I Prima di nascere
Sono arrivata fin qui, dove l’amore mi ha portato. Ho conosciuto l’oscurità, il tempo sospeso dell’attesa, il margine degli abissi e l’immensità che avvolge tutte le cose. Ho dovuto affrontare sfide difficili fin dall’inizio del mio cammino. Forse per questo mia madre, quella volta che finalmente mi vide donna, si lasciò andare ai ricordi, a quando era stata incinta di me. Fu il suo modo per dirmi che tutto si può superare se c’è l’amore, anche quando capita di dover sopravvivere fin dal principio. Mi parve questo il senso profondo del suo racconto…
Nuotavo nelle acque tiepide nel ventre della mamma ed ero ignara che fuori parlavano di me, del mio destino in questa vita. Ragionevolmente qualcuno stava dicendo ai miei genitori che non potevo nascere. Parole pesanti come macigni che un medico non vorrebbe mai pronunciare davanti a una donna in stato di gravidanza. I bimbi è più bel-
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lo per tutti farli venire al mondo, ma lei non stava bene, e bisognava prendere al più presto una decisione. Lo specialista, trovandosi di fronte una donna che aveva già figli da crescere, disse che le conveniva salvarsi la vita sacrificando me. Tutt’e due non ce la potevamo fare a sopravvivere, e fermare la gravidanza era il male minore. Una soluzione tragica e ineluttabile a cui era impossibile sottrarsi usando il buon senso necessario in questi casi. Questo le propose il dottore.
Mia madre, prima di fare qualsiasi scelta, volle sentire il prete dell’ospedale perché, essendo credente, pensò che la vita non riguardava solo la scienza, ma che qualcosa se ne poteva sapere anche altrove. Si mise a cercare consiglio nei modi in cui era abituata a chiederlo e domandò del cappellano. Il vecchio religioso barbuto che aveva in carico il servizio arrivò accompagnato da un’infermiera e mia madre volle restare da sola con lui. Il pover’uomo accorso al suo capezzale non si aspettava di trovarsi davanti a un compito così arduo e molto più impegnativo di una bonaria benedizione. Non gli fu facile rispondere con franchezza, perché la donna che gli chiedeva un parere avrebbe potuto morire a causa delle sue risposte. Si fece coraggio e le disse quello che a lui avevano trasmesso da sempre, che una vita è una vita e che tutte hanno lo stesso valore. Mentre con la voce tremolante pronunciava queste parole dure come pietre e cristalline come un diamante, le accarezzava la mano che aveva preso fra le sue prima di aprire bocca. Non c’era
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riuscito subito: il cuore aveva iniziato a battergli nel petto all’impazzata e per un attimo aveva anche pensato di declinare ogni responsabilità, di lasciare che fosse la donna a prendere la decisione ascoltando la propria coscienza. Aveva anche formulato nella sua testa la frase adatta con cui ribaltarle addosso tutto l’onere della scelta. All’ultimo momento, però, il suo sguardo si era incrociato con quello supplicante della mamma e lui si era reso conto della viltà con cui stava affrontando la situazione. Fu allora che accorciò le distanze cercando un contatto fisico con lei. Comprese che loro due, in quella stanzetta d’ospedale, non erano semplicemente una donna e un prete davanti a un dilemma esistenziale. Mentre in silenzio cominciò ad accarezzarla, invocò aiuto lassù e questo rovesciamento di prospettiva cambiò il suo modo di guardare le cose. Vide che insieme, mano nella mano, erano entrati in un’altra dimensione. La meta di questo tragitto fu una pace intima che li raggiunse entrambi poco alla volta, fino a che lui le propose di pregare insieme un’Ave Maria. Nella camera in cui si trovavano il tempo si fermò, si mise in attesa. Lei si sentì capita e uscì dalla solitudine nella quale la diagnosi l’aveva fatta precipitare.
Quando la mamma mi raccontò l’episodio non seppe dirmi quanto stettero così, in silenzio. Disse che poteva essere stato un minuto ma anche un’ora, non si poteva definire. Mi narrò che alla fine il religioso trovò la forza di parlare. Quel modo di farsi prossimo a lei aveva generato
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uno spazio di comunione vera che lo aveva aiutato a riprendere contatto con la tradizione millenaria di cui era parte, con principi tramandati di generazione in generazione. Era necessario che ciò avvenisse per trovare lo slancio a comportarsi in modo degno del suo stato, perché nessuno può dire a una persona, a cuor leggero e facendo leva solo sulle sue risorse, che è giusto e opportuno rischiare di morire, anche se è per tentare di far nascere un bambino. La tradizione offre un punto di osservazione che oltrepassa il tempo, anche se arriva, prima o poi, il giorno di novità sorprendenti che la trasformano, che la rendono più conforme a ciò che gli esseri umani diventano percorrendo le strade del loro lungo pellegrinaggio nei secoli dei secoli. Non è immobile la tradizione, è come un vegliardo che racchiude e preserva in sé tutto il cammino di un popolo e nello stesso tempo ha il dono di guardare oltre i confini del presente, di generazione in generazione, verso il domani. Mentre la mamma viveva queste esperienze, le tiepide acque in cui fluttuavo dovettero certamente risentirne: non è possibile che il corpo non reagisca mentre l’anima di una povera crista si agita in un dramma di questa portata. Immagino che anch’io dovetti avvertire una tensione, che il pH del liquido amniotico si modificasse man mano che passavano i minuti e le ore.
Mia madre analizzò rapidamente quello che le avevano detto il medico e il prete, e le sembrò che entrambi avessero ragione, ma alla fine preferì mettere a rischio sé stes -
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sa per tentare di salvare me. Quasi mi sembra di vederla distesa sul letto dell’ospedale mentre prende la sua decisione. Quando mi raccontò questi momenti della sua vita, io le feci una semplice domanda: «E non hai avuto paura che gli altri figli potessero rimanere soli, senza una madre che potesse crescerli?». Mi rispose che per alcune ore, mentre rifletteva su cosa fosse meglio fare, questa paura aveva bussato alla porta del cuore con insistenza, in certi momenti così forte da fare tremare l’anima, ma poi, a un certo punto, qualcosa dentro di lei era cambiato all’improvviso. Sentiva le farfalle nella pancia. Ero io che mi muovevo, e allora tutto quello che prima faceva fracasso a un tratto si mise a tacere. Un pensiero si fece strada nella sua testa fino a diventare una convinzione che nessuno avrebbe potuto scalfire. Bella, leggera e incredibile come il volo di una farfalla: agli altri suoi figli, se fosse morta, avrebbe pensato la Provvidenza. Quando questa idea affiorò alla sua coscienza la prima volta, non poté fermare le lacrime. Sentì un profondo sentimento di vergogna per non avere rivolto subito la sua fiducia a ciò in cui aveva sempre creduto. Disse un’altra Ave Maria e chiese perdono, la mente rivolta verso il cielo e le mani sul ventre; anche a me chiedeva misericordia. Quanto ho ammirato mia madre quando mi ha fatto queste confidenze. Ho sempre diffidato di quelli che chiedono perdono solo al Signore per i torti fatti a qualcuno. Il perdono, per essere vero, deve unire la terra e il cielo: dobbiamo cercare di rimediare al male co -
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minciando con l’umiliarci davanti a chi è stato ferito. Se il Cielo esiste, dev’essere sicuramente dalle parti dove si trovano gli offesi, non potrebbe essere altrimenti.
Quindi, alla fine, io sono in questa vita per il coraggio di mia madre, per la sua fede in qualcosa che ha considerazione divina dei più fragili e li mette al primo posto, alla propria destra. In una forza che può agire nella Storia quando le nostre risorse sono estinte. Per la donna che mi custodiva nel suo ventre, credere alla Provvidenza significava non perdere questa immagine del mondo. La mamma conosceva il Vangelo e le riecheggiò all’improvviso nella mente un passo: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte le cose vi verranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena». Se glielo avessero chiesto, non avrebbe saputo ripeterlo a memoria. Queste frasi fecero un passaggio rapido nella sua testa come un volo di rondine, una reminiscenza repentina e imprevedibile. Riuscì per mia fortuna ad afferrare nella sua coscienza il significato di quei versetti antichi.
Questo fu l’humus in cui maturò e crebbe la decisione assurda di rischiare la vita per me. Una risoluzione limpida e adamantina, che lasciò i medici in prima istanza ammirati e senza parole davanti a tanta generosità, e poi irritati per la sconsideratezza. Mia madre stava mettendo a repentaglio gli equilibri di un’intera famiglia e la sua stessa vita, tutto il suo futuro ancora carico di promesse, per qualcosa
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che non si poteva neanche vedere. Allora non esistevano gli ecografi. Eravamo alla fine degli anni Cinquanta e ci sarebbero voluti ancora decenni perché fossero disponibili queste tecnologie che hanno sviluppato le ricerche di Lazzaro Spallanzani, un biologo della fine del Settecento. L’accademico aveva capito che i pipistrelli si orientavano nello spazio non guardando ma sentendo. In fondo, mia madre fece qualcosa di simile ascoltando le farfalle dentro di lei: erano l’eco di quello che ero io. S’incamminò nel buio, a occhi chiusi, verso di me, per accogliermi fra le sue braccia, nella sua vita.
Questo genere di eventi, le decisioni che si prendono sul crinale della coscienza, spesso hanno a che fare con il mistero, con i pesi che le persone trascinano nella loro vita, con ciò che hanno conosciuto e vissuto. È difficile giudicare, condannare, anche quando le storie non finiscono con un vagito.
A me è andata bene, e per questo ho conservato sempre, nonostante tutto quello che la vita mi ha riservato, almeno un sottile sussurro di gratitudine. Anche questo misterioso «perché», certe volte, questo alito lieve, mi ha fermato dal maledire il giorno in cui sono nata. E se lo avessi fatto, nessuno, credo, avrebbe potuto biasimarmi.
Comunque, le cose andarono meglio del previsto perché ci salvammo entrambe grazie ad alcuni dottori che mio
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padre era riuscito a trovare. Questi nuovi medici, pur in disaccordo con le scelte che erano state fatte, diedero il meglio di loro stessi per tentare l’impossibile. Sono venuta al mondo grazie all’amore sconsiderato di una donna che ha preferito rischiare la sua vita per me. Pazze madri che camminate sul filo della morte per i vostri figli, oltre ogni ragionevolezza!
Ma il lieto fine portava con sé anche un prezzo da pagare: in questa vita l’amore fa i conti con la condizione umana, con la fragilità della carne. La mamma dovette rimanere in ospedale e sotto cure continue per anni. Non si poteva occupare di me, e non poteva farlo neanche mio padre, che doveva lavorare tutto il giorno per mantenere gli altri figli. Così fummo separate, soffrendo entrambe, in maniera diversa, un terribile distacco. Per due anni andai presso vari istituti per l’infanzia. Il primo sorriso, le prime parole, i primi passi, non furono applauditi nella mia casa, in una famiglia, dalle figure di riferimento. Ogni sei mesi cambiavo settore a seconda degli stadi di sviluppo e venivo affidata a persone a me sconosciute. Allora non esistevano le conoscenze e, forse, non c’era neanche la volontà di mettere al centro il bene del fanciullo. Gli si consentiva di sopravvivere e, in una società senza previdenza universale, era il massimo che si potesse pretendere.
Il racconto di mia madre si concluse con un altro episodio di quei tempi che mi lasciò incredula. Quando avevo
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circa due anni, mio padre venne a prendermi all’istituto che mi ospitava e mi portò alla clinica dove mia madre veniva curata. Quando arrivò davanti alla sua camera, si fermò sulla porta e mi sollevò per mettermi in bella mostra affinché lei potesse vedermi bene. La mamma, che ancora sofferente non poteva alzarsi dal letto, impazziva dal desiderio di prendermi in braccio e mio padre, crudelmente e chissà perché, forse per un gioco macabro, continuava a espormi da lontano senza avvicinarsi. Il motivo di questa tortura a cui la sottopose lungamente prima di posarmi sul suo petto singhiozzante è inspiegabile, si potrebbero fare solo congetture. Mia madre non mi disse di più di questo e io non ebbi il coraggio d’insistere perché, per fuggire alle lacrime che già le scendevano sul viso nonostante fossero passati quasi quarant’anni, lei si alzò dalla sedia e andò in silenzio a lavare i piatti rimasti nel lavello dopo il pranzo. Questo episodio lascia però intendere chiaramente che mio padre aveva facoltà di portarmi fuori dall’istituto che mi ospitava quando ne aveva desiderio.
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La difficile condizione di mia madre
Unmatrimonio, un’unione fra un uomo e una donna, è un luogo in cui i caratteri, le inclinazioni, le culture e le storie dei partner si manifestano completamente. La convivenza giornaliera che scandisce il tempo della vita è implacabile. È difficile nascondere le debolezze, i difetti, le paure, le angosce che ognuno si porta dentro. Ci si può riuscire per qualche tempo, a volte anche per anni, ma alla fine non si sfugge a ciò a cui la costante prossimità costringe: ognuno si rivela all’altro per quello che è.
Mio padre è stato un uomo incapace di condividere le proprie emozioni: qualcosa doveva essersi spezzato in lui, probabilmente non si accorgeva neanche di essere così.
Talvolta cercava di farci ridere, ma ora mi pare di poter dire che lo facesse per evitare di affrontare relazioni più intime e profonde che avrebbero reso riconoscibili i suoi sentimenti. Invece usava i diritti che la società del tempo gli concedeva, li usava e ne abusava. Era un uomo autori-
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tario e, almeno apparentemente, insensibile, non era capace di rendersi presente a cuore aperto, con l’anima, alla sua compagna di vita. Mia madre ubbidiva e basta. Non poteva cantare e non poteva ballare. Se qualche volta si lasciava andare a questi comportamenti, anche se era in casa con i soli familiari, veniva tacciata di mondanità e seccamente rimproverata, obbligata a tornare nei ranghi, ad assumere prassi di vita più austere. Non aveva più un rapporto emozionale con mio padre. Lui era stato in guerra ed era tornato indurito, non sapeva costruire momenti affettuosi, di complicità vera. Non era nei suoi programmi tentare di dare alla moglie quello che desiderava, quello che qualsiasi donna vuole dal marito: tenerezza, ascolto, incoraggiamento. La mamma doveva ubbidirgli come una sottoposta, ma non era solo una questione culturale legata ai tempi e alle tradizioni. Le donne, è vero, allora erano soggiogate dai mariti, ma mio padre aggiungeva una freddezza che creava distanza. I rari apprezzamenti che aveva per lei erano rivolti alle sue doti nella sartoria, in cucina, per la creatività che la mamma aggiungeva nel compiere tutti i lavori che le donne facevano in casa. A volte poteva sembrare che lei fosse più una domestica che una compagna di vita. A una persona volitiva come mia madre questo austero ménage , col passare degli anni, causò profonda infelicità. Uno stato di prostrazione che generava in lei sentimenti contrastanti: rabbia, delusione, atteggiamenti di resa totale e momenti di ribellione esplosivi.
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Nel 1973 la mamma iniziò a frequentare lo studio di uno psichiatra a cui confidò quanto era costretta a sopportare: «Io con lui devo misurare le parole». Dopo poche sedute lo specialista le consigliò di lasciare un uomo così anaffettivo: questo l’avrebbe quasi certamente aiutata a rimettersi in sesto. Lei non avrebbe mai potuto seguire un simile suggerimento, piuttosto sarebbe morta. Mi ricordo di averle sentito dire spesso che per lei la famiglia era tutto. Non ne aveva avuta una in cui essere accolta come spetterebbe a ogni fanciulla. A cinque anni era stata abbandonata in un orfanotrofio. La sua mamma non ce la faceva più a crescerla da sola; era rimasta incinta presa dalla passione per un soldato di cui si era sinceramente innamorata, ma con cui era stato impossibile costruire una vita. Alla fine lui se n’era andato con un’altra e, a quell’epoca, una donna sola con un figlio era considerata una poco di buono. Mia nonna, rimasta senza nessuno che la sostenesse, prese la decisione drammatica di consegnare la figlia nelle mani delle suore, che almeno avrebbero potuto darle un letto e pasti caldi ogni giorno. Mia mamma è cresciuta così, fra un istituto e l’altro, con una nostalgia immensa di una famiglia. Perciò, quando finalmente ne ha avuta una tutta sua, non ha voluto perderla, anche a costo di subire il temperamento dell’uomo difficile che aveva sposato. Ci riuscì vivendo un giorno alla volta, perché «ogni giorno ha la sua pena».
Siamo proprio pazze noi donne quando arriviamo al punto di annichilirci per mantenere insieme i pezzi delle nostre
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case che stanno andando in frantumi! Ci vorrebbe più aiuto e discernimento e si potrebbero evitare tragedie, ma la vergogna, molte volte, e la paura, tante altre, ci fanno diventare afone. Mia madre si convinse che quel marito strampalato che la sorte le aveva donato lo doveva accettare così com’era, non c’era verso che cambiasse, si era rassegnata. Ma non era facile, anche se la decisione l’aveva presa per sempre, e allora, quando non ci riusciva, stringeva i denti e lo sopportava. Ma non dovette portare la croce da sola, qualcosa d’inaspettato le venne in aiuto. Nella seconda metà del Novecento sorsero tanti movimenti che aspiravano a vivere la religione meno dogmaticamente. Nascevano in Europa comunità vive, piene di solidarietà, e lei, grazie al buon Dio, nel 1968 ne intercettò una e la seguì con dedizione. Le persone gioiose che la componevano erano accoglienti, disponibili all’ascolto, capaci di lenire molte delle sue insoddisfazioni e angosce. Portava anche me in comunità e io godevo come lei di quella gentilezza tipica delle persone buone, che non ti giudicano né dai vestiti né per il ruolo sociale che hai nella tua città. Noi, venendo dal Veneto, eravamo immigrati in terra brianzola e guardati con diffidenza. La mamma smise anche di picchiarci quando facevamo le marachelle: cercava di imitare i suoi formatori che si comportavano così con i loro figli.
Ciò le causava altri guai con mio padre, il quale era contrario a che lei frequentasse questi incontri e, soprattut-
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to, che vi portasse anche noi. Ma mia madre in questo non gli ubbidiva: abbassava la testa, ma poi, quando arrivava la sera, uscivamo furtive di casa per ritornare alle adunanze dai suoi amici. Mentre camminavo con lei per strada stringendole forte la mano, sentivo sia la sua preoccupazione per come avrebbe reagito mio papà, sia la sua felicità di andare in un luogo che le permetteva di esprimersi pienamente. Forse il marito, lontano dai nostri occhi, le avrà dato anche qualche ceffone per questa sua ostinata manifestazione di emancipazione. Lei però non demordeva e, quando l’educazione dei figli le sfuggiva dal controllo per mancanza di autorevolezza, litigava con lui e, alla fine, scaricava su di noi la tensione accumulata. Mi ricordo che una volta – avevo circa dodici anni – mi tirò i capelli con violenza mentre me li lavava, solo perché mi ero un po’ mossa per via del sapone che mi era andato negli occhi. Poi, però, la sera mi chiese scusa: aveva perso le staffe e se ne rendeva conto. Era inquieta e instabile, ma il suo esaurimento nervoso non aveva più i tratti della depressione; si barcamenava tra il desiderio di seguire la comunità a cui aderiva con trasporto e la difficile relazione con l’uomo con cui dormiva.
La prossimità con i suoi amici la aiutò a non far deflagrare la sua psiche, la tenne in piedi. Nello stesso tempo consentì a me di fare esperienze oltre il circolo della famiglia, in un clima sereno e autentico, di vedere che ci poteva essere una vita migliore. E mi buttai anch’io a capofitto in
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quell’avventura comunitaria partecipando con assiduità agli incontri delle giovinette che seguivano quei bellissimi ideali di amore e di fraternità universale. In un certo senso, mia madre, con la sua insubordinazione, mi metteva al mondo una seconda volta: frequentare la sua comunità fu per me proprio come entrare in una vita nuova, fu una salvezza.
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I. Prima di nascere pa g. 5 II. La d ifficile condizione di mia madre » 14 I II. Le prime molestie » 20 I V. La C omunità » 38 V. Alba Maria » 44 V I. La mano morta » 48 V II. Il v iaggio apostolico a Firenze » 58 V III. Una convivenza di ragazze » 67 I X. Il mondo del lavoro » 72 X . La C ascina della speranza » 79 X I. La voglia di dare tutto » 84 X II. Il f uoco » 93 X III. Precipizio tossico » 10 4 XIV. Davanti a una parete di rampicanti » 117 XV. La g ioia è un dono » 12 4 XVI. Gisella » 136
Indice
XVII. Lo psichiatra pag. 145 X VIII. Lo scontro » 154 X IX. Il pa dre cappuccino » 161 X X. I gua rdiani della cassaforte » 166 X XI. Diletta torna dopo la malattia » 176 X XII. I fantasmi del passato » 183 X XIII. Il senso del dolore » 191 X XIV. Inf inite domande e interruzione della terapia » 198 X XV. Una serata al cinema » 202 X XVI. La consapevolezza dell’acqua » 208 X XVII. Riprende il cammino » 211 X XVIII. La «t erapia del corpo» » 215 X XIX. La voragine » 231 X XX. La piccola Diletta » 238 X XXI. Col loquio con papà » 246 X XXII. Fine di una terapia » 262 X XXIII. La terapia dei quadri » 266 X XXIV. La sua morte » 271 X XXV. La lettera nella bara » 282 X XXVI. Un luogo in cui accogliere » 28 5 X XXVII. Epilogo » 291 R ingraziamenti » 293
LIBRI LIBERI
Nella collana trovano casa testi di differente genere, forma e confezione che fanno di valori umani e cristiani il loro riferimento e la loro forza. Narrazione, inedito e profondità dicono il tenore dei libri che la collana raccoglie.
1. Nella notte , di Inga Nalbandian, a cura di Letizia Leonardi
2. L’ angelo, la mosca e l’anima , di Ferruccio Parazzoli
3. Donne di sabbia , di Laura Cappellazzo
4. Torna da me , di Valentina Barbera
5. Ja ap e la collina dei sogni , di Pierpaolo Piangiolino
6. P e r un’altra strada. La leggenda del Quarto Magio. Romanzo , di Mimmo Muolo
7. L a t rattoria del cardinale. Brevi storie di convivialità e fede , di Sabrina Vecchi
8. Nostalgia di casa. Romanzo , di Ernesto Di Fiore
9. L a C asa dei Coriandoli. Romanzo , di Giorgio Comini
10. Ma dri e maree , di Laura Cappellazzo
11. Ho attraversato il fuoco. Ispirato a una storia vera , di Fernando Muraca
12. Un amore di nonna , di Elena Mora
Quattro donne, quattro storie. Vere. «Così vere da non poterle credere, da sperare che non siano accadute, perché di vicende come quelle di Soledad, Innocence, Dashuri e Laeticia ce ne sono tante, troppe». I racconti narrati in queste pagine sono fotografie vivide, dai toni spesso contrastati, come quelli che solo un’esistenza segnata dalla violenza può rivelare. Eppure ogni donna è anche una storia a sé. Diversa la provenienza geografica, diverso il contesto culturale, diversa la possibilità di «rinascita». A non cambiare sono la rabbia e il dolore che abitano la loro vita, come pure quella di chi le ha aiutate a rimettersi in piedi e a riappropriarsi del diritto di sognare. Per queste donne violate non c’è giudizio, non ci sono considerazioni. Solo rispetto.
F ernando M uraca è un narratore. Ha realizzato film di finzione, documentari, serie TV e opere teatrali come regista, sceneggiatore, montatore. Negli ultimi dieci anni ha accresciuto molto la sua attività editoriale pubblicando diversi romanzi e saggi. Nella sua narrativa ha praticato generi differenti spaziando dal noir (Isole nere, 2016) al romanzo adolescenziale su un tema cogente come quello della dipendenza dai social (Liberamente Veronica, 2019). Nella produzione saggistica, tradotta anche in altre lingue, ha concentrato i suoi sforzi sul tema della creatività nell’azione dell’artista (La pasión creativa, 2022) e sull’influenza delle immagini nella società digitale (Le immagini al potere, 2021).
Foto di copertina: © ronstik / Shutterstock (primo piano), © Vaclav P3k / Shutterstock (sfondo)
€18,00
«Se ti strappano l’innocenza, che cosa ti resta per vivere da bambina? Vaghi seppellita tra una cosa e l’altra e vorresti morire. Io però sono qui, viva. Innocente.
Per anni ho desiderato parlare di queste cose, ma non ero pronta. Adesso ho trovato un amico che lo ha fatto per me: ha scritto dopo aver ascoltato con profondità quello che ho vissuto».
Nascono così queste pagine, in cui i ricordi e i sentimenti di Diletta sono presentati con una delicatezza che avvolge anche i tratti più ruvidi della sua storia.
ISBN 978-88-315-5406-0
06R 11