La brigata fiori selvatici - Estratto

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Caterina vive con la figlia quindicenne a Villapiana, una tranquilla cittadina ai piedi delle montagne trevigiane, dove si dedica al restauro di oggetti antichi nella bottega che ha aperto sotto casa. È il suo modo per non perdere il legame col passato.

Un passato che riemerge dalle pagine sgualcite di un quaderno, scritto chissà da chi. Vi si parla di Iris, Rosaspina, Papavero, Ranuncolo, Malva, Geranio… Non si tratta però di botanica: sono i nomi di battaglia di donne che, nel periodo buio della guerra civile seguita all’8 settembre 1943, scelsero di non stare a guardare e di provare a costruirsi un futuro. Per sostenere i loro uomini che facevano la Resistenza sulle montagne, fondarono una brigata tutta al femminile, la brigata Fiori Selvatici. Ciascuna di loro aveva un compito ben definito, che portava a termine rischiando ogni volta la vita.

La Storia le ha quasi ignorate. Queste sono le loro storie, scaturite dall’immaginazione dell’autrice, ma ispirate a vicende reali.

13 Libr Liberi

Laura Cappellazzo

LA BRIGATA FIORI SELVATICI

Romanzo

I disegni dei fiori all’interno sono tratti dal sito dryades.units.it

Sfondo degli occhielli e delle pagine con schede botaniche

© sl_photo / Shutterstock

PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2023

Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano

www.paoline.it • www.paolinestore.it

edlibri.mi@paoline.it

Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l.

Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)

ISBN 978-88-315-5590-6

Parte prima

Il seme e la terra

Co se pol, bisogna far del ben («Quando si può, bisogna fare del bene»).

Era uno dei motti di Romana Giacomelli Schiavon (1896-1979), partigiana e fondatrice a Padova, nel 1930, dell’Opera Magnificat, casa di accoglienza per giovani madri abbandonate e ragazze ex prostitute.

}{

30 aprile 2022 Villapiana

Eraun fresco e ventoso sabato di fine aprile. Quel giorno Irene non aveva scuola. I professori del suo anno, il secondo del liceo scientifico, dovevano recuperare un non ben identificato corso di aggiornamento e avevano scelto di svolgerlo proprio quel sabato mattina, regalando agli studenti un giorno di vacanza in più.

Mentre si dirigeva verso la cucina, ballonzolando assonnata da una parete all’altra del corridoio, Irene si chiedeva perché mai non l’avessero fissato al sabato precedente, così ne sarebbe saltato fuori un bel ponte lungo fino al 25 aprile, che quell’anno era caduto di lunedì. D’altro canto, ormai aveva capito che, come per molti altri aspetti della vita scolastica, spesso la logica non riusciva a entrare nemmeno nel calendario delle lezioni normali, figurarsi in quello dei corsi di aggiornamento dei prof. Pertanto smise di interrogarsi e, arrivata davanti al frigo, iniziò a prepararsi con calma la colazione.

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I

Lettore che tieni tra le mani questo quaderno, sappi che qui troverai storie che nessuno ti racconterà mai. La storia, come ce l’hanno raccontata fino a oggi, è affollata di generali, governanti e re. Loro hanno sempre un nome, un volto e una biografia. Poi ci sono masse anonime di uomini e donne senza volto che a questi grandi personaggi hanno donato la loro obbedienza. Numeri, non vite. Popoli conquistati ed eserciti conquistatori. Ma senza nome.

Noi, i Fiori Selvatici, ti vogliamo narrare una storia diversa. Una storia avvenuta tra le montagne che vedi attorno a te, alzando lo sguardo da questo quadernetto scritto un po’ a mano, un po’ a macchina. Un po’ oggi, un po’ domani. Scritto senza un ordine preciso: perché nessuna storia è stata più importante di altre. Scritto a più mani, perché non c’è un’autrice da ricordare. Da ricordare sono i loro nomi, le loro qualità, le loro gesta.

Perciò vogliamo raccontarti, prima di tutto, chi sono le donne che compongono questa compagnia di femmine re-

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sistenti. Giovani ragazze, madri di famiglia, donne legate da un unico grande desiderio: che ritorni la pace. E con essa un’esistenza libera e degna di essere vissuta da tutti. E che ritornino i nostri uomini dalle montagne, dai rifugi, dai campi di detenzione, dalle prigioni, dal fronte. Che ritornino gli animali a scorrazzare per i nostri boschi martoriati. Che ritornino gli uccelli a cantare e le piante a fiorire.

La guerra ha distrutto tutto: la nostra umanità è stata distrutta. Abbiamo visto uomini diventare bestie. Altri sono diventati martiri. Altri ancora sono impazziti.

Abbiamo visto donne morire per difendere i propri cari. Altre morire per difendere la libertà. Altre sopportare torture e dolori indicibili. Altre ancora cercare sollievo nel suicidio, riuscendoci oppure no. Tutto questo per resistere. Resistere a cosa? Resistere all’odio. Resistere alla morte. Resistere alla tentazione di dividere l’umanità tra chi è degno di appartenervi e chi no.

La Resistenza non è solo quella armata. Quella la fanno gli uomini perché non sanno che parlarsi con le armi. Necessaria o meno, noi non lo sappiamo dire. Ciò che sappiamo è che amiamo la vita. Perché siamo donne e siamo abituate a portare la vita su questa terra, non a toglierla.

Noi siamo donne e la Resistenza la facciamo a modo nostro. La facciamo proteggendo la vita. Daremo rifugio a chi è perseguitato. Daremo cibo a chi è affamato. Daremo vesti a chi non ne ha. Daremo forza e coraggio a chi combatte per la libertà. Daremo voce silenziosa a chi non può

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parlare. Daremo gambe e passi a chi non si può spostare. Daremo speranza a chi non ne ha più. Rosaspina ha avuto l’idea per prima. O, meglio, l’ha detta ad alta voce per prima. Ma quasi tutte noi donne che facciamo parte di questa brigata sentivamo già, in cuor nostro, ciò che Rosaspina ci ha proposto una sera di fine settembre. Radunate a casa di Iris, che aveva appena perso due figli.

Accòmodati, quindi, caro lettore sconosciuto. Se hai trovato questo quaderno fra le travi della vecchia farmacia in cui ti trovi, e sei ancora in piedi perché non hai resistito alla curiosità di aprirlo, ti consigliamo di sederti comodamente. Perché ti racconteremo com’è nata la nostra brigata, e come siamo nate noi Fiori Selvatici. Siamo semi provenienti da luoghi diversi, portati dal vento delle cime e poi caduti tra le macerie della guerra. Abbiamo messo radici in mezzo alla distruzione e siamo sbocciate tra le rovine di villaggi martoriati dalla violenza, per portare profumo di libertà.

L’8 settembre 1943 è una data triste per tutte noi. I grandi della storia, quelli di cui parlavamo poco fa, ci hanno girato le spalle. Prima ci hanno ammassato e spinto verso il baratro, poi ci hanno mollato di colpo. Hanno tirato i dadi e hanno scelto altre pedine, hanno scelto un altro gioco. E noi? Noi ci siamo trovate in mezzo a due fuochi. E da entrambi i lati ci volevano uccidere. Perché, noi, non eravamo più loro. E nessuno ci aveva dato un altro nome.

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Davanti a noi avevamo questa scelta: o lasciarci ammazzare o resistere. Perché, noi, siamo la massa, ricordi? Quella che non ha nome, quella che puoi dimenticare sull’orlo del burrone.

Sei mai stato in un giardino signorile? Uno di quelli belli curati, con i giardinieri pagati per far crescere per bene le piante ordinate dentro aiuole perfette. Ebbene, sicuramente ti ricorderai dei fiori esotici che vi avrai visto, dei vasi elaborati, delle composizioni artistiche. Ma ti sei mai chiesto, in quei bei giardini, qual è la vegetazione più numerosa? Quella presente dappertutto, eppure la più ignorata?

l’erba, caro lettore. L’erba verde e umile che nessuno ha piantato, ma senza la quale quel giardino signorile parrebbe ammalato, spoglio, insensato.

L’8 settembre 1943 è stato come un grande incendio appiccato al giardino signorile. I giardinieri pagati dai signoroni hanno messo in salvo le piante pregiate, portandole al sicuro, ma all’erba nessuno ci ha badato. L’erba siamo noi, il popolo. E abbiamo avuto due possibilità: lasciarci bruciare o tentare di resistere nascondendoci sotto terra e lottando clandestinamente.

Di quell’erba spontanea e tenace noi siamo i fiori. Quelli umili, che trovi nei prati. Quelli che nascono da soli, senza bisogno che nessuno venga a piantarli. Perché noi siamo trasportate dal vento della vita. E, dove ci fa cadere, germogliamo e portiamo bellezza. E portiamo colore.

A partire da settembre del ’43 gli uomini hanno inizia -

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È

to a darsi la caccia. In modo disperato e feroce. Perché niente, come la paura, rende l’essere umano capace di abnormi crudeltà.

Chi aveva scelto di stare ancora con i signori si è messo a inseguire chi non voleva, per dimostrare di essere ancora dei loro. Ancora appartenente a un esercito.

Chi ha scelto di difendersi e reagire si è prima nascosto come le bestie selvatiche, in mezzo ai boschi e alle montagne, poi ha cominciato a usare le armi contro chi cacciava. Perché niente, come il sentirsi braccato, rende l’essere umano capace di uccidere un suo simile.

Chi non ha scelto, perché non poteva, ed è rimasto nelle case, nei paesi, nei villaggi, è stato ucciso. O imprigionato. O rastrellato e deportato. O torturato. Pochi si sono salvati. Pochi fili d’erba non si sono bruciati.

E noi?

Noi abbiamo scelto la libertà. Abbiamo scelto di appoggiare chi combatteva per essa. Abbiamo scelto l’amore per i nostri uomini, per la nostra terra, per noi stesse. Abbiamo scelto la possibilità di sognare un mondo più giusto per tutti, anche per noi donne. Abbiamo scelto l’umanità.

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La storia di Iris è difficile da ascoltare e difficile da capire. Va raccontata per bene da chi c’era e ha visto una madre spezzarsi in due.

Suo figlio Giovanni era fascista, nel modo in cui lo erano tutti i ragazzi che a diciotto anni venivano arruolati e mandati a combattere per la patria. Per lui patria significava casa, a Col de le Martore. Significava contribuire alla famiglia, magari evitando che sua madre si spaccasse la schiena lavando i panni per i vicini per guadagnare qualche spicciolo. A mano, nell’acqua gelida della fontana in piazza. D’estate e d’inverno. E le mani si ingrossavano per il freddo, e la pelle si faceva rossa, e le venivano «i diavoli» sulle nocche che bruciavano da morire, e le screpolature intorno alle unghie sanguinavano quando faceva troppo freddo. E lei diceva: «Non è niente, dai. Adesso passa».

Per lui patria significava fare in modo che suo padre, falegname, non si tagliasse tutte le dita con le vecchie seghe del laboratorio. Tre le aveva già perse. Le sue mani pareva-

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no rami potati da un giardiniere inesperto. Eppure continuava a tagliare. Anche se ogni giorno, quando guardava le lame, gli veniva un brivido. Anche se ricordava molto bene il dolore, il momento dello strappo, il fuoco che sentiva poi e gli spasimi che salivano fin su alla spalla. E Giovanni lo vedeva, al mattino, che fissava le lame, e deglutiva, e azionava il motore a scoppio, e ricominciava a tagliare, piallare, martellare e incollare.

Patria era poter dare da mangiare alla sua futura famiglia non solo zuppa di verdura o zuppa di fagioli o zuppa di latte. Ma anche bei cosciotti di pollo la domenica. Oppure il filetto di manzo. O lo spezzatino sugoso con i piselli e le carote. Che lui aveva mangiato solo una volta, al matrimonio della zia Lorena, accompagnato con la polenta, e da quel giorno se lo sognava ogni volta che la fame bussava più forte.

E, se per avere tutto questo, se per aiutare questa sua patria, doveva vestire una divisa, allora lo avrebbe fatto. Se serviva imparare a sparare, Giovanni avrebbe imparato. Se serviva ubbidire, avrebbe ubbidito. Se serviva riconoscere dei nemici, li avrebbe riconosciuti.

Perché tutto ciò voleva dire ricevere cinquecento lire al mese e poterle mandare a casa. E immaginare lo sguardo della mamma riempirsi di commozione per questo figlio lontano. E immaginare il volto fiero del papà quando gli chiedevano come stava il suo figlio soldato. E vedere l’espressione gelosa di Anselmo, che si sentiva piccolo nei confronti del fratello maggiore.

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Però successe che i capi dell’esercito non sapessero più cosa comandare. E successe che i soldati come lui diventarono merce di scambio, carne da macello, cani randagi, nel giro di poche ore, quel maledetto 8 settembre 1943. Giovanni si trovava a Udine, in uno dei centri militari fascisti più attivi e spietati del Nord-Est. Riuscì a scappare, a trova re la strada di casa. Come solo i cani sanno fare, fiutando l’aria. Graffiandosi tra i rovi dei boschi a forza di procedere rasoterra. Nascondendosi di giorno e diventando amico dell’oscurità notturna, ci mise cinque giorni a tornare a casa. E come batteva il cuore quando da lontano riconobbe il profilo delle sue montagne. Quando si arrampicò strisciando tra gli arbusti come una biscia, per superare il passo San Boldo. Che quando ci si trova in cima ci si sente ancora più piccoli. Ma tornare a casa non fu come se l’era immaginato. Quando si infilò di soppiatto dalla porta sul retro ed entrò in cucina all’ora in cui sapeva di trovare la famiglia seduta al tavolo per la cena, non ci furono abbracci di gioia. Ci fu lo sguardo spaventato della madre, che si tappò la bocca per non urlare. Ci fu suo padre che si alzò di scatto e si assicurò che tutti gli infissi e le porte fossero ben chiusi, prima di dargli il benvenuto. E il fratello Anselmo non c’era a guardarlo con gelosia.

Lo fecero sedere. Gli diedero da mangiare e da bere. E gli raccontarono che lui adesso era un nemico. Che suo fratello Anselmo aveva scelto di aiutare i partigiani. E che, se la brigata di suo fratello avesse saputo che un soldato si tro-

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vava in casa loro, sarebbero venuti a cercarlo. E che se i repubblichini o i tedeschi che ancora comandavano quei luoghi avessero saputo che lui era lì, anche loro sarebbero venuti a cercarlo, per portarlo via.

Giovanni si rese conto di essere un problema, non un eroe. Forse non era al sicuro, in casa sua. Forse, ritornando, aveva messo in pericolo mamma e papà. Ma lui aveva solo bisogno di un abbraccio materno, di conforto paterno. Lui voleva solo fare grande la sua patria, e ora si trovava in una situazione assurda. Gli venne rabbia. Che, mescolata alla paura, crea una miscela pericolosa.

«Ma perché Anselmo è andato con i partigiani... Ma perché non è rimasto con voi!»

Se la prese con il fratello. Avventato, secondo lui.

«Perché voleva aiutarci. Perché era stanco dei soprusi dei soldati nazisti, che vengono qui e ci rubano tutto. Perché non ne può più della guerra...»

«Anch’io vi volevo aiutare. Anch’io vi volevo proteggere. Anch’io sono stanco della guerra...»

«Giovanni, stai tranquillo. Tu non lo potevi sapere. Noi non lo potevamo sapere. I governanti ci usano a loro piacimento. Perché noi tante faccende non le sappiamo e vogliamo solo stare tranquilli con le cose nostre. E loro usano i nostri bisogni per rispondere ai loro... Noi adesso abbiamo paura per te. Non per noi. Perché hanno iniziato a fare i rastrellamenti. E se trovano un giovane nelle case... se lo portano via...»

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Il padre di Giovanni parlò tutto d’un fiato. Era probabilmente il discorso più lungo che avesse mai fatto nella sua vita. Il che significava che la situazione era davvero grave.

Stavano lì seduti, a ragionare sul da farsi, quando improvvisamente si sentirono piccoli colpetti alla finestra della cucina. Quella che dava verso il bosco, non verso la strada.

madre sempre più spaventata.

Anselmo, la maggior parte del tempo, se ne stava sulle montagne, con il gruppetto di partigiani che andava formandosi. Ogni tanto, di notte, scendeva al villaggio per salutare mamma e papà, per rassicurarli che stava bene e fare rifornimento di uova e pane, se ce n’era.

Per non dare nell’occhio avevano escogitato quello stratagemma: Anselmo non entrava direttamente in casa e non bussava. Dal cespuglio più vicino all’abitazione lanciava dei sassolini e aspettava fossero i genitori ad aprire. Nel caso in cui con loro ci fosse qualcuno. O fossero usciti, e quindi una presenza in casa avrebbe creato sospetti.

Il padre andò ad aprire e Anselmo si scaraventò dentro agitato:

«Mamma, papà, fate attenzione. Qualcuno dei nostri di vedetta ha visto arrivare in paese un soldato in uniforme. Dice che da come si arrampicava sembrava uno di qua, uno abituato a scalare le montagne. E da come me l’hanno descritto a me pareva Giovanni. Dovete... Giovanni!».

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«È Anselmo! È il segnale!» sussurrò la

Anselmo era talmente concentrato ad allertare i suoi genitori che solo a metà del discorso si accorse della presenza del fratello.

I due stettero a guardarsi in silenzio per qualche secondo. Non sapevano come reagire alla presenza dell’altro. Avevano bisogno che qualcuno li aiutasse a riconoscersi. E fu la madre a farlo.

«Oh, insomma, che avete? Sembra che non vi riconosciate più per via dei vestiti che avete addosso! Santo Iddio, siete miei figli! Siete fratelli! E se non vi salutate vi costringerò a spogliarvi. Vediamo se da nudi tornate a vedervi per quello che siete!»

I due fratelli abbozzarono un sorriso e si strinsero la mano.

«Sei cresciuto» disse Giovanni.

«O la guerra ti ha ristretto» rispose Anselmo.

«La guerra trasforma le persone in soldati, in divise. Ma voi non siete una divisa. Siete miei figli. Quindi cerchiamo un modo per ricordarcelo, e per mettervi al riparo entrambi».

Il padre riportò tutti alla situazione complicata in cui si trovavano. Tutti e due avevano l’obbligo di denunciare il fratello ai rispettivi battaglioni di appartenenza. L’uno perché fascista, l’altro perché sovversivo.

«Puoi venire con noi...» abbozzò Anselmo.

«Mi crederanno una spia. Penseranno che ti stia usando per farli catturare...»

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«Proverò a parlargli. Gli spiegherò...»

«Sei solo un ragazzino. Ti riterranno un ingenuo, diranno che ti fidi di me solo perché siamo fratelli. Ma io sono un soldato, come ha detto papà. Non sono più solo un ragazzo».

Giovanni non riusciva a vedere una via d’uscita da quella situazione che non fosse un esilio momentaneo per lui. Ma dove? Le città erano dei fascisti, le montagne dei partigiani. Dove poteva rifugiarsi un senza patria come lui?

Improvvisamente si sentì uno scalpiccio nervoso avvicinarsi a casa. Uomini che parlavano, un cane abbaiava furioso. Ed ecco, un ordine gridato in un italiano forzato:

« Raus! Voi in casa! Uscite tutti!».

«Oh, Signore, i tedeschi!». La madre di nuovo si portò le mani alla bocca.

Con lo sguardo terrorizzato interrogava il marito, che rimaneva immobile in piedi, con le mani appoggiate sullo schienale della sedia, sforzandosi di non cadere a terra. Come un albero quando viene abbattuto e non resiste più ai colpi dell’accetta. Ogni pacca data alla porta dal gendarme nazista era come un colpo d’ascia che si abbatteva su di lui.

«Uscite! È l’ultimo avviso!»

Il padre allora sospirò profondamente e, raccogliendo le briciole di tutto il coraggio accumulato in poco più di quarant’anni di vita, aprì la porta e uscì in cortile.

«Buonasera. Cosa volete?»

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«C’è un disertore là dentro. Consegnatecelo».

Un soldato stava davanti a un gruppo di altri quattro. Sembrava lui a comandare. Aveva lo sguardo teso, le labbra strette, i pugni chiusi. Era giovane, davvero molto giovane. Forse era il suo primo incarico di caccia a un disertore. Al padre sembrò avesse la stessa età di Giovanni. Per questo l’uomo si fece ancora un po’ più di coraggio e, cercando di assumere un tono più disteso possibile, continuò la conversazione.

«Non capisco. Chi cercate?»

«Sappiamo che lì dentro c’è un soldato italiano scappato dall’esercito. Lo dobbiamo catturare. Ne abbiamo facolt à ».

«Ma qui dentro non c’è nessun soldato disertore...»

«Sta mentendo. Chi copre un fuggitivo rischia la fucilazione proprio come il ricercato. Non ci faccia perdere tempo e ci consegni il soldato».

Anche la madre nel frattempo si era avvicinata all’uscio e guardava quegli uomini con aria spaventata e le mani giunte, pregando in cuor suo che quell’incubo finisse presto.

Il comandante della pattuglia sembrò perdere la pazienza e fece due passi avanti, in direzione della porta. Il padre allora rizzò la schiena e si frappose tra lui e l’ingresso.

«Dove credi di andare senza il mio permesso? Questa è casa mia!»

Il giovane soldato spinse via con forza quell’uomo che pareva già vecchio. E infatti il padre cadde a terra come

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un sacco di trucioli. Più per la sorpresa che per la forza della spinta. La madre lanciò uno strillo. Il comandante mise mano alla pistola. Un urlo fermò di nuovo la scena.

«Basta! Sto uscendo!»

Giovanni era in piedi sull’uscio. Le mani alte. Lo sguardo da soldato. Sapeva cosa doveva fare ora. Fece un passo avanti e fissò dritto negli occhi il soldato tedesco.

«No, Giovanni, no...» gemette disperata la madre.

«Giovanni...» sospirò il padre.

«Scappa, Giovanni!» gridò Anselmo mentre saltava fuori dalla finestra della cucina, tenendo una pistola puntata verso il comandante tedesco.

«È dei nostri! Copriamolo!» si sentì gridare dalla boscaglia.

Furono attimi concitati. I tedeschi capirono che nel buio del bosco di fianco alla casa c’era un gruppo di partigiani che probabilmente accompagnavano il ragazzo saltato fuori come un gatto. Iniziarono a sparare verso quella macchia scura. Senza sapere bene a chi e dove mirare. A loro volta i partigiani risposero al fuoco.

Spari si incrociarono. Ordini, grida e passi veloci.

La madre si lanciò sopra il marito rimasto a terra. Con le mani si tappò le orecchie. Gli occhi chiusi, piangeva e pregava tutti i santi. Il marito, immobile, cercava di capire cosa stesse succedendo solo ascoltando.

E poi il silenzio. Entrambi i gruppi si erano dispersi. A continuare la battaglia da qualche altra parte. Forse. O a

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riparare in qualche luogo sicuro. Solo il cane continuava ad abbaiare incessantemente ferendo le orecchie.

La madre si alzò lentamente e lentamente aprì gli occhi. E poi un grido di donna squarciò la notte, allarmando tutto il paese.

A terra, nel cortile di casa, giacevano immobili Giovanni e Anselmo. L’uno colpito alla fronte, l’altro all’addome. Entrambi con un’espressione di dispiacere negli occhi. No, non se l’erano proprio immaginata una fine così.

La madre si mosse carponi verso il corpo più vicino: era Giovanni. Piangeva, piangeva, si dondolava sul figlio. No. No. Non si poteva morire così. Gli toccò i capelli, gli baciò il collo. E poi gemendo strisciò verso Anselmo. Caduto a pancia sotto. Una pozzanghera di sangue scorreva sotto di lui. Lo girò con uno sforzo enorme. Quando gli vide gli occhi sbarrati, iniziò a ululare dal dolore. No. No. Non si poteva morire così.

Il padre, rannicchiato, non si era mosso. Le forze gli erano sparite del tutto. Una mano abbandonata a terra, con l’altra si copriva gli occhi e piangeva a singhiozzi. Piangeva come un uomo che non sapeva come si facesse, perché non l’aveva mai fatto prima.

Iniziarono ad arrivare compaesani allarmati. Le donne, quando capirono cos’era successo, si segnavano con la croce. Gli uomini ammutolivano.

Ma la madre non guardava nessuno. Non alzava lo sguardo dai suoi figli inermi, distesi nella polvere del cor -

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tile di casa. E a chi stava lì a osservare pietrificato la scena vennero in mente quelle parole che ogni tanto il prete leggeva in chiesa:

«Una voce si ode a Rama, un lamento e un pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, e non vuole essere consolata per i suoi figli, perché non sono più»1.

Ci fu un funerale semplice. Più un addio privato che una vera e propria cerimonia. Il sacerdote non volle officiare in chiesa. Era troppo rischioso. Fare una messa con un fascista e un partigiano avrebbe messo a rischio l’intero paese.

Il padre non disse nulla. Non gli interessava più nulla ormai. Della vita e delle sue questioni futili. La madre invece fece solo un’unica richiesta colma di dolore. I due fratelli furono seppelliti vicini, nel cortile dietro casa. Se il funerale non si poteva celebrare, almeno che fossero messi nei pressi della loro abitazione, dove i genitori li avrebbero avuti sotto gli occhi tutti i giorni. E che i loro nomi fossero scritti su semplici croci di legno che lo stesso padre, lacrima dopo lacrima, avrebbe fabbricato.

Proprio lì, in quell’angolo, dove da piccoli giocavano a rincorrersi. Sotto l’albero di amoli 2 . Sul quale si arrampicavano a fine estate, e si riempivano la bocca, e sputavano

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1 Dal libro biblico di Geremia 31,15. 2 Piccola susina semiselvatica.

i semi. E la madre che li rimproverava perché non ne avrebbe avuto abbastanza per fare la marmellata. E loro ridevano, con la faccia e la maglia rosse di succo di quel piccolo frutto.

La madre pensava a questo mentre il prete aspergeva i presenti con l’acqua santa. E tutti si segnavano tristi. Ma a lei scappava da ridere perché si ricordava dei suoi figli che fuggivano via dall’albero per non farsi prendere. E poi le veniva da piangere perché le macchie rosse della maglietta si trasformavano nelle macchie rosse di sangue. E l’espressione furba di Anselmo da piccolo diventava l’espressione incredula con il quale era morto.

Si sentì mancare, la madre. Ma un braccio pronto le venne vicino e la sostenne. La donna si girò per vedere chi fosse. Era Annarosa.

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Parte prima IL SEME E LA TERRA I. 30 aprile 2022 - Villapiana pag. 7 II. 30 aprile 1945 - Col de le Martore » 33 Quaderno dei Fiori Selvatici - Capitolo primo » 67 Nome di batt aglia: Iris » 75 Nome di batt aglia: Rosaspina » 89 Nome di batt aglia: Papavero » 109 Nome di batt aglia: Dafne » 123 Nome di batt aglia: Ranuncolo » 139 Parte seconda GEMMAZIONE III. Il rimedio - Villapiana, 30 aprile 2022 » 153 IV. Anime da ricucire - Col de le Martore, maggio 1945 » 174 Quader no dei Fiori Selvatici - Capitolo secondo » 199 Nome di batt aglia: Geranio » 201 Nome di batt aglia: Campanella » 217 Nome di batt aglia: San Giovanni » 235 Nome di batt aglia: Elleboro (Elle) » 247 Nome di batt aglia: Croco » 263
Indice
COROLLE E RADICI V. Nuovi ini zi - Villapiana, 30 aprile 2022 pag. 281 VI. Nuovi ini zi - Col de le Martore, agosto 1945 » 293 Quade rno dei Fiori Selvatici - Capitolo terzo » 309 Nome di batt aglia: Malva » 311 Nome di batt aglia: Silene » 325 Nome di batt aglia: Veronica » 345 Nome di batt aglia: Aconito » 357 Nome di batt aglia: Semprevivo » 373 Nota dell’autrice » 387 Ringraziamenti » 393
Parte terza

LIBRI LIBERI

Nella collana trovano casa testi di differente genere, forma e confezione che fanno di valori umani e cristiani il loro riferimento e la loro forza. Narrazione, inedito e profondità dicono il tenore dei libri che la collana raccoglie.

1. Nella notte , di Inga Nalbandian, a cura di Letizia Leonardi

2. L’angelo, la mosca e l’anima , di Ferruccio Parazzoli

3. Donne di sabbia , di Laura Cappellazzo

4. Torna da m e , di Valentina Barbera

5. Jaap e la collina dei sogni , di Pierpaolo Piangiolino

6. Per un’ altra strada. La leggenda del Quarto Magio. Romanzo , di Mimmo Muolo

7. La trat toria del cardinale. Brevi storie di convivialità e fede , di Sabrina Vecchi

8. Nostal gia di casa. Romanzo , di Ernesto Di Fiore

9. La Casa d ei Coriandoli. Romanzo , di Giorgio Comini

10. Madri e m aree , di Laura Cappellazzo

11. Ho attraversato il fuoco. Ispirato a una storia vera , di Fernando Muraca

12. Un amore di nonna , di Elena Mora

13. La brigata Fiori Selvatici. Romanzo , di Laura Cappellazzo

Quattro donne, quattro storie. Vere. «Così vere da non poterle credere, da sperare che non siano accadute, perché di vicende come quelle di Soledad, Innocence, Dashuri e Laeticia ce ne sono tante, troppe». I racconti narrati in queste pagine sono fotografie vivide, dai toni spesso contrastati, come quelli che solo un’esistenza segnata dalla violenza può rivelare. Eppure ogni donna è anche una storia a sé. Diversa la provenienza geografica, diverso il contesto culturale, diversa la possibilità di «rinascita». A non cambiare sono la rabbia e il dolore che abitano la loro vita, come pure quella di chi le ha aiutate a rimettersi in piedi e a riappropriarsi del diritto di sognare. Per queste donne violate non c’è giudizio, non ci sono considerazioni. Solo rispetto.

Laura CappeLLazzo è nata a Oderzo (TV), dove vive con la sua famiglia. Laureata in Scienze dell’educazione e diplomata in Counselling, ha conseguito il master in Relazioni interculturali e Gestione dei conflitti. Dal 2004 ha lavorato come educatrice con minori maltrattati e vittime di abuso, presso sportelli antiviolenza con una Ong a Lima (Perù) e a progetti antitratta della Provincia di Pordenone per la tutela delle vittime di sfruttamento sessuale e lavorativo. Ora si occupa di sensibilizzazione ai diritti umani parlandone nelle scuole e scrivendo. Con Paoline ha pubblicato Donne di sabbia (2020) e Madri e maree (2022), che le hanno valso diversi riconoscimenti.

Foto di copertina: © PeopleImages.com - Yuri A / Shutterstock

€20,00

«Tra di noi c’erano intellettuali, studentesse, operaie, contadine, erano rappresentate tutte le classi sociali. A mano a mano abbiamo preso consapevolezza e abbiamo capito che cos’era il fascismo.

E quando si dice che noi avevamo “i sentimenti”, io sono orgogliosa, perché noi abbiamo portato questa ricchezza in un momento di violenza, perché la donna porta sempre la sua sensibilità.

In poco tempo abbiamo fatto una rivoluzione: abbiamo rifiutato la guerra, abbiamo voluto la pace, abbiamo capito che dovevamo partecipare, e quindi noi abbiamo fatto una grande azione politica di resistenza».

Lina Tridenti, partigiana

ISBN 978-88-315-5590-6

06R 13

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