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FABIO BERGAMASCHI, infermiere, appassionato della vita di san Francesco, è uno scrittore esordiente. ELISABETTA FERRERO lavora da anni nell’editoria per ragazzi su testi storici e religiosi. È specializzata in disegno naturalistico.
Un mendicante racconta Fabio Bergamaschi - Un mendicante racconta FRANCESCO D’ASSISI
artolomeo è un povero che chiede l’elemosina davanti alla bottega di Pietro di Bernardone. Donna Pica ha cura di lui, come anche degli altri mendicanti. La vita di Francesco d’Assisi, il celebre santo, patrono d’Italia, si intreccerà con quella di Bartolomeo e attraverso i suoi occhi potremo scoprire le vicende più note del poverello d’Assisi.
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FABIO BERGAMASCHI
FRANCESCO D’A D’ASS SSISI Illustrazioni di Elisabetta Ferrero
D 16,00
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Grandi storie - Giovani lettori 86
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FABIO BERGAMASCHI
Un mendicante racconta
FRANCESCO FRANCE CO D’ASS D’ASSISI Illustrazioni di Elisabetta Ferrero
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Grafica di Ivo Kaplun
PAOLINE Editoriale Libri Š FIGLIE DI SAN PAOLO, 2010 Via Francesco Albani, 21 - 20149 Milano www.paoline.it edlibri.mi@paoline.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Corso Regina Margherita, 2 - 10153 Torino
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Delle mani delicate
È
un pomeriggio tranquillo. Il sole rimbalza tra le pietre delle vie, giocando a nascondersi con le nuvole bianche. Lungo le strade ciottolate corrono i bambini: giocano ai cavalieri, con le spade di legno inventano le gesta di eroi immaginari. La gente non bada alle voci stridule dei « combattenti », da più fastidio il mendicante sporco e maleodorante che, con voce sommessa per non disturbare, chiede un pezzo di pane o qualche spicciolo, fermo in un angolo della via, dove pisciano i cani. I bambini a volte imitano i grandi, così che le loro attenzioni scorrono dalla « battaglia », alla vittima di quel momento, che come colpa ha quella di essere più sfortunato di loro. Nessuno conosce le storie dei mendicanti: da dove vengono, chi sono, come si chiamano, di cosa hanno bisogno. A nessuno sembra importi nulla. Ogni tanto una mano si abbassa verso quella ciotola di legno po-
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sta ai loro piedi: chi da spiccioli, pane, avanzi; chi per divertirsi mette sassi o scarafaggi. È difficile la vita da mendicante, nessuno ti saluta o ti regala un sorriso, pochi riescono a superare questa barriera d’indifferenza e ti offre qualcosa; altri lo fanno solo col pretesto di essere a posto con la propria coscienza, come se fosse una penitenza a qualche loro peccatuccio. Alcuni escono nelle ore più impensate per offrirti quello che altri non fanno: la notte, la mattina prestissimo, escono furtivamente dalle loro case – a volte di nascosto da parenti e amici – avvolti sotto mantelli o scialli, portano cibi vestiti e denari. Poche persone, ma buone. Tra i mendicanti esiste una categoria più sfortunata che dalla vita, con la malattia, riceve solo amarezza e dolore: i lebbrosi. Per norma sono dislocati fuori dalle mura cittadine, in luoghi lontani al pubblico passaggio, dove l’igiene è un concetto irrilevante. Vivono in capanne – per esaltarne il termine – costruite con stracci e legno, ammassati lungo un rigagnolo di acqua fetida che raccoglie i loro escrementi. Dalle capanne escono lamenti e singhiozzi di chi non riesce più a muoversi e, nel suo dolore, invoca la morte. Da queste parti è difficile vedere qualcosa di umano; la sofferenza diventa un’abitudine e il silenzio è
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un segnale infausto che, paradossalmente, può dare sollievo. Qui c’è più solidarietà che in altri posti; non si ha paura del contagio (tanto cosa posso perderci!) e chi aiuta sa che l’altro sta peggio di lui. Io credo di essere tra le persone fortunate. Mi chiamo Bartolomeo e non sono un lebbroso, almeno per adesso, e non conto di diventarlo. Il mio nome sembra beffa del destino, un nome di discendenza nobiliare, ma purtroppo, o per fortuna, non è così. Un tempo ero una persona comune, avevo amici e parenti, un lavoro a Spoleto, costruivo mobili in legno, un piccolo laboratorio artigianale di falegnameria ereditato da mio padre, con un sufficiente numero di clienti per poter vivere. Poi la concorrenza. I miei clienti abituali rimasti erano persone con un reddito inferiore al mio e con due o tre figli da mantenere. Mi pagavano quando potevano e la mia indole lasciava correre il più delle volte, se non riuscivano a pagare tutto il mio lavoro. Mi ricambiavano con un grande sorriso e un grazie, dietro una sincera e riconoscente stretta di mano. A volte con una gallina o delle uova. Ero contento così. Ma dovevo pagare i materiali, le tasse, dovevo pur mangiare e mantenere una moglie poco incline alla carità. La mia fortuna nella vita matrimoniale, e per quello che mi è capitato più tardi, è nel non avere
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avuto figli; forse è per questo che mia moglie era un tantino… nervosa. Lei voleva vestire come le mogli degli altri artigiani, voleva soldi da spendere, che non c’erano mai. Credo volesse un altro marito! Finché ho potuto ho pagato, poi ho cominciato a rifiutare alcuni lavori per mancanza di materiale, mentendo sul troppo lavoro. Non potevo permettermi di comprare del legname. Poi la maledizione: conoscere un nobile, amico datato di mio padre, che mi commissiona uno scrittoio, intarsiato, con cassetti, cassettini, alzata a balconcino, gambe tornite e relative due sedie in tessuto e paglia verde. Il lavoro sarebbe stato pagato bene e lo accetto, ma devo anticipare buona parte dei soldi per i vari tipi di legno. Lo so, non avrei dovuto, ma conoscevo un tale, Osvaldo, che commerciando in vini e disponendo di grosse quantità di denaro, li prestava volentieri a chiunque gliene chiedeva. Avevo quella paura che prende i bambini mentre stanno rubando una mela; sentivo una vocina dirmi: « No, non farlo! », ma ci sono andato. Avrei dovuto restituire i soldi in un anno, pagando un interesse del 40%. Mia moglie, contenta, poteva così comprarsi dei vestiti decenti; mi ripeteva che lavorando di più sarei riuscito a rientrare dal debito in meno tempo. Ma io ero ugualmente preoccupato e il seguito mi ha dato ragione.
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Dopo quel lavoro sono ritornato alla solita clientela, le aspettative di altri grandi lavori sono sfumate, ma non le varie rate del debito e i soldi messi da parte non bastavano a coprire le spese. Ho chiesto una proroga di un anno ancora, ma se non fossi riuscito a onorare il debito, mi sarei visto portar via ogni cosa. Adesso sono qui, ad Assisi, faccio il mendicante ma sono contento. Mia moglie… ora commercia in vini ed è felice. Ho preferito scappare da Spoleto, lì mi conoscevano e la vergogna era tanta. Gli amici quelli veri non c’erano e gli altri mi hanno tolto il saluto. Poco importa; ho fatto un fagotto, pochi vestiti, ho raccolto qualche arnese del mestiere che potesse tenere poco posto, ho scaldato le gambe e sono arrivato fino a qui. È da qualche tempo che cammino tra paesini, piccole borgate a riparare sedie, ceste, mestoli e quant’altro è possibile aggiustare. Non chiedo soldi (ne ho quasi paura), ma almeno mi danno da mangiare e, se va bene, qualcuno mi regala una camicia o un paio di scarpe usate. Altri mi offrono un riparo nella loro stalla tra pecore e asini. Ho ricevuto anche calci e botte, solo per aver chiesto un pezzetto di pane e un ragazzetto con un sasso è quasi riuscito a rompermi il naso. Credo abbia
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sbagliato mira. In quel momento ho pianto, di rabbia e di dolore; che diritto aveva di farmi del male? Avrei preferito morire, non avevo più un riferimento, mi sentivo in balia degli eventi e degli stati d’animo della gente o, peggio, delle guardie armate della città. Ero spossato e malaticcio, avevo paura della lebbra e delle altre malattie che circolavano tra i mendicanti. Giravo per Assisi e il mio luogo preferito era nei paraggi del Tempio di Minerva, ma i miei passi mi trascinavano anche vicino al duomo, San Rufino. Molta gente passava da quelle parti, ma una sola mi è rimasta particolarmente nel cuore. Abitava col marito in una strada presso il tempio, la scorgevo, dalla mia postazione sui gradini della chiesa di San Nicolò, salire dalla strada e salutare ogni persona, chinandosi di nascosto per depositare qualcosa tra le mani dei miei colleghi. Spesso quando il marito era assente per qualche giorno, usciva anche la sera e, aiutata da un’altra donna, medicava ferite e abrasioni causate dai maltrattamenti a noi sfortunati. Quando toccò il mio turno di medicazione, ero turbato e imbarazzato da tanta delicatezza nelle sue mani, quasi a non voler creare altro dolore. Il suo viso era sereno e trasmetteva questa serenità a chi le stava di
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fronte. Avrà avuto sì e no la mia età, dalle sue vesti si intravedeva un leggero gonfiore, segno di una vita recente serbata in grembo e felicemente manifesta. Il suo modo di parlare tradiva la sua origine. Parlava bene la nostra lingua, ma quell’incrinatura francese le dava un fascino e una dolcezza ulteriori. Avevo vergogna di me, ero attratto da lei come può esserlo un uomo di ventiquattro anni. Mi rendevo conto però della mia condizione, tanto da avere fastidio di quello che pensavo. Riuscii a sussurrarle poche parole augurandole ogni bene per suo figlio: – Diventerà senz’altro una persona importante – le dissi rosso in viso. Lei mi rispose semplicemente: – Grazie! La mia spudoratezza non aveva più freno e le chiesi se avesse delle sedie da riparare o dei cesti, visto che ero capace di farlo, potevo rendermi utile in qualche modo. Non rispose subito. Dolcemente volle sapere il mio nome. – Bartolomeo… – disse – è un bel nome. Mi ricorderò di te se ne avrò bisogno. La guardai allontanarsi tra le luci delle fiaccole appese ai muri e l’ombra della sera. La vita, pensai, vale la pena di essere vissuta anche solo per questi momenti.
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Non credo di aver mai avuto modo di interessarmi a Dio, ma adesso era tempo per recuperare un rapporto con lui e lo ringraziai, perché lui continuava a interessarsi a me. Con il passare dei giorni, la ferita al naso riuscì a guarire, ogni tanto lavavo via le croste di sangue raggrumato. L’osso mi faceva ancora un poco male, ma riuscivo a respirare meglio. Lei, la rividi ancora un paio di volte e mi regalò un pezzo di pane con della frutta, della squisitissima uva bianca, dolce e succosa che divisi con un amico più anziano di me. Per qualche tempo lasciai Assisi e mi spostai a Rivotorto, un piccolo borgo della vasta pianura umbra. Non stavo fermo più di tanto nello stesso posto, ero ancora giovane, seppur conciato male nell’aspetto; non ricordo il tempo dell’ultimo bagno caldo con del sapone. La nozione del tempo si perde se non si hanno dei riferimenti precisi. Conoscevo il giorno e le sue diverse fasi guardando il sole al suo passare; la notte, se il sonno non mi prendeva, seguivo le stelle e il loro lento spostarsi. Le stagioni le distinguevo dall’acclamarsi di eventi chiari legati alla natura. Ma non tenevo conto delle date, dei giorni, degli anni. Ricordo di essere scappato da Spoleto a primavera appena ini-
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ziata, lungo la strada ho incontrato altra gente come me e questo mi dava un senso di tranquillità. Appoggiati al loro bastone, ho conosciuto la realtà dei lebbrosi, camminavano con fare incerto portando a spasso le loro piaghe maleodoranti, coperti solo di stracci. Dove la piaga raggiungeva la profondità della carne, ogni movimento provocava un lamento soffocato. Queste povere creature vivono fuori dalle città, in vere e proprie catapecchie attorniate da lerciume e liquami; i topi sono i loro animali domestici e nessuno di loro se ne interessa più di tanto. L’acqua pulita necessaria a lavare le loro ferite a volte fatica ad arrivare ma, fortunatamente, qualche persona buona viene spesso ad aiutarli e a portare il necessario. Io ho soggezione di quei posti, ma a volte, spinto da curiosità, passo tra loro; nel guardarli mi rendo conto di quanto sono fortunato. I ragazzacci possono aggredire un mendicante che si trovi sulla loro traiettoria, ma se c’è un lebbroso, lo schivano, non lo toccano neppure col bastone per paura d’infettarsi. I lebbrosi sono immuni dalla violenza fisica ma non da quella verbale: insulti, parolacce e maledizioni sono tutte per loro, mentre ai mendicanti normali sono indirizzati gli sfoghi e le percosse, quasi a compenso
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per quello che non viene fatto ai lebbrosi. Pazienza, posso solo pazientare. Sono passati alcuni inverni e mentalmente ripercorro le tappe del mio girovagare: Spoleto, Assisi, Rivotorto, Bastia, Perugia, Foligno, Spello, Nocera e ora sono di nuovo ad Assisi. Ho rivisto con piacere la città e i luoghi che conoscevo, mi sono seduto davanti al Tempio di Minerva a scrutare i volti, cercando fisionomie di un tempo. Ho trovato la città diversa, mi sembra di notare più circospezione tra la gente, camminano chini, con lo sguardo controllano chi sta attorno a loro e chi gli si avvicina. Ci sono armigeri un po’ ovunque; ho saputo della guerriglia degli assisani del popolo contro la classe nobile, e della fuga di questi ultimi a Perugia. Ho saputo che parecchi giovani si sono impegnati in questa disputa e qualcuno non è tornato a casa. I miei ragionamenti sfumano alla vista di una donna. Il volto non si è modificato, se non per qualche ombra di neve sui capelli, ha la stessa gentilezza nei movimenti e i suoi vestiti sono degni di un avanzato stato sociale. La osservo venire nella mia direzione accompagnata da un’altra donna con vesti leggermente meno pregiate. Mi sta guardando come si
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guarda coloro ai quali si debba dare qualcosa. Ormai è davanti a me, si ferma per osservarmi meglio, poi mi sussurra: – Credo di conoscerti… sei già stato qui tempo fa! Con l’indice della mano destra si sfiora il mento, come per recuperare la memoria, si china vicino a me e prosegue: – Credo di ricordare anche il tuo nome… B… B… Bartolomeo, vero? Annuisco emozionato, è la prima volta che qualcuno ricorda il mio nome; che qualcuno si ricorda di un mendicante. Le chiesi della gravidanza di allora, era il primo argomento di conversazione che mi passò per la testa, e mi resi subito conto che di tempo deve esserne passato parecchio! Lei sorrise consapevole del mio imbarazzo e m’informò che di figli ora ne aveva due: Francesco, il più grande, e Angelo, il più giovane. Si fermò un poco vicino a me a conversare, mi espresse la sua preoccupazione per il figlio maggiore; era andato in battaglia con gli assisani e non si avevano più sue notizie da quasi dieci mesi, ormai le speranze erano scarse. Se fosse stato fatto prigioniero lo avrebbero liberato con un riscatto, ma nessuno sapeva niente delle sorti di suo figlio e neppure degli
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