentazione architettonica, aiuta a dare un primo inquadramento al concetto di forma, intesa come oggetto della mímesis e fondamento strutturale sia del disegno che della stessa architettura. Vediamo infatti che:

«[…] né la superficie, sferica o

paraboloidica; né la consistenza, trasparente; né la sua immagine, che varia a seconda del punto di vista (circolare se la si guarda frontalmente, ellittica se di scorcio, lenticolare se di profilo) sembrano poter definire in modo soddisfacente ciò che intendiamo come forma della lente 1.

»


3.1 il concetto di for ma

La forma di un oggetto, qualsiasi esso sia, in questo caso una normale lente biconvessa,

«[…] oltre la sua immagine, ol-

tre i caratteri visibili, geometrici e tattili suoi propri, deve includere la materia, le dimensioni e le misure, le teorie, i procedimenti di fabbricazione… Questa è la “forma” di un oggetto, la sua determinazione strutturale e logica, la sua motivazione e la sua apertura ad una pluralità di usi senza perdita d’identità. Non una forma opposta alla materia, ma una forma come modalità di esistenza della materia, che la tékhne realizza 1.

»

La forma dell’architettura consiste perciò sia nell’insieme delle sue immagini, sia nel modo in cui essa dà luogo all’abitare, organizza i materiali definendo un luogo, attua un modo di esistenza dello spazio, un rapporto con la storia e con la natura, un sistema di dimensioni e di misure… La nozione di forma, nella sua complessità, tematizza così il problema della rappresentazione, che sarà quello di rendere omologhe la forma del disegno e quella dell’architettura. La forma, e gli stretti rapporti che essa intrattiene con la geometria, si pone perciò come nozione centrale nella definizione dell’architettura e dei suoi luoghi: l’architettura è forma e non immagine, ed è una forma costruita che ha misura. In tal senso ogni sua riproduzione, pur essendo un’immagine (sia essa grafica che fotografica) non potrà restituirne la struttura se non a

condizione di stabilire un’analogia con la spazialità (e la fisicità) di una forma che ha misura: sarà allora possibile considerare la fotografia – laddove ci si occupi di fotografia di architettura – come fatta di misure e non di luce, utilizzarla cioè in qualità di disegno/scrittura delle misure dell’architettura. Ogni oggetto è ovviamente rappresentabile in qualsiasi forma e tecnica; la pratica della rappresentazione ha sovente preceduto, infatti, la sua completa codificazione. Disegni di piante e prospetti degli edifici furono realizzati anche prima di Monge; e vennero costruiti edifici ancor prima che si iniziasse a disegnare in assonometria. Le forme di rappresentazione non sono da intendere, però, come semplici tecniche da “applicare” agli oggetti per comunicarne, documentarne o interpretarne l’immagine; esse sono piuttosto forme del pensiero spaziale e della progettazione: il Brunelleschi ha concepito e progettato la cupola in prospettiva, così come Theo Van Doesburg e Gerrit Rietveld hanno pensato e progettato i loro edifici in assonometria. Ogni forma della rappresentazione ha perciò caratteristiche, riferimenti storici, architettonici e culturali specifici. Tutte le forme proiettive tendono alla mímesis figurativa, all’analogia dimensionale, all’interpretazione spaziale e alla progressiva oggettivazione ed astrazione del concreto oggetto considerato, anche se, pur seguendo comuni norme geometriche generali, le varie tecniche si differenziano tra loro per alcune condizioni particolari. La geometria ha pertanto il compito di modellizzare, razionalizzare e codificare la mímesis e la percezione visiva, stabilendo un alto grado di astrazione e di distacco dal reale.

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Cattedrale di San Giusto, Rosone, Trieste, XV sec; Sezione aurea

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Il mondo in cui siamo immersi, viviamo e ci muoviamo è costituito da figure piane e da solidi, naturali o artificiali che siano. Per lo studio dell’architettura esistente, ed ancor di più per la prefigurazione di quella che andiamo a progettare e creare, è perciò necessario addentrarsi nella conoscenza geometrica. Il legame tra l’architettura ed il tipo di geometria praticata nei diversi periodi storici è sempre stato fortissimo.

oltre che tecnicamente, anche dal punto di vista della percezione e del significato. Guardiamo, per esempio, le figure piane che conosciamo meglio, perché sono le più diffuse e le più elementari: il quadrato, il triangolo, il cerchio. Potrebbe sembrare semplicistico o banale: cosa c’è da sapere in più sul quadrato, sul triangolo, sul cerchio? Munari, tra gli altri, ci ha insegnato ad avventurarci sui sentieri meno battuti della geometria e a

«La geometria non è solo tramite «[…] guardare in maniera ditecnico ma soprattutto forma ide- versa all’universo di forme che ativa ed espressiva» attraversano il nostro sguardo 4

.

A partire dall’antichità l’architettura può essere ripercorsa seguendo il filo del rapporto tra sviluppo della geometria e progetto, tra progetto e forme costruite. Per riferirci alla storia dell’architettura, basti pensare alla chiara rispondenza tra architettura antica e geometria dei solidi platonici; all’influenza e all’attualità degli studi di geometria obliqua del Caramuel nella figura di Bernini e la loro applicazione, per esempio, nel colonnato ovale di S.Pietro; alla ricaduta dello “spirito di geometria” nell’essenzialità delle forme architettoniche postilluministe di Ledoux e Boullée o, per arrivare al XX secolo all’importazione, dalle scienze naturali nell’architettura, della teoria dei frattali che, grazie all’apporto dell’elaborazione automatica delle immagini, ha aperto una stagione nuova alla ideazione ed all’immagine dell’architettura. Ma prima e oltre che rappresentare graficamente la realtà costruita in maniera oggettiva, attraverso i sistemi della rappresentazione geometrica convenzionale, è interessante scoprire le proprietà interne di ciascuna figura per poterla padroneggiare,

tutti i giorni, ponendoci in quella prospettiva insolita che ci rivela dell’altro e ce ne fa scoprire gli aspetti più nascosti e, se vogliamo, più interessanti 5.

»

Il quadrato è simmetrico rispetto a due assi ortogonali – che a loro volta lo dividono in altri quattro quadrati – ha quattro lati uguali, quattro angoli uguali, due diagonali uguali. Ma nonostante quest’abbondanza di simmetria il quadrato non è una figura rigida: tenendo fisso un lato e muovendo una diagonale, può trasformarsi in un rombo sempre più schiacciato, fino a diventare una linea. Così il quadrato risulta statico se appoggiato su un lato, dinamico se appoggiato su un angolo con le due diagonali in posizione orizzontale e verticale, “pericolosamente” in bilico se, appoggiato su un angolo, ha la diagonale inclinata. Il triangolo è il più “scomodo” dei tre: è infatti una figura spigolosa, che ha i lati in numero dispari, e che, tranne quando è equilatero, ha poche simmetrie che ci aiutino a governarlo.


3.2 la geometria

come str umentazione dell’architetto

Il cerchio inscrive o circoscrive un quadrato; il cerchio possiede infiniti assi di simmetria costituiti dai diametri; nel cerchio sono inscritti i poligoni regolari che da esso derivano e che si costruiscono geometricamente attraverso il raggio; il cerchio è al tempo stesso figura dinamica ma conclusa, in un certo senso statica. Da sempre l’uomo ha usato queste figure per inventare le forme più belle, più armoniche, più ordinate. In tutte le epoche possiamo trovare esempi di nobili architetture dimensionate sul quadrato – le piramidi, i tracciati urbani romani basati sull’incrocio tra cardo e decumano, i chiostri conventuali, i cortili dei palazzi rinascimentali e così via – o sul cerchio – basti pensare alle tipologie greche e romane come anfiteatri e templi o alle coperture a volta. Pertanto, solo impossessandosi dell’universo delle forme è possibile conoscere in modo approfondito il mondo esterno; è infatti attraverso il riconoscimento della struttura interna di ogni figura che nel processo percettivo riusciamo ad identificare e memorizzare le immagini, costruendoci progressivamente un individuale catalogo di forme. Per un architetto imparare a conoscere gli oggetti e le immagini che ci circondano vuol dire vedere di più e capire di più.

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F. Borromini, Galleria Spada, Roma, 1652; Corso di Rappresentazione 1, Prospettiva

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Tra le diverse branche della geometria, la proiettiva è quella che interviene con maggior rilevanza a garanzia di scientificità nei procedimenti della rappresentazione architettonica, procedimenti che tendono a riprodurre simmetricamente i processi percettivi, realizzando una forma di mímesis nei loro confronti.

«La

caratteristica principale della geometria proiettiva è il “birapporto”, costante fondamentale che garantisce la verificabilità delle operazioni, realizzando al contempo una forma di mímesis scientificamente e percettivamente controllata ed una misurabilità della rappresentazione al di là delle apparenti deformazioni indotte dalla proiezione rispetto alla fisica realtà dell’opera edificata o da edificare 1.

»

La proiezione può dunque essere vista come una sintassi che mette in corrispondenza punti (e di conseguenza anche enti geometrici quali rette e superfici) in uno spazio che è “polarizzato” attorno al centro di proiezione. Tale sintassi regola la corrispondenza, l’ordine ed i rapporti di distanza tra punti, mantenendone costanti certe caratteristiche e rendendo pertanto gli oggetti percettivamente riconoscibili nelle loro immagini. In Italia i progetti architettonici sono stati da sempre sottoposti ad un processo di formalizzazione che ne ha reso la lettura più agevole. La predilezione per la rappresentazione prospettica ha caratterizzato il disegno italiano fino all’inizio del XVI secolo. In questo contesto storico è del tutto coerente l’invenzione della prospettiva geometrica da parte di Brunelleschi, attorno al 1420. Questa invenzione è legata storicamente alla volontà di elaborare un sistema logico di rappresentazione architettonica che restituisca l’oggetto non più nelle sue dimensioni reali – come fanno le proiezioni ortogonali –, ma secondo le dimensioni apparenti. Mentre pianta e alzati danno dell’edificio solo un’immagine frammentaria, scomponendo l’oggetto architettonico per renderlo perfettamente leggibile, la rappresentazione prospettica cerca di mantenere la forma nella sua interezza, al fine di realizzare un’immagine non più analitica ma totale.


3.3 for me proiettive e non proiettive

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P. Eisenman, Guardiola House, Cadiz, 1988; Corso di Rappresentazione 1, Assonometria; A. Loos, Villa Muller, Praga, 1928-30

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Il distacco dalla contiguità (prima quasi tattile) tra gli oggetti del mondo e il soggetto che li percepisce, introdotto dalla prospettiva rinascimentale tramite il distanziamento scientifico operato dalla geometria, viene ulteriormente accentuato dalle proiezioni assonometriche, nelle quali il centro di proiezione è all’infinito. Se da un lato l’assonometria arriva a concedere ormai ben poco alla mímesis visiva ed all’analogia con i processi percettivi “naturali”, dall’altro il riferimento ad una terna assiale introduce nuovi criteri di misurabilità, molto più oggettivi in quanto svincolati dalla visione e dunque dall’”inganno” delle apparenze e dalle variazioni dimensionali in funzione della distanza.


35

Se i principi generali permangono costanti, le proiezioni di Monge si distinguono però dalle precedenti per una differenza fondamentale: si tratta infatti di coppie di proiezioni, effettuate da centri distinti ed il cui coordinamento consente di definire univocamente la posizione di ogni punto nello spazio, inquadrato in un diedro di riferimento. L’uso corrente delle proiezioni ortogonali in architettura è a tutti noto: pianta, prospetto e sezione sono gli elaborati tecnici più comuni di qualsiasi progetto o rilievo; ma con essi la rappresentazione si fa più astratta, si distacca ulteriormente dalla “veduta”, restituendo l’oggetto smembrato in più viste separate, al fine di restituire nel sistema di immagini l’intima strutturazione geometrica del costruito, nelle sue esatte determinazioni metriche. La pianta e la sezione descrivono metricamente l’organizzazione, la spazialità e la strutturazione globale ed interna dell’edificio, fornendone un modello specificatamente geometrico ed architettonico. Allo stesso modo il prospetto, con l’infinito distanziamento del centro di proiezione, non corrisponde ad alcuna reale percezione visiva, ma dispiega le forme esteriori nelle loro misure esatte e nell’esatta sintassi compositiva.


Laboratorio di progettazione 3, Centro di design, Milano Porta Genova, 2008 Concept e plastico

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Vi son sono infine, anche in architettura, rappresentazioni che non derivano da una ripresen gorosa proiezione del modello geometrico dell’oggetto, ma seguono altre regole e, nei dell’og casi ppiù significativi, instaurano uno spazio proprio, solitamente legato alla geometria propri topologica e quindi qualitativo e relativo topolo “modalità”, piuttosto che alla misura alla “ senso puramente quantitativo. nel sen esempio nei diagrammi e negli schemi Per es strutturali, funzionali, distributivi, tipo– stru logici… – ciò che interessa principalmente logici non è né la mímesis figurativa, né le rigorose determinazioni metriche, ma una forma di mímesis “profonda”, i modi e la qualità dell’organizzazione della materia e dello spazio, i loro rapporti, o anche i processi progettuali o costruttivi.

Nel momento in cui l’obiettivo primario conseguito dalla rappresentazione non è più la riproduzione di questa o quella particolare opera, ma l’espressione dei principi architettonici nella loro massima generalità, il disegno si fa “teorico” e la rappresentazione assume valore di “modello”. Una diversa e più comune accezione del termine modello, che rientra nelle rappresentazioni non proiettive, è quella di “plastico” come riproduzione solida e in scala, sebbene fatta con materiali differenti da quelli reali, dell’architettura in esame. I plastici costituiscono un prezioso ausilio sperimentale nel processo della progettazione, oltre che un efficace strumento di presentazione dei progetti o di restituzione delle opere edificate.

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38

La rappresentazione prospettica dell’oggetto architettonico è definita da Vitruvio come quella rappresentazione che crea l’illusione della facciata principale e delle fronti laterali, con la corrispondenza di tutte le linee in riferimento al centro del cerchio. Il termine scenografia designava nell’antichità i metodi di illusione ottica, tendendo a rettificare o a influenzare la percezione “oggettiva” dell’occhio. Al centro delle osservazioni di Vitruvio e dei suoi commentatori sta la preoccupazione di organizzare uno spazio di rappresentazione volumetrica in rapporto ad uno spettatore. La prospettiva consente sostanzialmente di rappresentare gli edifici non soltanto secondo le loro dimensioni reali ma anche secondo le loro dimensioni apparenti e consente all’architetto di eliminare gli effetti ottici indesiderati, si pensi ad esempio al caso dell’entasis e di altre deformazioni, artifici posti in essere per mitigare effetti visivi indesiderati. A seguito di queste osservazioni, risulterà forse più facile comprendere che

«la prospettiva non è soltan-

to una delle possibili tecniche di rappresentazione di un oggetto, quanto piuttosto una forma della rappresentazione, non scindibile dal suo essere una forma della progettazione capace di definire, al contempo, una specifica concezione razionale dello spazio e un modo di “vedere” il mondo 1.

»


3.4 macchina fotografica

e “macchina” prospettica

Riguardare un oggetto reale in prospettiva, o elaborarne una restituzione prospettica da fotografia, significherà pertanto assoggettarlo alle regole della razionalità dello spazio prospettico, ai suoi elementi e alla sua sintassi, sottoponendolo al processo di discretizzazione del reale messo in atto dalla rappresentazione prospettica stessa. Un disegno di Le Corbusier illustra come le prospettive, al contrario di piante, prospetti e sezioni, si prestino particolarmente a un’interpretazione “retorica”. Per retorica intendo che il loro fine non è semplicemente quello di rappresentare il più fedelmente possibile uno spazio o una massa architettonica, ma di mostrarla all’osservatore in modo da enfatizzarne gli specifici intenti progettuali; in breve, di persuadere. Questa prospettiva di un esterno di Le Corbusier tende ad esagerare la profondità dello spazio e il gioco di piani astratti.

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40

«Tenendo

presente la precisa collocazione storica dello spazio prospettico e delle sue misure, è possibile stabilire un’analogia di funzionamento tra il “vedere attraverso” la macchina fotografica e il “vedere attraverso” la macchina prospettica 6.

»

Se proviamo a schematizzare il funzionamento delle due “macchine”, noteremo che è possibile individuare un sistema di corrispondenze puntuali tra le rispettive parti costituenti; corrispondenze che si estendono alle regole di funzionamento, ai comuni principi geometrico-proiettivi. In entrambi i procedimenti, la determinazione dell’immagine avviene a seguito di un’operazione di proiezione da un unico centro O posto a distanza finita e relativa sezione su un piano, sia esso quello della pellicola fotografica che quello del quadro prospettico. L’immagine invertita e capovolta formatasi sul fondo della camera oscura è comunque analoga a quella prospettiva.


Le corrispondenze insostituibili tra le rispettive parti costituenti, sono: A - MACCHINA FOTOGRAFICA - centro dell’obiettivo (O) - raggi luminosi - piano della pellicola (ρ) - lunghezza focale (f) - angolo di campo (φ) - lontananza dall’oggetto (l) B - MACCHINA FOTOGRAFICA - centro di proiezione (O) - raggi proiettanti - piano del quadro (π) - distanza principale (d) - cono ottico (ω) - lontananza dall’oggetto (l)

Interessa però porre l’accento sull’inscindibilità tra elementi, principi e risultati, perché

«[…] è in tale ambito che assu-

me senso la comune accezione di “macchina” da noi utilizzata per designare fotografia e prospettiva: in entrambi i casi – sia pure con modalità non direttamente sovrapponibili – il cambiamento di posizione di uno degli elementi costituenti fa entrare in gioco gli altri, modificandone la posizione, secondo precise regole geometriche 6.

»

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qualche ese mpio Prendiamo un cubo, poniamolo a distanza costante da un centro di proiezione e fissiamo la posizione del piano del quadro, facendo in modo che sia ortogonale alla direzione principale. Se modifichiamo la distanza principale, traslando lungo tale direzione, otteniamo tre immagini prospettiche del cubo di dimensioni differenti, ma di forma geometricamente simile. Lo stesso tipo di trasformazione dell’immagine si ottiene fotografando l’oggetto da un punto di ripresa fisso, con tre diversi obbiettivi (il che equivale a modificare la distanza focale).

Poniamo ora il cubo a distanza variabile dal centro di proiezione, con il piano del quadro con giacitura normale alla direzione principale, in modo che la distanza del piano dal centro di proiezione (distanza principale) rimanga costante al variare della distanza del centro dall’oggetto. Questa variazione dà luogo a tre immagini prospettiche del cubo di dimensioni e forma geometricamente differenti; la posizione del centro di proiezione determina infatti l’angolo sotto il quale vediamo l’oggetto, il suo “scorcio”, per cui gli elementi geometrici del cubo (angoli, spigoli e facce) subiscono una diversa deformazione prospettica. Con la macchina fotografica è possibile ottenere lo stesso tipo di trasformazione dell’immagine fotografando con lo stesso obbiettivo l’oggetto da tre differenti punti di ripresa (modificando, cioè, la distanza dall’oggetto).


Se analogamente al caso precedente poniamo il cubo a distanza variabile dal centro di proiezione, con il piano del quadro con giacitura normale alla direzione principale e secante l’oggetto in mezzeria, ma con distanza del piano dal centro di proiezione variabile, le tre immagini sul piano presenteranno lo stesso tipo di deformazione prospettica degli elementi geometrici del cubo del caso precedente, ma un differente tipo di variazione dimensionale. Nelle tre prospettive rimarranno infatti costanti gli elementi appartenenti al quadro (e cioè le dimensioni dei due spigoli verticali estremi e la loro distanza) in quanto costituiti da punti uniti, che si proiettano in se stessi. Se si vogliono mantenere costanti le dimensioni di un oggetto sul piano della pellicola fotografica, cambiandone soltanto lo scorcio, bisogna modificare sia il punto di ripresa fotografica sia il tipo di obbiettivo.

Tuttavia, per rappresentare un oggetto in prospettiva o per fotografarlo, bisogna fissare simultaneamente la posizione del centro di proiezione in tutte e tre le direzioni dello spazio. Variando l’altezza del centro di proiezione sull’asse z varierà la quota della retta di fuga rispetto al geometrale, determinando un diverso scorcio dell’oggetto: otterremo così un’immagine prospettica vista ora dal basso, ora ad altezza media, ora dall’alto. Analogamente, in fotografia, ogni spostamento del punto di ripresa lungo la direzione dell’asse z e ogni rotazione dell’asse ottico attorno al centro di proiezione comporterà altrettante trasformazioni dell’immagine.

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M. Docci, Vignola, Roma Fotogrammetria

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Con il termine “fotogrammetria” si intendono tutte quelle procedure che utilizzano immagini fotografiche di un oggetto per ricavarne le dimensioni. Effettuare il rilievo di un oggetto significa ricavare la posizione spaziale di tutti i punti di interesse. Mediante la fotogrammetria questa operazione viene fatta, in gran parte, non direttamente sull’oggetto ma operando su immagini fotografiche. La fotogrammetria è una tecnica di rilievo le cui origini sono antiche quanto l’invenzione della fotografia e la cui teoria è stata sviluppata addirittura prima della stessa invenzione della fotografia, nell’ambito della pura geometria proiettiva. Questa tecnica, sebbene nasca per il rilievo delle architetture, si sviluppa principalmente per il rilevamento del territorio, ed è stata, fino alla fine del secolo scorso, applicata in gran parte come “fotogrammetria aerea”. Mario Fondelli, ne Trattato di fotogrammetria urbana e architettonica, definisce la fotogrammetria come


3.5 la fotogrammetria

«[…] uno strumento di acquisi-

zione di dati metrici e tematici tra i più affidabili e più immediati, che va estendendo sempre più la sua diffusione e le sue applicazioni. Essa costituisce, infatti, una procedura di rilevamento, prospezione e documentazione – di rara efficacia – delle realtà territoriali, ambientali, urbane e architettoniche. Tali peculiari caratteristiche, non invasive e non distruttive, la qualificano meglio di ogni altra metodologia di rilevamento e prospezione nella individuazione e misura delle più minute modificazioni morfologiche degli oggetti considerati, e nella lettura dei vari aspetti specifici della loro definizione spaziale, talvolta non evidenti alla normale osservazione visuale. Inoltre le nuove modalità fotogrammetriche nella rappresentazione e nella documentazione degli oggetti considerati consentono descrizioni grafiche e numeriche più pertinenti e assicurano la possibilità di istituire periodici e sistematici controlli dei loro stati di consistenza ai fini della loro conservazione .

»

Tuttavia la fotogrammetria è, e rimane, un mezzo per giungere ad informazioni prevalentemente metriche che costituiscono semplicemente il primo passo verso la conoscenza e la documentazione dell’architettura; essa pertanto non deve, né può, sostituirsi interamente ai rilievi diretti, ma può offrire solo un supporto geometricamente obiettivo, imprescindibile ai fini dell’esecuzione del rilievo finale. La storia della fotogrammetria è molto legata, nei suoi principi teorici, alla storia della geometria descrittiva ed in particolare alla formulazione della teoria della prospettiva; mentre nella sua applicazione è legata alla storia dell’ottica, della fotografia ed alle relative scoperte tecnologiche. Come già più volte detto, ricordiamo che la fotografia, da un punto di vista otticoproiettivo, è assimilabile ad una proiezione centrale: ovvero tutti i raggi provenienti dal mondo esterno vengono convogliati attraverso le lenti dell’obbiettivo in un punto e proiettati su uno schermo che li intercetta, la pellicola: pertanto si può affermare che la fotografia è, con buona approssimazione, una vista prospettica della realtà. La fotogrammetria, per poter essere correttamente applicata, ha dovuto pertanto attendere che si sviluppassero le conoscenze necessarie nell’ambito della geometria descrittiva e nell’ambito della fotografia, legando infine le due discipline: nota la prospettiva ed i procedimenti geometrici “inversi”, per ricavare da essa le proiezioni ortogonali dell’oggetto reale, è stato possibile ricavare informazioni metriche dalle rappresentazioni fotografiche, prima in

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modalità geometrica proiettiva, poi in modalità analitica ed infine digitale. A livello teorico l’applicazione fotogrammetrica comporta la risoluzione di un problema di fondo che è quello di relazionare lo spazio-oggetto tridimensionale con lo spazio-immagine bidimensionale in maniera univoca e così da poter far corrispondere punti discreti, opportunamente scelti, nei due sistemi di grandezze. Superato questo obiettivo sarà poi possibile relazionare qualsiasi punto del continuo spazio-immagine al corrispondente punto nello spaziooggetto. Uno dei metodi più importanti di applicazione della fotogrammetria è il metodo grafico che prevede il diretto impiego della geometria descrittiva. Questo metodo precede ogni successivo sviluppo tecnologico, e senza la sua comprensione nessun progresso nel settore sarebbe mai stato possibile. Il metodo grafico è notevolmente versatile ed offre numerosi procedimenti alternativi per risolvere le diverse problematiche inerenti le misurazioni attraverso le immagini fotografiche. Esso, si basa sul fatto che l’immagine fotografica è assimilabile ad una proiezione centrale e come tale deve essere trattata per poterne estrapolare informazioni metriche: ovvero determinando quali siano gli elementi notevoli che definiscono la proiezione medesima.


«Allo stesso modo in cui, in ge-

ometria descrittiva, si costruisce una prospettiva (= proiezione centrale) partendo dalle proiezioni ortogonali, è possibile, procedendo in maniera “inversa”, da una prospettiva (= fotografia) operare con costruzioni geometriche per il ritrovamento delle proiezioni ortogonali degli oggetti rappresentati e quindi delle vere dimensioni degli stessi 6.

»

Il metodo grafico trova un frequente impiego nell’ambito di elaborazioni che fanno uso di una sola immagine fotografica e che integrano i dati mancanti con maggiori rilievi in loco. In questo caso, il metodo grafico può anche essere supportato da considerazioni critiche formulate dall’operatore, valutando dati di campagna ed eventuali ipotesi di lavoro come: parallelismi, allineamenti, orizzontalità e verticalità di membrature, appartenenza a piani e simili, sfruttando moltissimo gli elementi geometrici di riferimento che possono essere presenti nell’architettura da rilevare. La precisione dell’intero processo è vincolata all’attendibilità di dette osservazioni e/o rilievi, che tuttavia sono quelle che consentono maggiore versa-

tilità al metodo e danno anche la possibilità di indagare casi limite. È bene sottolineare che da una sola fotografia non è possibile ricavare biunivocamente i dati spaziali reali, a meno che non si conoscano ulteriori dati metrici riguardanti la forma dell’oggetto. Nel caso generale, per poter effettuare misurazioni certe occorre considerare più foto dell’oggetto. Una sola immagine, rappresentante lo spazio-oggetto e relazionata ad esso tramite parametri di orientamento, non dà luogo infatti ad una sola soluzione: mentre dallo spazio-oggetto si genera lo spazio-immagine, da un solo spazio-immagine non è possibile risalire allo spazio-oggetto che lo ha generato. Il sistema di rilevamento fotogrammetrico tramite coppie di prese fotografiche, ovvero la determinazione dello spazio oggetto attraverso due supporti bidimensionali, viene detto rilievo fotogrammetrico stereoscopico, proprio in virtù della registrazione pultipla “stereo-scopica” dell’oggetto. Concludendo, vediamo come la fotogrammetria e la relativa restituzione assistita al computer abbiano ulteriormente incrementato il distacco dall’oggetto. La sua stessa presenza, una volta progettate le operazioni di ripresa, è addirittura richiesta solamente per il breve istante della foto, dal momento che la maggior parte del lavoro è svolto successivamente sull’immagine stampata.

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4. 5. 6.

gli elementi della rappresentazione: spazio, tempo e misura

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M. Grisotti, Pittsburg centro, 1956

50

Nella nostra esperienza quotidiana, in quella specifica dell’architettura e per effettuare la rappresentazione di quest’ultima, facciamo costantemente ricorso al concetto di spazio.

«Vi sono, di questa nozione, due

diverse concezioni possibili, che lo configurano rispettivamente come “contenitore universale ed a priori”, indipendente dalle cose ed all’interno del quale le cose stesse e gli eventi trovano la loro collocazione e sono riconoscibili e misurabili; oppure come struttura formale che, al contrario, deriva dalle cose, è il risultato della loro concreta presenza, della loro forma, delle loro relazioni e persino della loro materialità 1.

»

In architettura, alla prima concezione si può far corrispondere la tradizione della “composizione”, che appunto consiste nel disporre insieme, in un medesimo contesto spaziale considerato in quanto già-dato, isotropo ed omogeneo, elementi volumetrici, stilistici e materiali secondo determinati rapporti sintattici. Alla seconda concezione si può invece riferire il processo della “progettazione”, in cui il luogo non è il già-dato disponibile e neutrale, ma l’esito del progetto stesso, la nuova forma che esso instaura per rapporto agli altri luoghi preesistenti ed alla materia plasmata dalla tékhne.

«La rappresentazione, da parte

sua, è un mettere in relazione i vari tipi di spazio, istituendone a sua volta uno proprio e specifico 3.

»

L’accezione del termine spazio più rilevante, sia nella pratica del disegno che della fotografia, è quella di “contesto”. Il significato del termine va inteso come ambito in cui viene collocato l’elemento architettonico, e tale contesto deve essere descritto dalle immagini in modo da renderne chiara l’osmosi con il soggetto architettonico. Quest’ultimo si relaziona con ciò che è al di fuori della sua fisicità, esterni ed interni entrano in relazione con esso. Nella dimensione in cui, badando al contesto, è possibile instaurare un rapporto interno-esterno, la percezione dell’architettura e del suo significato una volta intromessi nell’edificio è delegata allo spazio interno. Esso, generato dalla pianta dell’edificio secondo idee e processi personali, fa in modo che l’esterno si riveli, ponendosi come termine privilegiato del rapporto col “fuori”, e consentendo al visitatore di godere di questo dialogo. Le Corbusier, in Vers une architecture, sottolinea questo gioco di spazi parlando della Moschea Verde.

«Si entra passando da una picco-

la porta a scala umana; un minuscolo vestibolo opera in voi il cambiamento di scala che occorre per apprezzare, dopo le dimensioni della strada e del posto da cui venite, le dimensioni con cui si pensa di impressionarvi. Allora percepite la grandezza della moschea e i vostri occhi misurano .

»


4.1 il concetto di spazio

51


Le Corbusier, Moschea verde; A. Aalto, Casa dello studente “Baker”, MIT, Cambridge, 1947

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Ma lo spazio non viene definito soltanto dal rapporto fra le dimensioni. È l’insieme delle percezioni in un luogo a definire lo spazio.

«Dalla piena luce all’ombra, un

ritmo. Porte molto piccole e vani molto grandi. Siete presi da questo incanto, avete perso il senso della scala comune .

»

Nella Moschea Verde lo spazio è significativo dell’intera architettura, dice qualcosa. Questo è il tentativo di ogni disegno consapevole, cioè derivante da una necessità di espressione architettonica. Lo spazio è il fattore risolutivo, è il luogo che comunica direttamente con l’uomo, è il discriminante per le scelte progettuali, poiché ferma il significato che l’architettura si propone di esprimere. Questo spazio si confronta con l’uomo mediante la propria percorribilità, la propria forma, il rapporto che genera tra interno ed esterno, il volume che lo sovrasta e le superfici che lo racchiudono. La luce, il rumore, i colori, concorrono tutti alla percezione dello spazio.


Lo studentato del M.I.T. di Alvar Aalto è un esempio emblematico dell’importanza dell’intorno e soprattutto della possibilità di operare tenendo conto delle circostanze ambientali. L’edificio si snoda, il volume è piegato per fare in modo non solo di adeguarsi a degli elementi preesistenti, naturali o artificiali, ma per valorizzare questi elementi, ed allo stesso tempo valorizzare l’interno dell’edificio. La facciata “sinuosa”, esula l’edificio, volumetricamente imponente, dall’opprimere la riva del fiume e i percorsi ai piedi dello studentato stesso, e dal presentare un affaccio sul fiume massiccio e sgraziato: allo stesso tempo permette la sistemazione della maggior parte delle camere sul lato privilegiato, affacciate sul Charles River, con angolature che permettono affacci non omogenei.

«È la relazione interno-esterno

che produce l’unità del progetto. Non solo un impatto formale del volume costruito ma un senso di continuità prodotto nell’abitante, nel visitatore che entra e che esce: unità questa non derivante da una similitudine, da un gioco di analogie, ma dall’intromissione sapiente di un dialogo fra l’esistente e l’architettura. Per questo il problema del contesto è primario nello sviluppo del progetto .

»

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S. Holl, Storefront Gallery, New York, 1992-93

54

Tanto il disegno d’architettura quanto la fotografia sono profondamente ed intrinsecamente legati al concetto di tempo, in quanto il loro principale oggetto d’analisi, l’architettura appunto, è più che mai soggetto alla categoria del divenire. I greci non avevano una sola parola per esprimere il concetto di “tempo”: per loro il tempo era una complessità. Anche il termine “architettura”, essendo di origine greca, non ignora la complessità. Secondo una particolare interpretazione, esso rinvia al principio del tecnico (tékhton) che dà avvio, dà inizio, incomincia (arché) qualcosa. La temporalità è già nella radice della parola. Dare inizio a qualcosa significa infatti immettersi nella trama del tempo.

«Il disegno d’architettura, nell’in-

sieme, oscilla tra l’aspetto “mimetico” di pura registrazione, indizio in absentia in quanto copia originariamente effettuata in præsentia, e quello “poietico” del progetto, in quanto proposizione ovviamente in absentia di ciò che un giorno sarà presente in qualche luogo. In ogni caso, dunque, il disegno implica un distanziamento in termini di tempo e di spazio nei confronti del reale 1.

»

Anche la fotografia guarda l’architettura sotto le categorie del tempo e del divenire: ci racconta dei cicli stagionali e giornalieri, della vita dell’edificio, dei suoi mutamenti… Lo stretto rapporto tra tempo e fotografia è ben espresso dall’affermazione di Richard Pare, per il quale:

«la

fotografia d’architettura presenta un’armonia tra il mondo temporale del costante fluire e il mondo spaziale della pietra. Il primo presupposto della fotografia d’architettura è la considerazione di due fattori primari: pietra e tempo. Nell’architettura la pietra e il tempo sono indivisibili. […] La pietra è la struttura dell’architettura e il tempo è l’elemento della fotografia. In una fotografia il tempo viene alterato – fermato e tenuto sospeso – creando, con ogni momento che passa, una forma differente di tempo e diventando, per ognuno, qualcosa di diverso. […] La fotografia d’architettura è un’espressione della commemorazione della pietra nel tempo .

»


4.2 il concetto di tempo

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Frank Lloyd Wright, Guggenheim Museum, New York, 1956-59

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Il tempo, nel suo svolgersi, incontra la realtà producendo inevitabilmente effetti su di essa. Sia che si tratti di un attimo o di un secolo, un neonato al pari di un’intera civiltà ne portano gli esiti e definiscono la loro esistenza in funzione del trascorrere del tempo. Di conseguenza, possiamo affermare che: all’assenza temporale corrisponderebbe la negazione dell’esistenza e quindi della vita stessa. La fotografia registra e tramanda sia i fenomeni di tempi passati, sia gli eventi quotidiani, quelli legati allo scorrere dei giorni in cui i paesaggi e le persone variano e modificano continuamente le loro morfologie. È perciò sempre testimonianza di qualcosa che c’è, o almeno, che è stato. Essa viene inoltre utilizzata sia dallo storico dell’architettura, che dall’architetto per la progettazione di nuovi edifici ispirati agli stili del passato. Le fotografie forniscono, infatti, al progettista uno strumento di lavoro efficace e stimolante. Costituiscono una risorsa in grado non solo di arricchire il bagaglio di conoscenze del progettista riguardo alla storia, alle tradizioni…, ma anche di estendere la sfera di tale conoscenza ad un più ampio spettro di stili storici non direttamente accessibili. La “dinamicità” dell’architettura è un altro aspetto che lega profondamente disegno e fotografia al concetto di tempo, e riguarda tutto ciò che muta, tanto all’esterno quanto all’interno di un manufatto architettonico. Si pensi, ad esempio, alla posizione rispetto al Sole che illumina diversamente il soggetto nell’arco di una giornata, oppure alle possibili condizioni metereologiche: cielo sereno e nuvoloso, pioggia, neve. Possono sembrare osservazioni banali, ma anche questi fattori sono importanti nel determinare l’architettura fotografata, sia per quanto riguarda il suo stesso inserimento all’interno di un contesto, sia per la sua

rappresentazione. Come ultima osservazione, possiamo notare che anche la registrazione del modo in cui avviene la fruizione di un determinato organismo architettonico – l’interno di una chiesa nel momento della celebrazione liturgica, una facciata con le automobili davanti, una porta che sta per essere varcata da una persona… – risulta essere di grande rilevanza per capire in che modo l’architettura sia soggetta alla categoria del divenire.

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Le Corbusier, Les proportions, Gallimard. Découvertes

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Non c’è dubbio che la rappresentazione presupponga il rapporto, la misurabilità; ma rispetto a quali “dimensioni”, a quali “unità di misura”? A quali strutture la rappresentazione deve essere congruente, isomorfa ed omologa per poterne costruire il modello, perché possa sussistere una corrispondenza scientifica tra oggetto e sua rappresentazione, e perché quest’ultima contenga e restituisca le qualità del primo? La rappresentazione, affinché il suo contenuto d’informazione sia comunicabile, comprensibile e verificabile, non solo presuppone, ma addirittura si fonda sui concetti di “dimensione”, “misura” e “scala”, e ne costruisce un preciso rapporto. Il termine “dimensione”, in sintesi, si riferisce alle grandezze di riferimento; quello di “misura” alla conoscenza ed espressione del loro valore numerico e la “scala” è il rapporto dimensionale che intercorre tra il soggetto ripreso e la sua omologa immagine misurata sul foglio o sul fotogramma. La nozione di dimensione, analizzata nel concreto delle opere e della loro rappresentazione, è estremamente complessa, in quanto essa risiede sia nelle convenzioni, codificazioni e sistemi esterni, che nelle opere stesse, nella loro struttura spaziale. La dimensione consente la misura, ma anche la formazione di modelli più generali. La misura non concerne soltanto il rapporto tra i singoli elementi di un edificio e la grandezza assunta come unità di misura, in modo da ottenere una completa conoscenza delle qualità in gioco; essa riguarda anche i rapporti dimensionali dei vari elementi tra di loro. Pur comprendendo le determinazioni metriche e quantitative delle varie opere, la misura si fonda principalmente su un sistema di parametri qualitativi, di criteri compositivi, di modalità di conformazione dello spazio, che trovano nel modello il loro

luogo e la loro formalizzazione teorica più pertinenti. La rappresentazione dell’architettura è la registrazione e restituzione della sua forma in un modello che, tramite la misurazione, la relaziona ai modelli prescelti come “unità di misura”; e questi sono a loro volta rappresentazioni: del pensiero geometrico sullo spazio, dei modi della sua esistenza, dei valori che la cultura assegna alle opere ed ai principi che ne hanno informato la genesi… L’utilizzo della scala geometrica nel disegno d’architettura equivale all’uso dello zoom in campo fotografico. Entrambe le tecniche di rappresentazione citate lavorano infatti per ingrandimenti e riduzioni. Dice Claude Lévi-Strauss in La Pensée sauvage, riguardo la riduzione:


4.3 i concetti di dimensione, misura e scala

«[…] essa opera una sorta di in-

versione del processo della conoscenza: per conoscere l’oggetto reale nella sua totalità, noi tendiamo sempre ad assumere come punto di partenza le sue diverse parti. La resistenza che esso ci impone viene superata sezionandolo. La riduzione di scala inverte questa situazione: più piccola, la totalità dell’oggetto appare meno temibile; per il fatto di essere quantitativamente diminuita, essa ci sembra qualitativamente semplificata .

»

Nel caso del disegno e della fotografia, questa riduzione figurativa, da intendersi sia in ordine di scala che di qualità, è più efficace in quanto traspone un oggetto che richiede l’esperienza completa dei sensi, l’esperienza spaziale, in una figura sul piano che sollecita solamente la vista. La riduzione priva l’oggetto rappresentato di tutta una serie di informazioni e ne trattiene solo alcune. Assimilando l’architettura ad un’immagine piana, le due tecniche di rappresentazione prese in esame restringono il campo ottico dello spettatore permettendogli di abbracciare l’insieme delle forme con un solo colpo d’occhio e sopprimendo così la dimensione temporale, che è un fattore fondamentale della percezione architettonica. Dimensione, misura e scala si configurano dunque come nozioni capaci di tenere assieme, a livelli diversi, la nostra visione e le forme ed i luoghi dell’architettura, coinvolgendo in tale legame gli strumenti operativi: a ben guardare, infatti, specifici strumenti di misura rientrano a pieno titolo in tutte le fasi necessarie per la prefigurazione, costruzione e riproduzione di un’architettura, dalla fase del progetto, a quella della sua concreta realizzazione, sino alla ricostruzione o modellizzazione operata dal rilievo.

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Schizzi di rilievo

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4.4 il rilievo

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«Rilevare un’opera architettonica

vuol dire appropriarsi del complesso di conoscenze sulle architetture, intese come organismi, e delle loro più disparate caratteristiche, le più immediatamente percepibili, ma anche gli aspetti più nascosti 1.

»

Occorre innanzitutto, perciò, porsi preliminarmente con attenzione di fronte all’oggetto per stabilire quali e quanti mezzi siano necessari per la sua conoscenza globale. Possiamo dire che un buon rilievo comincia col porsi di fronte all’oggetto senza alcuno strumento che non lo spirito di osservazione, per arrivare a sapere cosa si deve disegnare ancora prima di prendere la matita in mano, cosa si deve fotografare ancora prima di prendere la macchina fotografica in mano, poiché la nostra finalità non è quella di disegnare piante-prospetti-sezioni ma rappresentare quell’oggetto, nella sua concezione spaziale, ambientale, costruttiva. La fotografia ha fin dalla sua invenzione integrato la pratica del rilievo tradizionale, ma il suo modo di registrare è strettamente vincolato alla mimesis, nel senso della sostituzione del dato ottico-percettivo diretto con una simulazione. Essa è, in altri termini, legata alla visione; dunque al visibile, al punto di vista, alla percezione visiva e al tipo di misura che questa consente.

Il rilievo, invece, nelle sue restituzioni mongiane (che implicano un infinito distanziamento dall’oggetto e quindi dall’accezione umanistica del punto di vista, in favore di un’assunzione puramente geometrica e scientifica del “centro di proiezione”), non indulge affatto alla “veduta”. Nessuno ha mai realmente “visto” la pianta di un edificio costruito o una sua sezione; né è “visibile”, in quanto tale, lo stesso prospetto, dal momento che un distanziamento infinito implicherebbe fisiologicamente un’infinita riduzione percettiva dell’oggetto. Ma rilievo fotografico e rilievo grafico differiscono soprattutto per un’importante caratteristica: mentre il primo restituisce un oggetto come continuo, come figura e come superficie, registrandone per intero l’immagine rivelata dalle condizioni d’illuminazione, il secondo lo rappresenta come solido geometrico, esprimendone la consistenza volumetrica tramite la rappresentazione di elementi discreti (solitamente segmenti di retta o archi di curva), la cui scelta compete al rilevatore stesso e la cui organizzazione costituirà indizio per la ricostruzione del volume (legittimata dall’applicazione di regole proiettive).


Laboratorio di progettazione 2, Complesso residenziale, Barcellona, Ronda Litoral, 2007 Rilievo

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La fotografia registra dunque l’immagine e le dimensioni visivamente apparenti degli elementi, ed è perciò assimilabile, come abbiamo già più volte detto, ad una proiezione prospettica. Se si conoscono l’orientamento interno ed esterno, sarà dunque possibile invertirne il procedimento e ricostruire – a determinate condizioni e sotto determinate ipotesi – i dati geometrici di partenza. Il rilievo, nonostante l’ausilio di uno strumento obiettivo come la fotografia, rimane sempre un’operazione critica ed interpretativa: parte dal mezzo fotografico per registrare il maggior numero di informazioni possibile, ma richiede la rappresentazione grafica che dal continuo dell’immagine discretizzi gli elementi notevoli e significativi dell’architettura. Fine essenziale del rilevamento architettonico risulta quello dell’interpretazione e della rappresentazione delle forme e delle dimensioni delle architetture. Tale rappresentazione va realizzata per lo più mediante piani, alzati e sezioni, ed è suscettibile di mettere in evidenza rapporti proporzionali degli elementi strutturali costituenti le architetture medesime, sia lo sviluppo delle differenti superfici che le delimitano, sia le relative volumetrie, insieme alla descrizione dei materiali e di tutte le deformazioni prodottesi in fase costruttiva e prosieguo del tempo. Si tratta di documenti indispensabili per definire lo stato di consistenza e di conservazione delle architetture stesse, con la definizione delle loro vicissitudini storiche dall’epoca della relativa edificazione a quella del rilevamento. Il rilevamento architettonico deve infatti consentire di analizzare le varie strutture architettoniche nella loro essenziale funzione portante o decorativa, di studiare le tecniche costruttive impiegate, la cronologia della loro edificazione, le eventuali evoluzioni stilistiche subite, la geometria delle

differenti forme e il corrispondente proporzionamento dimensionale, ma soprattutto permette l’”intuizione” progettuale. Tale rilevamento deve altresì permettere di sorvegliare e anche quantizzare le deformazioni in atto e gli eventuali movimenti strutturali, per prevenire i rischi di ulteriori degradi e di eventuali distruzioni per cause di carattere statico od ambientale. Il rilevamento si rende infine necessario per la memorizzazione delle architetture stesse, in quanto opere deperibili, per assicurarne il restauro conservativo o la parziale e totale ricostruzione, in caso di distruzioni per eventi bellici o calamità naturali. Il rilevamento architettonico si realizza sempre mediante due fasi operative distinte e concatenate che comportano, nell’ordine, l’acquisizione dei dati direttamente o indirettamente misurati sulle diverse strutture interessate, e la successiva restituzione per ricavarne le descrizioni grafiche e numeriche richieste.


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5. 6.

storia della fotografia

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Quando ancora non esisteva la fotografia, nel Settecento i vedutisti viaggiavano con pesanti apparecchiature, dette camere obscure; si sistemavano di fronte ad un monumento e documentavano quella veduta con un disegno, attinente il più possibile al vero. La volontà di riprodurre il reale è stata lo stimolo che ha portato l’uomo alla ricerca di procedimenti sempre più evoluti ed automatici per rappresentare ciò che aveva davanti agli occhi quotidianamente. La macchina obscura venne descritta con precisione da Leonardo: era un semplice parallelepipedo più o meno grande con il foro stenopeico nella parte anteriore. La propagazione rettilinea della luce generava sulla parete interna opposta al foro un’immagine rovesciata di tutto ciò che emetteva luce, propria o riflessa, al di fuori della scatola. Un foglio di carta, posto ad un’opportuna distanza, poteva ricevere l’immagine prospettica pronta per essere ricalcata, anche se rimaneva ancora da decidere avere, con un foro piccolo, una foto definita ma scura o, con un foro più grande, un’altra leggermente più chiara ma sfocata. William Hyde Wollaston (1766-1828), l’inventore della camera chiara, sentiva l’esigenza di trovare un sistema più «agile» per prendere appunti o per memorizzare durante i viaggi, un metodo che non lo costringessero a disegnare in loco, ma che in poche decine di minuti gli permettesse di acquisire una fetta di realtà, ma era deluso dai suoi risultati grafici dovuti soprattutto al tempo troppo lungo necessario per ottenerli. Joseph Nicéphore Niépce (1765-1833) studiò un sistema per riprodurre quelle litografie che avevano permesso la divulgazione dei disegni dei vedutisti. Componenti del disegno erano: il disegno originale, una lastra di peltro, il bitume di Giudea e non ultimo il Sole, l’entità capace di disegnare

su quel supporto in maniera obiettiva; per questo i prodotti vennero chiamati héliographie. Da questo tipo di stampa automatica al suo sfruttamento all’interno di una camera obscura il passo fu relativamente breve, dieci anni per dar vita alla «prospettiva automatica» o meglio al point de vue. La collaborazione di Niépce con Louis Jacques Mandé Daguerre (1787-1851) permise lo sviluppo della tecnica del daguérreotypo, la cui immagine era strabiliante per la perfezione dei dettagli, per la gamma tonale e per la profondità delle ombre, che davano una sensazione di tridimensionalità prodotta dalla superficie dell’argento placcato. La conoscenza dei successi di Daguerre in Francia spronò William Fox Talbot (18001877) a perfezionare la sua tecnica con cui era in grado di ottenere un’immagine positiva da un negativo. Egli chiamò le sue prime “miracolose” immagini, photogenic drawings, disegni generati dalla luce; e tanto grande era la loro bellezza, così intensa la gioia che generavano, che il nome fu mutato in calotype. Il disegno automatico doveva però essere ancora perfezionato, era necessario aumentarne definizione e resa tonale. I primi decenni di storia della fotografia vissero dunque dell’intreccio inscindibile tra ricerche tecniche e progressiva diffusione del mezzo. Man mano che le scoperte semplificavano l’utilizzo della macchina, permettevano l’abbassarsi dei costi di produzione e l’aumento delle copie disponibili sul mercato: la fotografia entrava così sempre più in ogni ambito della società e della vita quotidiana. Dalla metà dell’Ottocento si svilupparono nuovi utilizzi pratici della recente invenzione: la fotografia come industria e la fotografia come arte, a cui si aggiungeranno successivamente la fotografia scientifica – attraverso esperimenti sempre


più complessi Eadweard Muybridge (18301904) e Étienne Jules Marey (1830-1904) riuscirono ad immortalare i successivi stadi del movimento di un corpo – e quella di viaggio. Alcuni esempi sono sufficienti a chiarire questo punto fondamentale. La nascita della fotografia dà vita ad una nuova professione, quella del fotografo. In tutto il mondo nascono numerosi studi fotografici, tra i quali troviamo quelli di Nadar (18201910), di Léopold Ernest Mayer (18171865) & Pierre-Louis Pierson (1822-1913) e di Adolphe Eugène Disdéri (1819-1889). Questa proliferazione si spiega con il fatto che, nel giro di appena un decennio, il dagherrotipo viene sostituito con il procedimento al collodio umido, più rapido e tale da consentire la riproduzione di immagini su carta. Il fiorire di società di fotografi rese manifesto un ulteriore aspetto di questi anni: la fotografia non era più considerata solo una grande invenzione scientifica, né era solo un comodo sostituto del disegno, ma iniziava a diventare un linguaggio specifico, autonomo. Lo scontro con le “arti figurative” era inevitabile, coloro che ritenevano il disegno e la pittura riproduzioni fedeli della realtà, vedevano la fotografia come una rivale vincente: la realtà che si sovrapponeva alle misere capacità umane. La fotografia fu invece subito sfruttata vantaggiosamente da coloro che utilizzavano il disegno soprattutto per documentare. Sarà, questo, un lungo dibattito, al quale parteciperanno non solo i fotografi, ma tutti gli intellettuali del periodo: basti pensare alla famosa “scomunica” redatta dallo scrittore Charles Baudelaire (1821-1867) nel 1859, quando la fotografia fece il suo ingresso al Salon des Beaux Arts di Parigi:

«Bisogna dunque che essa ritor-

ni al suo vero compito, che è d’essere la serva delle scienze e delle arti, ma la più umile serva, come la stampa o la stenografia, che non hanno né creato né sostituito la letteratura .

»

Questa nuova invenzione non poteva essere ritenuta “realtà”, solo chi non la conosceva giudicava la novità dotata di virtù sovrannaturali; la fotografia in realtà era solo una nuova tecnica espressiva carica di potenzialità, con un proprio campo di applicazione. Anche chi ben conosceva la tecnica del disegno, non poteva non ammettere la grande velocità di registrazione della recente invenzione. Un atteggiamento intelligente e concreto fu quello di John Ruskin (1819-1900) che pur possedendo indubbie capacità grafiche, non rifiutava la fotografia, accettata con l’importante ruolo di “registratrice di immagini”; Ruskin riconosceva la diversità di questa tecnica e la collocava distante dall’ambito artistico in quanto priva di espressività, ma perfetta per la documentazione. L’immagine professionale appunta l’attenzione su facciate di chiese e palazzi, fotografate frontalmente o da limitate angolature, tentando comunque di inquadrare sempre la completezza del monumento. L’osservazione si concentra sui chiaroscuri che sono in grado di accentuare le volumetrie architettoniche, sulle inquadrature studiate nei minimi particolari e soprattutto sulle linee verticali rigidamente e rigorosamente parallele.

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Artefice della “canonizzazione professionale” delle linee verticali fu Leopoldo Alinari (1832-1865) che intorno al 1854 ideò un ingegnoso sistema per riprendere il campanile di Giotto a Firenze, lasciando il dorso della lastra sensibile in posizione verticale e basculando (decentrando e ruotando) la piastra porta ottica. Il metodo ebbe una grande fortuna, ancor oggi infatti non esiste pubblicazione scientifica su monumenti storici, le cui foto presentino linee verticali convergenti. In soli trent’anni di vita, la fotografia è passata dal rango di semplice curiosità scientifica a quello di elemento portante della conoscenza del mondo: è finita la breve stagione degli esordi ed iniziano gli anni della maturità. L’estrema praticità delle nuove tecniche ha come conseguenza immediata l’ulteriore diffusione di questa attività. Questa tendenza avrà il suo punto culminante nel 1888, quando George Eastman (1854-1932) immetterà sul mercato un nuovo prodotto, una macchina fotografica portatile, facilissima da usare: la Kodak. Ancora una volta, il mondo delle immagini è rivoluzionato, ne è una prova la pubblicità della macchina:

«You press the button, We do the rest»

(Voi premete il bottone, Noi facciamo il resto).

Nel frattempo, un altro fenomeno contribuiva a cambiare il volto e la visione del mondo. La stampa, anch’essa per lunghi secoli nelle mani di una ristretta cerchia sociale, diventa sempre più popolare, sempre più destinata ad un pubblico vasto ed indifferenziato. Il crescente perfezionamento delle tecniche di riproduzione delle immagini, contribuisce in maniera rilevante a questo

processo. Parallelamente all’evolversi della tecnica fotografica, si assiste infatti al costante sviluppo delle tecniche di stampa fotomeccanica. Nascerà presto la figura del fotoreporter. Già sul finire del secolo si assiste all’affermazione di alcuni autori – tra cui Jacob August Riis (1849-1914), Giuseppe Primoli (1851-1927) ed Adam Clark Vroman (1856-1914) – il cui scopo principale è quello di documentare i diversi aspetti della società contemporanea, la vita quotidiana e gli avvenimenti della storia o della cronaca, il volto delle città e i loro abitanti. Tre sono i punti principali che si possono evidenziare nel passaggio tra la fotografia dell’Ottocento e quella nel nuovo secolo: 1) il graduale passaggio dal pittorialismo alla fotografia “diretta”; 2) la presenza sempre più massiccia della fotografia come mezzo di comunicazione privilegiato, come autentico specchio della società; 3) il confronto ravvicinato con le avanguardie artistiche che dominano la scena dai primi anni del Novecento sino agli anni Trenta. Nel 1916, Paul Strand (1890-1976) espone per la prima volta le sue fotografie alla galleria “291”: figure e paesaggi raccontati con uno stile asciutto, attento alla precisione dei dettagli ma anche alla struttura complessiva dell’immagine, alla sua composizione. Ciò che maggiormente colpì i contemporanei fu l’assoluta chiarezza dell’immagine: Strand concepiva il mondo come un infinito bagaglio di forme rappresentabili, che non avevano bisogno di commento. Si trattasse del volto di una vecchia cieca o di una casa di campagna, Strand si limitava a scoprire, attraverso l’occhio della macchina fotografica, la verità di quell’immagine e i suoi possibili valori formali. Nel corso degli anni Venti, questa lezione viene elaborata da numerosi fotografi, primi tra tutti gli americani Edward Weston (1886-


1958) e Charles Sheeler (1883-1965). Nel 1932, venne pubblicato negli Stati Uniti un libro destinato a rimanere nella storia della fotografia del XX secolo: Men at work, un’ampia raccolta di immagini realizzate da Lewis Hine (1874-1940) per documentare le condizioni dei lavoratori di quel periodo. Il carattere di Hide è “asciutto” e oggettivo, privo della retorica che contraddistingueva agli inizi del secolo la documentazione fotografica delle classi più povere. Dall’altro lato, però, questa fotografia rischiava di trasformarsi in un puro gioco formale, in una ricerca del bello fine a se stessa, totalmente priva di rapporti con quella stessa realtà che andava riproducendo. La fotografia “diretta” richiedeva un altro elemento fondamentale, il perfetto dominio della tecnica. Come ha scritto Weston,

«se non riesco ad ottenere un

negativo tecnicamente perfetto, il valore emotivo o intellettuale della fotografia è per me quasi nullo .

»

Negli anni Venti e Trenta, la fotografia attraversò un’età d’oro, in cui ogni genere fotografico raggiunse vertici mai raggiunti prima, dalla fotografia sociale a quella pubblicitaria, da quella artistica a quella documentaria. Un anno cruciale per la storia della fotografia è il 1936: è questo infatti l’anno di fondazione della rivista “Life”, destinata a fare da modello per tutte le riviste illustrate nei due decenni successivi, nonché da palestra per tutta una generazione di fotoreporter. Ma il 1936 è anche l’anno in cui prende avvio la campagna fotografica sul territorio rurale americano, commissionata e finanziata dal governo centrale statuni-

tense attraverso un ente denominato “Farm Security Administration”, con l’intento di evidenziare le drammatiche condizioni in cui vivevano gli agricoltori in seguito alla grande crisi economica del 1929, e il conseguente, progressivo, abbandono delle campagne. Tra i numerosi fotografi che parteciparono a questo progetto, spiccano i nomi di Walker Evans (1903-1975) e Dorothea Lange (1895-1965). Gli ulteriori eventi che hanno contribuito a trasformare questi anni nella “stagione d’oro” del fotoreportage e della fotografia documentaria sono senza dubbio le drammatiche vicende belliche. Dapprima la guerra civile spagnola, poi il conflitto mondiale, hanno portato alla luce fotografi ormai divenuti leggendari, da Robert Capa (1913-1954) a Margaret Bourke-White (1904-1971), da William Eugene Smith (1918-1978) a Henri Cartier-Bresson (1908-2004). Nel periodo tra le due guerre, la fotografia attraversa la corrente delle avanguardie – i cui aspetti fondamentali sono l’intervento del caso e il rifiuto della tradizionale abilità tecnica – affermandosi come uno dei linguaggi che caratterizzeranno il XX secolo. Protagonisti indiscussi di questa nuova concezione della fotografia sono Man Ray (1890-1976) e Max Ernst (1891-1976). Anche la Russia ha vissuto la sua grande stagione delle avanguardie nei primi decenni del Novecento. Le avanguardie russe auspicavano una nuova società, nuovi ritmi e nuovi mezzi tecnologici a disposizione degli artisti. Le due tecniche maggiormente utilizzate erano il fotomontaggio e la ripresa non frontale. El Lissitzky (1890-1941) e Aleksandr Rodčenko (1891-1956) furono senza dubbio i maggiori rappresentanti di questa stagione: ambedue furono impegnati in diversi linguaggi artistici, dalla fotografia alla grafica, dalla pittura al cinema,

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secondo quella che è stata una caratteristica comune a molti protagonisti delle avanguardie, e che in Unione Sovietica ha avuto uno sviluppo ancora più accentuato. All’interno del Bauhaus – la celebre scuola d’arte fondata a Weimar nel 1919 dall’architetto Walter Gropius (1883-1969) – la fotografia ebbe un ruolo particolare. Essa infatti non fu materia di insegnamento primaria, ma la presenza di László MoholyNagy (1895-1947) in qualità di direttore del corso propedeutico e l’accentuata attenzione per le nuove forme di comunicazione visiva, permisero la nascita di diversi autori particolarmente significativi nel panorama della fotografia tra le due guerre. Al Bauhaus studiarono anche Lucia Moholy (1894-1989), moglie di László, e Paul Citroën (1896-1983), fotografo divenuto noto per i suoi collage composti di miriadi di immagini uguali ossessivamente ripetute sino a coprire un’intera superficie. L’immediato dopoguerra non vede cambiamenti sostanziali all’interno del linguaggio fotografico. Si assiste alla mitizzazione delle figure emerse nei decenni appena precedenti, e in particolare dei fotoreporter: Cartier-Bresson, Capa, Smith, Weegee raggiungono in questi anni i vertici della fama, anche grazie alla grande diffusione delle riviste illustrate. Nel 1947 questi fotografi creeranno a Parigi una delle più importanti agenzie fotografiche mai esistite, la Magnum. Sino a questo momento il bianco e nero ha dominato la scena fotografica. Esistono, in realtà, numerosi esempi di fotografie a colori realizzate già nell’Ottocento, ma i diversi procedimenti adottati sino agli anni Trenta del Novecento non permettevano una resa credibile e duratura del colore. Ma soprattutto, quel procedimento negativo-positivo che è stato determinante per la fusione capillare della fotografia, non era

applicabile nemmeno alle prime pellicole a colori come la “Kodachrome”, immessa sul mercato nel 1935. L’uso del colore, a partire dal 1947, porterà una rivoluzione nell’ambito dell’utilizzo quotidiano della fotografia: sarà, ad esempio, determinante per l’evoluzione dei giornali e della pubblicità, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta. Intorno alla metà degli anni Cinquanta, il mondo della fotografia vive una stagione di rinnovato fermento creativo, accompagnato dalle consuete discussioni sulla natura e sul ruolo di questo mezzo d’espressione. Protagonisti di questo periodo della storia della fotografia furono Edouard Boubat (19231999), Robert Doisneau (1912-1994) e Otto Steinert (1915-1978). Il confronto sempre più serrato con le altre arti, dalla pittura al cinema alla letteratura, e con gli altri campi della cultura, dalla filosofia alla sociologia, costringe i fotografi a riflettere non tanto sul rapporto più o meno stretto tra fotografia e realtà, ma sul significato stesso dei termini fotografia e realtà. Nessuno dei due può ormai avere un senso univoco, nessuno dei due può piegarsi ad una sola definizione. Allora, se è vero che la fotografia difficilmente può fare a meno della realtà, nessuno potrà più dire “questa è la realtà e questa fotografia è la testimonianza della sua esistenza”, ma dovrà invece affermare “questa è una realtà tra le tante possibili e questa fotografia è una delle interpretazioni che se ne possono dare”. O, almeno, questo sarà l’atteggiamento del pubblico più avvertito nei confronti di qualsiasi immagine fotografica. Il fenomeno culturale più significativo e ricco di conseguenze dei primi anni Sessanta è rappresentato senza dubbio dall’affermazione planetaria della Pop Art, che si caratterizza per l’uso di immagini e di modi espressivi tipici della cultura popola-


re, come i fumetti, la pubblicità e le grandi star del cinema. Andy Warhol (19281987), per fare un nome, realizza le sue infinite serie di ritratti di Marilyn Monroe servendosi di fotografie originali. L’idea di sequenza o di composizione di diverse fotografie diviene fondamentale nella storia della fotografia a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Esemplari a questo proposito sono le opere di autori come Dan Graham (1942), che realizza una personale schedatura delle tipologie abitative statunitensi, oppure Bill Beckley (1946), Jean Le Gac (1936) o Jochen Gerz (1940), che accompagnano le sequenze fotografiche con testi dal carattere esplicitamente narrativo. Se questo è il versante più sperimentale della ricerca fotografica, non bisogna dimenticare che in questi anni sono attivi autori che proseguono il linguaggio ereditato dalla tradizione, aggiungendovi una nuova sensibilità. Sono i casi di William Eggleston (1939), Ernst Haas (1921-1986) e Franco Fontana (1933), tra i primi a concepire il colore come autentico tramite per interpretare la realtà contemporanea. Non è facile sintetizzare ciò che sta accadendo sotto i nostri occhi. Gli elementi che per primi emergono ad una lettura di questi anni sono senza dubbio due: da un lato l’ulteriore successo della fotografia nell’ambito del panorama artistico contemporaneo, dall’altro il progresso della tecnica che, ancora una volta, incide profondamente sul linguaggio fotografico. I nuovi procedimenti di stampa, che permettono la realizzazione di immagini sempre più precise anche in formati abitualmente negati alla fotografia, le tecniche legate, sia in fase di ripresa sia in quella di stampa, al computer, hanno contribuito a modificare la figura stessa del fotografo e la sua collocazione all’interno del panorama artistico. Se oggi le fotografie

campeggiano sulle pareti dei musei di tutto il mondo, dipende anche dal fatto, all’apparenza banale, che esse possono competere anche sul piano del formato, e quindi della spettacolarità, con le dimensioni dei dipinti, sino a pochi anni fa unici depositari delle grandi misure. Nella società contemporanea, dove la visione è sempre più affidata a sguardi rapidi e poco approfonditi, e in cui la spettacolarizzazione dell’immagine è divenuta una non sempre condivisibile prassi che segue i ritmi e i tempi del mezzo televisivo, anche questo aspetto dimensionale ha una sua rilevanza. Accanto a ciò, va tenuto conto della grande diffusione e sviluppo delle nuove strumentazioni tecnologiche che permettono di manipolare all’infinito l’immagine, con la sostanziale perdita di significato del concetto di “negativo originale”, e del conseguente, ulteriore ampliarsi del concetto di fotografia. Se da una parte troviamo fotografi che si operano al confine tra l’invenzione e la documentazione, dall’altra ci sono autori che continuano a privilegiare una fotografia legata al dato di realtà. Per sua natura, come abbiamo visto, la fotografia rifletteva sin dalla sua origine sia intorno alla propria funzione all’interno della società, sia riguardo al problema della rappresentazione più o meno fedele del reale. Vincenzo Carrese (1910-1981) e i fotografi di Publifoto hanno indicato la strada al moderno fotogiornalismo, attraverso immagini ormai storiche dell’Italia del dopoguerra e dei suoi nuovi miti, da Fausto Coppi a Sofia Loren, dalla Fiat 500 alla Vespa. Documentando anche i simboli della rinascita e della modernizzazione del paese, dalla riapertura del Teatro alla Scala di Milano, alla costruzione del grattacielo Pirelli, sempre a Milano, o dell’elettrodotto che attraversa lo stretto di Messina.

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Il fotoreportage raggiunse i suoi esiti più alti nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta: le immagini di Gianni Berengo Gardin (1930) e Mario Carrieri (1932) dedicate all’Italia in via di trasformazione, caratterizzate da uno sguardo insieme acuto e affettuoso; o le opere di Ferdinando Scianna (1943), che colgono invece la persistenza di alcuni aspetti tipici del territorio siciliano, quali la profonda religiosità, e corrispondono all’evoluzione della fotografia documentaria. Infine, non si può dimenticare che questa eccezionale fioritura di talenti nasca e si evolva contemporaneamente alla realizzazione di alcuni dei grandi film italiani del secolo, come Ladri di biciclette o Miracolo a Milano di Vittorio de Sica (1901-1974). Figura emblematica per la storia della fotografia in Italia è Ugo Mulas (19281973), le cui sequenze non riprendono più l’artista secondo i canoni classici del ritratto, ma lo colgono nel momento dell’azione: la fotografia diviene documentazione non dell’opera o dell’autore, ma interpretazione delle intenzioni dell’artista. Esemplare a questo proposito è la straordinaria e famosissima sequenza che vede l’artista Lucio Fontana (1899-1968) nell’atto di realizzare uno dei “tagli” nella tela che lo hanno reso celebre. Tra le tante opere realizzate nel corso degli anni Settanta, alcune appartengono ad autori i cui modi espressivi sono tipici


dell’area concettuale: il frequente ricorso alla sequenza di immagini, fino a creare, in alcuni casi, un vero e proprio racconto e l’accompagnamento dell’opera con testi scritti; l’attenzione rivolta al processo di costruzione dell’opera, che spesso diventa ancora più importante dell’opera stessa. Mentre la tendenza concettuale si diffonde nei primi anni Settanta sino a diventare un fenomeno di moda, altri fotografi emergono con grande autorità, dando la propria impronta agli anni immediatamente successivi, impegnati in una rielaborazione in chiave contemporanea della fotografia documentaria. Si tratta di Luigi Ghirri (1943-1992), Mimmo Jodice (1934) e Gabriele Basilico (1944). Il soggetto centrale, anche se non esclusivo, delle loro ricerche è il paesaggio, la sua lettura fotografica sempre in bilico tra espressione delle proprie emozioni e analisi antropologica. Questi autori rilevano i mutamenti intervenuti nel territorio italiano a partire dagli anni Sessanta, dai fenomeni di urbanizzazione alla nascita di un terziario avanzato, sino la rischio della totale perdita d’identità dei luoghi e dei loro abitanti. Il punto d’incontro di questi autori è stato una straordinaria campagna fotografica del 1979, dal titolo “Viaggio in Italia”, coordinata da Luigi Ghirri e Gianni Celati (1937). Ognuno di questi fotografi ha, naturalmente, sviluppato una poetica ben riconoscibile.

Ghirri è riuscito a documentare attraverso i segni minimi della quotidianità la vita degli uomini e delle cose; Basilico ha realizzato una mirabile serie nel 1979-80 dal titolo Milano: ritratti di fabbriche, in cui ha innovato radicalmente la fotografia di architettura italiana attraverso un’oggettività che non rinuncia all’adesione anche affettiva alle forme e alle strutture degli edifici; Jodice, infine, ha riletto in chiave contemporanea la millenaria cultura mediterranea nella quale è nato e cresciuto, riuscendo a dare nuova vita ad immagini all’apparenza già viste e conosciute. A fianco e sulla scia di questi tre maestri si possono ricordare altre personalità come Guido Guidi (1941), che rompe l’unità del paesaggio in sequenze ricche di suggestioni mentali, di Vincenzo Castella (1952) e Giovanni Chiaramonte (1948), più vicini al lirismo di Ghirri, e infine dei più giovani Andrea Abati (1952) e Olivo Barbieri (1954), che forzano il colore sino a giungere ad effetti di straniata visionarietà. Sfuggita al suo ruolo di parente povero delle arti maggiori, oggi anche la fotografia italiana può dedicarsi ad una rivisitazione complessiva della sua storia, non più concepita come un puro susseguirsi di personalità più o meno significative, ma come uno degli strumenti privilegiati per penetrare nella storia e nelle pieghe di un’intera società, per leggerne i mutamenti conservando la memoria del passato.

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BREVE STORIA DELLA FOTOGRAFIA DIGITALE Come si è visto, fino a pochi anni fa la fotografia d’architettura era considerata prerogativa del grande formato, l’unico ritenuto in grado di poter soddisfare le esigenze di qualità e nitidezza dell’immagine. Tutto ciò che abbiamo detto finora appartiene al passato e al presente della fotografia, alla sua storia e al nostro possibile utilizzo quotidiano. Ma il futuro, che è già presente, appartiene alla nuova generazione di macchine fotografiche, quelle cosiddette digitali. La rivoluzione che queste macchine portano con sé è paragonabile, e parallela, a quella avvenuta con la diffusione dei computer all’interno della nostra vita quotidiana. Se si volesse tentare un paragone con la pratica della scrittura, come abbiamo già fatto in precedenza, si potrebbe dire che così come si è passati dalla scrittura a mano all’utilizzo della macchina da scrivere e infine si è giunti al computer, allo stesso modo si è passati dalle prime «scatole» fotografiche alle macchine automatiche fino alle odierne digitali. Queste nuove macchine, servendosi per l’appunto della tecnologia digitale, consentono di riprodurre, archiviare, manipolare le immagini su un dischetto, e di rivederle poi sullo schermo del computer. È facile comprendere come queste innova-

zioni portino ad una rivoluzione nel modo quotidiano di vivere la fotografia: non più le piccole stampe che passano di mano in mano e poi sono raccolte in album – nel caso del più frequente utilizzo familiare – e neppure più negativi da conservare per poter poi ristampare le immagini, ma fotografie contenute dentro un supporto digitale, che possono essere viste anche senza essere stampate e che possono essere trasmesse da un computer all’altro infinite volte. Insomma, la rivoluzione tecnologica che ha toccato tutti gli aspetti della vita, non poteva non toccare anche il mondo della fotografia, che sulla comunicazione, e sui suoi mutamenti, ha sempre basato la propria esistenza. La fotocamera digitale ha iniziato a farsi largo nel panorama fotografico negli ultimi anni del novecento e spopolato in questi tempi. Nel 1975 il ricercatore Steve Sasson sviluppò per Kodak la prima macchina fotografica digitale. Era uno strumento non facilmente trasportabile e con tempi di salvataggio dei file decisamente lunghi, occorrevano infatti 23 secondi per archiviare un’immagine in bianco e nero e trasferirla sul supporto magnetico di memoria: una normalissima cassetta audio. L’immagine veniva digitalizzata attraverso uno dei primissimi sensori CCD (chargecoupled device) ed era poi necessario un mi-


crocomputer per effettuare il collegamento alla macchina fotografica e visualizzare l’immagine su uno schermo televisivo. Il prodotto non venne mai messo in commercio, ma è quasi profetico il titolo che Kodak, primo produttore mondiale di pellicole, diede alla conferenza di presentazione della macchina di Sasson: «film-less photography» (fotografia senza pellicola), soprattutto vedendo in prospettiva il crollo di vendite di rullini fotografici e la difficile transizione verso il digitale in cui è impegnata l’azienda in questi ultimi anni per non soccombere al mercato globale. Attirando l’interesse di un mercato ormai avvezzo al computer e alle nuove tecnologie, la fotografia digitale è oggi in grado di soddisfare quasi tutte le esigenze di riproduzione, con un rapporto costo-prestazione sempre più a favore dell’utente. Una macchina fotografica digitale non si discosta molto, almeno all’apparenza, da una macchina tradizionale: obiettivi, mirino, pulsante per scattare, flash, tutti questi elementi non sono sostituibili. Ciò che si modifica radicalmente è il «luogo» sul quale l’immagine si deposita: non più la tradizionale pellicola, ma su un dispositivo a carica doppia (denominato CCD) che riversa la luce su un dischetto, dopo aver creato l’immagine su una sorta di schermo elettronico.

La qualità dell’immagine ottenuta è molto alta, anche se è difficile confrontarla con quella tradizionale. È indubbio che la resa puramente tecnica dell’immagine digitale sia molto migliore di quella analogica, ma è altrettanto vero che la tecnologia fa perdere alcuni elementi dell’immagine che sono ottenibili solo attraverso le tecniche e ei materiali del passato: ognuno potrà così scegliere quale strumento utilizzare per scattare una fotografia. Ci sono oggi fondamentalmente due posizioni rispetto al tema del passaggio dall’analogico al digitale in fotografia: c’è chi pensa che sia in atto «la fine della fotografia (come la conosciamo)», e chi pensa che stiamo assistendo all’ennesima innovazione tecnica che a nulla di nuovo porta, se non alla possibilità di godere di una semplificazione e di una maggiore accessibilità al mezzo. Ma il problema attuale non riguarda tanto l’acquisizione della nuova tecnica, data ormai per scontata – se non altro perché il mercato dei materiali fotografici costringe a farlo –, ma piuttosto riguarda la riconfigurazione del rapporto con il soggetto fotografato, l’influenza concreta delle nuove caratteristiche del mezzo digitale sull’approccio al «progetto fotografico», dall’inquadratura, alla selezione, all’editing; e riguarda ancor di più il nuovo (?) ruolo del fotografo.

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6.

protagonisti e opere

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«Negli autori più profondamen-

te consapevoli ed impegnati, non è raro che la rappresentazione assuma il ruolo di autonoma ricerca, di elaborazione teorica ed estetica, senza tuttavia mai perdere l’indispensabile e fecondo contatto con il doppio referente – discorsivo e materico – dello spazio architettonico. Emerge allora chiaramente come il disegno [ e la fotografia], in questi casi, non si limiti alla mera riproduzione dell’immagine, ma costituisca il momento di sviluppo e condensazione di un lavoro specificamente disciplinare .

»

È inevitabile che la fotografia costituisca un piano di lettura estetico, essendo il fotografo un autore che si esprime con un suo linguaggio. Come per la pittura o la letteratura, anche per la fotografia dobbiamo comprendere innanzitutto le modalità di costruzione di un linguaggio: le intenzioni dell’autore, le sue attitudini, la sua personalità, la sua cultura specifica, i suoi rapporti con gli altri autori. Spesso un fotografo, non diversamente da un architetto, si aggira nel mondo alla ricerca di eidola che già possiede nella sua memoria. Può muoversi sulle orme di un autore, di un maestro della fotografia, cercare luoghi tipici e cercare certe figure. Anche per la fotografia distinguiamo periodi, autori, influenze, tecniche, ideologie. Questa selezione di fotografi ed opere è un tentativo di comprensione del quadro generale del linguaggio fotografico, uno scenario complesso e per alcuni versi ancora confuso, ricco di voci, di personalità, di episodi conosciutissimi e di altri quasi inediti.

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N. NiĂŠpce, Veduta da una finestra della casa di Gras, Austin, Texas, 1826


6.1 Nicéphore Niépce

La veduta dalla finestra di Gras è un’immagine estremamente semplice e testimonia in maniera esemplare come l’interesse di Niépce non sia di carattere estetico, ma tecnico. Gli elementi della composizione rispondono appieno alle descrizioni che Niépce fa al fratello Claude del luogo dove egli cerca di fissare l’immagine attraverso l’azione della luce: sulla sinistra la piccionaia poi, muovendo l’occhio verso destra, un albero sullo sfondo, il tetto del granaio, il forno – del quale si riconosce anche il comignolo – e infine una parte della casa dei Niépce. Ciò che più impressiona di questa immagine, è il fatto che il sole colpisce in maniera eguale i due lati degli edifici: l’esposizione di questa lastra durò per ben otto ore, tempo durante il quale il sole compie un ampio movimento da est a ovest. Se si considera, inoltre, che destra e sinistra sono rovesciate specularmente, risulta chiaro come la “realtà” di questa immagine sia del tutto relativa allo stato delle conoscenze del momento e che la sua importanza va considerata soprattutto dal punto di vista tecnico.

Joseph Nicéphore Niépce nasce a Chalonsur-Saone in Francia nel 1765. Di condizioni sociali sufficientemente agiate, dedica l’intera vita alla sperimentazione nei più diversi campi della tecnica, sempre in collaborazione con il fratello Claude. Già nel 1807 i due fratelli brevettano un particolare tipo di motore, chiamato “Pireoloforo”, con il quale fanno navigare una barca sul fiume Saone. Ma il vero, grande interesse di Nicéphore Niépce è quello di perfezionare il metodo di fissaggio delle immagini ottenute attraverso l’uso della camera oscura, senza l’intervento manuale. Dopo numerosi tentativi, iniziati intorno al 1816, Niépce riesce ad ottenere i primi concreti risultati nel 1826, quando realizza un’”eliografia”, che riproduce un’incisione del XVII secolo di Isaac Briot. Incoraggiato da questo risultato, Niépce prosegue nelle sue ricerche fino a quando, l’anno successivo, è in grado di fissare su una lastra di peltro un’immagine presa dalla finestra della sua camera: per quanto oggi di difficile decifrazione, questa è considerata la prima vera fotografia della storia. Nello stesso anno si reca a Londra per incontrare il fratello; durante il viaggio incontra a Parigi il pittore Louis-Jacques-Mandé Daguerre, anch’egli impegnato in esperimenti fotografici. Non trovando in Inghilterra alcun concreto interesse per le sue ricerche, Niépce ritorna in Francia, dove nel 1829 stende un contratto societario con Daguerre, relativo al perfezionamento e allo sfruttamento dell’invenzione. Niépce muore nel 1833; in seguito, Daguerre apporta notevoli miglioramenti al procedimento di Niépce e brevetta nel 1839 il “dagherrotipo”, diventando ufficialmente “l’inventore della fotografia”.

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L. J. M. Daguerre, Parigi, Boulevard du Temple, 1838


6.2 Louis-Jacques-Mandé Daguer re

Come è facile comprendere confrontando questa immagine con quella di Niépce citata prima, è chiaro che nel corso di dieci anni la tecnica fotografica aveva compiuto passi da gigante. Mentre gli edifici ripresi da Niépce sono quasi irriconoscibili, la strada riprodotta da Daguerre è pienamente leggibile, sin nei minimi particolari. Una testimonianza del tempo esemplifica lo stupore dei contemporanei di fronte a questi risultati:

«È impossibile immaginare la

squisita minuziosità del disegno. Mai nessun dipinto, nessuna incisione poté avvicinarvisi. Per esempio: nella veduta di una strada, è possibile discernere un’insegna lontana, e l’occhio percepisce che vi è una scritta sopra, ma i caratteri sono così piccoli che non è possibile leggerli ad occhio nudo. Con l’aiuto di una lente potente, capace di cinquanta ingrandimenti, ogni lettera divenne chiaramente e distintamente leggibile, e così pure le minime screpolature e i più piccoli segni sulle pareti degli edifici, e perfino la pavimentazione delle strade .

»

In questa ripresa di un boulevard parigino è curioso notare le uniche figure umane riconoscibili, in basso a sinistra. Si tratta di un lustrascarpe e di un suo cliente, le cui fattezze si sono impresse sulla lastra grazie alla loro momentanea immobilità, al contrario dei pedoni e delle carrozze che affollavano in quel momento la strada, ma che lo strumento ancora primitivo di Daguerre non riusciva a fissare.

Louis-Jacques-Mandé Daguerre nasce a Cormeilles-en-Paris, in Francia, nel 1787. Inizia la sua attività come pittore e disegnatore di scenografie. Nel 1822, in società con Charles Marie Bouton – pittore, allievo di Jacques Louis David – dà vita a una forma di spettacolo che avrà un grande successo, il “Diorama”. In un ambiente circolare, vengono poste delle scenografie di grandissime dimensioni, che ritraggono con straordinaria verosimiglianza luoghi celebri, paesaggi naturali o città. Anche a seguito di questa attività, per migliorare ancor più la veridicità dei suoi “Diorama”, Daguerre si dedica alla ricerca sui materiali fotosensibili e nel 1829 si lega con un contratto a Niépce, del quale ha conosciuto i recenti successi nel campo dell’eliografia. Dopo la morte di Niépce, Daguerre prosegue da solo le sue ricerche fino a quando, nel 1839, non è in grado di presentare i risultati delle sue sperimentazioni all’Accademia delle Scienze di Parigi. Nello stesso anno, dopo che un incendio ha distrutto il suo “Diorama”, Daguerre si dedica a tempo pieno al perfezionamento, allo sfruttamento economico e alla diffusione della sua scoperta. Ottiene un sussidio dallo stato, dà alle stampe un manuale di utilizzo del dagherrotipo (questo il nome dell’immagine fotografica brevettata da Daguerre), che viene immediatamente pubblicato in trenta edizioni, infine brevetta e commercializza, insieme al cognato Alphonse Giroux, gli apparecchi e l’attrezzatura necessaria per realizzare i dagherrotipi. Nonostante questa opera di pubblicizzazione, lo strumento rimane di non facile utilizzo, soprattutto perché richiede lunghissimi tempi di posa, e questo ne rallenta la pur ampia diffusione. Ma Daguerre non si preoccupa delle necessarie migliorie dello strumento: ritorna alla pittura, sua attività giovanile, e muore a Bry-sur-Marne nel 1851.

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W. H. F. Talbot, Calotype, 1845 ca.


6.3 William Henr y Fox Talbot

I soggetti preferiti da Fox Talbot furono soprattutto due: la tenuta di Lacock Abbey, dove il fotografo viveva e lavorava, e le nature morte. A questo secondo genere appartiene questo calotipo. Come in ogni immagine che testimonia i primi passi della tecnica fotografica, si trovano qui riunite due esigenze all’apparenza contrapposte. Da un lato, infatti, la fotografia è semplicemente il documento di una particolare porzione di realtà, riprodotta senza l’intervento manuale dell’autore, e dunque la testimonianza di un esperimento riuscito. Dall’altro lato, però, l’immagine corrisponde ad una serie di necessità estetiche che sono altrettanto riconoscibili. Le suppellettili sono infatti disposte sulle mensole secondo un ordine simmetrico preciso, senza alcuna casualità, il che dimostra come gli oggetti siano stati posizionati dall’autore per creare una composizione. Composizione che rimanda alla grande tradizione della natura morta, un genere pittorico che sin dai primi anni del Seicento godeva di grande favore tra gli artisti e tra il pubblico. Sebbene lo scopo di Fox Talbot fosse quello di ottenere un’immagine il più chiara e più riconoscibile possibile, i limiti tecnici e il trascorrere del tempo hanno reso queste prove evanescenti, come se fossero sul punto di scomparire. È anche questa imperfezione, che sembra lasciare sulla superficie la traccia degli anni, a rendere ancora più affascinanti, oggi, le immagini dei pionieri della fotografia, che sono insieme opere d'arte e ricordi di un passato ormai lontano.

William Henry Fox Talbot nasce a Melbury in Inghilterra nel 1800. Si dedica alla fotografia mosso da interessi di ordine scientifico ed artistico. Diplomato all’Università di Cambridge nel 1826, membro della Royal Society – la più prestigiosa istituzione scientifica inglese del periodo – dal 1832, inizia nel 1833 a misurarsi con i problemi della camera oscura, durante un viaggio in Italia. I primi disegni fotogenici risalgono alla metà del decennio, quando Talbot scopre il procedimento per ottenere un’immagine positiva da un negativo. Sebbene non compiuti, questi esperimenti sono di fondamentale importanza per la storia e l’evoluzione successiva della fotografia. Venuto a conoscenza dei contemporanei esperimenti di Daguerre, Talbot si affretta a presentare il 25 gennaio del 1839 i risultati delle sue ricerche alla Royal Institution di Londra. Dopo due anni, può annunciare ufficialmente di avere perfezionato la tecnica del disegno fotogenico, cui dà ora il nome di “calotipo” (dal greco kalòs, che significa bello). Insieme a questo annuncio, decide anche di brevettare, almeno per l’Inghilterra, l’invenzione: poiché Talbot sarà molto rigido nel fare osservare questo brevetto, e nel richiedere i diritti a chiunque volesse usare questa tecnica, paradossalmente il calotipo avrà inizialmente più fortuna in Francia che nella sua terra d’origine. Nel 1844 dà il via alla pubblicazione della sua opera principale, The pencil of nature, un volume che riunisce ventiquattro opere accompagnate da diversi testi di commento alle immagini. Nel 1852 Talbot rinuncia infine ad una parte dei diritti sul calotipo e inizia a dedicarsi ad un’altra fondamentale sperimentazione, quella sulla riproduzione fotomeccanica delle immagini. Infine, abbandona queste ricerche e torna agli studi archeologici che lo avevano interessato in gioventù. Muore a Lacock Abbey nel 1877.

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Nadar (G. F. Tournachon), Ritratto di Sarah Bernhardt, 1886


6.4 Nadar

In questo ritratto di Sarah Ber nhardt, l’attrice teatrale più celebre della seconda metà del XIX secolo, si trovano riunite tutte le caratteristiche della ritrattistica di Nadar. In primo luogo è da evidenziare l’estrema essenzialità dell’immagine, costituita solo dalla figura e dalla “colonna” su cui poggia il braccio destro. Tale semplicità compositiva deriva soprattutto dalla scelta di Nadar di avvalersi di un fondale scuro, che concentra tutta l’attenzione dello spettatore sul soggetto. In questa scelta Nadar rivela appieno la sua originalità nel panorama della fotografia di ritratto di questi anni: la consuetudine del periodo è, infatti, quella di ambientare la figura accompagnandola con fondali dipinti, abbigliamenti e arredi, così da creare un’autentica scenografia nella quale immergere il soggetto. Nadar preferisce invece una visione spoglia, in grado di evidenziare al massimo l’espressione del viso e del corpo del modello; allo stesso modo, rifiuta un’altra prassi caratteristica degli studi fotografici del tempo, quella di ritoccare la fotografia a mano, in maniera da accentuare o nascondere alcune caratteristiche dell’immagine. Per Nadar, la fotografia non deve ricorrere ad alcun espediente che non sia specificamente fotografico e quindi dedica una grande attenzione all’illuminazione, che cala dall’alto di un lucernario, e alla posa, che in genere, come in questo caso, è di tre quarti. La grande semplicità di questa composizione permette quindi di concentrarsi sull’unico elemento veramente importante del ritratto, vale a dire lo sguardo dell’attrice, indirizzato direttamente negli occhi dello spettatore.

Nato nel 1820 a Parigi, Nadar (pseudonimo di Félix Tournachon) è una figura caratteristica della cultura francese della seconda metà dell’Ottocento. Dapprima si dedica all’illustrazione, in particolare quella satirica, realizzando un capolavoro come il Panthéon Nadar, raccolta di oltre 300 ritratti caricaturali di personaggi pubblici del periodo. A seguito di questa esperienza, si avvicina alla fotografia, divenendo uno dei ritrattisti più noti del paese. Negli anni Sessanta il suo studio fotografico, fondato nel 1856 e situato nel centralissimo Boulevard des Capucines, arriva ad avere ben ventisei dipendenti, tra i quali anche il figlio Paul, destinato a sua volta ad essere un ottimo ritrattista. Ma gli interessi di Nadar non si limitano alla gestione dell’avviata attività commerciale: attraverso le sue caricature si impegna politicamente a fianco dei repubblicani liberali, continuando nel medesimo tempo le sperimentazioni fotografiche. Nel 1858 realizza una straordinaria serie di riprese dal pallone aerostatico, congiungendo così le sue due grandi passioni, la fotografia e il volo. Nello stesso tempo, esegue un ampio lavoro di documentazione sul sottosuolo di Parigi, utilizzando anche le sue conoscenze sull’uso della luce artificiale, allo studio della quale si dedica da diversi anni. La sua fortuna inizia a scemare nel 1870, a causa della crisi successiva alla guerra franco-prussiana; nel 1900 un’importante mostra all’interno dell’Esposizione Nazionale riporta l’attenzione su questo grande protagonista della fotografia dell’Ottocento. Nadar muore a Parigi nel 1910.

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L. Hine, Powerhouse Mechanic and Steam Pump, 1920


6.5 Lewis Hine

«Questo è un libro sugli “Uomi-

ni al lavoro”; uomini coraggiosi, duri, che rischiano e sono ricchi di immaginazione. Le città non si costruiscono da sole, le macchine non possono costruire le macchine, se dietro di loro non ci sono il cervello e gli strumenti dell’uomo. Noi chiamiamo questa l’Età della Macchina, ma più macchine usiamo, più abbiamo bisogno di uomini che le costruiscano e le guidino […]. lo vi porterò nel cuore dell’industria moderna dove vengono costruite le macchine e i grattacieli, dove il carattere dell’uomo è messo nei motori, negli aeroplani, nelle dinamo dalle quali dipendono la vita e la felicità di milioni di noi .

»

Così scriveva Lewis Hine nell’introduzione del libro Men at Work, dal quale questa immagine è tratta. E in effetti è facile riconoscere in questa fotografia l’intento che guidava l’autore: non semplicemente un reportage sull’industria americana del tempo, ma un vero e proprio inno agli uomini che vi lavoravano. Due elementi caratterizzano l’immagine in maniera pressoché totale; da un lato la forte presenza della macchina, del prodotto dell’ingegno umano che a sua volta è destinato a servire – o ad asservire – l’uomo; dall’altro il corpo, co-protagonista di questa rappresentazione. La macchina non è vista come nemica, ma, anzi, è interpretata nella sua meccanica bellezza formale, come del resto accade in numerose fotografie dell’industria di questo periodo. A sua volta l’uomo non è, come nella realtà,

un operaio sfiancato dalla fatica, ma è una sorta di eroe moderno, del quale è messa in rilievo la forza fisica dirompente, in grado di domare lo strumento. Si assiste qui ad un processo di idealizzazione del lavoratore americano che ha il suo paradossale corrispettivo in quello che negli stessi anni era in corso nell’Unione Sovietica. Il passaggio dalla denuncia al riconoscimento è evidente nel percorso di Hine: mentre le prime fotografie documentano una situazione di totale degrado, le ultime esaltano la figura dell’operaio come costruttore della nuova città, come parte fondamentale e positiva di un progresso tecnico che è – o almeno vuole essere – anche un progresso civile. Lewis Hine nasce nel 1874 a Oshkosh, negli Stati Uniti. Nel 1901 inizia ad insegnare alla Ethical Cultural School di New York, dove avrà tra i suoi allievi anche Paul Strand; contemporaneamente, intraprende studi di sociologia e pedagogia alla Columbia University. Inizia a fotografare in questi anni, e nel 1904 utilizza il mezzo fotografico per realizzare immagini di documentazione e di denuncia, accompagnandole con scritti e riflessioni teoriche. Tra il 1904 e il 1916 realizza servizi sugli immigrati e sul lavoro infantile, contribuendo alla nascita di nuove leggi sul lavoro minorile. Del 1918 è un’ampia documentazione sull’opera della Croce Rossa statunitense in Europa. Dall’inizio degli anni Venti e per oltre un decennio si dedica interamente a fotografare la classe operaia americana sui luoghi di lavoro. Nel 1932 riunisce una selezione di queste immagini in un famosissimo volume, Men at Work (Uomini al lavoro). Esemplare è la parte dedicata alla costruzione dell’Empire State Building – concluso nel 1931 – che Hine segue quotidianamente, vivendo fianco a fianco con i lavoratori. Hine muore a New York nel 1940.

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Man Ray, Rayograph, 1921


6.6 Man Ray

Nell’introduzione alla cartella Les Champs délicieux (I campi deliziosi), che conteneva questo rayograph , Tristan Tzara scrive che gli oggetti di Man Ray si trovano

«in un mondo senza latitudine

né longitudine, in una particella di quell’infinito che, aperto ad alcuni, è la scusa più commovente che l’età moderna può ancora darsi per giustificare la propria attitudine a produrre . Con queste parole,

»

l’animatore del dadaismo individua con chiarezza gli elementi primari dei rayographs e di quel clima artistico. Un pettine, un rasoio e altri oggetti non più identificabili fluttuano, come in un sogno, in uno spazio indefinito, nato dall’azione della luce sulla

«È la luce che crea. lo mi siedo davanti al foglio di carta sensibile e penso» carta sensibile.

. Nel rayograph la scelta e la disposizione degli oggetti sono casuali. La luce e le cose sono, dunque, gli autentici protagonisti dell’immagine. Il pettine, il rasoio, diventano il soggetto attivo della composizione, non sono più lo strumento passivo nelle mani dell’artista. Il quale diventa a sua volta osservatore, spettatore, che attende il formarsi dell’immagine. La grande originalità dei rayographs di Man Ray sta in questa capacità di utilizzare gli strumenti originari della fotografia per dare vita a immagini inedite; la stessa indifferenza che l’autore prova nei confronti di alcune categorie formali come “astrazione” e “figurazione” è a questo proposito significativa. Per Man Ray ha poca importanza quanto l’oggetto sia riconoscibile, poiché ciò che conta è suggerire le infinite potenzialità che si trovano nella realtà, e le tante possibilità di metamorfosi del mondo e delle forme che lo compongono.

Man Ray (il cui vero nome è Emmanuel Radnitzky) nasce a Philadelphia negli Stati Uniti nel 1890. Si avvicina negli anni Dieci all’ambiente artistico di New York, dove diviene uno dei protagonisti dell’avventura dadaista locale. Fonda insieme a Marcel Duchamp e a Walter Arensberg la “Society of Independent Artists” e nel 1920 realizza le sue prime fotografie creative, di carattere dadaista. Nello stesso anno si trasferisce a Parigi e diventa ben presto uno dei protagonisti della stagione delle Avanguardie, in particolare del surrealismo. Pittori come Pablo Picasso, Henri Matisse, Joan Miro, Salvador Dalf, René Magritte, Max Ernst; scrittori come André Breton, Louis Aragon, Marcel Proust; musicisti come Eric Satie, Igor Stravinskii, Francis Poulenc; registi come Louis Bunuel e René Clair, tutti sono passati da Parigi e tutti si sono fermati davanti alla macchina fotografica di Man Ray. Nel 1921 egli “scopre” i rayographs, immagini ottenute senza l’uso della macchina fotografica, che gli varranno l’attenzione di Tristan Tzara, teorico principale del dadaismo. Man Ray rifiuta qualsiasi specializzazione tecnica e linguistica, a fianco della fotografia utilizza anche gli strumenti tradizionali della pittura, realizza sculture rielaborando oggetti comuni; si misura anche con il cinema, realizzando, nel corso degli anni Venti, alcuni cortometraggi. Nel decennio successivo è tra i principali promotori di alcune iniziative surrealiste sia nel campo dell’editoria sia nell’organizzazione di esposizioni ed eventi artistici. Nel 1940, in seguito all’invasione nazista della Francia, Man Ray si rifugia prima a Lisbona e poi fa ritorno negli Stati Uniti, dove rimane sino al 1950, dedicandosi anche all’insegnamento della fotografia. Nel 1950 ritorna in Francia, continuando a lavorare sino alla morte, avvenuta a Parigi nel 1976.

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A. Rodcenko, Scala antincendio, 1925 Gathering for the demonstration, 1928 On the telephone, 1928


6.7 Aleksandr Rodčenko

Aleksandr Rodčenko nasce a San Pietroburgo in Russia nel 1891. Dal 1910 al 1914 frequenta la scuola d’arte di Kazan, dove conosce Barbara Stepanova, che sposerà più tardi. Nel 1915 è a Mosca e partecipa alle prime manifestazioni dell’Avanguardia artistica russa; dopo la rivoluzione è particolarmente attivo nell’ambito della divulgazione dei nuovi ideali socialisti. La sua attività artistica si svolge in diversi ambiti, dalla pittura alla grafica, dal design alla fotografia. Fondamentale è anche la sua attività di organizzatore culturale. Nel 1920 inizia l’insegnamento al VCHUTEMAS (Laboratori tecnico-artistici superiori). In questi anni di febbrile attività realizza alcuni dei suoi più celebri fotomontaggi. Nel 1924 inizia a fotografare e dal 1928 abbandona definitivamente la pittura per la fotografia. Nel 1925 progetta il celebre “Club operaio”, modello di una sala di ritrovo per operai, che verrà presentato nel Padiglione dell’Unione Sovietica all’Esposizione Internazionale di Arti Decorative e Industriali a Parigi. Negli stessi anni realizza insieme al poeta Vladimir Majakovskij una serie di campagne pubblicitarie, con lo scopo di diffondere tra la popolazione sovietica la conoscenza delle nuove scoperte in ambito culturale, scientifico e sanitario. Contemporaneamente collabora con la moglie alla realizzazione di costumi e bozzetti per il teatro. Per comprendere le vicende di Rodčenko e dell’Avanguardia russa è necessario ricordare che questi artisti operano all’interno di un paese, l’Unione Sovietica, che nel 1917 è stato teatro di una grande rivoluzione politica e sociale. Gli artisti si sentono immediatamente coinvolti in questo processo rivoluzionario, immaginando che il rinnovamento sociale e politico vada di pari passo con il rinnovamento culturale. Pittori e scultori come Vasilij Kandinskij, Marc Chagall, Kasimir Malevič, Vladimir

Tatlin, El Lissitzky, poeti come Vladimir Majakovskij, Sergej Esenin, Aleksandr Blok, registi come Sergej Ejzenštejn, Aleksandr Dovženko, Vsevolod Pudovkin, insieme a molti altri, danno vita, con le loro creazioni, ad una delle stagioni più feconde dell’arte del XX secolo. Nel periodo che va dalla metà degli anni Dieci ai primi anni Trenta, gli artisti partecipano in prima persona alla costruzione della nuova società sovietica, non solo attraverso le opere e le mostre, ma anche con l’insegnamento, con la realizzazione degli apparati scenografici per le celebrazioni rivoluzionarie, con l’organizzazione di scambi culturali con altri paesi europei. Questo clima di ricerca è dapprima appoggiato e poi tollerato dalle autorità almeno sino alla metà degli anni Venti. Negli anni successivi, la politica culturale sovietica assume una direzione totalmente diversa: nasce e si diffonde un’arte ufficiale, sostenuta dalla Stato, celebrativa e retorica, lontana da ogni innovazione linguistica e stilistica. Alcuni dei protagonisti degli anni eroici scelgono allora la via dell’esilio, altri si suicidano, altri ancora, come Rodčenko, scelgono il silenzio. Egli infatti si ritira progressivamente dalla vita pubblica, dopo aver fondato nel 1930 il gruppo “Ottobre”, principale luogo di discussione fotografica dell’Unione Sovietica. Continua a lavorare isolato e dimenticato sino alla morte, avvenuta a Mosca nel 1956.

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A. Rodcenko, Scale, 1929


L’idea della fotografia come sperimentazione continua viene individuata da Rodčenko anche nella posizione della macchina fotografica: così come la fotografia aveva insegnato all’uomo a vedere in modo nuovo, così la stessa fotografia doveva ora essere in grado di vedere il mondo da un nuovo punto di vista. Nascono così le immagini tipiche di Rodčenko, come questa: la scalinata non è inquadrata frontalmente, ma di scorcio, così da creare una prima deviazione rispetto alle norme visive consolidate; inoltre, essa non è ripresa dall’altezza dell’occhio umano (quelle che Rodčenko definiva ironicamente “riprese ombelicali”), ma da un punto di vista rialzato, in maniera tale che non sia chiaramente percepibile se la figura stia salendo o scendendo le scale. I gradini segnano con evidenza l’alternarsi della luce e dell’ombra, sino a trasformarsi in pure linee bianche e nere. Infine, la figura che si trova al centro dell’immagine, permette allo spettatore di pensare un contesto spaziale “reale”; ma anche in questo caso, la solitudine della figura e l’assenza di altri personaggi, conferiscono alla scena un sapore metafisico, di sospensione temporale, fortemente evocativo. Tutti questi elementi sono tipici della ricerca fotografica di questo periodo, come dimostrano le immagini di autori come André Kertész, MoholyNagy, Umbo, autori che della prospettiva dall’alto hanno fatto un autentico centro della propria ricerca. È innegabile però che questa fotografia di Rodčenko eserciti sullo spettatore un fascino particolare, dovuto alla sua vicinanza con la celebre scena del film di Sergej Ejzenstein La Corazzata Potemkin, in cui una madre vede la carrozzina del bambino rotolare da una scalinata.

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L. Moholy-Nagy, Jealousy, 1924–1927


6.8

László Moholy-Nagy

La pratica del fotomontaggio ben si presta alla parodia, alla trattazione in chiave ironica o semplicemente umoristica dell’immagine, come hanno dimostrato i numerosi autori che hanno utilizzato questa tecnica in chiave politica, da John Heartfield a Erwin Blumenfeld a Grosz. Lo stesso MoholyNagy non rinuncia a questo aspetto: il tema della gelosia viene infatti trattato con notevole arguzia in questa opera, composta peraltro da pochi, essenziali elementi. La figura maschile è ritratta tre volte, nella stessa posa ma con tecniche diverse: come silhouette nera su fondo bianco e viceversa, e infine come negativo. Le due figure femminili sono invece ritagli di fotografie in positivo; quella inserita nella silhouette è accovacciata, con un fucile in mano, quella in piedi viene colpita al cuore dalla traiettoria della pallottola, che attraversa anche il corpo maschile in primo piano. Il gioco di rimandi è rafforzato dalla stessa costruzione spaziale dell’opera, con il raddoppiamento del rettangolo che incornicia i due gruppi, anch’esso giocato sulle diverse scale di grandezza e sul contrasto tra bianco e nero. Un particolare altrettanto significativo è rappresentato dai piedi che completano la figura maschile di sinistra, che appartengono alla donna accovacciata e sono, a loro volta, in posizione speculare a quelli dell’uomo. Alla resa complessiva dell’immagine contribuisce anche l’aspetto tecnico: non solo, infatti, si trovano qui riuniti i due differenti stadi della fotografia, negativo e positivo, ma ad essi si aggiunge l’utilizzo dell’inchiostro, e quindi di una tecnica diversa come quella del disegno. Va notata infine l’abilità grafica di MoholyNagy nel comporre l’opera, equilibrata in ogni sua parte, con la traiettoria dello sparo che viene a costituire la diagonale sulla quale si muovono i protagonisti del racconto.

László Moholy-Nagy nasce a Bács Borsód in Ungheria nel 1895. Compie studi umanistici, interrotti dal richiamo alle armi nel 1914. Inizialmente si dedica alla letteratura e alla pittura, frequentando l’ambiente dell’avanguardia ungherese. Nel 1918 tiene la sua prima lezione personale, l’anno successivo si trasferisce a Vienna e nel 1920 è a Berlino, città nella quale vive per alcuni anni. A contatto con l’ambiente dadaista berlinese, inizia le sue ricerche fotografiche, incentrando dapprima la sua attenzione sulla tecnica del collage. Nel 1924 viene invitato da Walter Gropius ad insegnare al Bauhaus di Weimar. In questi anni prosegue il suo lavoro sulla fotografia, sperimentando varie tecniche, in particolare quella della fotografia “off camera”. Nel 1925 viene pubblicato il suo libro Malerei, Fotografie, Film (Pittura, Fotografia, Film), destinato a diventare uno dei testi fondamentali dell’arte del XX secolo. Nel 1925, durante un viaggio a Parigi, realizza una serie di immagini riprese dalla Tour Eiffel, che si caratterizzano per l’originale punto di vista, dall’alto al basso e viceversa, che contribuiscono a rafforzare ulteriormente la sua fama di sperimentatore. Nel 1928 abbandona il suo insegnamento al Bauhaus, si dedica alla scenografia e alla diffusione della cultura visiva contemporanea. Nel 1929 è tra gli organizzatori della mostra “Film und Foto” (Cinema e Fotografia) a Stoccarda, uno degli eventi espositivi di maggior rilievo del periodo. Nel 1935 abbandona la Germania e si trasferisce a Londra. Due anni dopo è a Chicago, dove dirige il New Bauhaus; nel 1938 fonda la School of Design all’interno dell’Illinois Institute of Technology, sempre a Chicago, città nella quale muore nel 1945.

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W. Evans, Farmer’s kitchen, Hale Country, Alabama, 1936


6.9 Walker Evans

Questa fotografia fa parte del celebre ciclo realizzato a metà degli anni Trenta su incarico della Farm Security Administration e riunisce i caratteri migliori dell’opera di Walker Evans. La costruzione dell’immagine è estremamente accurata: la scena si divide in due parti, collegate dalla soglia che immette nella stanza interna, incorniciandola sino a comporre una sorta di quadro nel quadro. In primo piano, la bacinella sulla mensola e lo straccio appeso appaiono come una natura morta, costruita sulla verticale dello stipite della porta e sulle orizzontali delle assi di legno. All’interno, anche la stanza rimanda alle composizioni classiche della pittura d’interni, attraverso un calcolato gioco di luci e di volumi. Così come il primo piano è dominato dal rapporto tra verticale e orizzontale, così il secondo è dominato dalla figura della diagonale: su di essa è infatti costruito il rapporto tra gli oggetti, rafforzato dalla presenza del tavolo e delle assi del pavimento. Un’immagine, dunque, perfetta dal punto di vista formale, ma che non si esaurisce in un semplice esercizio compositivo. La scena comunica, infatti, una serie di informazioni anche sugli abitanti di quella stanza: certo non benestanti, legati ad una tradizione contadina che si legge proprio nella struttura lignea dell’edificio, dignitosi nella loro modestia, una dignità dimostrata dall’ordine che regna nell’ambiente. Questa fotografia è un esempio dello straordinario equilibrio raggiunto da Walker Evans tra documentazione ed interpretazione; si tratta infatti di una fotografia che documenta un aspetto della vita quotidiana di una famiglia del Sud degli Stati Uniti, e allo stesso tempo ne interpreta il carattere, riesce a fornire allo spettatore le coordinate per leggere, attraverso gli spazi e gli oggetti, la storia delle persone che abitano questi spazi ed usano questi oggetti.

Walker Evans nasce a St. Louis, negli Stati Uniti, nel 1903. Dopo avere svolto studi letterari, compie un viaggio a Parigi nel 1926. Rientrato negli Stati Uniti, fa conoscere il proprio lavoro ad Alfred Stieglitz, ma non ottiene particolari riconoscimenti. Intorno al 1930 vive al Greenwich Village di New York, luogo principale della cultura alternativa del tempo. Qui si lega ad artisti come Ben Shahn, Hart Crane, che tentano di dare un significato sociale alla loro ricerca artistica. Nel 1935 entra a far parte del gruppo di fotografi incaricato dalla Farm Security Administration (FSA) di documentare i luoghi e gli stili di vita del Sud degli Stati Uniti. Questo lavoro gli darà la prima fama mondiale, anche se durerà solo due anni e sarà caratterizzato da numerosi contrasti con il direttore della FSA, Roy Striker. Nello stesso 1935 tiene, insieme al fotografo messicano Manuel Alvarez Bravo e a Henri Cartier-Bresson, una mostra presso la Julian Levy Gallery di New York, allora la più importante galleria specializzata in fotografia. Nel 1938 il MOMA di New York gli dedica una mostra personale, la prima della storia dedicata ad un fotografo. Dal 1938 vive a New York, dove realizza numerosi reportage. Dal 1943 inizia anche l’attività di critico e scrittore, lavorando per la rivista “Time”. Dal 1945 al 1965 è redattore di un’altra celebre rivista statunitense, “Fortune”. Dal 1965 è insegnante di fotografia alla Yale University. Walker Evans muore a New Haven, nel Connecticut, nel 1975.

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Henri Cartier-Bresson, Dessau: exposing a gestapo informer, 1945


6.10 Henri Cartier-Bresson

La scena si svolge nel campo di concentramento di Dessau, in Germania, a guerra appena conclusa. Una deportata riconosce una collaborazionista del regime hitleriano, e la indica alla folla che la circonda e al funzionario seduto al tavolo. Il volto della perseguitata, nel quale si mischiano la soddisfazione per la giustizia imminente e la smorfia di un dolore ancora presente, lo sguardo basso, totalmente arrendevole e rassegnato della nuova prigioniera, le due pose dei corpi – l’uno ora orgogliosamente spinto in avanti, l’altro rinchiuso su se stesso – raccontano dei drammi passati e futuri, dello scambio delle parti tra vittime e persecutori, dell’orrore totale di una guerra. Anche gli altri personaggi sono egualmente significativi: il funzionario, che sembra guardare nel vuoto, quasi un emblema dell’incapacità di affrontare burocraticamente un evento così devastante; i personaggi di contorno, ognuno con le proprie reazioni dipinte sul volto; i vestiti, con quella divisa carceraria sulla sinistra, anch’essa estremamente espressiva: una composizione tragica, al termine della quale, in realtà, non si prova alcun senso di liberazione. Questa immagine – composta peraltro con grande sapienza sul triangolo costituito dal tavolo attorno al quale sono disposti i tre attori principali – è incentrata soprattutto sul tema dello sguardo. Si vedano gli occhi di tutti i personaggi, attraverso i quali passano il reale significato e la reale temperatura emotiva della scena, dalla curiosità degli spettatori alla determinazione della deportata, all’assenza di sguardo della collaborazionista, i cui occhi abbassati fanno da contraltare a quelli, invisibili, del funzionario. Nasce a Chanteloup, vicino a Parigi, nel 1908. Inizia la sua attività come pittore; segue poi studi di letteratura all’università

di Cambridge e si dedica alla fotografia alla fine degli anni Venti. Negli anni successivi è in Messico, dove realizza i suoi primi importanti reportages e tiene le prime mostre insieme a Manuel Alvarez Bravo. Nel corso degli anni Trenta è a New York e a Parigi, dove si dedica anche al cinema, collaborando con Jean Renoir, e in Spagna, durante la Guerra Civile. In Spagna gira un film, Return to life (Ritorno alla vita), e conosce altri celebri fotoreporter come Robert Capa e David Seymour. Negli stessi anni realizza anche la serie fotografica Dimanche sur la Marne (Domenica alla Marna), nella quale è possibile individuare la sua caratteristica principale: quella di cogliere l’attimo più significativo nel flusso degli avvenimenti quotidiani. Nel 1940 è arruolato in guerra in qualità di fotografo, viene fatto prigioniero dai tedeschi ma riesce a fuggire dal carcere nel 1943. Partecipa alla Resistenza e alla fine del conflitto realizza una delle sue opere più famose, Le retour (Il ritorno), documentazione cinematografica e fotografica del rientro in Francia dei profughi di guerra. Nel 1946 una mostra al MOMA di New York ne consacra definitivamente la figura. L’anno successivo fonda, insieme a Capa e Seymour, la famosa Agenzia Magnum. Dal 1948 al 1952 realizza numerosi reportages in vari luoghi del mondo: una scelta significativa di queste immagini viene pubblicata nel volume Images à la sauvette (Immagini rubate), considerato uno dei più importanti libri fotografici della storia. Nel 1973, al vertice della notorietà, abbandona la fotografia per dedicarsi nuovamente alla pittura. Nel 2000, assieme alla moglie Martine Franck ed alla figlia Mélanie crea la Fondazione Henri Cartier-Bresson, che ha come scopo principale la raccolta delle sue opere e la creazione di uno spazio espositivo aperto ad altri artisti. Muore a Céreste il 3 agosto 2004, all’età di 95 anni.

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G. Basilico, Milano. Ritratti di fabbriche, 1978-80


6.11 Gabriele Basilico

Architetto, nato a Milano nel 1944 – dove vive e lavora – è uno dei più noti fotografi documentaristi europei. Fotografa esclusivamente in bianco/nero e suoi campi d’azione privilegiati sono il paesaggio industriale e le aree urbane. I suoi studi di architettura lo avvicinano all’ambiente dell’editoria di settore per cui realizza, su commissione, un’ampia serie di lavori. Inizia a fotografare concentrando il suo interesse sulla città e sul paesaggio urbano. Il suo primo impegnativo lavoro risale al 1982, quando realizza un ampio reportage sulle aree industriali milanesi intitolato: Ritratti di fabbriche. Questo primo lavoro gli dà una notorietà immediata e nel giro di due anni partecipa alla Mission Photographique de la D.A.T.A.R, voluta dal governo francese per documentare la trasformazione del paesaggio contemporaneo. Realizza ricerche fotografiche in Italia, Francia, Olanda, Germania, Svizzera, Austria, Spagna, Portogallo. Seguono anni di intenso lavoro in cui si alternano commissioni pubbliche e ricerche sul territorio, raccolte poi in libri come: Italia&France, Bord de Mer, Porti di Mare, Paesaggi di Viaggi, Scambi, L’esperienza dei luoghi, fino alla Mission Photographique per la città di Beirut devastata dalla guerra. Milano è la città di cui, più delle altre, Basilico ha realizzato un “ritratto collettivo”, è stato il laboratorio in cui si è andato strutturando un metodo progettuale che in seguito è tornato ad usare “nelle altre città”. Sfogliando i suoi lavori si incontrano immagini “metafisiche”, in cui regna una sensazione di tempo sospeso, alternate a visioni più “disinvolte” in cui irrompono quei “fili” la cui presenza è stata sempre mal tollerata dai foto-puristi. Mentre Ghirri usa l’arma dell’ironia, Basilico “tenta romanticamente l’impresa di rappresentare il mondo, abbraccia il mondo della fotografia”. Basilico, nelle sue vedu-

te, recupera una “lentezza dello sguardo” che gli permette di cogliere i minimi particolari, propone una “contemplazione” che, attraverso la sua perizia tecnica, ci permette di collocarci al limite superiore della capacità percettiva del reale.

«Parlando di città, la fotografia recentemente ha messo in evidenza la sua capacità di entrare in presa diretta nel confronto e nel dibattito con altre discipline scientifiche, come l’architettura, l’urbanistica, l’altropologia sociale […], la fotografia appare così congiuntamente ad altre culture parallele, un’occasione per poter avere un racconto più ravvicinato alla realtà fisica, sia a livello dei luoghi che delle persone, capace di indagare con uno sguardo trasversale e, se mediata attraverso l’esperienza dell’arte, di restituire uno scenario più comprensibile .

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G. Basilico, Milano. Ritratti di fabbriche, 1978-80


L’immagine riproposta fa parte del progetto Milano ritratti di fabbriche. Ciò che colpisce fin dal primo momento è il linguaggio essenziale, frontale, con il quale il fotografo descrive i manufatti industriali. Per descriverla, userò le parole con cui lo stesso Basilico racconta del suo studio sulle periferie milanesi.

«Per la prima volta ho “visto” le

strade e, con loro, le facciate delle fabbriche stagliarsi nitide, nette e isolate su un cielo inaspettatamente blu intenso, grazie al quale la visione consueta delle forme diventa improvvisamente inusuale. Ho potuto vedere così, come se non l’avessi mai visto prima, un lembo di città senza il movimento perpetuo quotidiano, senza le auto in sosta, senza persone, senza suoni e rumori. Ho visto l’architettura riproporsi nella sua essenza, filtrata dalla luce, in modo sorprendentemente scenografico e monumentale. Inoltre con quel tipo di luce anche l’ombra diventava – come insinuando, suggerendo e poi svelando – un elemento compositivo e la fotografia acquistava la stessa

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importanza e lo stesso peso specifico del disegno e anche la capacità di rappresentare quasi andando oltre l’esistente. Quando fotografo un edificio illuminato dal sole e davanti c’è un’imponente ombra nera, questa fa capire che c’è un altro edificio alle mie spalle. Un edificio che non si vede, ma che è altrettanto concreto e presente quanto quello inquadrato. Questi elementi insieme, la luce, le ombre, il controluce, consentono di rilevare e “leggere” le modificazioni dello spazio, di capire meglio la realtà, anche quella che, pur non essendo visibile, tuttavia c’è, esiste ed è presente, e che è resa visibile nella sua completezza, non solo nella sua apparenza visiva, dalla luce e dall’ombra .

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conclusione L’ammirazione per personalità cruciali come Cartier-Bresson, Walker Evans e Gabriele Basilico, e il fascino della fotografia come “mestiere” nuovo e avventuroso, profondamente legato alla rappresentazione, è stata la ragione determinante del tentativo di conciliare questo mio interesse personale con il fatto di essere un “futuro architetto”. La loro fotografia è diretta, controllata, apparentemente molto semplice, ma possiede una profondità di motivazioni e significati incredibilmente affascinante. La semplicità con cui questi fotografi riescono a ritrarre il nocciolo della questione, riuscendo a cogliere l’essenzialità di ciò che hanno davanti, sia questo una persona, un paesaggio o un’architettura, è per me stimolo per continuare ad esplorare con curiosità quel che incontro quotidianamente. Al termine di questo percorso che ci ha portato alla scoperta di numerosi fattori – tecnici e non – che accomunano la pratica del disegno e quella della fotografia d’architettura, è evidente che solo un serio impegno ed interesse verso questa disciplina possono permettere che anche l’architettura sia un reale strumento di conoscenza e di crescita personale.

«Non so quale sarà il mio futuro, ma l’idea di fare il fotografo mi seduce parecchio!» (Gabriele Basilico)

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_Bibliografia R. RECHT, Il disegno d’architettura. Origine e funzione, Jaka Book, Milano 2001. R. SALERNO, La macchina del disegno. Teorie della rappresentazione dell’architettura nel XIX secolo, Clueb, Bologna 2000. 1 V. UGO, Fondamenti della rappresentazione architettonica, Progetto Leonardo, Bologna 1994. 6 M.L. CANNAROZZO, R. SALERNO, Fotografia e misura, Cluva Cittàstudi, Milano 1996. P. NICOLIN, Lotus 129, Editoriale Lotus, Milano 2007. I. ZANNIER, Architettura e fotografia, Laterza, Roma-Bari 1991. G. BASILICO, Architetture, città, visioni: riflessioni sulla fotografia, Bruno Mondadori Editori, Milano 2007. P. NICOLIN, Elementi di architettura, Skira, Milano 1999. 5 C. CRESTI, Fotografia e architettura, Pontecorboli, Firenze 2004. 2 M. CARPICECI, La fotografia per l’architettura e l’ambiente, Fratelli Palombi Editori, Roma 1997. M. BUSSELLE, Fotografia in bianco e nero, Logos, Modena 1999. 3 J. S. ACKERMAN, Architettura e disegno: la rappresentazione da Vitruvio a Gehry, Electa, Milano 2003. 4


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