Isabella Salmoirago
Illustrazione di copertina: Valentina Malgarise
PAOLINE Editoriale Libri
© FIGLIE DI SAN PAOLO, 2024
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Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (MI)
ISBN 978-88-315-5741-2
A mio fratello Andrea e a tutti coloro che cercano con cuore sincero
Se riuscissi a tornare indietro
Avevo appena compiuto quindici anni quando sono scomparsa, quindi ora dovrei avere più o meno quindici anni e due mesi, o poco più. Ma il tempo qui ad Aqua scorre in modo diverso, mi hanno detto, per cui non so esattamente che età avrei, se riuscissi a tornare indietro.
Per tutto questo tempo non ho fatto altro che cercare la via di casa, senza riuscirci.
E a pensarci bene è davvero assurdo perché qui, in questo strano mondo, sono una Cercatrice d’Acqua. Cercare dovrebbe essere quello che mi viene meglio, ma ho fallito. Sono bloccata in una grotta e sto morendo. Di sete.
Non so per quanto tempo potrò resistere.
Scrivo queste righe in fretta, nella speranza che qualcuno le ritrovi e le consegni alla mia famiglia.
Meritano di sapere che non li ho abbandonati. Mi chiamo Chiara Locatelli. Se trovate questo quaderno, fateglielo avere, vi prego. Non so se siano tornati a Milano o se siano rimasti ad aspettarmi vicino al
luogo dove sono sparita: Rasiglia, un posto sperduto dalle parti di Foligno.
È strano, ma in questo momento tutto mi torna alla mente, chiaro come se fosse successo da pochi istanti. E tutto è cominciato così, come spesso accade, con un viaggio.
In volo
«U ffa, quanto manca? Sono stufo!» brontola mio fratello Lele, che non riesce a stare fermo cinque minuti. Figuriamoci in aereo, dove si è tutti incastrati nei sedili come sardine.
Sono ore che si agita accanto a me, riempiendomi di gomitate. E purtroppo mi sono già giocata la carta della visita alla cabina di pilotaggio. Non oso chiederlo di nuovo alla hostess.
Anche se è allenata a essere gentile, soprattutto con i passeggeri di prima classe come noi, e sfodera amabili sorrisi, ho appena visto passare un lampo assassino nel suo sguardo. Sono convinta che, se potesse, ci butterebbe volentieri fuoribordo tutti e quattro. Io con il mio malumore, Lele con la sua iperattività, Sofia con il suo sguardo adorante e tutte le sue domande a raffica sullo stilista che ha disegnato la divisa e mia madre che se la dorme incurante di tutto il casino intorno a lei.
Ovvio, prima di salire a bordo ha preso un tranquillante, poi si è rifugiata nel sonno, beata lei.
Così, come al solito, tocca a me tentare di salvare la situazione.
«Va bene, ho capito. Ecco, leggi questa…» ho sospirato, allungando la mia preziosissima copia di One Piece, nuova di pacca. «Non la sciupare o ti polverizzo» concludo con un borbottio in calando, tanto Lele non mi ascolta più. Si è già immerso nella lettura del nostro manga preferito.
Grazie al cielo, dopo un po’ anche Sofia si tranquillizza e inizia a sonnecchiare, con la testa che ogni tanto le ciondola. Lascio che si appoggi alla mia spalla, anche se finirà per sbavarmi addosso, che schifo.
Mi giro a guardare dall’oblò. Non si vede niente, solo un pezzetto di cielo scuro. Siamo da qualche parte sopra l’oceano, a un’altezza a cui preferisco non pensare troppo. Ho davanti a me ancora quattro ore di volo, ma so già che sembreranno secoli e non solo perché, lunga come sono, ho le ginocchia incastrate nello schienale di fronte.
Perché non sono contenta? Mi chiedo, schiacciando il naso contro il finestrino gelato. Le mie amiche sarebbero felicissime di essere al mio posto. Schiattavano di invidia quando ho detto che partivo. In vacanza a New York per i ponti di giugno, che figata.
A me non importa nulla di nulla. Avrei evitato
volentieri tutto questo sbattimento, ma non c’è stata molta scelta. La mamma ha deciso, come sempre, tutto da sola.
«Ci farà bene cambiare aria, vedrete. E poi ho già preso i biglietti». Tipico suo.
E adesso, anziché tornare a casa, ci tocca pure una tappa in un paesino in Umbria, in mezzo al nulla. Tutto per colpa di quella stupida pec. Fino a qualche giorno fa neanche sapevo cosa fosse, una pec. Dal nome, avrei pensato a un esame del sangue o qualcosa del genere. Invece è una specie di raccomandata via email. Comunque, gliel’ha inviata ieri un notaio di Perugia che le dava appuntamento urgentemente nel suo studio per parlarle di un’eredità.
«Non è che abbiamo bisogno di soldi, per carità, ma se c’è di mezzo una casa in Umbria, il biglietto aereo possiamo anche cambiarlo, no? Sono posti da sogno. Anticipiamo di un giorno il rientro e facciamo un salto lì, che problema c’è! A Roma ci viene a prendere l’autista del notaio, ci porta all’appuntamento e torniamo a Milano in poche ore» aveva detto la mamma, elettrizzata dalla notizia. Poi si era attaccata al telefono. Nell’ordine aveva chiamato papà, interrompendo senza pietà la riunione di redazione del martedì, la signora delle pulizie, la portinaia, la ragazza che ci tiene il gatto e Silvia, la 11
sua assistente in ufficio. L’ha sommersa di istruzioni, come le chiama lei.
Non so come faccia a sopportarla, giuro. Silvia è una santa, o una vittima. O entrambe le cose.
Io non avevo nessuna voglia di andare a New York con lei e ancora meno di fare un salto in Umbria, ma come al solito non mi ero opposta, tanto non sarebbe servito a niente. Mia madre decide tutto per tutti, sa sempre quello che è meglio e non ascolta nessuno. Mai. Nemmeno mio padre, soprattutto dopo… l’incidente. Insomma, è insopportabile.
E così eccomi qui, in volo verso Roma e poi verso la nostra nuova strabiliante eredità.
Il rombo dei motori fa da sottofondo ai miei pensieri.
“Senti come cantano!” mi ritrovo a pensare. È esattamente quello che avrebbe detto mio fratello Greg. E come accade tutte le volte che penso a lui, eccolo che torna a parlarmi nella testa.
Mai come il mio mitico Caballero 50, Ki!
“Ma se non c’era verso di farlo partire!”
Non osare parlar male della Belva.
Rido dentro di me, pensando alla sua faccia lentigginosa, che si ostinava a radere anche se non
aveva nemmeno un pelo, e alle sue mani ossute, con le unghie sempre sporche di grasso a forza di montare e smontare quel vecchio catorcio.
Caccio via una lacrima, cancellandola con la manica della camicia a quadretti.
“Accidenti a te, Greg. Quanto manchi!”
Anche tu, puzzola.
“Non chiamarmi così. Dimmi una cosa: si può sapere perché continuo a sentire la tua voce nella mia testa?”
Perché io sono nella tua testa.
“Allora vattene, piattola. È già abbastanza difficile anche se non mi parli”.
Sei sicura? Potrebbe farti comodo qualche dritta del fratellone.
“Sparisci”.
Come vuoi, puzzola. Ma se vuoi sai dove trovarmi.
Resto un attimo in attesa. Se n’è andato davvero. E un po’ mi spiace. Una cosa è certa: è meglio se continuo a tenere questa cosa per me. Non è normale sentire la voce di mio fratello che mi parla. Eppure è così, dal giorno dell’incidente. Probabilmente sto diventando matta.
Poi torno a fissare il cielo oltre l’oblò. Cerco di 13
intravedere le stelle, ma non si vede nulla e dopo un po’ i miei occhi si chiudono.
Mi risveglio con una sensazione di umido sulla spalla sinistra.
«Ecco lo sapevo! Sofia! Guarda cos’hai combinato!»
«Eh? Cosa? Che c’è?» farfuglia lei alla mia destra, con uno sbadiglio da tricheco.
«Niente, niente, tranquilla» la rassicuro. Ho fatto tutto da sola, sono lacrime.
Mi succede spesso da… dall’incidente.
Istintivamente mi giro verso mia madre, dall’altro lato del corridoio.
Ha i capelli perfettamente in ordine e si sta mettendo eyeliner e rossetto con l’aiuto di uno specchietto da borsetta. Mi sorride, ma i suoi occhi non ridono.
Mi sale il nervoso. È tutta una recita la sua. Sto per dire una frase al vetriolo delle mie, ma mi fermo in tempo: se è stata dura per me, per lei è stato ancora peggio. Uno tsunami. Mia madre è una specie di sopravvissuta, che si aggrappa alle cose da fare come una naufraga a un relitto.
Mi alzo e l’abbraccio d’impulso, rischiando di farle sbavare il rossetto.
Lei però non mi restituisce l’abbraccio, mi scosta un po’.
«Chiara, che hai? Ma guarda come sei conciata!
Sistemati un po’ che fra poco atterriamo».
Torno a sedermi, raggelata, e meccanicamente mi passo una mano tra i ricci, a mo’ di pettine.
Non le importa se va tutto a rotoli. L’importante è che nessuno se ne accorga.
Ho voglia di urlare, ma mi giro dall’altra parte e torno a guardare fuori dal finestrino.
Certo che sei un bel tipo. Perché non le dici niente?
“Greg?”
Sì, dico. La mamma si deve dare una regolata. Mi sembra un po’ fuori.
La valigia mannara
Appena usciti dall’aereo, fa così caldo che mi sembra di essere andata a sbattere contro qualcosa di solido e rovente, tipo la parete di un forno acceso.
«Sbrigatevi ragazzi!» strilla mia mamma in cima alla scaletta dell’aereo. «Il notaio ha mandato una macchina a prenderci. Non facciamoci aspettare troppo».
Sofia ridacchia. «Wow, mi sento una diva!» e si mette a salutare la folla, neanche fosse la regina Elisabetta d’Inghilterra, pace all’anima sua.
«Dov’è la nostra nuova casa? È un castello come quello dei cavalieri? Avrà il fossato? E il ponte levatoio?» mi martella Lele, mentre mi tira per una manica e saltella pericolosamente sul gradino. L’afferro al volo un istante prima che rotoli giù dalla scaletta, travolgendo l’anziana passeggera davanti a lui.
«Ma che maniere!» sbotta la signora, incenerendoci con un’occhiata di fuoco.
Borbotto un paio di scuse imbarazzate, mentre Sofia ridacchia: «E bravo Lele! Siamo appena sbarcati e ti sei già fatto conoscere anche qui. Siamo atterrati da quanto? Due minuti? Complimenti, un vero record mondiale della figuraccia».
Lele risponde con pernacchia e tirata di capelli.
Sofia rilancia con strillo spaccatimpani e pizzicotto di nascosto da mamma, che non se ne accorgerebbe comunque perché, semplicemente, li ignora come al solito.
Tutto regolare, insomma: io ho il ruolo di tata non retribuita e lei quello della madre impegnatissima, organizzatissima e perfettissima.
Nel frattempo, siamo arrivati al ritiro bagagli e iniziamo a fissare come ipnotizzati valigie e borsoni che ci girano davanti. Mezz’ora dopo, mia madre parte come una furia verso il banco informazioni, con i miei fratelli al traino. «Vado a chiedere notizie dei nostri bagagli. Tu resta qui a controllare» ordina secca.
“Mi spiace per quel poveretto che se la troverà di fronte…” penso, mentre controllo annoiata il nastro trasportatore. Proprio in quel momento avvisto il mio improbabile trolley arancione fluo.
«Eccole, sono le nostre!» esulto e mi tuffo a pesce per prenderlo al volo, ma vado a sbattere
contro un tizio che è stato più svelto di me. Sto per mandarlo a quel paese, quando il tipo si gira e io mi rimangio immediatamente la frase velenosa che avevo sulla punta della lingua.
«Questa è mia, vedi? C’è il mio nome. N-U-R-I». Il tipo ha più o meno la mia età, gli occhi blu scuri, come un cielo notturno, e un bellissimo sorriso.
«Accidenti, scusa! È identica alle nostre!» rispondo imbarazzata, mentre cerco di riprendere un contegno. Sto contendendo a Lele il record mondiale della figuraccia. Ma il tipo, cioè Nuri, sembra non averci fatto caso più di tanto.
Mi fissa la fronte. «Mi sa che lì ti verrà un bel bernoccolo. Ho la testa dura…»
«E meno male, se no ti mandavo all’ospedale!
Comunque, ciao, sono Chiara».
«E che ci fai qui, Chiara? A parte cercare di ritirare i bagagli, intendo. Non sei di Roma. Direi… milanese, o sbaglio?»
«Beccata. Sì, sono di Milano. Ma sui bagagli ho perso la speranza, è rimasta solo quella» aggiungo, indicando un’enorme borsa tutta scalcagnata che gira solitaria sul nastro vuoto.
«Quella? È la Filomena, la borsa mannara. Divora i bagagli dei turisti, pare giri lì sopra da anni» mi sussurra in un orecchio con fare misterioso.
Scoppiamo a ridere come se ci conoscessimo da sempre.
Esattamente in quel momento, con il suo solito incredibile tempismo, ritorna mia madre tutta trafelata. Trascina per mano Lele e Sofia.
«Andiamocene, Chiara. È inutile rimanere qui ancora. Pare che i nostri bagagli siano rimasti a New York, ti rendi conto? Mi hanno assicurato che arriveranno domani mattina, per stanotte ci arrangeremo. Ora sbrigati, che ci stanno aspettando all’uscita».
«Ciao, devo andare» dico, voltandomi verso il punto in cui fino a un attimo prima c’era lo strano ragazzo della valigia. Ma lui non c’è già più. Si è volatilizzato con il trolley arancione.
Noto che anche il borsone scalcagnato è sparito.
“E così, anche Filomena ha trovato il suo padrone!” mi dico e quel pensiero mi fa sorridere.
Peccato.
Come si chiamava, Nuri? Yuri? Era simpatico, avrei voluto scambiare ancora qualche parola. Ma, tanto per cambiare, quello che voglio io non conta. Devo fare quello che dice mia madre. Praticamente una metafora della mia vita.
Mentre rimugino queste cose, raggiungiamo l’uscita dell’aeroporto, dove ci aspetta un signore pelato, con una giacca blu un po’ tirata sulla pancia
prominente, e un cartello con scritto a pennarello
EREDI DELL’ACQUA.
«Siete voi? Gli eredi Dell’Acqua? Piacere, sono Carmine, autista e factotum del notaio. Venite, venite! Vi stavo aspettando. Il notaio Augelli mi ha pregato di condurvi subito nel suo studio. E siamo già in ritardo di mezz’ora. Ci tiene molto alla puntualità, sapete?»
Mia mamma è agitata. «Mi spiace, ma non è dipeso da noi. Ci hanno smarrito i bagagli…»
«Non vi preoccupate. Sono cose che capitano. Il notaio capirà» la rassicura l’autista. «Ma ora salite. Non perdiamo altro tempo, per carità. Se no chi lo sente! Comunque, state tranquilla, dopo vi porto io a Rasiglia, a vedere le proprietà di Maria la Tessitrice».
Poi si tappa la bocca. «Boccaccia mia. Dovevo starmene zitto. Non dite al notaio che vi ho detto qualcosa o mi licenzia».
La mamma comincia a tempestarlo di domande. «Proprietà? Di cosa si tratta, esattamente? È un appartamento? Una villa? O c’è dell’altro?»
«Mi spiace, vi ho già detto troppo» risponde Carmine, facendo segno di sigillarsi le labbra con una cerniera. E da quel momento non è più possibile tirargli fuori di bocca neanche una parola su quella faccenda.
Dopo qualche altro inutile tentativo, mia madre sospira, sconfitta. «E va bene, come vuole. Tanto fra poco mi dirà tutto il notaio».
Si appoggia al sedile e si mette a guardare fuori dal finestrino, assorta in sé stessa, mentre Lele e Sofia si fanno i dispetti e io come al solito cerco di sedare la rissa.
Alla faccia della vacanza.
Carmine ogni tanto ci guarda dallo specchietto, scuotendo la testa con un’espressione che non capisco del tutto. C’è disapprovazione e ok, quella ci sta: gli stiamo facendo una testa così. Ma c’è anche una punta di compatimento nel suo sguardo e quello, sì, mi sembra strano. Ma non stiamo per ricevere una favolosa eredità?
Prendo il cellulare e digito “Rasiglia”. Scopro che è un minuscolo paesino, detto “Borgo dei ruscelli” o “Venezia dell’Umbria”. E in effetti le foto mostrano un posto pieno di acqua. Wikipedia dice che tutta quest’acqua fin dal Medioevo era stata usata per muovere i telai. Ecco spiegata questa storia di Maria, la Tessitrice.
“Chissà chi era? Che legame abbiamo con lei?” mi chiedo, mentre guardo dritto davanti a me, cercando di non farmi venire troppa nausea. Cavoli, ma quante curve!
«Mamma, tu sai qualcosa di questa Maria?»
«Non mi dice assolutamente niente questo nome. Nemmeno nonna me ne ha mai parlato…»
«Se ci hanno chiamato “eredi Dell’Acqua” deve essere qualcuno della tua famiglia, no?»
«Tua nonna non parlava mai del suo passato» taglia corto mia madre.
Mentre combatto il mal d’auto e galleggio tra nausea e sonnolenza, continuo a ripetermi questo nome: Dell’Acqua. E all’improvviso riemerge un ricordo.
Dovevo avere tre o quattro anni, non di più. Ero in montagna e stavo giocando con la nonna sulla riva di un ruscello. Probabilmente ero troppo piccola per andare in gita con gli altri, ed ero rimasta a giocare nel prato vicino a casa. Mi ricordo bene il vecchio plaid di lana a scacchi steso sull’erba, che pizzicava un po’ quando ti ci sdraiavi sopra. Avevo costruito una specie di diga, l’acqua aveva formato una pozza trasparente e io avevo cominciato a sguazzarci dentro a piedi nudi, schizzando acqua gelida dappertutto. Ridevo come una matta, mentre sollevavo apposta gli spruzzi per bagnare la nonna.
«Sei proprio una Dell’Acqua, bambina mia! Proprio come me».
«Una… dell’acqua? Come le sirene?» ho chiesto, incantata.
«No, come me e come mia mamma, la tua bisnonna. 23
È il nostro cognome. Sai perché ci chiamiamo così?»
«No, perché?»
«Perché è vicino all’acqua che hanno trovato mia mamma, appena prima che io nascessi…»
«E perché l’hanno trovata vicino all’acqua? Allora era una sirena! Come si chiamava? Dov’è adesso?»
«Si chiamava Maria, ma adesso basta domande, Chicca. Vuoi la merenda?» aveva tagliato corto lei.
E io domande su quell’argomento non ne avevo fatte mai più, perché avevo capito che la rattristavano.
E poi avevo sepolto quel ricordo.
Indice
Se riuscissi a tornare indietro
Nella grotta pag. 185
Come una pianta assetata » 191
Una vita per una vita » 197
Un cerchio perfetto di cielo » 203
Sono qui » 209
Tra due mondi » 215
Nota dell’autrice » 217