Francesco Fiorillo funamboli
Genitori che camminano
sul filo dell’Oltre
Prefazione
Daniele Mencarelli
Le citazioni bibliche sono tratte da La Sacra Bibbia nella versione ufficiale a cura della Conferenza Episcopale Italiana © 2008, Fondazione di Religione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena
Immagini da Shutterstock: p. 55 © Sabelskaya; p. 107 © Trilisti; p. 117 © Elta11; p. 125 © Masha Dav
PAOLINE Editoriale Libri
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ISBN 978-88-315-5687-3
Un invito alla lettura
Avvicinare parole all’indicibile.
Questo compie da sempre l’uomo dinanzi alla sua condizione.
In alcuni casi, però, anche le parole cedono il passo a qualcosa di più grande.
Una presenza.
Essere presenti vuol dire vivere nella realtà che accade, essere braccio, sostegno, durante il lento susseguirsi di passi che compongono il cammino di chi, travolto dalla vita e dalla morte, ha perso ogni forma di orientamento e brancola, povera creatura schiacciata da un Dio che vorrebbe cancellare dall’universo.
Come chi perde un figlio, una figlia.
Chi vive il dolore dei dolori.
Si bruci il cosmo, si incenerisca la terra, sparisca tutto purché quel dolore a forma di voragine scompaia dal mio petto.
Come non capire questo moto di ribellione e disperazione?
Di fronte a certe prove, rimanere presenti è prova di coraggio vero, di umanità viva e innamorata. In molti fuggono, che siano amici o parenti, perché condividere il dolore vuol dire farsene carico.
E poi c’è chi rimane.
Senza grida, esaltazione, sussurra presente, io ci sono, ci sarò.
Ecco l’opera e la missione di don Francesco Fiorillo.
Un ragazzo attraversato dalla vita, partito come tanti, come il sottoscritto, credendosi immortale, per poi fare conoscenza della caducità dell’esistenza e della fragilità dell’amore.
Un dj che negli anni Novanta animava i rave in giro per l’Italia e si è ritrovato il suo migliore amico morto fra le braccia, per overdose di ecstasy.
Da questo fatto, da questo trauma nasce la sua conversione.
Chi ha visto l’orrore della morte così da vicino può vivere in due modi.
Fuggendo, e nessuno può farsi giudice dell’altro, o rimanendo, per diventare esempio di resistenza, di fede, cammino che dalla tragedia fiorisce dentro una nuova vita capace di sopravvivere al dolore.
Questo fa don Francesco.
Dentro il monastero di San Magno, nel comune di Fondi, che è esso stesso emblema di una rinascita da una morte durata secoli. Grazie a don Francesco, pietra a pietra, riedificato: dalle macerie a casa che accoglie nella bellezza, dove tutto è amore.
In questo luogo abitato dal sacro, dove il sacro è in ogni filo d’erba, don Francesco ha dato vita e corso al Nain, un gruppo di genitori che, nella fraternità della presenza, rinascono un giorno alla volta dopo la scomparsa di un figlio.
Nain, il luogo dove Gesù, maestro della croce e della risurrezione, ridestò dalla morte il figlio di una madre disperata.
Leggere Funamboli è immergersi nella nostra umanità più profonda, fare conoscenza di quel dolore, la perdita di un figlio, che tutti sperimentano nei propri incubi e che alcuni vivono nella realtà della carne.
Ma è proprio dalla carne che rinasce l’uomo.
L’uomo e il suo amore, oltre il velo della morte.
DANIELE MENCARELLI
Graffiati dal dolore
Come posso vivere il dolore?
Una ferita che non respira si infetta, una ferita esposta al sole della vita può rimarginarsi. Mia madre mi ha insegnato a non mettere mai un cerotto sulla ferita, ma lasciare che prenda aria. Lasciare che anche le ferite dell’anima prendano vento e sole per rimarginarsi. Credo sia una via possibile anche per il dolore.
Ci è stata fatta una promessa: «La mia gioia sia in voi, e la vostra gioia sia piena» (Giovanni 15,11). E allora perché ciascuno di noi è chiamato a vivere il dolore? Come lo si giustifica? Come lo si affronta?
Il dolore è il regno della delicatezza, bisogna attraversarlo in punta di piedi. Non ho mai creduto che il dolore faccia crescere. Ciò che fa crescere è invece l’amore che versiamo dentro a quello squarcio di dolore.
Per questo, davanti alle sofferenze e alle fatiche delle persone sento di poter offrire solo pochi, scarni suggerimenti.
Il primo è un invito a stare dentro quella situazione, a non scappare.
Cosa fa una mamma accanto al bambino che scotta per la febbre? Sta. Non può far altro. Stare vuol dire accettare il silenzio della vita davanti alla prova. È accettare il silenzio assordante di Dio durante le nostre sofferenze. Durante la tormenta del dolore ci sentiamo come una bottiglia in mare, abbandonati e in balìa, ma se riusciamo a stare in quelle onde, qualcuno, prima o poi, ci raccoglierà perché la prova, ogni prova, ha un inizio e una fine.
E poi, in presenza del dolore, bisogna imparare a curare il presente.
La vita esiste, va avanti, anche quando è fatta di fatica e sofferenza: il dolore non va negato, non va considerato come un corpo estraneo. «Io –scrive Pindaro – seguirò il destino presente curandolo come posso». È il mio dolore, appartiene a me. Non posso evitarlo. Neanche chi ha fede può farlo. La fede non ci risparmia il dolore. Dio protegge non dalla sofferenza, ma nella sofferenza.
Infine, il terzo passaggio, quello decisivo, è imparare a trasformare.
Il dolore di per sé non produce né senso né direzioni. Siamo noi a dare senso al dolore: nominandolo, attraversandolo, domandolo e alla fine trasformandolo. In forza e in amore. Ricordate Giacobbe e la sua lotta con Dio? Anche la sofferenza è un corpo a corpo, una lotta silenziosa tra l’aldiquà e l’aldilà. Ma se riusciamo ad affrontarla vivremo la stessa incredulità di Giacobbe dopo aver lottato con l’angelo: l’angelo si arrende, arriva l’alba… e lui, Giacobbe, non è più come prima. Zoppica e ha cambiato nome. Quando il dolore si trasforma in amore lascia segni su di noi: restano le cicatrici, i graffi causati da quel passaggio, non saremo mai più gli stessi. Come Giacobbe avremo un altro nome, un’altra identità, un altro cammino.
La trasformazione è possibile, è già presente in questo mondo. Basti pensare all’ostrica e a come si forma la sua perla. Nasce da un’ostrica graffiata, ferita. All’interno della conchiglia l’ostrica possiede la madreperla, una sostanza che la protegge dalle intrusioni. Quando una sostanza estranea, come un granello di sabbia o un parassita, riesce a entrare nella conchiglia ferendola, l’ostrica, per evitare danni letali al suo corpo molle e delicato, ricopre l’intruso con vari strati di madreperla. Si forma così la perla. L’in-
truso è la morte di tuo figlio, tu sei la madreperla che può trasformare l’intruso in una perla, la più preziosa, la più bella. La vita di tua figlia.
Dopo ogni dolore saremo diversi. Il dolore ci trasforma, ci apre, ci scarnifica. Il vero modo di attraversare un dolore non è quello di metterlo ai margini, ma nel mezzo, starci dentro, curarlo per quanto possibile e attraversarlo con amore per trasformare la sofferenza in luce. Ricordate l’uomo con la mano inaridita del Vangelo? Gesù prende quell’uomo e lo mette al centro, prende quel dolore e lo mette in mezzo alla vita. Se riusciremo a farlo, nel braciere del nostro cuore troveremo ciò che avremo partorito: la nostra perla rara, il nostro tesoro, la nostra goccia d’oro. E capiremo l’unica cosa che c’è da capire: siamo qui per amare la vita, anche quando il dolore della morte di un figlio, di una figlia, ci ha scarnificato.
Saper colare oro dentro quegli spazi vuoti e doloranti che sono le nostre ferite non è cosa da poco. Ma bisogna imparare a farlo, perché se non ci riesci o se almeno non cominci, quelle stesse ferite ti travolgeranno.
Ci sono alcuni atteggiamenti che ci impediscono di imparare a mettere oro nelle nostre ferite.
Il primo atteggiamento è lamentarsi e piangersi addosso. In genere siamo bravi a farlo, è un moto istintivo che spesso non porta a niente, anzi può addirittura peggiorare la nostra situazione.
Piangersi addosso, infatti, amplifica l’evento emotivo che sta attorno alla nostra ferita, contaminandolo di giudizi: così il nostro dolore ne risulta impregnato. Non valiamo niente, siamo sfortunati e viviamo in un mondo cattivo dove tutto è contro di noi, la vita stessa si è rivoltata contro di noi.
È facile poi che questo primo istintivo atteggiamento ne produca un secondo, altrettanto dannoso: dare la colpa agli altri o, in generale, cercare colpe ovunque.
Gli altri non sono mai i responsabili del nostro dolore e, per quanto ci ostiniamo a crederlo, non sono l’origine delle nostre sofferenze. Qualche volta possiamo avere l’impressione che gli altri ci feriscano ed è certamente possibile che le azioni degli altri possano risvegliare un dolore che già sanguina dentro di noi. La reazione che scatta dentro di noi dipende, appunto, da qualcosa che non è in pace dentro di noi. Non serve quindi aggredire, criticare e pretendere il cambiamento dagli altri.
Il terzo atteggiamento da evitare è la tendenza a nascondere le ferite.
Hai mai visto un medico chiudere una ferita con un gesso? Noi invece spesso nascondiamo i nostri stati d’animo anche agli amici, ci mascheriamo. Ignorare le ferite è come soffocarle e questo le rende infette. Invece, riempire d’oro le nostre ferite significa innanzitutto avere rispetto di esse, trattarle con cura.
Ci sono alcune azioni che possono insegnarci il rispetto per il nostro dolore: penso soprattutto all’importanza del parlare, del condividere. Penso a quanto ci faccia bene lasciarci toccare dagli altri. Gli esseri umani attraverso le parole e il contatto riescono a sostenersi a vicenda, a guarirsi e a trasmettersi l’un l’altro un po’ di energia, per far sì che anche il dolore più grande possa essere portato con dignità.
Quando stai male non scappare, non nasconderti, cerca di trattarti bene: cerca le cose e le persone migliori, concediti qualche regalo. Nel giorno più triste esci e donati qualcosa che desideravi da tempo. In quelle giornate presta particolare attenzione a cosa pensi e a come pensi a ciò che ti è accaduto. A volte i momenti di sofferenza, i conflitti o le sconfitte possono portarci a dei cambiamenti di rotta. Le ferite pos-
siedono una forza speciale che può essere sfruttata a seconda di come le interpretiamo e del significato che attribuiamo loro. Per far questo devi guardare avanti e cercare di scrutare dove quell’esperienza ti sta portando. E sebbene in quel momento ti sembri di non vedere nulla, sappi invece che solo l’aver corretto la direzione del tuo sguardo può iniziare a generare in te una condizione preziosa.
Infine, come tutte le discipline, anche questa ha bisogno di una cosa importante: non avere fretta. Nessuna ferita si trasforma alla svelta. C’è sempre bisogno di tempo e di pazienza. Abbiamo diritto alla convalescenza. E occorre imparare a stare sul dolore, almeno un po’, almeno fintanto che ci si riuscirà. Il vuoto è una dolce compagnia, è una carezza paziente, una domanda che non chiede subito risposte. La morte di un figlio è il buio più buio che si possa incontrare nella vita, e proprio per questo una realtà tanto assurda va attraversata in punta di piedi, come meglio ci viene.
Non siamo mai preparati a questa morte, non dovremmo esserlo, ma ci si trova a viverla ora. È il dolore che non passa, che il tempo non cancella. Vive in noi. Non dobbiamo farcelo amico ma nemmeno renderlo nemico. È parte di noi,
un’aggiunta non desiderata, un battito in meno del nostro cuore che va abitato, un graffio profondo nell’anima con cui da oggi vivere e su cui camminare, come su di un filo sospeso su un precipizio, proprio come fanno i funamboli.
Perché è questo che si è diventati: dei funamboli improvvisati, che non si sono mai esercitati per questa tremenda prova.
Ti trovi su questo filo invisibile che lega il cielo e la terra, il paradiso e l’inferno, il finito e l’infinito, il «qui e ora» e il «per sempre». Il dolore che ti è stato catapultato nel cuore, incomprensibile e indicibile, ti ricorda, per assurdo, che non puoi dare più nulla per scontato: meravigliati di ogni istante che ti è stato concesso con tuo figlio e ringrazia.
È urgente amare ora e non domani, perché questo dolore ti sta donando la consapevolezza di essere impermanente e precario, di essere umile e sobrio, e che niente di tutto ciò che vedi ti appartiene veramente.
E proprio tu sai bene cosa intendo quando dico questo: scorri assieme alla vita e non aggrapparti ad essa.
Sono anche fragile soprattutto fragile immancabilmente fragile.
E continuerò a esserlo, fino alla fine del viaggio.
E nell’altrove, voglio ancora essere fragile nel Fragile.
E all’improvviso
ti senti ancor più vulnerabile senza difese senza rete di protezione.
E all’improvviso
ti senti ancor più libero senza condizionamenti senza programmi.
E all’improvviso tutto è più chiaro tutto più evidente tutto trasparente.
E sai che tutto è di passaggio, tutto può accadere.
Indice
Un invito alla lettura, Daniele Mencarelli pag. 5
Squarciato dalla morte ricomincio a vivere » 9
DOMANDE IMPOSSIBILI
Graffiati dal dolore
Come posso vivere il dolore? » 19
Non è ancora finita
Perché proprio a mio figlio, mia figlia?
Perché non a me? » 29
La fede in cui non credo
Dove eri, Dio? » 35
Vertigine e voragine
Come continuare a vivere? » 43
Siamo tutti insostituibili
Ci può essere un buio più buio di quello che stiamo attraversando? » 49
Il grande vuoto
È Natale e mi manchi di più » 57
Il peso del coraggio e del silenzio
Come soffre un padre? » 65
Madre, partoriscimi e comincio a vivere
Come soffre una madre? pag. 75
Una casa che cambia
La coppia dopo la morte » 85
Sopravvissuti
Come soffre un fratello, una sorella? » 97
Conta quel che rimane
Come portare avanti la vita? » 109
Tutto acceso
Perché cercate tra i morti colui che è vivo? » 119
Come il mandorlo
Cosa ci insegnano gli alberi? » 127
IL GRIDO E LA CAREZZA
Racconti dal filo
La vostra voce
Racconti sul filo dell’abisso » 139
Una vita a pezzi ricomposta » 143
Quel mondo non mi apparteneva più » 146
La vita come una candela accesa » 150
Una grande luce » 158
Una carezza all’anima » 160
Questo amore capace molte volte di essere più forte del dolore » 165
Non mollare mai » 169
Date e vi sarà dato » 174
La vita ha un termine. L’amore no » 177
Ti vogliamo bene » 181
Un genitore non dovrebbe mai sopravvivere al proprio figlio pag. 184
«Ragazzo, dico a te, alzati!» » 191
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