Con loro come loro - Estratto

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Gennaro Giudetti con Angela Iantosca

CON LORO COME LORO

Storie di donne e bambini in fuga

Postfazione

L UISA M ORGANTINI

PAOLINE Editoriale Libri

© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2024

Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it www.paolinestore.it edlibri.mi@paoline.it

Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)

ISBN 978-88-315-5728-3

COME TUTTO È COMINCIATO

Ho conosciuto Gennaro tramite amicizie comuni. E grazie a interessi comuni. Indignazione comune. Senso della giustizia comune e un condiviso modo di guardare agli altri come non altro da noi.

La prima volta che l’ho intervistato, per una rivista che dirigevo e che ora non esiste più, lui era da qualche parte in Congo, disperso in una foresta. Abbiamo cominciato a chiacchierare su WhatsApp, poi le difficoltà con la linea ci hanno fatto rimandare di qualche giorno le nostre parole. E quello che è venuto fuori da questo confronto è stato un dialogo nel quale la frase dominante era « con loro, come loro ». Frase che ho scelto come titolo di quell’articolo e che ci ha accompagnati sino a qui.

In quel momento ci siamo fatti una promessa: che ci saremmo incontrati appena lui fosse passato per l’Italia, la cosa più semplice, forse... (ma questo « forse » lo capirete leggendo il libro!)

Ci siamo riusciti dopo qualche mese. Ricordo che era agosto ed ero a Roma, a casa, perché stavo ultimando di scrivere il libro In trincea per amore. Ci siamo visti in un bar a Termini, in stazione, tra un suo arrivo e una sua nuova partenza. Tornava in Africa: la valigia leggera, una T-shirt, un bracciale che poi ho scoperto cosa rappre-

sentava, un jeans e il necessario per sopravvivere. L’ho accompagnato in aeroporto. « Ti pare che ti faccio prendere un autobus? Hai davanti a te quattro giorni di viaggio prima del tuo arrivo », così gli ho detto per convincerlo (ma era già convinto!). Aveva da prendere non so quanti aerei e altri mezzi prima di arrivare alla sua destinazione, in una foresta, dove le strade sono fatte di terra battuta, dove non c’è niente e dove sarebbe andato di nuovo insieme ad altri a occuparsi di logistica, provando a favorire una migliore condizione di vita degli abitanti del luogo.

Mi ha colpito subito Gennaro. Per quel suo non dar peso a ciò che fa, per la leggerezza con la quale ha sempre affrontato tutto, per quel suo modo di proteggersi dal dolore, per le sue fughe continue, le paure che nasconde e i sorrisi che ti comprano. Ma anche per quella sua determinazione. E poi quell’inquietudine, quella tensione verso qualcosa che non sembra mai raggiungere. Non so, è stato semplice per me « leggerlo » sin dall’inizio. Anche quando gli anni, le esperienze, l’osservazione del mondo nelle sue pieghe più nascoste hanno cominciato a segnarlo, senza tuttavia rubargli quel sorriso.

Abbiamo continuato a sentirci, mentre il suo baricentro si spostava dall’Africa al mare, dall’Oriente all’Occidente. Poi c’è stato il Covid e tutto quello che sappiamo. Ma la distanza non ha allentato la nostra amicizia. Dopo un paio d’anni dal nostro primo incontro, un pomeriggio mi ha telefonato dicendomi che mi doveva parlare: molti insegnanti, al termine degli incontri che gli capitava di tenere nelle scuole, ma anche molti giornalisti conosciuti in giro per il mondo o che lo avevano

intervistato e alcune case editrici gli avevano suggerito e proposto di scrivere un libro. Ci aveva voluto riflettere: non voleva un panegirico delle sue imprese, come qualcuno aveva consigliato, non voleva essere raccontato come un eroe, non voleva trarre profitto da ciò che aveva vissuto. Voleva semplicemente dare voce a qualcosa che si fa fatica ad ascoltare, far emergere realtà lontane, provando a smuovere le coscienze e a far capire che le sue scelte le possono compiere tutti, se davvero si vogliono avere occhi capaci di guardare oltre se stessi. Per questo mi aveva chiamata: aveva pensato che potessi essere io quella giusta per raccontare tutto ciò.

E io ho semplicemente detto sì!

La sua, sin dalla prima volta che ci eravamo sentiti, mi era sembrata una storia da libro, non solo per le vicende in sé da lui vissute e per una visione onnicomprensiva di quanto accade in ogni angolo disperso di questa Terra, dove è stato o dove è in procinto di andare, ma soprattutto per l’unicità della sua esperienza. Per quel suo « con loro, come loro », che per Gennaro ha sempre significato portare alle estreme conseguenze le sue scelte, non volendo mai « fare beneficenza » o calare dall’alto il suo aiuto, ma desiderando condividere difficoltà, gioie, dolori, conquiste, paure con tutte le persone con cui ha voluto trascorrere mesi interi. Per aver scelto, in questi quattordici anni, missioni in giro per il mondo che gli hanno permesso di vivere con i barboni, di essere « papà » di bambini sbarcati a Reggio Calabria, di trascorrere molto tempo in una Comunità di Pace in Sudamerica, di vivere nelle tende con i profughi siriani, soffrendo nello stesso modo, senza mai lamentare quella sofferenza, ma sottolineando sempre il privilegio di

poter scegliere di andare via, a differenza di chi in quei contesti è nato e molto probabilmente morirà.

La sua telefonata e la sua proposta, pertanto, sono state la risposta a un desiderio: provare a dare parole a tutto questo, tentando di entrare in punta di piedi nella sua vita e in quella di tutti coloro dei quali mi ha parlato. Poter dare voce a ciò che ha vissuto una persona come lui, provare a trasformare in pagine i suoi chilometri, la sua fatica, l’ho considerato un regalo enorme per chi, come me, ama le storie: entrare nella psicologia delle persone, cercare di far emergere l’indicibile, regalando sempre a chi legge una luce di speranza…

Abbiamo cominciato così questa avventura fatta di videochiamate, di collegamenti interrotti, di domande che si aggiungevano a domande, a risposte, a silenzi, a fotografie. Conservo quei video delle nostre interviste. Ore e ore ad ascoltare i suoi racconti. Uno alla volta. Troppo dolorosi, troppo forti. Per tutti. Anche per lui.

Abbiamo individuato i luoghi da raccontare, le storie da far emergere, abbiamo deciso che volevamo dire proprio tutto, senza risparmiare nulla ai lettori e senza risparmiarci.

Abbiamo stabilito che non volevamo il racconto romanzato di una delle sue « incredibili esperienze », ma volevamo far arrivare a chi prenderà in mano questo libro quel dolore che accomuna troppe persone nel mondo, far capire il privilegio di cui godiamo in ogni istante, far sentire che è anche nostra responsabilità se i bambini, le donne e gli uomini muoiono, scappano, soffrono.

E poi abbiamo deciso che il filo rosso di questo racconto fosse Gennaro, la sua vita personale, il suo passato, perché ognuno di noi ha qualcosa dentro, una dote,

una capacità, una luce, anche se a volte gli ostacoli, le difficoltà ci impediscono di vederla. Ma quella luce è lì, ad aspettarci. Bisogna solo scoprire qual è e farla esplodere. Come fa Gennaro ogni giorno da quando ha diciannove anni. Da quando per caso si è trovato in Albania, tra gli ultimi, e non si è sentito più giudicato (ma non vi racconto altro).

Ho pianto. Molto. Anche mentre scrivevo e selezionavo le parole. Mentre immaginavo che cosa ha vissuto e che cosa vive Gennaro. Mentre provavo a camminare con lui per le strade di Nairobi o a trascinarmi in mezzo al fango in Colombia. Mentre insieme a lui sceglievo chi salvare e chi lasciare andare in quel mare. Mentre pensavo a tutte le persone di cui mi ha parlato e che ormai popolano il mio mondo.

In questo tempo trascorso insieme online (e talora in presenza), ogni volta che, dopo una delle nostre chiacchierate, interrompevo il nostro collegamento, sentivo un vuoto, una fatica, il peso del mondo. Chiudevo tutto e andavo a camminare.

Mancava ancora qualcosa, tuttavia, una volta raccolte, scritte e poi lette insieme tutte le storie (si è emozionato leggendole!). E questo qualcosa non poteva che arrivare alla fine. La sua famiglia, le sue radici, la sua città, Taranto.

Sono andata in Puglia nell’agosto del 2023. Lì, nella sua casa, tra le sue mura, nell’abitazione estiva dei suoi nonni, tra i suoi amici, ho trovato il filo di tutto, quell’origine che Gennaro porta sempre con sé ovunque vada, anche quando non la si vede.

Lì ho conosciuto l’amore dei suoi genitori e ho compreso quel continuo richiamo che esercita su di lui « la

città dei due mari », da cui si allontana continuamente, sapendo che c’è.

Scrivere questo libro è stato un viaggio incredibile, per il quale ringrazio Gennaro.

Auguro lo stesso viaggio anche a voi. Nella convinzione che alla fine i vostri occhi saranno diversi.

ANGELA IANTOSCA

I.

« Don’t leave me ». È un lamento quella voce spezzata dal mare che le entra nella bocca e si trasforma in schiuma.

« Don’t leave me! », ripete con la forza di chi ha deciso di mollare e intanto si aggrappa a una corda che è l’ultimo appiglio alla vita e piange lacrime che si mescolano alle onde alte. Le intravedo in mezzo a quel sale che brucia, mentre il suo corpo appesantito dalla gravidanza tenta di portarla verso il fondo.

« Take my hand! », urla la mia voce disperata. « Look at me! Look at me! Don’t give up! »

La sua mano aggrappata alla mia sento che scivola. Mi guardo intorno: i secondi scorrono rapidamente, non c’è tempo di pensare. Ma quello che vedo entra nei miei occhi e mi dilata la vita. Sembrano uccelli disperati in acqua quegli esseri umani sotto di me. Muovono le ali, producendo schiuma tutto intorno. Si sostengono a pezzi di legno, a pezzi di un gommone che non c’è più, tentano di urlare quelli che ancora hanno fiato, mentre dall’abisso qualcuno li chiama per inchiodarli giù per sempre. Alcuni corpi sono già rovesciati. Qualcuno è sparito lì da qualche parte, inghiottito dal mare che a volte risputa indietro il suo pasto. A volte no.

È cambiato tutto quel giorno per me, quando le mie mani non sono riuscite ad arrivare ovunque, quando le mie braccia, pur spezzate dalla fatica, non hanno ceduto, quando ho chiesto aiuto anche al fotografo, salito con me sul gommone, per tirare su quella donna con il suo bambino chiuso dentro il grembo e che temevo potesse nascere lì, in quel mare che per qualcuno significa estate e per loro solo sciagura.

Per me il mare è sempre stato sinonimo di pace. E di casa.

Penso al mio mare ogni volta che lo incontro o mi ci scontro. Quando lo sorvolo, quando mi ci tuffo dentro per salvare qualcuno, quando vedo arrivare occhi pieni di speranza dall’orizzonte. Penso al mio mare, a Taranto, alle mie vacanze, alla pigrizia del sole, alle risate senza senso e anche alla birra ghiacciata. E poi alla casa dei miei nonni materni: c’è un odore che non so descrivere e che mi viene in mente quando penso a quella casa, odore di chiuso e vecchio misto a quello delle alici sotto sale, una specialità alla quale i miei nonni si dedicano nei mesi più caldi dell’anno.

Non saprei vivere in una città senza mare. Senza quel suono continuo di sottofondo che c’è anche quando sembra assente. E il vento umido. E quell’odore unico che respiro ogniqualvolta entro nella Taranto vecchia: è tanfo, sentore di pesce pescato, di pesce fresco e anche in putrefazione, è odore di salsedine, di acqua stagnante che si mischia al caldo, alle voci delle persone che abitano su quell’isola unita alla terraferma da due ponti.

La mia è « la città dei due mari »: l’acqua mi ha sempre circondato e quel blu è sempre stato il mio approdo,

sia con gli amici sia da solo. Mi basta una canna da pesca per essere felice. Ricordo ancora quando osservai attentamente per la prima volta un pescatore e gli dissi: « Voglio fare come te », e lui mi rispose: « Devi studiare prima ». Allora comprai libri e riviste, mi impegnai a imparare più cose possibili finché mi trovai di fronte a quella distesa d’acqua con la necessità di esercitare una dote da me poco coltivata, la pazienza, in attesa che il primo pesce abboccasse! Ci sono voluti mesi prima di vedere un pesciolino nero, grande quanto la mia mano, agitarsi all’estremità della mia canna da cinque euro. Ero talmente emozionato che l’ho congelato e tenuto in freezer per un anno e mezzo!

E pensare che quando ero piccolo avevo paura del mare, perché non sapevo nuotare. Poi con nonno Rino e nonna Anna, genitori di mia mamma, pian piano, ho imparato a non temerlo: prima con i braccioli e poi senza. Allora quella distesa d’acqua si è trasformata nel mio migliore amico, nel mio alleato nelle notti insonni e solitarie, nelle giornate con gli amici, durante le passeggiate invernali quando il vento taglia il viso e i pensieri, portandoli via.

Ma ora, mentre sono in questa pozza, lontano dalla mia terra e da ogni appiglio, non trovo più quella pace. Il mare è scomposto, le onde ostili e quella superficie increspata sembrano solo l’ingresso di un cimitero che si estende lì sotto, nella profondità, dove non riesco ad arrivare.

Dove sono i politici? Dove è l’indignazione della gente? Perché non gliene importa niente a nessuno di questa donna che morirà se il guanto al quale è aggrap-

pata scivola giù? Perché siamo noi volontari a dovercene occupare? Vorrei urlare, ma non c’è tempo.

I secondi continuano a battere insensibili e noi dobbiamo salvare quante più persone riusciamo.

« Jacob, aiutami! », grido rivolto al fotografo danese. Lui non ci pensa un attimo, fa finire la reflex in acqua e comincia a tirare su corpi, facendo attenzione a non cadere in mare. È la prima cosa che insegnano quando si decide di partecipare ai salvataggi: « Se finite in mare siete fuori gioco, perché il salvagente a gas, a contatto con l’acqua, si gonfia e diventa enorme, tanto da bloccarvi la testa e impedirvi i movimenti ».

Tiriamo su la donna che aspetta un bambino: siamo riusciti ad afferrarla prima che scivolasse e a farla precipitare di peso nel nostro gommone. Mi cade addosso, ma almeno è salva. Mi sposto, la lascio da una parte, qualcuno penserà a lei. Io mi concentro sugli altri. Nell’acqua galleggiano pezzi di legno, quelli che vengono usati per rinforzare il fondo del gommone e renderlo più stabile. A volte si mettono anche dei pannelli per irrigidire la base. Ma, con il trascorrere delle ore e con il peso di chi è a bordo, il rischio è che quei pezzi di legno, che spesso hanno ancora dei chiodi, strappino il nylon del gommone facendo finire tutti in acqua. La parte tubolare vedo che è ancora intatta, qualcuno è aggrappato alla corda, ma al centro, dove non c’è più il fondo, si è formata come una piscina che impedisce a noi di avvicinarci facilmente. Distribuisco quanti più giubbotti di salvataggio possibile e poi urlo come usarli, cosa fare. Intanto con una mano cerco di tenere vicini il loro gommone e il nostro, evitando che sbattano continuamente: con queste onde c’è il rischio che il nostro

causi la definitiva rottura del loro. Prendo alcune persone mettendo le mie braccia sotto le loro ascelle e le sollevo con uno sforzo enorme, sento i muscoli e i tendini del collo tirarsi all’estremo, la schiena fare leva sulle gambe instabili nel gommone: non hanno più resistenza quei corpi e si lasciano andare in quello che a loro suona quasi come un abbraccio. Molti non sanno dove attaccarsi: nessuno di loro sa nuotare né galleggiare. Continuano solo a ingerire acqua…

Quando ne abbiamo caricati un po’ ci allontaniamo, mettiamo le persone salvate sull’altro gommone, che ha la funzione di accogliere i vivi, e torniamo lì: i miei occhi veloci scrutano quella superficie. Cerco mani che affiorano, cerco visi e ripenso a ciò che in poche ore nei giorni precedenti mi hanno insegnato facendo le prove con un manichino: « Se sono rovesciati, non c’è più niente da fare. Se stanno schiumando, significa che stanno bevendo troppa acqua e forse c’è ancora speranza. Di fronte al recupero di una persona che ve ne potrebbe far perdere due o tre, salvatene tre... ». Allora osservo e scelgo, allungo braccia e scelgo, allungo mani e scelgo, tiro su e scelgo. Continuiamo così, finché non li salviamo tutti. O quasi. Quel giorno il mare ne porta via otto. Ma non possiamo pensarci ora. Perché non è ancora finita. « Gennaro, devi recuperare i cadaveri e metterli nelle sacche nere, quelle con la cerniera ». Il mondo si ferma, il cuore è un pezzo di ghiaccio. La gente muore così, mentre sperava in un futuro, perché una mano non è arrivata in tempo, perché un soccorso non è stato tempestivo. Quel ghiaccio mi rimarrà dentro. Non dico una parola e non ascolto cosa mi dice il corpo. Lo farò dopo, quando potrò stare solo. Ora ho otto

esseri umani da recuperare. La tempesta di poco fa si è placata. Il mare è ancora mosso, ma ora c’è silenzio. Non si sentono più quelle urla smorzate, quelle parole incomprensibili, ci sono solo schiene rivolte verso l’alto. Mi avvicino al primo cadavere: è una donna. La giro. La trascino a fatica, la metto nel sacco. So cosa devo fare, ma le mani raggrinzite da tutta quell’acqua tremano e rompono la cerniera. Prendo un altro sacco: non devo cedere proprio ora. Rifaccio la stessa operazione, mentre sento la rabbia che mi monta dentro e anche una tristezza che tenta di rendermi molli le braccia: è morta solo perché è nata in Costa d’Avorio o in chissà quale altro Paese dell’Africa. Che cosa voleva, in fondo, da noi se non vivere in pace?

Finisco di caricare i cadaveri e li portiamo a bordo. Sono cupo e silenzioso: ho visto il marito che cercava disperatamente la donna. « Con lui ci parlate voi. Non voglio fare il riconoscimento delle salme... », dico determinato ai miei compagni.

Prima di abbandonare quel pezzo di mare che mi ha cambiato, dobbiamo distruggere il gommone. O quel che resta.

Ci avviciniamo. Davanti a me la storia delle persone che erano stipate lì dentro e che vengono dalla Guinea, dall’Eritrea, dalla Costa d’Avorio. Mi sembra di leggere il loro diario di bordo: ci sono il satellitare, le taniche di benzina, una bussola e poi scarpe, vestitini di bambini, scarpettine e ciabatte. Ma anche cacca e pipì. Fanno tutto a bordo in quei giorni di navigazione, mentre stanno accovacciati in punti diversi a seconda di quanto hanno pagato: sul tubolare ci sono quelli che hanno speso meno e che rischiano continuamente di cadere in acqua; sulla

prua di solito donne e bambini; vicino al motore c’è il trafficante, e il resto degli uomini accucciati a terra...

Quando, dopo poco, lasciamo il mare e torniamo a bordo della Sea Watch, sento scendere tutta la stanchezza e l’adrenalina che mi ha permesso di non fermarmi fino a quel momento. Il corpo si rilassa e libera la mente da una catena invisibile. Vorrei che non si sciogliesse quel laccio stretto che mi ha trattenuto i pensieri. Mi sembra quasi di sentire gli ingranaggi della mente che tornano a muoversi. Vado in camera e, anche se bagnato e completamente coperto di sale, mi tolgo solo i vestiti e mi butto sul letto in mutande. Sento il cuore che comincia ad accelerare: ho la tachicardia e sono stremato. Le lacrime scendono fino alle orecchie lavandomi il viso da tutto quel sale, mentre con gli occhi sbarrati guardo il soffitto della mia cabina. Rivedo i morti e quel gommone, il legno, risento le urla. Quelle che ho lasciato in mare e quelle che fanno da sottofondo al mio riposo. È lo strazio di chi ha perso qualcuno, di chi ha appena riconosciuto il corpo del papà, del marito o della moglie. Vorrei spegnere l’interruttore e non sentire… Come facevo quando ero un bambino, prima, e un ragazzo, poi.

Mia mamma mi racconta sempre di quando a tre anni, poiché non volevo sentire ragioni, le dissi che me ne sarei andato di casa: scesi fino al portone del condominio, ma poi, non arrivando alla maniglia, tornai indietro. Ero un testardo già a quell’età e poi ho proseguito, non solo con i miei genitori e i miei nonni, che di solito coprivano le mie marachelle, ma anche a scuola. Non sopportavo le ingiustizie: se vedevo qualcosa di sbagliato non riuscivo a stare zitto, anche se di fronte avevo i

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INDICE

Introduzione: Come tutto è cominciato (Angela Iantosca) pag. 5

I. Petit Gennaro

Il mar Mediterraneo » 11

II. Chi sono

Ieri come oggi » 35

III. Seme di almendro

La Comunità di Pace di San José de Apartadó » 41

IV. La città dei due mari

With or without you » 67

V. « Karibù, Getanghe! »

Kenya: la vita a Shamba » 69

VI. Mi leggi una storia?

L’Albania, dove tutto è cominciato » 92

VII. Papà Gennaro

Reggio Calabria e i ragazzi degli sbarchi » 97

VIII. Palla a spicchi

Una caramella alla menta per ogni marachella » 110

IX. Un giorno cipolla, un giorno miele

Nelle tendopoli in Libano con Operazione Colomba pag. 112

X. « France’, dacci una mano! »

L’incontro con papa Francesco » 133

XI. A.C.-D.C.

Codogno, il carcere e lo Yemen al tempo del Covid » 137

XII. Gli esami sotto le bombe

Si torna a scuola » 153

XIII. Il silenzio della guerra

Quella risurrezione (im)possibile

XIV. Se potessi dare

La laurea itinerante » 176

Epilogo » 179

Postfazione (Luisa Morgantini) » 183

Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano - 2024

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