Rita da Cascia - estratto

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Cascia, 1457

Il mio nome è Caterina.

Fu l’unico bene che mia madre mi donò prima di abbandonarmi quando ero solo una bambina: il nome.

Eppure la mia vita è stata lunga e ricca di gioia.

Gli anni alle mie spalle sono tanti e i ricordi si intrecciano senza posa mentre osservo il suo volto dipinto sulla cassa solenne che ho di fronte a me.

Accarezzo il legno, immaginando di toccare le mani bianche e poi l’ovale del suo viso, fino alla spina che le ha trafitto la fronte e che io stessa ho curato tante volte. Il popolo di Cascia la chiama già santa.

Aveva un altro nome quando la vidi per la prima volta, lo stesso con cui la chiamarono fino a quando non fece il suo ingresso tra le mura del monastero.

Io sono sempre stata al suo fianco, muta presenza, e questo è il dono che il Signore mi ha fatto: seguirla a ogni passo, dalla nascita alla morte.

Rimango in questa cella, di fronte alla cassa all’interno della quale lei riposa. Attendo il mio ultimo respiro in sua compagnia, mentre intorno le monache mi affiancano in lunghe ore di preghiera.

Ricordo il cammino che mi ha portato a lei, e quello che abbiamo percorso unite fino al momento della sua morte.

Roccaporena, 1381

Mia madre non era ancora fredda quando si presentarono a occupare la nostra misera capanna. Non ebbi il tempo di piangere, solo di stringermi intorno alle spalle uno scialle di lana grossa e di guardarla un’ultima volta sul giaciglio di foglie, dura e livida nel volto, prima che mi spingessero ai confini del gruppo di casupole. La mia esistenza era trascorsa nell’ombra di una casa semplice e spoglia, riempita solo dall’amore di mia madre. Di mio padre non avevo memoria, né tantomeno dei fratelli venuti prima di me che non erano sopravvissuti a quel mondo fatto di gelidi inverni e giorni di ventre vuoto. Ma la gioia si era fatta spazio nel mio cuore perché non

ero sola, mia madre era con me, pronta ad accompagnarmi in ogni momento. Insieme perlustravamo i boschi in cerca di erbe e noci, ghiande e funghi. Avevamo costellato il tetto di paglia della nostra capanna di piante appese a seccare, che barattavamo con miele e cera d’api, e i miei primi giochi non erano altro che creare semplici ninnoli con gusci e corolle.

La vita di una donna sola con una bambina non era facile, ma i pochi abitanti del villaggio non disturbavano la nostra quiete. Mia madre era sempre pronta ad aiutare gli altri nel bisogno, e per questo era rispettata e benvenuta. Ma quando si presenta un’occasione di guadagno non è facile combattere per fuggire l’egoismo. Fu così che, anche se non erano ancora trascorse dieci primavere dalla mia nascita, cominciai a intuire cosa muoveva l’animo degli uomini nell’istante in cui mi ritrovai orfana.

Negli occhi di chi ci era vissuto vicino, che tante volte si era rivolto a mia madre perché con i suoi decotti recasse sollievo, ora vedevo solo avidità.

Mentre le mie corte gambe si muovevano verso i boschi, Anna, con i suoi figli e il marito senza un occhio, aveva già preso possesso della capanna in

cui ero nata e vissuta. La notte precedente, quando mia madre respirava con fatica e il suo fiato si rompeva per lo sforzo di rimanere in vita, la donna che ancora chiamavo amica era comparsa al mio fianco e mi aveva stretto la spalla con forza.

«Non manca molto, tra poco sarà con il Signore», aveva detto a voce alta. «Devi essere pronta, Caterina. Ti ho trovato un giaciglio in una casa ricca, a Roccaporena, dove avrai la pancia piena e potrai lavorare».

Se qualche volta avevo osato immaginare che mi avrebbe presa con sé, in quell’attimo fu chiaro che la mia presenza era solo un fastidio. Una bocca in più da sfamare, una bambina tutt’ossa e senza lingua – come mi canzonavano – perché nella vita mai avevo proferito parola. Eppure sapevo fischiare, ripetere ogni verso d’animale della selva, riconoscere ogni pianta, e sapevo trovare l’acqua nascosta in profondità nella terra.

Era ormai giunta la stagione delle ghiande e le giornate erano brevi e fredde; anche se non mi ero mai allontanata da casa conoscevo bene il luogo in cui ero attesa, e avevo scelto di non guardarmi indietro.

Sapere che mia madre era ormai in pace mi dava conforto, e del mio destino non mi importava poi molto. Mi era stato detto di bussare alla casa dei Lotti, l’avrei riconosciuta facilmente perché una delle più imponenti del paese. E dentro di me non fui colta da dubbi quando posai piede sulla via non ammantata da neve ma fatta di grosse pietre incastonate una accanto all’altra. Roccaporena non distava molto dal villaggio in cui ero nata, ma quando vi arrivai per la prima volta non potei far altro che spalancare gli occhi. Le costruzioni erano solide, le vie definite, e la natura non sopraffaceva la vita degli uomini come ero abituata. Giunsi di fronte ai due scalini in pietra che conducevano all’uscio della casa dei Lotti. Non l’avevo mai vista prima, eppure sapevo che quella scura porta in legno era il luogo dove avrei iniziato la mia nuova vita. Le mie nocche colpirono forse con troppa levità l’imponente portone, perché mi sembrò di attendere a lungo prima che qualcuno si affacciasse all’uscio. Illuminata da una candela, una donna dal volto arcigno mi osservò a lungo prima di invitarmi a entrare e condurmi, con modi bruschi, fino al grande focolare in cui le

fiamme erano già state coperte dalla cenere. Alla luce calda delle braci e della candela, quella donna dall’abito scuro e dal velo bruno stretto intorno al volto si muoveva con sicurezza e precisione tra la credenza e il pesante tavolo. Ero ancora in piedi con lo scialle stretto tra le mani quando finalmente mi rivolse la parola.

«Ti stavo aspettando. Dormirai qui, ma dovrai fare attenzione alle braci: non lasciare che si spengano, mai, o sarai punita. Hai inteso?»

Assentii con forza. La donna mi avvicinò la candela al viso per scrutarmi meglio: «Mi hanno detto che ti manca la favella, ma non sarà certo un problema in questa casa. Se sarai pigra e non farai ciò che ti viene detto o, peggio, se ti rivelerai una ladra, ti aspettano i boschi. Mi hai capita?».

Assentii nuovamente, senza riuscire a guardarla negli occhi. La donna mi indicò il giaciglio su cui avrei dormito, e mi mise in mano un pezzo di pane e una tazza di latte che ingurgitai avidamente prima di sedermi in un angolo.

Negli occhi avevo solo il brillio delle braci e, da sotto la cenere scura del focolare, mi sembrava che queste mi osservassero a loro volta.

Fu il giorno seguente a svelarmi con la sua pallida luce il luogo in cui mi trovavo. Mai prima di allora ero stata in una casa di pietra, fino a quel momento avevo vissuto solo in capanne di legno e paglia, con pavimenti in terra battuta e travi annerite dal fumo. Lì vidi scure pareti e stanze ampie che si ammonticchiavano una sopra l’altra, e si potevano raggiungere attraverso scale dure che conducevano sempre più in alto. Ma non mi era permesso di aggirarmi liberamente per la casa, dovevo rimanere vicino al focolare e spingermi solo fino al pozzo, per tornare con secchi colmi di acqua gelata. In quei primi giorni, il tragitto fino alla bocca di mattoni in cui gettavo il mio secchio era l’unico che mi fosse concesso, e io lo percorrevo in fretta, intimidita dalle donne e dai bambini che incontravo e che mi squadravano con curiosità. Anche qui, in una casa molto più grande di quella in cui ero cresciuta, il focolare era il centro, l’anima dell’edificio, tanto ampio che mi ci sarei potuta sdraiare dentro: fu per me il luogo che per primo mi fu caro tra quella gente che non conoscevo. Mi rifugiavo nel suo calore e nella luce, che mi proteggevano nelle notti in cui mi

accoccolavo sul pagliericcio accanto alla cenere, illuminata dalla scia rossastra delle braci che era mio compito non fare mai spegnere. In ogni casa, il fuoco doveva sempre rimanere acceso per poter essere utilizzato in tanti utili modi. Io ne ero la custode, e ricordo quanto le mie giornate trascorressero tra ciocchi di legno e lunghi strumenti in ferro per domare e riattizzare, sedare e regolare quell’elemento.

Angiola, la donna che mi aveva accolta, non era di molte parole ma ciò non voleva dire che fosse cattiva; brusca ma giusta, mi nutriva e mi aveva permesso di lavarmi in un largo mastello vicino al fuoco. Avevo appreso che non era lei la padrona di casa, ma l’unica serva il cui impiego era tenuto in gran conto dai signori. Non vidi subito la padrona, ma capii ben presto che rimaneva nella sua stanza perché era madre da non molto. Il signore, invece, era un’ombra veloce che percorreva le stanze uscendo o rientrando in casa, e a me non faceva molto caso.

Eppure la signora sapeva bene del mio arrivo, perché presto mi fece dono di una sua veste di panno pesante da rammendare e adattare al mio

corpo magrolino, e di una sottile cinta di pelle da legarmi intorno alla vita dritta.

La neonata, perché di una bambina si trattava, piangeva di rado. Il suo nome era Margherita e il suo arrivo in questo mondo era stato tardivo, perché, come mi disse Angiola in una delle rare volte in cui mi rivolse parola, i padroni avevano atteso per anni di diventare genitori senza riuscirci. Nessuno dei due si era mai abbandonato alla disperazione, ed ecco che quando i capelli grigi già macchiavano le loro chiome era giunta una figlia a rallegrare la loro esistenza. Non la vidi fino al giorno in cui, mentre rimestavo le braci, un insetto bianco mi volò di fronte al naso. Il rumore e il

modo di librarsi nell’aria erano quelli di un’ape, ma il colore candido e la sua presenza nel freddo invernale mi stupirono. Lo seguii, tralasciando il lavoro, e mi ritrovai nella camera della padrona.

L’ape bianca sorvolava la culla in legno dove la piccola riposava strettamente fasciata, sotto una coperta di feltro rossiccio; non ebbi timore che potesse pungere la bambina: sentivo nel profondo che quella creatura alata non le avrebbe fatto alcun male. Mi avvicinai alla culla e scostai il tessuto

drappeggiato che la copriva, e per la prima volta osservai il pacifico volto di Margherita, che dormiva beatamente.

Non so per quanto tempo rimasi incantata a guardarla, né quando la bianca ape, reale o sognata da me a occhi bene aperti, se ne andò lasciandomi sola; a un tratto avvertii il dolce peso di due mani appoggiate sulle mie spalle. Mi voltai temendo fosse Angiola venuta a riprendermi, ma era una bella donna non più giovane e dagli occhi lucenti, la pelle chiara resa luminosa dal contrasto con il velo scuro. Non era in collera, come temevo, ma mi osservava sorridendo.

«Anche io mi incanto nel guardarla dormire», mi disse, poi mi accarezzò il viso.

«Ti trovi bene nella nostra casa?», mi chiese senza smettere di sorridere.

Annuii vigorosamente, mentre i passi pesanti di Angiola sulle scale ci raggiungevano.

«Eccoti! Dove ti eri cacciata, perché sei qui? Ti avevo detto di scaldare l’acqua nel paiolo…»

La signora la interruppe con fermezza: «Non adirarti, sono stata io a trattenerla. Sembra che la mia Margherita le piaccia. Forse potrebbe aiutarmi

con la bambina, se puoi privarti del suo aiuto per qualche ora al giorno».

Angiola non parve affatto contenta, ma mai avrebbe osato contraddire la padrona.

Dal giorno seguente mi ritrovai a vegliare sulla neonata, e mi sembrò quanto di più naturale ci fosse iniziare ad amarla come se avesse il mio stesso sangue. Ero sicura che mai bambina più dolce e buona fosse esistita, e la sua presenza nella mia misera vita divenne una luce che rischiarava il mio animo. La signora si accorse ben presto di quanto unite eravamo diventate: in fondo io stessa ero ancora una bambina, sebbene già indurita dalla fame e dalle disgrazie vissute in poche stagioni.

Per questo decise che non avrei più dormito accanto al focolare, ma nella piccola stanza da letto di Margherita, sotto il tetto della casa. Le nostre notti erano illuminate dalla luna che vedevamo da una finestrella, la stessa che ci mostrava le pendici rigogliose della montagna che si ergeva di fronte a noi. La camera non era grande, e su di noi incombevano le pesanti travi del tetto. Non spiccavano oggetti se non una comoda cassapanca di semplice legno in cui avevo riposto le mie poche

cose e i panni con cui cambiavo la bambina, il mio letto e la sua culla. Fu in quel minuscolo spazio che mi sentii per la prima volta a casa, quieta e soddisfatta, senza rimpianti per ciò che era stato.

Ricordavo bene dove i roseti si arrampicavano, sui muri della casa in fondo al giardino, e con fatica mi feci avanti, attenta a non cadere. Giunta di fronte alla pianta, osservai il fusto grigio e duro, senza foglie né fiori, e lo accarezzai.

La mia fede nelle parole di Rita era tale che non provai stupore quando vidi, sul ramo più alto, una rosa bella e perfetta che sfidava il gelo: sapevo che l’avrei trovata, perché lei lo aveva annunciato.

€ 14,0092F 1

ISBN 978-88-315-5798-6

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