L'Ultimo Chilometro - LIBRO allegato al dvd del film

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L’Ultimo Chilometro

Suggestioni e appunti raccolti durante la realizzazione del film di Paolo Casalis Allegato al DVD del film documentario “L’Ultimo Chilometro” Per informazioni e acquisto: www.thelastkilometer.com / info@thelastkilometer.com Questo libro non è vendibile separatamente dal DVD Nota: il contenuto di questa pagine è interamente opera dell’autore e i fatti raccontati sono ricostruzioni di fantasia, anche laddove il racconto si svolge in prima persona. Si ringraziano per la collaborazione: Ignazio e Francesco Moser, Davide Rebellin, Ditier “Didi” Senft, Gianni Mura. Si ringraziano per la concessione delle immagini: Fabio Mancari (pag.3) Davide Rebellin e famiglia (pagg. 5, 6, 7) Ditier “Didi” Senft (pagg. 10, 11) Archivio Luciano Cravero (pagg. 15-16) Archivio Carlo Sandri (pagg. 16-17)

Info & Contatti: L’Ultimo Chilometro / The Last Kilometer www.thelastkilometer.com / info@thelastkilometer.com Facebook: thelastkilometer Twitter: TheLastKm_Movie

2012 Una produzione Stuffilm Creativeye - BRA (CN) www.stuffilm.com / info@stuffilm.com


L’Inferno del Nord “Dovete arrivare fino a Troyes, dove ci sarà il primo settore di pavè. E lì bisogna andare a tutta, lì è come essere in pista, non si frena mai! Ok?” Il direttore sportivo era stato di parola, ma d’altronde l’aveva già fatta anche lui, quella corsa, raccogliendo un dignitoso decimo posto a cinque minuti di distacco dal primo. Olandesi a sinistra, belgi a destra, e poi sconosciuti e agguerriti corridori della Bretagna e della Normandia, e danesi, e tedeschi... è tutto uno sferragliare di catene, uno sgommare di tubolari, una babele di lingue che imprecano, smoccolano, chiedono strada. Ma dove vuoi andare, che siamo appena partiti e non vedremo l’arrivo prima del tardo pomeriggio? Roubaix, un nome mitico nella storia del ciclismo, stai pure certo che se vinci qui ti porti a casa un bel pezzo di storia, insieme a quel blocco di pavè da appoggiare in bella vista sul camino. Su e poi giù, poi su e poi ancora giù, la bici di Moser affronta le dolci colline che conducono la gara verso i primi tratti di pavè mentre lui pensa che da lì in poi ci sarà solo pianura, una infinita pianura fino al velodromo. E però accidenti che caldo, 27° nel nord della Francia sarà mica normale, no? “Dio bono che caldo!” “Ostia, e poi dicono il freddo del nord!” Gli italiani, o meglio il gruppetto di veneti e il trentino Moser, stanno a metà gruppo, mentre davanti qualcuno prova con insistenza a portare via la fuga. Delle tre, l’una: un ordine di squadra, un momento di scarsa lucidità mentale causato dal caldo, la totale ignoranza del percorso. Altrimenti, sapendo cosa li aspetta, quello spreco di energie risulterebbe davvero inspiegabile. Campi di patate e di asperges (ma saranno poi i nostri asparagi? si domanda Moser di fronte alla vastità di quei campi senza fine), qualche mucca qua e là, strani paesini fatti di un’unica strada su cui si affacciano tutte le case, e la gente davanti alla porta ad applaudire. Ma d’altronde non è che qui ci debbano essere tantissimi svaghi, pensa Moser quando un’ inchiodata generale lo richiama all’attenzione e ne riporta l’ orizzonte visivo ai 50 cm davanti alla propria ruota anteriore. Finalmente la fuga ha preso consistenza e in testa al gruppo si sono dati una calmata, con buona pace degli olandesi in maglia arancione e del lungo carrozzone di ammiraglie, mezzi della giuria, del cambio ruote, dei fotografi e cineoperatori, un serpentone diretto verso nord in disordinata fila indiana. Due chilometri a Troyes. Qui inizia il pavè, aveva detto il direttore sportivo ai ragazzi. Ma d’altronde non ci voleva un genio per capirlo, sembra che dalle ammiraglie sia arrivato, all’unisono, l’ordine di portarsi avanti. Urla, scatti, frenate, l’alveare-gruppo è completamente impazzito. Entrare nel pavè è come tuffarsi dal trampolino più alto dopo aver preso la rincorsa. D’un tratto passi dai 50 chilometri orari sull’asfalto ai 50 chilometri orari sul pavè, e non hai neanche il tempo di chiederti come affrontarlo. Tutti quei discorsi sulla pressione delle gomme, su come impugnare il manubrio, sul mettere o non mettere i guantini, da che lato stare, se passare al centro o sull’erba, se in prima o in terza quarta posizione... e poi in un attimo ti ci ritrovi in mezzo, lanciato come un treno, e puoi solo tenere la testa bassa e stantuffare sui pedali. E la polvere! Una nuvola densa di polvere bianca, finissima, quasi non la senti arrivare ma poi te la ritrovi sulle labbra, in bocca, agli angoli degli occhi. Moser è nelle prime venti posizioni del gruppo, avvolto da quella polvere che respira, che mangia,


e da cui ogni tanto spuntano degli elementi colorati. Una borraccia rossa al centro della strada, un’altra verde a destra, al di là del fosso un corridore che agita in alto nell’aria non una ma due ruote forate, più avanti un altro appena risalito in sella, con il sangue che cola dal ginocchio e dal gomito. L’inferno del Nord. Spesso le cronache ciclistiche vivono di esagerazioni e forzature, in cui la piccola montagnola appenninica diventa muro insuperabile, e il corridore con qualche velleità da scalatore viene subito denominato aquila, rapace, stambecco. Ma qui la definizione ci sta tutta. Fallo con la pioggia e ti ricoprirai di fango, fallo con il sole e annasperai nella polvere e nel vento contrario. Andare a tutta sul pavè ti sfianca, la bicicletta si dimena e sobbalza come un toro meccanico e questo schakerare impazzito ti massacra i muscoli. Tre settori di pavè, tre soli settori, poco più di sei chilometri in totale, e il gruppo già si è sfilacciato, con ritardi superiori al minuto e corridori esausti. Trenta chilometri di tranquilla e assolata pianura francese, più piatta di un campo di petanque, fanno più selezione di quanta ne potrebbero fare tre gran premi della montagna di prima categoria. Dopo ogni settore la testa del gruppo rallenta, i corridori si guardano per fare la conta dei morti e dei feriti, permettendo a quanti si sono attardati di rientrare per poi staccarli, di nuovo e con gli interessi, nel settore successivo. Vista da fuori la Roubaix è una corsa molto musicale, fatta di momenti di adagio a cui seguono frenetiche impennate di ritmo, vivace, presto, prestissimo! Poi, di nuovo, la quiete dopo la tempesta, una tregua armata talvolta di due chilometri, talvolta di dieci, in genere corrispondente con i tratti di strada asfaltata che intervallano i settori in pavè. Mons en Pévèle, Pont Thibaut, Cysoing e poi il celebre Carrefour de l’Arbre, delle buche che ti ci perdi dentro e un rettilineo, quello che porta al famoso ristorante L’Arbre, che non finisce mai, con l’ enorme casone che appare da lontano come un faro in mezzo al mare, unica costruzione in mezzo a chilometri di campagna. Moser continua a spingere sui pedali con il rapportone da pianura, ormai inconsapevole di quanto stia accadendo in corsa, della posizione, dei distacchi. Non valgono più i giochi di squadra, i treni, i gruppi e gruppetti; ormai si è al tutti contro tutti, contro la polvere, le forature e le cadute, contro la fatica e le gambe ormai svuotate di energia. L’arrivo a Roubaix suona come una presa in giro: i corridori affrontano un ultimo settore di una facilità disarmante, un finto pavè, un acciottolato moderno che dovrebbe evocare le difficoltà affrontate dai ciclisti ma sembra invece minimizzarle e schernirle. Svolta a destra, ingresso nel mitico Vélodrome, un primo giro di rincorsa e poi la volata finale per dare fondo alle ultime energie. MOSER F. Vainqueur 1978-79-80 E’ quanto riporta la targhetta posta su uno dei box-spogliatoio nelle spartane docce del velodromo di Roubaix, altro luogo mitico di questa corsa. Ignazio, con l’asciugamano in vita, sfila davanti alla targhetta e tira dritto, preferisce rivestirsi sotto lo sguardo più benevolo di un Coppi (1950), un Ballerini (1995-1998) o Tom Boonen (2005- 2008 -2009 -2012), il suo suo corridore preferito, il suo idolo. Ignazio ha ereditato dal padre buone gambe e una grande, smisurata passione per l’Inferno del Nord, ma se c’è una cosa in cui essere “figli di” non porta alcun vantaggio, questa è il ciclismo. Oggi il morale è a terra, ma già da domani, attraversando il pavè del centro storico di Gardolo, ricomincerà a sognare fughe nella polvere e arrivi a braccia alzate nel velodromo di Roubaix.



Il Chierichetto 10 Marzo 2012, Montecarlo Mi alzo alle 7:30, svegliato dal rumore dei clacson che imprecano contro chi ha parcheggiato in doppia fila. Rue Grimaldi è il solito viavai di turisti, uomini d’affari, gendarmi, qualche signora di mezza età diretta al vicino mercato. Un classico, qui a Montecarlo, paradiso dello struscio per pedoni e automobili di grossa cilindrata, strano approdo per chi di lavoro va in bicicletta. In salotto trovo la colazione dei campioni, un piatto ricolmo di muffin al cioccolato che Françoise mi ha preparato prima di andare al lavoro. Mangio, bighellono un po’ per casa, poi mi vesto e alle 9 sono già in strada. Sabato prossimo ci sarà la Milano-Sanremo, una corsa che tecnicamente mi si addice, anche se a dire il vero negli ultimi anni è stata una questione privata tra sprinter e ruote veloci, da Cipollini a Freire a Cavendish. Sarebbe bello esserci comunque, provarci, arrivare stremati sul traguardo del lungomare Italo Calvino, ad appena venti chilometri da qui, e poi tornare a casa stanco ma soddisfatto, ma mi toccherà accontentarmi di guardarla dal divano di casa. La stagione è iniziata da un pezzo e io sono ancora senza squadra. Evidentemente il quarantenne che lo scorso anno ha vinto di filato la Tre Valli Varesine e il Trofeo Melinda, quello che dopo Pechino 2008 sembrava finito, è risorto, sì, ma invano, o comunque non interessa più a nessuno. 30 Marzo 2012, Montecarlo E con oggi sono ottomila, ottomila chilometri di allenamento. Ma allenamento per che cosa? Domani si corre il Giro delle Fiandre, e quante volte nei mesi scorsi, quando scattavo o quando incontravo qualche metro di porfido, ho sognato di essere sulle rampe dell’Oude Kwaremont o del Pateberg; e mentre facevo “lunghi” di sei ore fantasticavo sul far valere le mie iper-allenate doti di resistenza, il vecchio diesel che surclassa i motori più giovani e rombanti. E invece niente, ancora televisione, ancora divano. 18 Aprile 2012, Montecarlo In televisione danno la Freccia Vallone, e guardare il triplice passaggio sul muro di Huy è come ricevere tre pugnalate alle spalle. 2004, 2007, 2009. Tre stoccate vincenti, tre scatti, cinquecento metri a tutta incurante dell’acido lattico, della pendenza, della fatica. Vedere oggi quello spagnolo fare la stessa cosa, e per di più con una facilità disarmante, mi costringe a spegnere la tv. 11 Maggio 2012, Montecarlo “Non è mica obbligatorio correre nella vita eh... ?” Foxmulder “Un ritorno patetico, ma un patetico triste! e anche penoso! Ma perchè il pudore e la vergogna non sono più praticati??” Sambari “Bisognerebbe anche capire quando ad un certo punto è ora di farsi da parte ... che tristezza.” Cainoeabele


Così, su Tuttobiciweb.it e su altri forum dedicati al ciclismo, viene accolta la notizia del mio ritorno alle corse. Dopo mesi di speranze, illusioni e relative delusioni, ho dovuto abbandonare l’idea di accasarmi in una grande squadra, una di quelle del circuito World Tour, e ho firmato con la Meridiana Kamen, piccola squadra italo-croata con cui potrò disputare solo le gare del circuito Continental, ben inferiori per prestigio e livello dei partecipanti. In questo momento vorrei che il ciclismo fosse come altri sport, come il motociclismo, il tennis o il golf, in cui talvolta wild-cars o carneadi provenienti dagli incontri di qualificazione arrivano a disputarsi e vincere le finali. E invece noi siamo dei soldatini che dipendono dalla propria squadra, dalla propria federazione o dalla federazione internazionale. Da soli, senza il lasciapassare dei nostri comandanti e generali, non possiamo andare da nessuna parte, e la grande condanna di Pechino 2008 non è stata la squalifica di due anni, ma l’avermi lasciato solo. 10 Agosto 1982, Lonigo (VI) Guardo la mia bicicletta, appoggiata al cancello del Santuario di Santa Maria dei Miracoli. E’ bellissima. Sembra proprio come quelle di Moser o Saronni, solo in miniatura. Oggi i grandi mi prendevano in giro perché ho voluto fare la volata con loro, dicono che nel cercare di stargli dietro con le mie ruotine le gambe mi giravano come le pale di un frullatore. Ma a me non interessa, che mi prendano pure in giro, se mi alleno con loro poi riuscirò a battere quelli della mia età. Papà dice che domenica non dovevo prendermela così per quel terzo posto e che non dovevo mettermi a piangere né tenere poi il broncio per tutta la giornata, ma io ci tengo e voglio che sia la maglia con su scritto ABMarket Rebellin, il nome del negozio di papà, ad arrivare per prima al traguardo. Prego la Madonna di Lonigo perché mi aiuti a vincere domenica prossima. 6 Giugno 2012, Čierny Váh , Slovacchia Sono esausto, ma felice. Primo al termine della seconda tappa del Giro di Slovacchia, primo in cima all’impegnativa salita di Čierny Váh, dieci chilometri di rampe all’ombra dei pini. Ok, i miei avversari si chiamano Sergey Rudaskov e Jan Hirt , e non Rodriguez, Basso o Scarponi. Loro si disputano il Giro d’Italia, io mi devo accontentare di quello di Slovacchia, dove non ci sono fotografi, cameramen, giornalisti al seguito, dove si corre per una coppa in acciaio e il bacio di una miss, proprio come quando ero nella categoria juniores.


28 Settembre 1989, Mosca, Russia Mio padre, mia madre e i miei fratelli sono ai piedi del podio e mi guardano commossi mentre risuonano le note dell’inno nazionale. Vista da quassù sembra la solita gita di famiglia nella provincia accanto per seguire una corsa mia o di mio fratello Simone, e invece siamo a Mosca e io indosso la maglia di campione del mondo nella cronometro a squadre per nazioni. Papà dice che in Italia hanno già dato la notizia al telegiornale e che questa vittoria mi porterà dritto fino al professionismo. Io spero tanto che non si sbagli, penso che da quando avevo sette anni e ho iniziato a correre ho sempre vinto, e tanto, e spero che esista una regola non scritta, una specie di forza d’inerzia delle cose che mi permetterà di continuare a vincere anche tra i professionisti. Mi piacerebbe poter correre ancora una decina d’anni, fino a quasi trent’anni, e poi magari rilevare il negozio di alimentari di papà a Lonigo. In fondo correre è l’unica cosa che so fare, l’unico mestiere che ho imparato in questi anni. E poi quando sono in bicicletta mi sento forte, realizzato, accettato, insomma in quel momento sono davvero in pace con me stesso e quel carattere fin troppo mite e sottomesso, quel soprannome di chierichetto che mi hanno affibbiato in gruppo, non mi appartengono più. Quando sono in bicicletta lo decido io chi sono: tutto quello che devo fare è buttare giù un rapporto, alzarmi sui pedali e scattare.



Dieter “Didi” Senft è un Supereroe. C’è un famoso passaggio di Kill Bill Vol.2 in cui David Corradine (e Quentin Tarantino per lui) compie una disamina dei supereroi del mondo dei comics, la cui conclusione è che Superman è il più figo di tutti: “L’elemento fondamentale della filosofia dei supereroi è che abbiamo un supereroe e un suo alter-ego: Batman è di fatto Bruce Waine, l’Uomo Ragno è di fatto Peter Parker. Quando quel personaggio si sveglia al mattino è Peter Parker, deve mettersi un costume per diventare l’Uomo Ragno. Ed è questa caratteristica che fa di Superman l’unico nel suo genere: Superman non diventa Superman, lui è nato Superman, quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alter-ego è Clark Kent”. Se è così, allora Didi Senft è ancora più figo - e forte - di Superman, perché lui per essere supereroe non ha neppure bisogno di un lungo viaggio dal pianeta Krypton, si accontenta di un remoto paesino dell’ex Germania Est, peraltro dal nome similare, Storkow, circa 50 km da Berlino. Didi è sempre un supereroe: i suoi poteri sono al massimo livello in estate, soprattutto tra maggio e luglio, ma all’occorrenza non disdegna di esserlo anche nelle altre stagioni. Come ogni supereroe è dotato di un costume, che lui stesso ha disegnato, cucito e adattato al suo corpaccione da 90 Kg per quasi un metro e novanta di altezza.. Come Superman, Didi non avrebbe davvero bisogno di questo costume, ma gli fa comodo (e piacere) essere identificato, riconosciuto, filmato dai media e applaudito dalla gente comune. Il suo travestimento è fatto di un lungo mantello rosso e nero (ma ne esiste anche una variante completamente in rosa) da cui fuoriescono, libere, gambe e braccia, avvolte da una calzamaglia rossa.

Fin qui nulla di speciale, ma ciò che conferisce un tocco in più al costume sono gli accessori, creati e accostati con la fantasia di una teenager in libera uscita. In testa, Didi indossa uno speciale copricapo, una semisfera (la metà di un pallone? una noce di cocco?) da cui spuntano due corna minacciose. Con un trucco da teatrante di lungo corso, ha nascosto l’elastico necessario per tenere salda questa costruzione dietro i ciuffi della lunga barba, un tempo nera e oggi bianca come la neve. In mano porta sempre un tridente dalle punte acuminate e minacciose; talvolta è in vero acciaio, altre volte ha dovuto optare per una più innocua versione in plastica a causa delle limitazioni


imposte alla mobilità aerea dei Supereroi. Infine, i piedi. Come Flash e prima ancora Mercurio, Didi indossa delle calzature speciali: si tratta di due ciabattoni in plastica nera, da campeggiatore tedesco, da cui spuntano i suoi grandi piedi. Deve avere una particolare avversione/idiosincrasia per le calze e per il buon gusto, perché quando la giornata si fa fredda e piovosa le sostituisce con due calzascarpe gialli, che sospetto essere un lontano cimelio del Tour de France o un souvenir di Marco Pantani. Fin qui il costume, la maschera, e tutti questi indizi fanno capire che trattasi di maschera da Diavolo; ma quali sono i superpoteri di Didi, che cosa fa di preciso? “Dove c’è un’ingiustizia, lì c’è Superman”. Ecco, nel nostro caso diventa “Dove c’è una gara ciclistica di livello, dove ci sono grandi montagne, passione, entusiasmo, spettatori, lì c’è El Diablo!” Da oltre 20 anni Didi segue il Giro d’Italia, il Tour de France e numerose altre corse a tappe o di giornata. Il piccolo Giro di Svizzera è inaspettatamente la corsa che ama di più, ma forse solo perché lì qualcuno lo capisce, visto che ha anche il superpotere di non parlare una parola di inglese o francese nonostante i molti anni di assidue frequentazioni. Su Youtube ho trovato un vecchio servizio della rete televisiva australiana SBS TV dal Tour de France del 1994, il quarto di Miguelon Indurain. L’intervistatore si avvicina incuriosito al tedesco (per chi userà il QR code a destra, andate al 9° minuto), ci mostra l’enorme bicicletta che si trascina dietro a mò di roulotte (sì, perché Didi è anche un inventore e creatore di oltre 100 biciclette da Guinness dei Primati, ma questa è un’altra storia), e l’interno della sua Volkswagen Golf carica di cibo in scatola, dispensa e albergo viaggiante. In una delle ultime inquadrature si vede arrivare nella pianura francese, lanciato come un’orda di indiani sulle pagine di Tex Willer, il gruppo dei corridori, che sfila a velocità supersonica davanti a un diavolaccio che urla, sbraita, incita, carica con il forcone. Tutto qui. Un attimo di esaltazione, un attimo di gloria in mondovisione, un solo granello dei quindici minuti di notorietà teorizzati da Andy Warhol. Sempre su Youtube è disponibile il filmato di un momento ormai entrato nella storia del ciclismo, pur non trattandosi certo di impresa sportiva. Quindicesima tappa del Giro d’Italia 2007, il gruppetto di testa sta affrontando il temibile Passo Giau; sulla destra compare Didi, che come suo solito si mette a correre dietro ai corridori incitandoli e agitando il forcone. D’un tratto quello che non ti aspetti: il messicano Perez Cuapio sottrae al Diablo il suo forcone e “cerca di infilzare le terga di Piepoli, colpevole di torturarlo con un’andatura insopportabile”, come scrissero allora i cronisti di La Repubblica. Un episodio che, insieme a moltissimi altri (dai Tour di Indurain a quelli di Armstrong, da Pantani a Ullrich e Contador) ha fatto di Didi Senft il tifoso di ciclismo più famoso del mondo, oltre che vero e proprio marchio di garanzia della corsa (se c’è El Diablo, allora c’è spettacolo) e pertanto cercato e inquadrato dalle televisioni di mezzo mondo. Il superpotere di Didi è dunque la notorietà televisiva, l’apparire, il super-presenzialismo? Solo passando un’intera notte e il giorno successivo con lui (al Giro d’Italia, sotto la pioggia e


il freddo di Pian dei Resinelli) ho capito che i suoi poteri sono ben altri. Didi non incita solo i corridori, sarebbe troppo facile, ma per l’intera giornata saluta e sprona i tifosi che fin dall’alba, a piedi o in bicicletta, vanno a piazzarsi in qualche tornante o punto panoramico del percorso. Per tutti lui ha un gesto, una linguaccia, un urlo, un colpo di forcone, un incitamento. Ho visto decine, centinaia, migliaia di persone fermarsi per farsi scattare una fotografia insieme a lui oppure fotografarlo nelle sue pose infernali. Non c’è tifoso che non lo riconosca: forse non tutti sanno che faccia abbia Ivan Basso e sicuramente pochi sanno il colore della maglia di “Purito” Rodriguez, o come si pronuncia e chi sarà mai Ryder Hesjedal ma tutti, da 100 metri di distanza, iniziano a gridare: “El Diablo!”, “Guarda chi c’è!”, “Mitico”, “Ma dov’eri? Pensavo che quest’anno non saresti più venuto”, “Grande”... Arrivati a 10 metri di distanza, gli vedi gli occhi brillare per l’emozione, la mano agitarsi per cercare la macchina fotografica (e se la moglie o il marito non l’ha portata, saranno guai), la bocca aprirsi a disegnare un’espressione inebetita, tra lo stupito e l’incredulo. Ma allora esiste! Allora non è come gli altri Supereroi, che vivono solo nel mondo dei fumetti e dei blockbuster di serie B! Ecco, questo è il potere, anzi il superpotere del Diablo: la capacità di regalare a tutti un sorriso, un attimo di emozione, di (pazza) felicità, un momento da incorniciare e ricordare per tutta la vita. E agli occhi di tutti i tifosi del ciclismo, ma in fondo anche per questo sport oggi così avaro di epica e di personaggi, questo potere lo rende più forte, più veloce, più supereroe di Superman! WEB: Sito ufficiale: http://www.tourteufel.de PEZ Cycling News: http://www.pezcyclingnews.com/?pg=fullstory&id=2378

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Chi ha ucciso il ciclismo? “Se si pensa che i corridori hanno nelle orecchie una trasmittente e sono praticamente teleguidati dall’ammiraglia, direi che questa è la fine dell’avventura” Gianni Mura. Dopo gli scandali di calciopoli e del calcioscommesse, nessuno nell’Italia del 2012 si sarebbe aspettato un’altra estate di processi sportivi, e questa volta legati non al passatempo nazionale ma a uno sport minore: il ciclismo. Partito in sordina, in breve il processo aveva infiammato prima i circoli sportivi e i bar di provincia, poi le redazioni dei giornali locali, seguite a ruota dai grandi quotidiani in rosa e non, e infine (e solo questo ne aveva sancito il salto di qualità) si era trasferito sul piccolo schermo. “Chi ha ucciso il ciclismo?” Così, Lunedì 27 Luglio 2012, aveva esordito Aldo Biscardi su una miriade di tv locali, dando la stura a due ore esilaranti in cui si parlava del velocista Marc Cavendzindsh e dello svizzero Cancellata, passando per il vincitore del Tour Biggings, arricchite da dibattiti tra improvvisati suiveur delle due ruote come quello tra un inedito coppiano Ignazio La Russa e un Daniele Capezzone insospettabile guardiano e mentore del ciclismo su pista. Colte impreparate, le redazioni dei Tg andavano ora alla ricerca di un passato ciclistico nei curricula dei loro inviati. Ad Antonio Caprarica, i cui guanti in cordura acquistati per guidare la Jaguar erano stati scambiati per guanti da bibicletta in stile vintage, fu affidato un servizio sul rapporto tra la monarchia inglese e uno sport altrettanto nobile ormai decaduto, mentre Enrico Mentana coinvolgeva il suo sondaggista di fiducia per soppesare il potenziale politico del movimento #salvaciclisti. Ma veniamo ai fatti: da anni il giornalista milanese Gianni Mura, cantore del Tour de France dalle pagine del quotidiano “La Repubblica”, andava raccontando di uno sport sempre più avaro di epica e di imprese, sempre meno chanson de geste e sempre più in balia di sponsor e di interessi milionari. “Il ciclismo è uno sport molto ricco di memorie. Ma se si passa sul Tourmalet e in cima il primo è un velocista, come succede, io non ho nessuna emozione e magari racconto una tappa di venti anni prima, in cui qualcosa era successo [...] Questo ciclismo è uno sport che si è molto allontanato dalla sua storia e anche dal suo fascino. E’ cresciuta una generazione di corridori calcolatori e poco portati al beau geste [...] Corridori come Merckx o Hinault non esistono più, e non è che mi metto a piangere, però sicuramente non posso dire che mi entusiasmino i corridori di adesso.” Le parole di Mura erano state velocemente liquidate dai colleghi più giovani e da parte dei lettori come ammonimenti di una Cassandra a cui non credere, mentre altri ne avevano sottolineato la componente nostalgica, quel “si stava meglio quando si stava peggio” proprio di chi ha una certa età e tende ad attribuire più valore a uno scatto di Merckx su un cavalcavia che ad un intero Tour de France di Oscar Pereiro (2006) o Carlos Sastre (2008). Poi però era successo qualcosa. In quello stesso mese di luglio, la televisione nazionale aveva impiegato uno spaventoso spiegamento di forze al seguito della Grande Boucle, per raccontare in ogni dettaglio il terzo evento più seguito al mondo, dopo Olimpiadi e Mondiali di Calcio. 12


Fin dalle prime tappe, in una eterna pianura francese che conduceva il gruppo verso la volata a ranghi compatti, gli inviati Pancani e Cassani avevano dovuto attingere da un serbatoio pressoché inesauribile di aneddoti, racconti, curiosità, talvolta persino pettegolezzi. Ma finalmente erano arrivate le salite: 7^ Tappa, prima di montagna. Grande attesa per i primi scossoni in classifica, la tappa si risolve con un niente di fatto. 8^ Tappa, tante salite in un percorso che si snoda tra Francia e Svizzera. Il più giovane del gruppo va in fuga e vince, segue compatto il gruppetto dei migliori. 17^ Tappa, è l’ultima occasione per attaccare i cronomen. Attacco di Nibali! In discesa, vabbè, ma sempre di attacco si tratta, saranno smentite le cassandre del ciclismo moderno... Contrordine, Nibali si rialza, niente di fatto. Di fronte a questo scenario, una rivolta sommessa iniziava a serpeggiare tra gli appassionati di ciclismo, ormai a rischio di abbiocco giornaliero sul comodo divano davanti alla tv. “Almeno ai tifosi della Formula1 viene concessa una settimana di recupero tra una pennichella e l’altra!”, così twittavano per restare svegli i tifosi più social. La rivolta dei teleciclodipendenti aveva portato a tre differenti reazioni: 1) Quelli del vintage Anche se per qualcuno erano solo un gruppo di danarosi chic metropolitani, gli amanti del vintage e dello scatto fisso si andavano diffondendo ovunque, dalla modaiola New York, a Milano, fino ai paesini lontani anni luce dal mondo del design e dell’aperitivo compulsivo. Per gli amanti del vintage gli idoli erano Moser, De Vlaeminck, Merckx o Coppi, e le biciclette si chiamavano Gios, Legnano, al massimo Bianchi o Pinarello. In loro l’interesse per l’espressione agonistica del ciclismo, il fatto che alcuni professionisti utilizzassero lo stesso mezzo per disputare delle competizioni, era pressochè irrilevante; per loro la stagione delle corse si era chiusa il 23 gennaio 1984, quando il 50,151 di Moser aveva traghettato il ciclismo nell’epoca della modernità tecnologica, del “troppo facile”. Alcuni di loro si ritrovavano sul web in community a difesa del pavè e del ciclismo “classico” [1] o riproponevano con il massimo spirito filologico le gare del ciclismo eroico dei Binda e Girardengo, con tanto di biciclette originali da 15 kg e strade sterrate [2]. 2) Quelli degli anni ‘80 e ‘90 Erano i nostalgici di un ciclismo più recente, offuscato e compromesso da infiniti casi di doping ma ancora fulgido nel ricordo estasiato dei tifosi. In Italia, a oltre dodici anni dalla sua ultima vittoria a Courchevel, ancora andavano per la maggiore i tifosi di Pantani, e stessa cosa accadeva in Francia, Spagna, Stati Uniti e negli altri paesi, non solo per Pantani ma anche per Fignon, Lemond, Indurain, e per i grandi delle corse di un giorno come Bellerini, Mussew, Jalabert... Un ciclismo che, al netto del marcio e dei mille problemi, aveva saputo offrire fughe in solitaria, attacchi da lontano e scatti che, anche quando annunciati con largo anticipo dal gesto di gettare a terra la bandana, diventavano poi inarrestabili e vittoriosi. 3) Quelli del “oggi si può fare solo così” Infine la terza categoria, cui appartenevano in larga misura gli addetti ai lavori: i corridori, i direttori sportivi, i tecnici e buona parte dei giornalisti sportivi e dei commentatori. La loro tesi di fondo era che certi exploit, certe prestazioni che in passato avevano entusiasmato il pubblico, erano state supportate e consentite da un doping generalizzato e che forse il loro 13


ciclismo fosse più monocorde e noioso perché finalmente pulito, più umano e meno da supereroi. «Lo so che la gente vorrebbe che andassi come Pantani, in tappe di montagna appassionanti come un romanzo. O come Virenque, che partiva a manetta. Ma il Tour è diventato più umano, anche grazie ai controlli, e certe imprese in montagna non sono più proponibili . Questo sport è cambiato, ora si sale a ritmi sostenibili. Riusciamo a fare quello, e solo quello, che il nostro corpo ci permette di fare. È un peccato che ci sia chi non capisce e si lamenta. Perché poi dicono che il Tour è noioso e ci danno pure dei dopati...». (Bradley Wiggins dopo la vittoria del Tour de France 2012, da La Stampa del 22/07/2012) “Se un’impresa è incredibile, non credete a quell’impresa”. (David Millar, 2012) Insomma, se prima erano i ciclisti a doparsi per vincere, d’ora in poi avrebbero dovuto farlo gli spettatori per rimanere svegli davanti alle prestazioni dei ciclisti. Il processo sportivo al ciclismo, partito dall’Italia di Gianni Mura e della tribuna televisiva di Aldo Biscardi, si estese rapidamente e a macchia d’olio in tutti i paesi dell’occidente. La prima metà del 21° secolo fu attraversata da liti furibonde tra due fazioni etichettate non senza polemiche come “conservatrice” e “progressista”, e si risolse solo nel 2039, quando il via libera al doping genetico riportò in vita le imprese dei grandi campioni del passato. tratto da “Il ciclismo del passato: XX e XXI secolo”, Ediciclo Editore, 2112

1. Velominati, keepers of the cog - www.velominati.com 2. L’Eroica - www.eroica.it La Storica - www.bicidepoca.com

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Indice

L’Inferno del Nord (Ignazio Moser)

p.1

Il chierichetto (Davide Rebellin)

p.4

Ditier “Didi” Senft è un Supereroe (El Diablo Didi Senft)

p.8

Chi ha ucciso il ciclismo? (Gianni Mura) Indice Fotografico

pag.15 (dall’alto): Marco Pantani, partenza di Saluzzo, Giro d’Italia 2000 Marco Pantani, Milano-Torino 1985 Marco Pantani, arrivo di Sestriere, Giro d’Italia 2000 Marco Pantani, Alpe d’Huez, Tour de France 1997 Marco Pantani, Deux Alpes, Tour de France 1998 fotografie di Luciano Cravero pag. 16 (dall’alto): Alfredo Martini, 1950 Gino Bartali, Valico di Chiunzi, 1948 Raphael Geminiani, Sestriere, Tour de France 1956 Nino Defilippis, Sesteriere, Tour de France 1956 Battistini, Massignan (Tour de France 1960?) fotografie di Carlo Sandri

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Suggestioni e appunti raccolti durante la realizzazione del film di Paolo Casalis Allegato al DVD del film documentario “L’Ultimo Chilometro” Per informazioni e acquisto: www.thelastkilometer.com / info@thelastkilometer.com Non vendibile separatamente dal DVD


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