Il gioco dello scrivere

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Angela, Francesca, Serena, Ernesto, Mario, Paolo, Stella, Valeria, Francesco, Loris.

IL GIOCO DELLO SCRIVERE

Laboratorio di scrittura creativa. Volvera, 2009


Piccola raccolta di testi, scritti dai partecipanti al Laboratorio di Scrittura Creativa di Volvera, fra Gennaio e Marzo del 2009. Non sono tutti, forse non sono nemmeno i migliori... Ma a noi sono piaciuti!


A Maria, che ha avuto la pazienza di accompagnare tutti noi nell’affascinante gioco dello scrivere.



Angela Arceri (1979)

SENSI ACCESI AL BAR (gennaio 2009) Oggi voglio fare la scrittrice… ed eccomi qui, seduta al tavolino di un bar, con il mio taccuino aperto davanti e una biro in mano, a darmi un tono un po’ svagato e un po’ maledetto, quell’aria di chi è afflitto da grandi subbugli interiori, quel maceramento che pare sia d’obbligo per ogni scrittore serio. Mi concentro cercando di far affiorare qualche sensazione e inizio a tirar giù parole un po’ di getto, provando a registrare i suoni che mi circondano… chiudo gli occhi…no, meglio di no, se non voglio essere portata via con la camicia di forza! Allora provo semplicemente ad immergermi di più nell’ambiente in cui mi trovo. Ciò che prima di tutto mi invade è indubbiamente la variabilissima serie di odori: l’aroma esotico del caffé caldo, la dolcezza e golosità del burro delle brioche appena sfornate, la coinvolgente armonia di morbido latte e deciso caffé del cappuccino e, per i più salutisti, note agrumate di spremute di arance. Con le mani esploro, sfioro la tovaglia rossa sul tavolino: ruvida, irritante; poi il piccolo vaso contenente dei fiori: freddo, distante; gli stessi fiori: morbidi, delicati, vivi; la sedia su cui sono seduta: solida, rustica; il cuscino: morbido, accogliente ma ad un certo punto, è il rumore di sottofondo a carpire la mia attenzione, un misto di brusio di voci discrete e rumori di bicchieri, tazze e tazzine: il tintinnio di quelli appoggiati sui vassoi, di quelli sciacquati al bancone, di quelli riposti infine nella lavastoviglie, o ancora di quelli posati dai clienti fra una chiacchiera e un sorso. Se faccio bene attenzione riesco anche a sentire lo stridio dello strofinaccio che passa veloce sul bicchiere per portargli via le gocce d’acqua. Le voci delle persone invece si susseguono a ondate, quasi come se i frequentatori entrassero e uscissero tutti insieme, invadendo e


animando improvvisamente il locale e altrettanto improvvisamente lasciandolo, un attimo dopo, nel silenzio di questo lunedì mattina. Ora che in questo bar non c’è più nessuno a parte me, mi guardo attorno e vedo il colore giallo senape delle pareti, i pochi quadri appesi raffiguranti perlopiù nature morte, qualche pianta qua e là, delle tovaglie rosse sui tavoli, un bancone in legno su cui riposano in attesa bustine di zucchero, brioche e biscotti, tazzine vuote, scontrini abbandonati; una macchina da caffé lucida e fumante davanti alla quale si affanna una signora non più giovanissima e che, con una voce un po’ stridula, intima all’ ultimo cliente di chiudere la porta perché «’a fa freid,ne!»

IL PAPPAGALLINO GUGLIELMO (aprile 2009) Guglielmo era un piccolo pappagallo arrivato in Italia dal Brasile, su una nave per il trasporto di animali domestici insieme a diversi altri suoi simili ed era stato esposto insieme agli altri nelle voliere di alcuni negozi per poter essere scelti e comprati dagli umani. Guglielmo era molto triste: non era contento della vita che faceva e non gli piaceva stare chiuso in quella voliera… a nessuno piaceva! Ma mentre gli altri suoi compagni facevano amicizia e cercavano di sfruttare tutti i lati positivi della situazione, lui se ne stava in disparte, tutto solo, a chiedersi come avesse potuto essere stato così stupido da farsi prendere e portare fin laggiù. Dove aveva sbagliato? Come avrebbe potuto trovare una soluzione e liberarsi da quella tremenda situazione? Perso in questo genere di pensieri Guglielmo passava le sue ore, i suoi giorni e le sue notti, non riusciva a darsi pace. Così gli cominciarono a cadere le piume a causa dello stress, diventò brutto fuori come si sentiva brutto dentro. Incominciò a pensare che non ci fosse più nulla da fare: sarebbe andata sempre peggio, ormai era


iniziato il percorso discendente e sarebbe stato impossibile risalire, soprattutto per lui sarebbe stato difficilissimo ritornare a volare di nuovo. A volte sognava ad occhi aperti, immaginando di fare capriole nel vento, di fendere l’aria con le ali, sentire la brezza passargli tra le piume… eppure qualcosa lo tratteneva dal provare a scappare da quell’angusta gabbia: la PAURA! La paura di rischiare, di lasciare una strada stretta ma conosciuta per una più larga ma anche piena di incognite e di prove, che temeva non essere in grado di superare. Un giorno, però, Guglielmo prese una decisone: non sapeva ancora come, ma sarebbe scappato e avrebbe cominciato una vita nuova, con se stesso. Studiò un piano e quando la negoziante si avvicinò alla gabbia per prelevare un suo compagno il pappagallo si appostò vicino alla porticina e, appena aperta, con un balzo repentino, volò via e si tuffò nel mondo. Non fu facile per Guglielmo: quante difficoltà da affrontare! Difendersi, procacciarsi il cibo, costruire un nido, preservarsi dai rapaci e dai morsi della fame… Un giorno Guglielmo passò dal negozio in cui aveva vissuto per giorni insieme agli altri pappagalli amici suoi e provò a raccontargli tutte le sue avventure e loro, ascoltato sbalorditi quel racconto, dissero: Caspita, Guglielmo! È pericoloso là fuori! Noi qui stiamo bene: riceviamo tutti i giorni del cibo, non dobbiamo difenderci da nessuna minaccia e abbiamo questa gabbia tutta per noi, sempre a disposizione… Guglielmo, valutate quelle parole tra sé e sé, fece un giro ad ali spiegate nel cielo e capì che era vero, là fuori c’erano molti pericoli, ma il pericolo più grosso era chiuso dentro la gabbia.


IL RISVEGLIO AL RALLENTATORE DEL NONNO (Febbraio 2009) Il caro vecchio nonno da sotto le coperte del suo letto, il più caro amico, mormora le preghiere del mattino seguendo la voce proveniente dalla radio. Finita la programmazione, puntuale si alzerà per la colazione… manca poco… Con movimenti lenti e attenti si porta nella posizione seduta: ha i capelli un po’ abbatuffolati, di cotone spettinato. Li sistema all’indietro con un gesto delle grandi mani dalle dita ancora possenti. Ha gli occhi un po’chiusi, le palpebre stropicciate e le pupille di colore un po’ incerto, tra il grigio e il nocciola. Si infila ai piedi le pantofole imbottite con attenzione e, dopo due o tre tentativi falliti, riesce a darsi una spinta decisiva che gli regala la posizione eretta… proprio eretta no! Ma la sua dignità gli conferisce un portamento davvero signorile. Afferra la sua stampella cigolante e, ancora in pigiama, inizia a muovere i primi passi verso la cucina, ma questa mattina sono passi più lenti del solito. Infatti sa già che ad attenderlo non c’è la sua mela cotta con i biscotti e lo sguardo è un po’ triste e sconsolato. Basta, però, la promessa di una partita a briscola per far tornare in quegli occhi un po’ di lucentezza.


SOGNO O SON DESTA? Sento che il caffé che ho appena preso non sta servendo a niente. Sono arrivata stamattina presto armata delle mie migliori intenzioni, con un preciso programma che, ero certa, avrei rispettato ad ogni costo, ma ora sono qui, seduta davanti a questo quaderno inutilmente aperto, ad un tavolo della della biblioteca Civica, afflitta dal sonno e da una profonda crisi di ispirazione che non mi permette di fare alcun passo avanti nel mio lavoro: ma quale corso di scrittura? Cosa speravo di combinare? Dalla fatica che faccio a recuperare nella mia mente qualche felice spunto su cui scrivere qualcosa e la ancor più grande difficoltà che incontro nel tradurre qualche confusa idea in parole sensate e minimamente coinvolgenti, deduco che mi manchino sia il bagaglio di esperienze che le capacità. Effettivamente la mia vita è così comune, ancorata al quotidiano, scandita da piccoli doveri e semplici impegni... di cosa diavolo potrei scrivere? Ora basta! Mi tiro un po’ su con la schiena, mi stropiccio occhi e faccia e, appoggiando con fermezza e decisione i gomiti sul tavolo, cerco di combattere questo momento. È così che mi accorgo di una tizia davvero molto strana che si aggira nei locali della biblioteca, vestita di bianco e dall’aria eterea, con i capelli ondulati e scuri raccolti dietro la nuca, divisi in due sulla fronte. È una donna già matura, ma che conserva in qualcosa di sé una certa giovinezza, se non addirittura fanciullezza. La vedo dirigersi verso di me e sedermi accanto, con grazia e levità. Non ho il coraggio di volgermi a guardarla, mi accontento di spiarla con la coda dell’occhio: apre un piccolo taccuino sgualcito e, con una specie di penna che non è una biro, comincia a scrivere con furore. Mi colpisce soprattutto il fatto che sulle sue guance, prima pallide e quasi smunte, compaia un rossore scintillante e ardente. Anche il suo abbigliamento, a ben guardare, ha qualcosa di eccentrico e di retro: la gonna lunga, la camicetta dalle maniche gonfie, un cammeo sul bordo del colletto…


Continuo a osservare i gesti e l’atteggiamento di quella donna durante la scrittura forsennata, come guidata da uno spirito impossessatosi del suo corpo esile: ripetutamente, con frequenza quasi regolare, sfiora con il suo dito indice la punta del naso, ma per un breve attimo, non sembra potersi fermare troppo. Con le dita dell’altra mano sistema dietro l’orecchio una ciocca di capelli ribelle che continua a ricaderle davanti agli occhi. Quando di rado si sofferma a pensare, rimane immobile e distante, come in trance, sospesa, ma dopo qualche secondo la mano ricomincia a correre sulla pagina bianca lasciando dietro di sé tratti incomprensibili. Come se mi conoscesse da tempo, incomincia a parlarmi di sé: mi confessa che questa è la prima volta che esce di casa, che lascia la sua stanza, da quando aveva 25 anni. Continua col dirmi di aver vissuto da quel dì guardando il mondo da dietro la sua finestra, con la porta chiusa a chiave, lasciando il mondo fuori di lì , ma allo stesso tempo vivendolo intensamente attraverso il mondo che aveva dentro di sé. Io ascolto la sua voce quieta, composta; la voce della consapevolezza cosciente e lucida di una donna che ha compiuto una scelta ardua, anticonformista, per molti folle, ma che è stata la sua scelta e pertanto sposata e mai tradita, senza rimorsi o sguardi rivolti all’indietro. Continuando la sequenza dei suoi ricordi mi racconta di quando, appunto, all’età di 25 anni un giorno salì le scale della sua casa, dirigendosi verso la sua stanza in cui aveva il suo scrittoio, il suo calamaio e la sua finestra e, varcata la soglia, chiuse la porta e non lo riaprì più. Dice «In quel momento incominciò la mia vera vita: quella della scrittrice ». Mi dice di essersi accorta che tutto il suo mondo, quello di cui scrivere, era già in lei, tutto…bastava attingervi con pazienza e garbo, aspettandolo e accogliendolo gentilmente. La sua camera era la sua isola felice e con la sola fantasia riusciva ad ottenere tutto ciò che desiderava. Riaprii gli occhi e capii, cercai tra gli scaffali… Emily Dickinson… leggo..mi siedo…scrivo!


FOTO RUBATA « Dai, Angela! Sta’ ferma! ». Come si fa a chiedere ad una bambina di due anni, curiosa e affamata di vita, di stare in posa, immobile, davanti ad un obbiettivo fotografico? Il giorno del suo compleanno, poi! Eppure proprio questo disse mio padre a quella bambina dai codini ai lati del viso, gli occhi raggianti di spontanea e genuina felicità, le guance tonde e arrossate dall’eccitazione della festa, il vestitino dalla fantasia geometrica anni ’70, che ogni tanto riposava lo sguardo fuggente sull’obiettivo, ma solo per assecondare le richieste di quella che, comunque, per lei rappresentava l’Autorità e, così, poter tornare a giocare senza interruzioni. Com’ era felice! Circondata da tutte le persone che le volevano più bene, lì riuniti per regalarle una festa che per lei voleva dire: innumerevoli baci, candeline, soffio sulle candeline, applausi, crostata di frutta, pochi regali, ma proprio quelli che desiderava, e giocare, giocare, giocare… Certo che di fronte a tutto ciò diventava davvero molto poco divertente stare davanti ad una macchina fotografica in attesa di un clic. Per trovare un diversivo mirava con lo sguardo il vassoio di pasticcini che stazionava da qualche minuto sulla tavola, accanto alle bottiglie di aranciata e di spumante. Volgeva lo sguardo intorno con prudenza e cautela, poggiando il ditino indice sulle labbra come chi sta per farla grossa… Certo ce ne eran proprio di allettanti di pasticcini: con la glassa verde, gialla, rosa; quelli al cioccolato; con la frutta fresca e colorata. Ma quelli più desiderabili per lei erano quelli che sembravano fatti di nuvola: i pasticcini alla panna!


Troppi però erano gli impedimenti: il vassoio eccessivamente lontano per poter essere raggiunto, mamma e papà che con forza la difendevano dall’acetone, i cugini più grandi, golosi come lei ma più alti. Bisognava agire! Così, mostrandosi arrendevole alla macchina fotografica, si fece sollevare dalla mamma e mettere in piedi sulla sedia: da lì era un gioco da ragazzi raggiungere il vassoio! Si piegò leggermente in avanti allungando una manina con repentino scatto, acchiappò il dolcetto e lo ficcò in bocca, ma lo sappiamo tutti cosa succede: la panna esce di fuori! La pana sul naso! Clic! Una foto rubata…


LA PRIMA VOLTA CHE… IN MONTAGNA CON LE CIASPOLE Prima domenica di Primavera… Monti della Val di Lanzo… Dieci del mattino…Cielo limpido, come mi è capitato di vedere raramente nella vita, di un azzurro intenso e brillante, privo di alcuna velatura nebulosa, tutt’intorno c’è una luce trasparente e abbagliante che illumina dentro, anche per merito di questa vastità di neve candida che si distende intorno come bianche lenzuola profumate sul letto appena rifatto, la domenica mattina. E io qui, a tentare di trovare il modo per infilarmi ai piedi queste racchette da neve, altrimenti dette ciaspole, che mi permetteranno di inoltrarmi tra i sentieri innevati, per provare l’esperienza, che da tanto tempo mi ripromettevo di fare, di una camminata sulla neve. Sono contenta: ogni volta che faccio qualcosa per la prima volta, mi sento un passo più avanti nel mio viaggio, più grande, piena. Finalmente sono pronta, mi avvio verso l’inizio del percorso dove, ad aspettare me e gli altri partecipanti, c’è un gruppo di simpatici alpini che distribuisce con mano generosa vin brulè, pane, salame e toma…mi sembra un ottimo modo per cominciare, ma non esagero per evitare di procedere rotolando anziché in piedi sulle racchette... Finito lo spuntino, finalmente si parte! Dopo pochi passi una sensazione di calore mi invade: non so se sia colpa dell’ attrito della neve o del vin brulè, ma forse è solo la sorprendente intensità del sole di marzo. Inizio così a spogliarmi di un paio degli strati di indumenti che avevo indossato per affrontare il presunto gran freddo della montagna e più a mio agio, sguardo dritto verso la meta, parto… Vado adagio, così posso guardarmi intorno e osservare con più attenzione anche i piccoli particolari di ciò che mi circonda e godere a pieno di questo paesaggio. Volgo i miei occhi verso l’alto e mi incanto a contemplare lo stacco del cielo azzurro intenso sulle cime


bianche di latte e, mentre mi perdo in questa mescolanza di tonalità, sento il mormorare dell’acqua del torrente che attraversa la vallata, guizzando e zampillando come un bambino che, dopo aver a lungo sonnecchiato, spalanca le porte della sua vivacità, lasciando fluire libera la sua energia rinvigorita, saltellando e facendo capriole. Accompagnando lo sguardo un po’ più avanti vedo i segni delle nevicate abbondanti dell’inverno appena trascorso: un ponticello sul torrente, crollato sotto quello che credo sia almeno un metro di bianco; ancora più in là un albero afflitto dallo stesso peso mostra la sua flessibilità, piegandosi sotto il cumulo di neve ma senza spezzarsi, dando origine a una sorta di archetto, proprio nel bel mezzo del bosco. Vado avanti con passo scandito ma un po’ incerto, eppure volitivo e caparbio e forse è proprio per questo che sento sempre più forte la sensazione di calore che aumenta con l’inerpicarsi del sentiero e con la fatica del salire, ma è il prezzo giusto da pagare per poter ammirare il meraviglioso spettacolo che ci aspetta arrivati alla fine del percorso…mozzafiato!…Mai parola mi è sembrata più azzeccata! Arrivata su, il mio fiato è, infatti, un po’ corto ma paradossalmente mi sembra di respirare per la prima volta davvero: sento l’aria, viva dentro di me, fresca, pungente ma in maniera dolce… mi dà un senso di pulizia e trasparenza. Da qui mi piace volgermi indietro e osservare la distesa candida, fino a poco fa intonsa ma ora solcata da diverse numerose orme sparse, che restituiscono la sensazione dell’appena passato, di risa ancora riecheggianti, di vita che ancora si muove. Ma soprattutto mi piace scrutare i volti di chi, dopo di me, calpesta le mie orme: le guance rosse accaldate, gli occhi brillanti e ridenti, le bocche spalancate in gaudiosi e partecipi sorrisi, fronti distese, labbra morbide e rilassate, occhi strizzati in piccole fessure raggianti…tutti risultati dell’aria fresca e pura, del sole forte e pieno, dello risvegliarsi di muscoli e polmoni e, forse, anche un po’ del vin brulè!


Francesca Bianchi Muschio (1983) SENZA TITOLO (marzo 2009) Passo svelto e aria pensierosa, è così che mi affretto a raggiungerla, rimarrò solo dieci minuti prima di cominciare a lavorare, ma oggi ne ho più degli altri giorni. Arrivo, è al sole che mi aspetta per condividere i miei pensieri, aumento la velocità e la raggiungo. Mi ci accomodo sopra: la panchina fuori dall’agenzia è la mia postazione preferita per prendere contatto con il mondo prima di iniziare la mia giornata. La prima “preda” del mio sguardo è Daniela, la ragazza che lavora in pasticceria: come al solito è truccata in modo osceno! E’ alta e magra e tinta di un “biondo canarino”, il viso non è grazioso e lei non fa che peggiorarne i tratti indossando una maschera di cerone. E’ molto eccentrica anche nel vestire, sembra davvero sicura di se’ ma, come ogni volta che la vedo, mi chiedo fin dove questa sicurezza sia reale o costruita… Non faccio in tempo a trovare una risposta al mio quesito che lei scompare dietro all’angolo. Al suo posto appare “l’uomo delle sigarette”, un tizio basso e grasso, con gli occhialini e il ghigno disegnato sulla bocca, che non fa altro che andare in giro a chiedere da fumare! Mi mette una certa ansia addosso, che sia per il suo aspetto goffo o per il suo sguardo perso in un mondo che nessuno può raggiungere, non ne ho idea, ma me ne tengo sempre alla larga, infatti quando lo vedo ogni mio neurotrasmettitore si attiva e mi porta profondi brividi lungo la schiena…


D’improvviso i miei pensieri vengono interrotti: le campane suonano, è già ora di entrare. Mentre abbandono il lato riflessivo della mia personalità per assumere quello professionale dell’agente di viaggi, mi volto e vedo un bambino di circa cinque anni. Sta mangiando un gelato ed è tenuto per mano dal nonno che si è fermato a parlare con un amico. Noto in lui i miei stessi occhi indagatori, che, avidi di nuove scoperte, si muovono da un punto all’altro della piazza. E mi chiedo per quanto tempo io, immersa nei miei pensieri, sia stata a mia volta sottoposta all’analisi di quel piccolo osservatore. LA FOTO SUL TAPPETO (Aprile 2009) Sono le tre e mezza di un caldo sabato pomeriggio estivo. Finalmente è venuto a prendermi e appena entra in casa gli annuncio che devo scattare ancora un paio di fotografie per finire il rullino. Lui, paziente come sempre, soddisfa la mia richiesta, così chiamo mia madre affinché ci immortali insieme: ci sediamo per terra sul tappeto persiano, il sole filtra dalle tende, il suo abbraccio mi cinge da dietro, il “clic” della macchina fotografica fissa i nostri profili nel tempo. Sono passati sei anni da quel giorno, la foto mi ricapita tra le mani e la osservo attentamente: eravamo così diversi da oggi, con quell’aria da ventenni, io con la coda e il sorriso sereno, lui con i capelli ricci aggiustati con il gel e quello sguardo carico di amore, che mi ha protetto a lungo attraverso il tempo. Di scatto ripongo l’immagine nel cassetto, chiudo gli nocchi per non pensare più e allontanare la sua figura dalla mia mente . Una fotografia può essere importante, un amore potente. La foto sul tappeto è per sempre.


CRESCERE CON REBECCA (Gennaio 2009) Rebecca è il mio peluche a forma di mucca che regalavano al GS quando ero bambina. E’ bianca e viola, il tessuto sintetico riveste quel poco cotone rimasto e che ora la fa sembrare quasi rachitica. Per avere circa vent’anni, ha subito pochi danni, ogni tanto ha dovuto sottoporsi a degli “interventi chirurgici” per chiudere qualche strappo qua e là, causato da un mio gesto poco attento o semplicemente perché la sua carriera di peluche preferito è cominciata ormai un sacco di anni fa. Quando la prendo non sento più nessun profumo e non ricevo più quella sensazione di riempimento nell’abbracciarla; mia madre tenta invano di convincermi a buttarla, ma, sebbene non adempia più al suo compito di compagna durante la notte, il solo vederla appoggiata sul mio letto mi fa provare abbastanza compassione da decidere di tenerla lì ancora un altro giorno. PROFUMO DI MAMMA (gennaio 2009) Tiro su la manica della mia maglia e mi appoggio al braccio, inspiro profondamente e lascio che i ricordi vaghino fino a quando trovano la corrispondenza nel profumo della mia pelle. Riapro gli occhi e vedo mia madre più giovane: il mio profumo si è perso nel suo e adesso che la abbraccio cerco di immagazzinare il più possibile il suo odore, l’odore della mia mamma: caldo e materno, così particolare da non saperlo descrivere, ma che riconoscerei tra mille altri. Un profumo mi basta a farmi sentire al sicuro, ad avvertire un senso di appartenenza e mi chiedo se in futuro anche i miei figli riusciranno a captare un legame così semplice eppure così profondo. Mi alzo e la vado ad abbracciare ancora, so che quell’odore esisterà sempre nel mio cuore e nella mia mente, anche quando lei non ci sarà più.


UNA VECCHIAIA… FANTASTICA! (Marzo 2009) Eccomi, finalmente mi sono fatta trovare, sono Francesca. Domani compio ottantuno anni e sono contenta di arrivarci ancora in gamba! Si vede che le lezioni che ho imparato durante la vita mi sono servite! Adoro guardare le mie fotografie, ne ho messe una decina sul comò e mi piace passare lo sguardo dall’una all’altra vedendomi crescere di volta in volta. Giungo al bordo del mobile, ora c’è il muro che porta appeso uno specchio davanti al quale mi osservo, il riflesso mostra l’ultima foto della serie: sono io adesso, con i capelli bianchi -ancora ondulati- e le rughe, la pelle un po’ secca e macchiata, ma in mezzo al volto splendono sempre i miei occhi da ragazzina, quelli che mi hanno permesso di incontrare nuove persone e mantenerne l’amicizia grazie alla fiducia che ispirano. E poi certo, per merito anche di tutti i pregi che posseggo! La modestia è senz’altro quello principale, il tempo passa ma certe cose rimangono! Durante la vita ho avuto cinque mariti, che dire, amavo i rapporti intensi ma brevi! Questa mia inclinazione mi ha portato a vivere in molti Paesi diversi e, sebbene, non sempre abbia avuto la felicità dell’amore, non mi è comunque mai mancata l’occasione di viaggiare! E in attesa dell’ultimo viaggio che dovrò affrontare, ho deciso di far avverare il mio ultimo desiderio: trasferirmi in una casa in campagna con tanto di dehors vista lago, qui finalmente trovo la serenità che ho cercato per un’esistenza intera e posso guardarmi indietro con la gioia di rivivere ogni esperienza passata… Romantica fino alla fine!


ORSANSIA (Aprile 2009)

Corri, non ti fermare, accelera, guarda avanti, tieni lo sguardo fisso. Non senti la gente contro cui ti scontri, non senti le gocce di pioggia che cadono leggere ma costanti sul tuo viso. Prosegui per il tuo percorso, lei è alle tue spalle, scatta dietro l’angolo, distanziala. Corri e non pensare, la puoi seminare, manca poco al traguardo. Non ti voltare, sei quasi arrivata, non rovinare tutto, non buttare all’aria gli sforzi fatti finora, ma tu sei stanca, non ce la fai più a scappare, vorresti solo che tutto finisse. Stai per crollare. Pausa. Una luce dal cielo, una sensazione di calore, una bolla ti ingoia: svieni e quando ti riprendi tutto è fermo, il tempo non esiste, la gente non esiste. Poi una voce armoniosa ti desta, il cuore ti si riempie, le lacrime scorrono calde sul tuo volto e una sensazione di serenità ti pervade; ti accorgi che il potere è nelle tue mani, che la tenacia non ti manca, che la meta è quasi raggiunta. La bolla si infrange, ricadi al suolo, ma ora ha smesso di piovere e le tue gambe sono pronte a divorare altro asfalto. Sai che la strada è ancora lunga, ma ormai nulla ti spaventa, hai visto il tuo destino, corri senza fermarti. Chi si ferma è perduto.


Serena Cavallo (1991)

SENZA TITOLO (Marzo 2009) Sono fuori, seduta sul midollino di casa mia. Piove. Quello che sento è il leggero tintinnio che provoca questa pioggia calma che sembra sul punto di smettere, il tempo è grigio e bagnato, non ci sono molte persone fuori, perciò i rumori che sento sono minimi. Ogni tanto si può ascoltare un uccellino che canta oppure una macchina che passa e insieme al rumore si sentono gli schizzi che provoca. Così osservo il cielo. Non mi piace questo cielo, perché non è limpido, non è azzurro, non si possono vedere le nuvole bianche che passano e che hanno forme strane, questo cielo è triste, è bianco, con sfumature sul grigio tendenti a un colore sempre più scuro, questo cielo toglie allegria, fa aspettare con ansia il sole. I poveri uccellini che passano volano subito sotto la magnolia, gli altri alberi sono ancora spogli, non li possono ancora ospitare. Anche il prato non ha ancora quel bel verde brillante primaverile. Tutto intorno dà l’impressione della solitudine, tutto tace. Tuttavia, quell’aria che sento su di me, non del tutto fredda, mi dà l’impressione che la primavera è arrivata, ma forse è ancora timida e si nasconde dietro questo cielo cattivo che non vuole dare spazio al sole.


LA PRIMA VOLTA CHE… (Marzo 2009) La prima volta che sono andata in bicicletta è stata un’esperienza orribile, tanto da non volerla usare per un po’ di tempo. Ero piccola, non avevo paura, siccome da bambina ero molto più coraggiosa di quanto non lo sia ora. Ero sicura di riuscire, volevo togliere quelle ruotine dietro scomode che facevano solo rumore. All’inizio non fu difficile, sono partita sicura, muovendo i miei piedini molto velocemente per non perdere l’equilibrio. Ma poi tutto cambiò, per causa della mia fretta di fare tutto subito. Volevo dimostrare a mio padre che ero brava e non avevo paura di niente, così convinta tolsi una mano dal manubrio, e mi ritrovai per terra a piangere a dirotto, con le mani e le gambe sanguinanti, con la bici addosso. Quello che 5 secondi prima era qualcosa di piacevole degenerò in un disastro, tanto da odiare quell’attrezzo, che mi aveva fatto fare una brutta fine, e non utilizzarlo per un lungo lasso di tempo.


Ernesto Cescon (1961) OSSERVAZIONI SU … (marzo 2009) Mezzogiorno Le persone affrettano il passo. Qualcuno osserva l’orologio preoccupato per il tempo che scorre o, presumibilmente, perché atteso in qualche luogo. Una scia inconfondibile stimola l’olfatto. E’ l’odore del cibo, della tavola imbandita, che fugge in strada dalle porte, dalle finestre socchiuse. Un profumo inconfondibile che accelera i movimenti. Visioni Sole; ti vedo ma non ti insinui tra i vicoli stretti, negli angoli, nei cortili silenziosi, nell’acciottolato della piazza. Il rintocco metallico preciso della campana richiama i fedeli alla messa. Il suono passa senza ostacoli tra i muri umidi delle case, nella gradinata fredda e all’ombra che disegna profili indefiniti. Voci Sono solo parole, ma arrivano da ogni lato. Decine di bocche, di labbra che si muovono tra vocali e consonanti, oggetti e soggetti, verbi e aggettivi. Non più bloccate, imprigionate da sciarpe, baveri alti, maglie a dolce vita le lettere si rincorrono in questo assaggio di nuova primavera.


Fuori dal buio Fuori dal buio della fabbrica. Dal freddo rumore delle macchine. Dalle scintille. Dal fumo. Dal martellare degli utensili. Dalla luce offuscata del neon. Dall’odore di vernice. Fuori, con qualsiasi tempo. Pioggia. Vento. Nebbia. Neve. Cinque minuti a piedi per raggiungere il silenzio del parco. Venti minuti di pace su di una panchina se il sole lo permette. Alberi, erba e quando vuole farsi vedere anche uno scoiattolo grigio. Nel cielo Mi inseguono al mattino. Silenziose e irraggiungibili. Alcune rosa, altre gialle, striate, sfilacciate, gonfie, lunghe strisce di gas aereo a graffiare il cielo. Comignoli di fumo sulle cime delle montagne trasformate in vulcani. Nuvole bianche su sfondo azzurro, nuvole grige portatrici di pioggia. Nuvole. Mi riportano a casa silenziose e lontanissime.


SGUARDI (Marzo 2009) Questa fotografia è stata scattata una quarantina di anni fa da mia mamma. Ritrae me e mio padre in un viale di Chivasso dove sono nato. Ci sono tantissime immagini che mi piacciono. In buona parte rappresentano la mia famiglia, mia moglie, mio figlio. Istanti di ricordi legati alle vacanze, a luoghi bellissimi in cui abbiamo trascorso momenti indimenticabili. Questa è, per quanto mi riguarda, il sunto di tutti gli stati d’animo. Un uomo che guarda al futuro osservando negli occhi il proprio figlio. Uno scatto in bianco e nero che volendo si può colorare come meglio si crede. Perr me rimane e rimarrà sempre naturale, spontanea, intima, piena di belle cose. Guardandola penso alla semplicità dei piccoli gesti, agli sguardi, al luogo in cui eravamo, un normalissimo cordolo di cemento con un monumento alle spalle. Eppure era molto importante essere proprio lì in quel momento, seduto, al sicuro ocn un papà dalle braccia forti, rilassato, senza problemi. Sono gli anni in cui i genitori sono tutto, la vita, il modello, la grandezza, non solo in termini di statura. Nella camera da letto ho un tavolo con una cornice dove è possibile mettere le fotografie sotto il vetro. Il suo posto ora è quello, insieme a molti altri ricordi tutti molto speciali.


BREVE STORIA DI LIBERTÀ (Febbraio 2009) Due rumori hanno significato per me la libertà. Erano simili più a borbottii, singulti, accensioni e spegnimenti, accelerate e frenate, corse a tutto gas e scampagnate tranquille. La Vespa 50 grigio metallizzato ha significato soprattutto l’indipendenza. Con lei, con il suo motore, con i suoi cinquanta chilometri orari scarsi. Una, due, tre marce. Sentivi la frizione staccare precisa e anche se eri fermo ti sembrava di volare. Inevitabili, indimenticabili le gare con il Califfone, con il CIAO; cilindrate appena ritoccate quel tanto che bastava affinchè io, onesto nei miei cinquanta scarsi, non vincessi mai. In salita arrancava specialmente se sul sellino in finta pelle si saliva in due. La marcia giusta si trovava con difficoltà. Troppo lenta, troppo su di giri, dai di gas, togli gas. La Vespa, anzi, il Vespino andava ad orecchio. Senza targa non si poteva fare un granchè ; il rischio delle multe se si era in due, niente amici, niente ragazze, niente velocità. E allora? Vespa 125 ET3, tre travasi, novanta chilometri orari, blu notte; uno sfizioso adesivo con la scritta “Electronic” arancione . Con sapienti mani aggiustando qua e là si arrivava a novantacinque. Potevi sentire la marmitta nera della Polini entrarti nelle orecchie anche con il casco calato in testa. La quarta marcia e la terza frizionata per le salite superando le macchine in difficoltà nei tornanti. Mitica Vespa.


Ho imparato a capire la possibilità di un sorpasso ascoltandola quando il filo dell’acceleratore apriva il passaggio della miscela nel carburatore. Ho riconosciuto l’inizio di un grippaggio dalla decelerazione, il clacson era ridicolo, il motore al minimo dava continuamente la sensazione di doversi spegnere da un momento all’altro. L’indicatore di direzione era sempre e solo il braccio sporgente a sinistra o dalla parte opposta. Niente tasti e frecce elettroniche, nessuna luce o led, nessuna diavoleria ergonomica, nessun antifurto, un colpo di pedale e via. Ho fatto tantissimi chilometri sul sellino del due tempi. Quando le finanze lo permettevano il carburante al 2 per cento lo facevo io con olio Castrol e benzina normale. Con il caldo e il freddo solo e sempre lei. Ricordo di essere tornato a casa una sera con le dita delle mani e dei piedi completamente bianchi dalla nebbia gelida. Con l’inverno degli anni 80 ero diventato un blocco unico con il manubrio ed il predellino. Solo le sapienti mani di mia madre e l’aiuto della tonificante acqua tiepida, mi riportarono la sensibilità nei polpastrelli. Le grandinate improvvise con la maglietta a maniche corte, la broda che finiva senza preavviso, le corse sui rettilinei delle risaie, i sorpassi azzardati, le cadute, il sole della Sicilia… Quanti bei momenti su quelle due ruote. Adesso è ferma in garage da un po’ di tempo. Eppure non la venderò mai la mia scoppiettante Vespa. Sarebbe un tradimento di cui mi pentirei.


Mario Chiabrera (1951) LA PRIMA VOLTA CHE….(06.02.09) La prima volta che ho visitato Torino avevo quattro anni ed era il 1955 nel mese di novembre. Io vivevo in un piccolo paese del Monferrato (Castelletto Merli), in una frazione di 20 case e la mia era una cascina staccata del paese. I miei cugini, che abitavano a Torino, decisero di ospitarmi per 3 mesi presso di loro con lo scopo di farmi conoscere la città Il viaggio in treno, l’arrivo alla stazione di Porta Nuova, il tram per andare alla loro casa, la salita in ascensore, l’estensione delle abitazioni e dei palazzi mi procurarono stupore e curiosità. Sono passati più di 50 anni ma la mia mente ricorda alla perfezione lo sferragliare del tram nella notte quando passava vicino al palazzo. Le mie papille gustative ricordano bene il sapore e il profumo del dolce sconosciuto; ho l’acquolina in bocca pensando a quando ho assaggiato il mio primo chantily, 2 cialde di fragrante meringa con al centro una colata di dolcissima panna montata. La mia memoria ha un lampo quando ricordo la vista della vetrina di un gran negozio di giocattoli. A quel tempo, verso la metà di Via Garibaldi, esisteva un gran ;c’era un plastico meraviglioso, molti trenini, filavano veloci tra stazioni, gallerie e passaggi a livello senza mai scontrarsi. Nella seconda c’era un campo di battaglia tra soldati nordisti, asserragliati in un forte, e gruppi di indiani Apache a cavallo che cercavano di assaltare il fortino. Le altre vetrine erano stracolme di giocattoli vari, macchinine, camion, bambole, etc..


Quando avevo occasione di passare davanti a queste vetrine mi fermavo e restavo a bocca aperta, mi mettevo in contemplazione dimenticando tutto, i rumori, i cugini, il traffico. Restavo in silenzio, gli occhi brillavano, la mia mente sognava immaginando mondi fantastici. Adesso che ho stanato quei ricordi, ben custoditi nel mio cuore, mi tornano alla mente numerosi scenari, rumori, volti e sapori di quell’inverno passato a Torino. Per oggi mi fermo, lego stretto il sacco dei ricordi per non perdere nulla, ma mi riprometto di tornare a scrivere di quel periodo; poichÊ credo mi abbia segnato ed abbia introdotto il seme dell’evasione dal paese agricolo.


IL VIAGGIO SURREALE (11.02.09) Mario, un giorno, passando per caso in un locale trovò una locandina che reclamizzava un viaggio organizzato. Era un viaggio un po’ particolare, non il solito viaggio: tre giorni in una località con visite musei, ristorante albergo, souvenir e ritorno. Questo percorso aveva uno scopo creativo e culturale. Mario, incuriosito dal contenuto, decise di parteciparvi per verificare di persona la validità dell’esperimento. Sbrigò velocemente le formalità burocratiche e organizzative e si preparò. Al momento fatidico, Mario si trovò nel luogo prestabilito, il gruppo era formato da una decina di persone e da una capo gruppo. Prima di partire la capo gruppo, Maria, spiegò le regole, che consistevano: far viaggiare un treno, un po’ particolare; i partecipanti, aiutati da Maria, avrebbero dovuto, a turno, provvedere all’alimentazione della locomotiva. Il treno era molto bello, era di metallo luccicante, aveva un bel colore rosso scuro con tutte le finiture in oro zecchino; la configurazione era un po’ speciale e compatta. Il treno era formato solo dalla locomotiva e da una carrozza passeggeri, non c’era il vagoncino porta combustibile (il carbone). Mario scrutava gli altri elementi del gruppo per coglierne le loro impressioni, erano tutti titubanti ma incuriositi. Maria, dopo aver fatto salire la compagnia, spiegò meglio il fenomeno dell’alimentazione. Quel treno, un po’ magico, usava come combustibile consonanti, vocali, frasi e racconti. Mario osservò con discrezione quei compagni di ventura: c’era Maria che benché avesse quella grave incombenza, trasmetteva tranquillità e fiducia; non aveva fregi o gradi, era una ragazza o meglio una donna sorridente che dava sicurezza, portava un basco nero che faceva ricordare il “68”. Poi c’era un gruppo di ragazzi giovani e belli, un piccolo gruppo di uomini e infine Valeria.


L’inizio fu un po’ duro, sulla carrozza faceva molto freddo e il gruppo non abituato a quelle regole stentava a capire e far muovere il treno. Poi, piano piano, i componenti cominciarono a buttare nella bocca di fuoco della locomotiva, le prime frasi semplici e un po’ arrugginite, la locomotiva con il suo peso iniziò a muovere lentamente le ruote metalliche con un leggero stridore. Dalla ciminiera iniziò a uscire un sibilo leggero e qualche sussurro. Queste prime sensazioni stupirono i viaggiatori, Maria incoraggiava e suggeriva. Mario assisteva stupito a questo semplice ma meraviglioso incantesimo. A poco a poco il viaggio prese consistenza, il gruppo acquistò fiducia, aumentava l’armonia, spariva la timidezza, e iniziavano le prime sensazioni piacevoli. L’effetto dell’alimentazione variava a secondo di chi era di turno; quando toccava ai ragazzi, la locomotiva riceveva materiale morbido e dalla ciminiera uscivano racconti freschi profumati, piacevoli, si respirava un profumo di acqua e sapone, di primavera, di gioventù. Quando toccava agli uomini, uscivano, racconti, più duri, più speziati, più forti, qualche volta anche un po’ crudi. Al turno di Valeria, non uscivano racconti, ma armonie, poesie, dipinti ad acquarello, profumi avvolgenti, musiche, sinfonie come la primavera di Vivaldi. Tutti i membri respiravano a pieni polmoni quelle sensazioni che aleggiavano su quel treno e si beavono dei racconti e delle immagini. Mario, incredulo, godeva di quel viaggio, di quei momenti per dimenticare lo stress quotidiano. E…. il viaggio continua…..


DARIO (24.02.09) Dario rientra di sera stanco, è sporco, puzza di sudore, rientra quando è buio, lavora in cantiere. Anche oggi è stata una giornata pesante. Rientra salutando la moglie, che sta preparando la cena, abbraccia il figlio vociante che vuole raccontare tutte le scoperte e i giochi della giornata. Dario sorride, parla poco, è stanco. Dopo essersi lavato e cambiato si siede a tavola per la cena. In cucina la televisione è accesa, trasmette continuamente programmi a ripetizione. In quel momento è il turno del telegiornale, la moglie parla, parla, parla, illustra la cena. Dario fa finta di ascoltare. La tv spara una raffica di brutte notizie, la crisi imperversa in ogni stato, aziende che chiudono, mobilità, cassa integrazione, licenziamenti; una carneficina, sembra un bollettino di guerra. Alla mente di Dario tornano i ricordi della sua infanzia. Negli anni 60 lui era un bambino e la tv era ancora in bianco e nero, di sera al telegiornale sovente trasmettevano notizie sulla guerra del Vietnam: bombe, battaglie, incendi, morti, feriti, a lui sembrava un gioco. Lo stesso gioco che faceva con i compagni durante il giorno, nei prati e nei giardini, con il suo fucile di legno e un vecchio casco da motociclista come elmetto, tutto sembrava un gioco. Solo più tardi quando diventò ragazzo scoprì la realtà. Oggi la battaglia, come ieri, imperversa, a Dario torna in mente la canzone di Fabrizio De Andrè: “……………… sparagli Piero, sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora fino a che tu non lo vedrai esangue cadere in terra a coprire il suo sangue …………………..”. Dario sa di essere lento e cauto nelle decisioni e nelle reazioni, sa che farà la fine di Piero:


“……… e mentre gli usi questa premura quello si volta, ti vede e ha paura ed imbraccia l'artiglieria non ti ricambia la cortesia cadesti in terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che il tempo non ti sarebbe bastato a chiedere perdono per ogni peccato ……………………….”. Dario è stanco, vede alla tv grandi tavoli attorniati da signori ben vestiti, che discutono, discutono. La sala deve essere molto grande poiché ognuno usa un microfono per parlare, ognuno davanti alla sua postazione ha una bottiglia d’acqua: “ ma quanto dovranno parlare? Cosa avranno da dire per così tanto tempo?” Loro parlano, parlano e la gente fuori, urla, batte i bastoni sulle latte, presidia i cancelli, sfila nei cortei, sventola le bandiere al vento, bandiere cariche di lotte e sofferenze. Dario è stanco, pigia sul telecomando e spegne la tv, si giustifica con la moglie dicendo che ha mal di testa. Non vuole coinvolgere la sua famiglia nelle sue paure e preoccupazioni. Gira il cucchiaio nel piatto, gira lentamente per raffreddare la minestra, non capisce il perché a pagare siano sempre i più poveri e i più deboli. Dario è stanco, non vuole rattristare i suoi con questi argomenti e quindi non ne parla e pensa a Piero alla fine che potrebbe toccare anche a lui un giorno ”……………… cadesti in terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che il tempo non ti sarebbe bastato a chiedere perdono per ogni peccato ……………………”.


GUSTAVO (02.03.09) Gustavo aveva una voce forte e possente, quando esprimeva convinto la sua opinione, sembrava urlasse. Gustavo portava un grosso fardello di ricordi, di fatica e di dolore. La vita era stata generosa o avara nei suoi confronti? Chissà… L’infanzia, la giovinezza erano stati momenti molto importanti poiché Gustavo amava ripetere e raccontare episodi, ogni giorno diversi. Gustavo era bruciato dal sole, era medio piccolo, un po’ tarchiato, ma forte anche negli anni della sua debolezza. Sembrava una roccia dura, ma con i bambini diventava dolce, qualche volta piangeva. Gustavo faceva il contadino da sempre, conosceva il tempo, seguiva le lune, interpretava l’andamento dei temporali che spesso danneggiavano il suoi raccolti. Gustavo amava la terra, conosceva bene le sementi e sorrideva soddisfatto quando le piantine facevano capolino fra le zolle. Era orgoglioso della sua uva, del suo vino che accudiva, coccolava e trasformava come un figlio. Gustavo amava il suo paese, il campanile svettante e il suono delle campane lo rassicuravano, quando doveva raramente allontanarsi dal suo paese diventava triste. Gustavo era una vecchia quercia radicata sulla collina, un quercia che aveva subito diverse batoste, il fulmine più volte aveva danneggiato il suo tronco, aveva spezzato rami portanti, ma tenace reggeva la furia del vento.


Gustavo aveva i capelli grigi, quasi bianchi, crescevano in fretta e qualche volta tardando a recarsi dal barbiere, sembrava avere una criniera. Gustavo era generoso e altruista, un po’ permaloso, era un uomo temprato come il ferro rovente quando viene battuto sull’incudine. Gustavo credeva molto nell’amicizia e nella lealtà. Gustavo……….era anche mio padre RISVEGLIO AL RALLENTATORE, IN PRIMA PERSONA (E NON SONO IO) (11.03.09)

La stanza è ancora buia, resto in ascolto, aspetto il suono della sveglia, nessun rumore. Forse è ancora presto. Non oso muovermi o guardare l’ora, mia moglie, che dorme come un gatto, si sveglierebbe e comincerebbe a lamentarsi. La giornata parte male, sembra un’auto che non vuol mettersi in moto. Oggi, nella mattinata, dovrò incontrare il mio capo, poiché deve darmi una comunicazione importante. Provo a girarmi sul fianco sinistro, devo riaddormentarmi, ma la mente comincia ad elaborare, provo ad immaginare gli scenari e le motivazioni del colloquio. Nel buio tutto è più difficile, negatività, pessimismo, sgridate immaginarie, tutto si attorciglia come una matassa di fili impazziti. Provo a disconnettere la mente, mi dico: tranquillo, tranquillo, cerco di dormire, niente da fare sembra facile, ma l’auto convincimento non funziona.


Finalmente suona la sveglia, il trillo è fastidioso, sembra pungere, con il suo suono metallico, il mio cervello confuso. Mi alzo, vado in cucina a prendere la pastiglia quotidiana e poi in bagno. Accendo la luce e mi guardo allo specchio. Non mi piaccio: faccia stralunata, borse sotto gli occhi e la barba lunga. Che fatica essere uomini! Mi lavo e mi sbarbo e qualcosa sembra cambiare, la mente è sempre in allerta, e se mi propone un trasferimento? Sarebbe un bel problema alla mia età! I pensieri riprendono il via e vanno in fuga, sembra la partenza dei cavalli al palio di Siena. Alt il mossiere spara un colpo, stop ai cavalli, stop ai miei pensieri. Finisco la toilette. Mi spruzzo un po’ di profumo, il mio preferito, questa mattina mi provoca la tosse. Mi devo vestire, cosa mi metto? Elegante, sportivo? Decido per abito da lavoro, spezzato, giacca grigia a piccoli quadri e pantaloni di vigogna color antracite. Camicia azzurra, unita o a righe? Unita è più tranquilla. Questa mattina tutto è un dubbio. Il tempo passa, sembro ingessato. Cravatta bordeaux o blu? Blu scuro più formale. Faccio il nodo, le altre mattine viene perfetto al primo colpo, oggi non viene, sembra un serpente indomabile, la pieghetta è storta, la cravatta resta troppo lunga o troppo corta. Ritento imprecando in silenzio, finalmente viene fuori un nodo decente. Uno sguardo all’orologio, sono già passati 45 minuti, probabilmente mi muovo al rallentatore. Cerco le scarpe, nella penombra me ne cade una, mia moglie si lamenta del rumore.


Meglio saltare la colazione, guadagnerò un pò di tempo, prenderò un caffé al bar. Esco, una leggera brezza mi accarezza, il sole pigro spunta ad est. La giornata si colora e si scalda. Mi siedo in auto e mi avvio, accendo la radio, una dolce musica m’invade, la tensione scende. Il sole, la luce, i colori, la musica tutto mi rassicura, la giornata ritorna normale.

PIENEZZA QUANDO (17.03.09)

Pienezza quando… Quando le mie mani operose, la mia mente curiosa e il mio cuore generoso unirono i frutti della terra. Quando il colore, il profumo e il sapore appagarono i miei sensi. Quando la mia mente inebriata generò questo nome “Nettare degli Dei”

Pienezza quando… Quando si vive scrivendo o si scrive vivendo? Io son certo, quando vivo, scrivo e sogno.

Pienezza quando… Quando il sole dorato tramonta, quando la brezza rinfresca l’aria, quando le stanche membra cercano il riposo, quando l’anima non ha debiti con il mondo.


LETTERA DI RISPOSTA AD UN AMICO LONTANO (17.03.09)

Cara Norma, mi scuso per il ritardo, sono forse quattro anni che devo risponderti. Tu sai quanto fatico a scrivere e quanto sono chiuso di carattere. Sono contento di sapere che ti trovi bene nella tua nuova dimora, che dopo tanto lavoro hai finalmente un po’ di tranquillità e che hai potuto finalmente calmare le tue ansie. Mi manchi. Una nuova motivazione mi ha spinto a risponderti. Recentemente ho preso l’abitudine a frequentare un laboratorio di scrittura creativa. Ebbene questo nuovo corso mi ha dato fiducia, mi ha stimolato, mi ha aperto il cuore e la mente. Ultimamente ho scritto quattro righe anche per Gustavo. Noi stiamo tutti bene, …non è proprio così, questa è una frase retorica che si usa nelle lettere. Non voglio assillarti con i miei problemi quotidiani poiché non ho intenzione di riaccendere le tue ansie proprio adesso che sei riuscita a calmarle. Tranquilla, …risolveremo tutto e bene. Come sai, io Sandra ed Elisa viviamo sempre a Volvera. Questo paese negli ultimi anni sta cambiando faccia. Ci sono nuove case nuove strade e nuove piazze. Gli abitanti aumentano, si stanno trasferendo nuove giovani famiglie, ci sono bambini vocianti. Il paese vive. Inoltre voglio ancora indicarti che abbiamo un Super Mercato e una nuova biblioteca, ed è in questo luogo che sto imparando a leggere e a scrivere.


A Castelletto Merli andiamo poco poiché siamo sempre indaffarati, comunque quando vado passo sempre dal cimitero giù nella valle. Lo so che vorresti sapere ancora tante cose, se sono invecchiato, coma va il mio impiego, se Elisa lavora, …..tutto bene. Devi capire che questo esercizio di apertura lo sto esercitando solo da pochi mesi, ci vorranno forse degli anni affinché io possa finalmente aprirmi come un libro. Un abbraccio da tuo figlio Mario.

ESCI, OSSERVA E DESCRIVI 2 (18.03.09)

Sono seduto su una panchina di legno in piazza Statuto a Torino, un bel luogo contornato da alberi e panchine e circondato da una cornice di portici e palazzi antichi. Al fondo della piazza svetta il monumento al traforo ferroviario del frejus, molto noto ai credenti della leggenda sulla Torino magica, poiché sembra essere il punto dove cade il vertice del triangolo della magia nera. Il sole scalda il mio corpo e la natura circostante. Le piante sono ancora spoglie, ma s’intravedono già le gemme gonfie, in attesa di esplodere ai primi giorni di primavera. L’erba delle aiuole, si ravviva, ha un colore verde intenso. La piazza è semideserta, si sta bene, c’è un rumore di sottofondo, l’insieme dei tanti rumori della città.


Un vecchietto, seduto su un’altra panchina, ha sbriciolato un pezzo di pane raffermo e poi se ne è andato. Pochi minuti dopo la sua partenza, uno stormo di piccioni, planando, raggiunge il cibo; si posano per terra ed iniziano a becchettare le briciole. I becchi martellano il ciottolato, producono un suono simile all’alfabeto morse. Nel gruppo emerge un piccione più grosso e più colorato, forse il capo stormo, che mangia più lentamente e ogni tanto si ferma e controlla come se avesse l’incarico di vigilare. Un uomo indaffarato, con passi pesanti, attraversa la piazza e i piccioni spaventati dall’intruso scappano, si alzano in volo, sbattono le ali producendo un rumore simile ad un lamierino vibrante. Al mio fianco c’è una fontanella, il classico touret (piccolo toro, tipica fontanella pubblica di Torino) di ghisa arrugginita. Ha un rubinetto di ottone, abbastanza opaco, frutto della continua esposizione alle intemperie. Dal rubinetto chiuso, cade una piccola goccia, che raggiunge la vaschetta sottostante e produce un leggero suono tac tac.. Le gocce hanno un ritmo regolare, nascono piccole, s’ingrossano e poi si staccano. Questo movimento ritmato produce uno strano effetto, come se un piccolo animaletto fosse partorito dal rubinetto e veloce cercasse di raggiungere il gruppo per non restare da solo. Il rumore appena percettibile diventa un sottofondo musicale, che all’inizio il cervello non aveva colto, ma adesso percepisce bene. Sento un odore di fritto, un po’ forte, quasi sgradevole, una ragazza seduta su un’altra panchina mangia voracemente delle patatine fritte prelevandole da un cartoccio bisunto. Non invidio il suo fegato.


Un bimbo, accompagnato dalla nonna, entra nella piazza. Ha un grosso pallone, troppo grande per la sua età. Veste una tutina verde ed un cappellino di lana, forse troppo pesante per la giornata, frutto forse dell’estrema prudenza della nonna. Cerca di giocare calciando. I suoi passi e i suoi calci sono goffi e il pallone, come se fosse pesantissimo, si muove di pochi metri; lo rincorre, si aiuta con le mani, s’impegna, cerca di gestirlo ma con scarsi risultati. La nonna legge il giornale, ma di sottecchi osserva e controlla i movimenti del nipote. La musica della fontanella cambia, un bambino apre il rubinetto e cerca di bere chinando la testa di lato avvicinandosi al flusso continuo dell’acqua, si disseta, ma si bagna il musetto e la rossa felpa che indossa. Si allontana urlando cercando gli altri compagni. Il rubinetto, chiuso con poca forza, questa volta fa scendere le gocce ad una velocità più elevata La musica è finita, bisogna rientrare al lavoro.


IL SOGNO (20.03.09) Quel giorno, Giovanni aveva lavorato molto, si erano concluse positivamente alcune trattative. La moglie, come sempre, aveva preparato una cena semplice ma piacevole: pasta al sugo di pinoli e pistacchi, un’insalata di finocchi e arance, un pezzo di formaggio Taleggio DOP. Lui aveva stappato una bottiglia di vino splendido, Barbera di Casorzo di 14 gradi, con le operazioni di rito, annusare il tappo, roteare il bicchiere per ossigenare il vino e primo assaggio. Mangiò tranquillamente, chiacchierando amabilmente con la sua metà, infine un buon caffé con la macchinetta espresso. Mentre la moglie sparecchiava e riordinava la cucina, s’infilò le ciabatte comode, si recò nel salotto, si adagiò sul morbido divano e accese la televisione, avrebbe visto uno di quei programmi leggeri di prima serata. La cena, il vino o forse la stanchezza gli giocarono un brutto scherzo. Inconsapevolmente si trovò nella quinta A dell’istituto G. A. Giobert di Asti, ultima anno di ragioneria. Un posto a lui noto, in quella scuola aveva frequentato le superiori. Si guardò in giro e trovò i suoi vecchi compagni, Giorgetti, Casalis, Buffa e altri, tutti i compagni erano giovani e spensierati, urlavano, si rincorrevano nell’aula, come se il tempo per loro non fosse passato. Erano nel cambio d’ora dell’ultima materia della mattinata. Giovanni non riusciva a raccapezzarsi, stava per iniziare l’ora di mate con la tremenda professoressa Balocchi, che amava interrogare a sorpresa. Lui non aveva svolto i compiti né aveva studiato, provò a concentrarsi, non aveva né il quaderno né il libro per poter ripassare. Non era preparato!


Maledì la sua sbadataggine, matematica era l’unica materia sufficiente, se avesse fallito l’interrogazione, avrebbe preso un due e addio media. Immaginava e sentiva già le voci lagna ti dei genitori, lamentele, prediche frasi comuni. Non riusciva a crederci, tentò una scappatoia, avrebbe simulato un malore. Provò ad alzarsi per andare dal preside. Il suo corpo era incollato alla sedia, le gambe erano rigide, sembrava una situazione fantozziana. I minuti passavano, incominciò a sudare, stava per panicare. Il cervello cercava una spiegazione, una soluzione. Era in loop, pensava e diceva sempre le stesse cose. Poi con un colpo di reni, saltò il loop, riuscì a rendersi conto di avere 45 anni, quindi avrebbe già dovuto essere diplomato, c’era qualcosa di anomalo. Il cervello elaborò una tesi: era quel bastardo di incubo che ogni tanto tornava. Però pur rendendosi conto dell’incongruenza non riusciva a tranquillizzarsi e a calmarsi. Cosa fare per uscire da quell’incubo? Urlare? Darsi un pizzicotto? Una mano sulla spalla lo svegliò. Giovanni si scrollò dal torpore, si asciugò il sudore dalla fronte. Pensò stralunato, quella Barbera di Casorzo, avrebbe dovuto berla solo a pranzo.


OSSERVANDO (MINI RACCONTO) (29.03.09)

Un fiore sta facendo resistenza, sta tremando, cadono alcune lacrime dalla sua corolla, si ostina a resistere. Fino a ieri la magnolia stellata era completamente fiorita, sembrava coperta di neve, i suoi fiori bianchi con venature rosa l’avvolgevano, le davano un senso di candore. Oggi una pioggia leggera e continua sta martellando la pianta. I fiori, fino a ieri superbi e profumati, attiravano con il colore e il profumo, l’attenzione degli uomini e degli insetti; oggi dopo poche ore sono battuti, come se la battaglia avesse cambiato la sorte “da vincitori a vinti”. Alcuni fiori sofferenti si arrendono e la leggera brezza li deposita in giardino, altri resistenti, scompigliati, feriti, piangenti, tentano l’ultima resistenza. Sotto la pianta, come in un campo di battaglia, giacciono i fiori: morti, sparpagliati, disfatti e rovinati, a ricordare quanto la vita sia effimera: un giorno sull’altare, un altro nella polvere.


Paolo Fornetti (1966) BARALE, TRON, TRON. (Aprile 2009) Barale, Tron, Tron, Tron, Fassi, Pons, Tron, Pons. La lapide con i loro nomi è ancora lì, su un fianco della chiesetta, sempre illuminata dal sole, affacciata sulla piazza piccolina. Anche se a me, da bambino, quella piazza sembrava enorme. Giocavo lì ogni estate, con gli amici, e quella lapide era davvero comoda: i nomi dei partigiani uccisi diventavano per noi il modo per “fare la conta”, e decidere “chi sta sotto”. Ignari di come otto nomi, per una borgata di qualche decina di persone adagiata sui fianchi della valle Germanasca, fossero un dramma sociale enorme. E senza sapere che, nei primi anni 70, la lotta partigiana era ancora storia recente. Beh, di sicuro quella serie di nomi sulla lapide baciata dal sole non me la dimenticherò più. Anzi, ricordo bene che la maestra, a scuola, ci faceva vedere le fotografie della Resistenza. E io mi chiedevo se qualcuno dei visi ritratti fosse proprio quello di Luigi Barale, o dei Tron, o dei Pons. Ho in mente una foto, fra quelle che ci mostrava la maestra. Una brigata partigiana entra in una Cuneo liberata da pochi giorni. Una foto piccola e logora, in bianco e nero, che ritrae ragazzi in uniforme davanti ai portici del centro. Alcuni sono a piedi, circondano un camion carico di persone. Ritto sul cassone, un giovane orgoglioso ha il viso serio, in posa. La sua uniforme è sporca, aperta sul davanti, lascia vedere una camicia bianca. Ha il collo coperto da un foulard, i capelli neri. Guarda avanti, uno sguardo altero. Accanto a lui un altro ragazzo è seduto sulla cabina del vecchio autocarro fiat. La divisa è la stessa, lo stesso fazzoletto, un cappello di traverso come uno “chansonnier” francese di pochi anni dopo. Ha una sigaretta in bocca, e sorride, sembra quasi che rida felice.


Dietro di loro, il cassone è colmo di uomini in uniforme partigiana. Ti chiedi come facciano a non cadere dal camion. Si intravede qualche viso: hanno lo sguardo come quello dei due ragazzi in primo piano. Sguardo di chi è pronto a tornare a vivere in un mondo libero, dopo anni di guerriglia. Sguardo aperto su un futuro ancora dai contorni incerti, ma che promette la speranza della libertà dalla dittatura. Provo una strana sensazione a ripensare a quella foto, un deja vu. Ricordo di aver visto da poco una foto profondamente diversa, ma in fondo simile. Pochi colpetti di tastiera, e google me la ritrova: è un’altra foto di un camion stracolmo di uomini, e donne. Ti chiedi di nuovo come facciano a non cadere dal camion. La foto è a colori, questa volta, e sullo sfondo non ha i palazzi eleganti di Piazza Galimberti a Cuneo, ma il deserto del Niger. Non trasporta partigiani, ma uomini e donne dalla pelle nera. Sono migranti, raggiungeranno la Libia e la Tunisia. Da lì, se le divinità del mare saranno benevole verso di loro, arriveranno in Europa. E’ un viaggio lungo, a volte dura più di tre anni. Ma negli occhi delle persone vedi la stessa luce dello sguardo dei partigiani: anche loro guardano dritto in faccia un futuro dai contorni incerti, ma che promette la libertà da un’altra dittatura, quella della fame. Anche i migranti africani cercano, oggi, il loro 25 aprile. Per qualcuno forse arriverà.


I MORTI DI SERIE B – ipotesi per un monologo a teatro (Marzo 2009) 2007. Un incendio in una fabbrica. Improvvisa, la vampata di fuoco si muove inarrestabile. E’ veloce, quasi un’esplosione. E’ incredibile quanto sia veloce una vampata di fuoco. Cinque persone ne vengono investite. Muoiono bruciate. (guarda il pubblico) Vi ricordate tutti di cosa sto parlando, vero? (pausa) Vi ricordate si o no? (pausa, aspettando i primi cenni di assenso da parte del pubblico) Si ? Davvero? (sorride vistosamente, con soddisfazione) Accidenti, non pensavo che ci fosse così tanta gente che si ricordava del Molino Cordero di Fossano, quello che bruciò, anzi esplose il 16 luglio del 2007. Bene, bravi, ottima memoria! A meno che… (guarda il pubblico con aria dubbiosa) …a meno che … non aveste in mente anche voi la Thyssenkrupp di Torino… Oh, e io che pensavo che tutti voi ricordaste il Molino Cordero. Che bruciò, anzi esplose, 5 mesi prima, in un luglio torrido. Fece 5 morti. Non 7 come alla Thyssenkrupp, ma “solo” 5. Cavolo, ma 5 morti sono troppo pochi per essere ricordati? La Thyssen la ricordano tutti. Il Molino Cordero no. Ci deve essere un motivo, si, ci deve essere (passeggia sul palco pensieroso in silenzio per un po’).


Beh. La Thyssen è bruciata a Natale. A Natale siamo tutti più buoni, ci commuoviamo facilmente, il pensiero di sette famiglie in lutto ci tocca nel profondo dell’anima. A luglio invece… siamo stanchi, le vacanze sono vicine, c’è l’afa, i giornali hanno già iniziato a parlare dell’emergenza caldo, dell’emergenza traffico, dell’emergenza città che si svuotano, dell’emergenza dove andrà il Papa in vacanza. Già, i giornali. Hanno deciso che quella del Molino Cordero è una notizia troppo brutta per essere data. Noi italiani non ci meritiamo di avere una notizia così brutta prima delle vacanze. Italiani brava gente, diceva Pertini. Non rattristiamoli. E’ meglio. E poi… Cordero. Cordero di Montezemolo è presidente della Confindustria, presidente della Ferrari che ha appena vinto il titolo mondiale… non è che il Cordero del Molino per caso è parente…? Mah, nel dubbio facciamo solo un trafiletto nelle pagine interne, basta e avanza, e tutto va bene signora mia. (altri passi sul palco, pensieroso) Ma non diamo solo la colpa ai giornali. E’ facile dare sempre la colpa ai giornali e ai giornalisti, lo fa anche il Presidente del Consiglio quando dice qualche scemata. No, ci deve essere dell’altro. Forse…. Sarà che la Thyssenkrupp è tedesca. E mi viene il dubbio che in fondo, a noi… (ammicca) i tedeschi a noi stanno ancora un po’ sulle balle… L’invasione del 1943, la Resistenza, i Partigiani, i campi di concentramento… Mica li abbiamo ancora perdonati del tutto, ‘sti tedeschi. Era chiaro fin dall’inizio che sarebbe successo qualcosa nella fabbrica dei tedeschi. Invece Cordero… Cordero di Fossano, “Ün di nosti”, direbbero i Piemontesi. (ancora qualche passo sul palco)


C’è dell’altro? Forse il suono. Thyssenkrupp ha un suono… un suono cattivo. Ascoltatelo: THYS-SEN-KRUPP. Quella kappa lì in mezzo, come un proiettile improvviso. E quelle P finali… Provate a dirlo ad alta voce: THYS-SEN-KRUPP. (incita il pubblico) Provate, dai. Sentite che durezza? Provate invece a dire MOLINO CORDERO. MOOOOOLINO, quella O è così dolce, si allarga, così benevola, amica… Per chi ha l’accento piemontese come me è anche rassicurante, è una O delle nostre terre. E poi CORDEEEERO. Provate a dirlo ad alta voce CORDEEERO. Quando si arriva alla E le labbra si allargano, accennano un sorriso. Provate: CORDEEEERO… guarda come sorridete… Ma come può esplodere una fabbrica che ci fa sorridere così, non è possibile, davvero! Thyssenkrupp è cattiva, Cordero è buono, senz’altro. E poi la Thyssen produce acciaio, lamiera fredda, dura, cattiva pure lei. Il Molino Cordero produce farina, buona, fa il pane, le torte… Immaginate di avere fra le mani un pezzo di acciaio, di toccarlo. Lo sentite freddo, duro, pesante. Come se aveste fra le mani qualcosa che si rifiuta di lasciarsi toccare da voi, che se potesse si ribellerebbe. La farina, invece, morbida, soffice, e il pane fresco è così profumato, e le brioches, si sciolgono in bocca… ma come può morire la gente in un posto dove si fa una cosa così buona? (ancora una pausa) Insomma, non so perché sia successo. Ma so che è successo: la storia della Thyssenkrupp se la ricordano tutti. Quella del Molino Cordero non la conosce nessuno. Nemmeno voi. Vi perdono, tranquilli, siete scusati. Ma ora la conoscete. Vi prego, non dimenticatela più.


SENZA TITOLO (Marzo 2009) Non sono uno scrittore, ma mi piace scrivere; non sono un clown, ma mi piace fare il clown; non sono troppo serio, e non mi piace farlo, neppure quando DEVO essere serio. Non ho il peso degli anni, non ho talento d’artista, non ho idea di cosa non ho. E non voglio pensarci. Non vorrei essere preso per matto mentre scrivo seduto su una panchina, di notte, al freddo in una piazza. Non ho certo un’aria normale, ma non sono pazzo. Anzi, mi sto divertendo. Ma alla fine, con questo tempaccio, sarò raffreddato.


LUNA PARK (luglio 2003 – Marzo 2009) Passeggiamo, nella calda sera d’estate. L’aria è umida, piena di odori, puzze e profumi che si mescolano. E si perdono, le narici non li distinguono più. Attorno a noi suoni di auto, e ronzio di insetti che razzolano nell’aria umida, e frastuono di musica in arrivo dal luna park. Le luci colorate ci feriscono e piano ci avvolgono, mentre ci avviciniamo alla piazza gonfia di gente, di luce, di rumore. E’ la festa del paese. Abitiamo qui da poco, mi dicono che saremo sempre considerati “gente che viene da fuori”, visto che non ci siamo nati, anche se conoscere il dialetto ci ha aiutato a vincere qualche diffidenza. Ma non importa, va bene così. Il luna park non è grosso, ma richiama l’intero paese. Chissà, forse la festa del paese è una sorta di rituale, di grande riconciliazione fra vicini. Quello che un tempo accadeva fuori dalla Chiesa, durante la Messa di Pasqua. Dentro la Chiesa il sacerdote celebrava, faccia al muro. Parole oscure in una lingua oscura. E fuori il paese si incontrava, parlava, spettegolava. E ricomponeva le liti, perdonava i torti, rinsaldava le amicizie. Forse al luna park succede qualcosa di simile: nelle luci e nella musica le persone si incontrano, si salutano, si ritrovano. Unite dal vivere nello stesso paese, magari mettono da parte i dissapori, almeno stasera. La musica assorda, ho caldo. Sono sudato, mischiato fra corpi sudati. Non avevo voglia di venirci, al luna park, ma i bambini non resistevano: quando hanno un’idea in testa non la lasciano, come gli animali non lasciano la preda fra i loro denti. Avrei voglia di una doccia, e poi di una birra nel giardino di casa. Invece sono in piazza, trascinato nella folla sudata, nel rumore totale, nella luce accecante


All’improvviso, stagliato dentro un lampo di luce vedo Rino. Una vista improvvisa, tagliente. Mi chiedo cosa ci faccia qui. E’ tranquillo, fuma una sigaretta, noncurante. Ha il corpo massiccio, come sempre, una maglietta aderente che segna il ventre adiposo, i capelli sporchi, i jeans strappati. Il solito sguardo tracotante. A volte ride, una risata odiosa che lo rende ancora più grasso. E ritorna subito serio, come se il mondo fosse nulla senza di lui. Accanto a lui, Graziella e Roberta, le sue amiche di sempre. Una è magra, bruna, ha i capelli lunghi. Un bel corpo, ma un viso brutto, decisamente troppo brutto. L’altra è più carina, ma non bella. Castana di capelli, porta un vestito azzurro che lascia scoperto un ombelico su un ventre solo appena grosso. Parlano fra loro, ridono, stupido contorno alla indifferente serietà di Rino. Dietro di loro si scorge appena una giostraia bionda, forse straniera. Occhi sottili, scuri, e le lunghe gambe in mostra sotto la gonna nera. Vende promesse di ricchi premi a chi colpisce un bersaglio con una palla di gomma. Avevo già incontrato Rino, anni fa. In un bar alla periferia di Torino. Ci ero finito per caso, chiacchierando con Raffaele, suo fratello. Nel piccolo bar, un vecchio biliardo unto sonnecchiava sotto i neon bianchi. Raffaele con la sua solita vanteria mi sfidò a carambola. E perse. Subito dopo Rino mi chiese di giocare anche con lui. Sorteggiammo chi doveva tirare per primo, e toccò a lui. Con la classe dello sfigato di periferia che passa la giornata a giocare a carambola non mi fece toccare palla, e vinse 120 a zero. Risate nel bar, Raffaele ed io uscimmo.


La sera Raffaele mi portò a casa sua, non lo aveva mai fatto. Credo mi avesse invitato quasi per scusarsi di come Rino aveva cercato di umiliarmi. Vidi la sua casa. Suo padre davanti al televisore, in canottiera; dava ordini alla moglie, o forse meglio alla serva, in un dialetto di qualche regione del sud. Vidi la povertà di quella casa. I segni amari di una crisi che già anni prima di questa rendeva la fine del mese un traguardo ambizioso. E vidi la tristezza di quella famiglia che vedeva sparire ogni giorno un pezzetto dei loro sogni di emigranti. Non lo incontrai più, Rino. Non pensavo che lo avrei visto proprio qui, in questa sudata sera al luna park. Lui certamente non conservava alcun ricordo di me. Lo guardo adesso, nella luce che lo illumina a lampi. E lo immagino in quella casa. Si sveglia, al mattino, si alza, si tuffa nel pavimento scuro, si trascina in bagno. Indugia davanti al water, e celebra con una sonora scoreggia il risveglio dell’intestino. Si volta, si specchia, si accende la prima sigaretta, la prima fra le tante che segneranno il tempo nel vuoto della sua giornata. Fino a quella che ora, al luna park, fuma quasi per caso. Ho la sensazione che stia per succedere qualcosa. Non so cosa e non so perché me ne accorgo, ma lo so e basta. Il mio istinto me lo fa percepire: si, succederà qualcosa. Guardo in giro. Anche altri hanno capito che qualcosa succederà. Altri sudati si fermano, i bambini tacciono, solo la musica rumoreggia ancora, spietata. Graziella la brutta e Roberta l’azzurra stanno zitte. La giostraia lascia a terra i bersagli colpiti, e muove qualche sensuale passo verso il bancone. Ora una piccola folla guarda Rino, quasi ipnotizzata. Il tempo sembra fermarsi nell’aria umida: tutti aspettano di vedere cosa farà, perché tutti sanno che qualcosa, Rino, lo farà.


Ancora una boccata di sigaretta, Rino sembra non accorgersi della folla che lo guarda. D’improvviso la sigaretta cade. La mano destra si chiude, i muscoli si caricano, il rapido pugno fende l’aria. E colpisce. Ora Rino sembra esausto. La tranquilla indifferenza di un attimo prima sembra scomparsa da tempo lunghissimo. Il pugno micidiale ha portato via con se le energie di Rino. Si guarda attorno stanco. Come se avesse finalmente completato il suo compito quotidiano, come se tutto il senso della sua giornata si fosse concentrato nell’attimo di quel colpire. Come se al mattino, posando i piedi sul pavimento scuro, avesse già saputo che quel pugno sarebbe partito. Tutti tacciono. Io lo guardo, le altre persone lo guardano, la piccola folla lo guarda. Roberta vicino a lui lo tocca delicata, Graziella resta immobile, attonita. La bella giostraia increspa le labbra in un sorriso furbetto. Lei forse sapeva già come sarebbe finita. Il tempo riparte. L’attimo è finito. Ora anche Rino apre gli occhi. Solleva la testa, e guarda. Quando ero più giovane, i punching-ball dei luna park avevano una lancetta che girava; ora hanno un display luminoso, rosso vivo. Rino guarda il numero: 10.000. Il massimo. Tutti ancora sono in silenzio, solo la voce metallica e femminile della macchina osa parlare: “SE FAI L’AMORE COME COLPISCI, VORREI VENIRE A LETTO CON TE”. Bella soddisfazione, Rino.


Stella Lambiase (1991) SENZA TITOLO (Marzo 2009)

Non sono più una gatta randagia, perché mi hai incatenato a te. Non ho più un cuore, lo persi quel giorno ascoltando le tue parole di abbandono. Non voglio cancellare quell'amore che mi lasciasti. Non vorrei rivederti, perché le mie forze svanirebbero al tuo primo sguardo. Non ho più orgoglio, gli ho voltato le spalle quando mi sono girata verso di te. Non sono più libera di amare, perché il tuo ricordo ancora mi acceca. Non sarò più tua, per il semplice fatto che non lo sono mai stata.

SOGNO (Marzo 2009) Camminavo, si camminavo. Ero lì, sospesa tra le nuvole. Le nuvole mi sostenevano, non cadevo; ero sospesa in mezzo all'aria pregiata di campagna. Non avevo ali. Ad un certo punto il mondo si capovolse in un altro mondo parallelo e chiusi gli occhi. Sentivo in me un vortice che girava, era furioso. Aprì le mie sottili e fini ciglia, non immaginavo cosa ci potesse essere in mezzo a me.


Le mie pupille sembravano schiacciarsi l'una contro l'altra, mentre io mi stupivo di come diavolo avessi fatto ad arrivare in una stanza. Passò un'ora ed io ero ancora lì, all'impiedi. Avevo i brividi, ero stanca, mi sedetti, sentì un rumore, improvvisamente il pavimento si alzò, poi si capovolse, si ondulò ed io ero sopra quel pavimento stregato, era come se qualcuno mi avesse pietrificata. Mi sentì prendere dalla maglietta, alzai gli occhi e vidi un grandissimo uccello marrone con il becco giallo ocra. Dove mi stava portando? All'orizzonte scorsi un che di scuro. Ci avvicinammo, era un nido con tanti becchi giallastri all'insù, che aprivano e chiudevano il becco. Pensai che la cosa migliore da fare era quella di sganciarsi dal becco dell'uccello. Fatto. Precipitai giù in un bianco e nero.


Valeria Maranò (1968) PIOGGIA (aprile 2009) Un diluvio la pioggia stasera. Produce un rumore unico, indistinto, fa immaginare una massa d’acqua che scende dal buio, una tenda liquida che si confonde coi colori della notte e si ravviva nelle gocce colpite dalla luce arancione di qualche lampione. La immagino scomposta in ogni goccia, e ogni goccia crea un suono diverso, sul vetro del vasistas in bagno è un colpo secco che si liquefa subito, sulla ringhiera in ferro battuto del balcone emette una nota che rincorre le altre, sulle pietruzze del selciato in cortile perde la sonorità e si infila a dissetare la terra di sotto, sulle macchine colpisce e rimbalza, frantumandosi in mille bagliori. Le mie orecchie si perdono dietro questi suoni, ne restano ipnotizzate e vorrebbero non finissero mai.

IPOTESI (marzo 2009) Non sono una pozza d’acqua ferma, sono un mare mosso e scosso da onde continue che giocano a rincorrersi. Non ho sempre il coraggio di far brillare i miei riflessi, ma a volte approfitto del sole di mezzogiorno per farlo. Non voglio fermare le correnti, le assecondo, anche se il loro passaggio mi agita un po’. Non vorrei mai, per nessun motivo, essere chiusa, neanche da monti maestosi, o da verdi alberi secolari, o da arenili dorati e assolati. Non ho la pazienza di aspettare la sera, la calma che porta la luce più gentile della luna, perché sono una cosa sola con il sole, con il calore violento, con gli arancioni e i rossi. Sarò piena, impetuosa, per far veleggiare lontano ogni pensiero che vorrà attraversarmi e vorrà farsi conoscere.


GRAZIA (gennaio 2009) Grazia appare sempre così, davanti all’uscio della sua casa in campagna, pantaloni in flanella, comodi, pantofole arabescate, una lunga giacca in lana con lo scollo a v che lascia brillare al sole le paillettes di una maglia leggera. I capelli non sono sempre in ordine, forse per questo lei si mostra con un basco in lana, ma tutti i dettagli scompaiono quando ti accoglie il suo sorriso. Un sorriso insolito, perché è un vero sorriso nonostante le labbra si richiudano sulle gengive e le perle dei denti manchino del tutto. Ma tanto Grazia non sorride solo con le labbra, sorride con gli occhi, e il lucido delle cornee lasciate scoperte da un’espressione gioiosa sono un richiamo per me che la guardo, e sento in quegli occhi tutta la disperazione di una solitudine antica. Ci accoglie in casa, il passo strascicato, con voce impastata ci offre un caffè e lascia in sospeso la domanda. Sono distratta da Daniele ma sento l’ansia della risposta e dell’attenzione che le devo. Un’ansia inutile. Con lo stesso sorriso lei ricompare in soggiorno, come seguisse un copione, come se rivestisse un ruolo che la rende felice. Sorride, mentre con le mani tremanti mette un cucchiaino di zucchero in ogni tazza, fermandosi a tratti, per non sprecarne neanche un granello. Versa poi il caffè e lì il mio cuore sobbalza. Uno schizzo fuori della tazza mi fa balzare dalla sedia per andarle in aiuto. Si lascia aiutare mentre mi accarezza le guance dicendomi “cara…”e cerca i miei occhi che già sono nei suoi, fissi nel suo azzurro col desiderio di farle fluire vita e amore.


LE DONNE DELLA FAMIGLIA STUCCHI (Marzo 2009) Sono venute da me all’improvviso. Non pensavo che Leonilda avesse già smesso il lutto né immaginavo di vederla così. Camicia a righe, di seta francese, verde mela e rosa, e un boa di bianche piume di struzzo, un azzardo, da diva dei caffè chantant, un accessorio frivolo che stride con quella camicia abbottonata fino al collo, sigillata da una spilla di perle. Cosa ci fa vestita così, cosa vuol dimostrare accanto alla figlia e alla nipote, vestite di grisaglia? Mara è preoccupata solo di chiudersi e coprire il suo corpo di ventenne, di renderlo meno appariscente, meno florido di quello che è, mentre manda lontano, oltre l’obiettivo, i suoi occhi lucidi che sognano di altre città, di passeggiate al sole sotto gli ombrellini, di risate e di commenti silenziosi sui giovanotti. Caterina, in piedi sulla sedia, altrimenti non riesco a farla stare nell’obiettivo, non riesce a mettersi in posa, apre le braccia, accarezza la stoffa arricciata del suo vestito, mi dice che lo avrebbe voluto rosso, non blu e io le rispondo che tanto i colori nella foto non si distinguono, si trasformano solo in chiari e scuri. Non la convinco e comincia a salire e scendere dalla sedia, mentre Paola e Cristina, le mie assistenti, arrivano finalmente con un telo da mare riesumato da chissà quale baule. E’ di stoffa chiara e questo lo rende perfetto come sfondo per la foto. Dico alle donne che ho di fronte che sono pronta, che possono prendere la posa che vogliono, che possono abbracciarsi se lo desiderano. Sorrido. Loro no.


Leonilda ravviva lo sguardo, sistema il boa attorno al collo e fissa l’obiettivo. Mara tiene le braccia chiuse in grembo e mi guarda con i suoi occhi lucidi, gli angoli della bocca in giù. Caterina, in piedi sulla sedia, strappata al movimento, è fiera di essere alta quanto sua nonna, ma non mi guarda, l’obiettivo perde il suo sguardo che ancora non vuol cedere al destino.

SILVANA (Marzo 2009) Non credo ai miei occhi, è sulla soglia, è venuta a trovarmi fin qui, in biblioteca! Ha i capelli lunghi, è riuscita a farseli crescere e sono vaporosi, morbidi sulle spalle. Un fiore rosa sul fermaglio tra i capelli sottolinea il riflesso chiaro, dorato del castano, si è sicuramente fatta uno shampoo riflessante, bene! Vuol dire che finalmente tiene al suo aspetto, finalmente desidera che la giovinezza che da sempre ha nel cuore si manifesti fin nei capelli. E la pelle? E’ soffusa di luce, rosata appena dal fard, resa ancora più luminosa dai suoi occhi bellissimi, di un marrone cangiante, quasi verde, come il muschio di quei boschi che ha percorso spesso da sola quando si perdeva, quando voleva sprofondare nella solitudine della sua anima. Mi sorride, e io le sorrido. Le perle dei denti comunicano senza parlare la gioia del ritrovarsi. Sembra non sia passato nemmeno un giorno da quando è a Collegno, ricoverata per una malattia cronica che la porta via dal mondo ma che anche la protegge da esso, protegge la poesia che ha nella testa, nel cuore. La abbraccio. “Silvana! Silvana, che bella sorpresa!”, vorrei dire mille altre cose ma la voce mi si spezza dentro, sento solo le mie braccia che la stringono, che scandagliano il suo calore, per capire se sta bene davvero.


Lei si stacca, mi sorride. E’ ben vestita, colori in armonia, stoffe curate, ha persino una collana di perle. Le sue mani nodose mi porgono timidamente un dono avvolto da carta rossa e ruvida. Un calendario con splendide foto del Tibet, luogo che insieme abbiamo visitato tante volte con la fantasia. C’è un biglietto, dice che i veri amici non sono mai persi. La guardo, e il fard delle sue guance si accende. Gli occhi mi si velano di lacrime.

LA PARTENZA (Febbraio 2009) Stamattina il bip bip della sveglia del cellulare mi ha strappata dolcemente al sonno. Un suono gentile, da xilofono, per nulla molesto, e ho aperto gli occhi con un sorriso. Subito colta dal respiro più lieve di Daniele, dal suo “Buongiorno” con voce intrisa di sogni, mi sono voltata verso di lui e i baci leggeri sulle sue guance hanno riempito l’aria di schiocchi timidi, appena accennati. Il bzzzz del neon sullo specchio del bagno, “madonna che faccia che ho al mattino, sembra una mappa da ridisegnare!”,, e giù l’acqua del rubinetto, uno scroscio troppo forte, lo scroscio del risveglio brusco, ben lontano dal suono dolce e soporifero di una fontana zen che vorrei comparisse all’istante per riportarmi a letto. L’urlo di una sirena in strada fa comparire dentro i miei occhi ancora chiusi dall’acqua corrente una macchina in corsa, con sirene blu e rosse, e io la seguo col pensiero fino alla tangenziale che percorrerò fra poco. I vestiti che infilo in silenzio, col respiro sospeso per far meno rumore possibile, si avvolgono attorno al mio corpo con suoni di lana infagottata, soffro il freddo, quindi anche le calze parlano la lingua calda della lana.


La zip dei miei stivali, come lo stridio di una porta dai cardini arrugginiti sveglia Daniele, che dietro al suono di coperte in movimento si alza per andare in bagno, non prima di avermi baciato. “Mandami un messaggio quando arrivi�, dice con la voce impastata e gli occhi semichiusi. Clac, clac, doppia mandata, apro la porta, la richiudo dietro di me. I miei passi sulle scale sono lievi come la gomma porosa dei miei stivali. Non voglio disturbare il silenzio di una mattina in un palazzo. Il portone si richiude e l’aria fresca mi lambisce le guance. Rumori familiari di ruote, accelerate e frenate. Vado al lavoro.


LA CASA DEI NONNI (Febbraio 2009) Ho sognato la casa dei nonni. E’ un appuntamento fisso, che segue scadenze interiori. Stavolta le stanze erano illuminate, ogni mobile, ogni suppellettile al suo posto, la luce azzurrina emanata da ogni superficie in un sogno precedente era diventata dorata, soffusa, illuminava ogni ambiente e le persone presenti, due sorelle di mia nonna, sedute attorno al tavolo della cucina, vestite di nero. Mia zia Cicì, la sorella nubile di mia mamma, che ha ereditato il lato difficile del destino delle donne di famiglia, mi accompagna nelle stanze, è lei che ha messo tutto in ordine con estrema cura. Io la riempio di elogi, lei donna sola, con un solo polmone ché l’altro l’ha portato via il cancro, ha messo ordine in quella storia dolorosa. Mi porta sul balcone del salotto ed ecco una visione fantastica: vedo giardini lì dove c’erano palazzi, ci sono giardini dappertutto, anche sui balconi del nostro palazzo, e i bambini fanno su e giù sulle altalene, sulle scale che collegano i balconi, come se tutta l’umanità più giovane, più vitale, si fosse riunita in un unico corpo in movimento, a portare ancora più luce in quell’angolo di passato. IN GENNAIO (Gennaio 2009) “he hehe hehehehehe”, una risata nervosa e battute così tanto per dire, perché non sa cosa dire questo bambino dagli occhi chiusi come opali luccicanti, c’è un mondo intero, brulicante e irrimediabilmente misterioso dietro i suoi occhi neri. Sorride mangiando la pizza, ultimo capitolo di un weekend passato in montagna, da amici, una storia fatta di discese e capitomboli sullo snowboard, il bambino ed io allievi di suo padre che sullo snowboard c’è praticamente nato. Non distinguo neanche più le sue parole, perché il suono della risata mi tocca il cuore e non so spiegare perché. O forse sì. Questa risata ha un sapore diverso, quello della conquista.


Io e Lorenzo, figlio del mio compagno e della sua ex stiamo superando muri che si ergevano altissimi fra di noi qualche mese fa. Non c’era quella risata allora, c’erano sguardi indagatori, espressioni corrucciate, smorfie così indisponenti che lo avrei preso per le spalle, giuro, e lo avrei sbattuto contro il muro, con tutte le mie forze. Non ti accorgi dello sforzo che faccio, piccolo bambino mercenario e viziato? Tu eserciti indisturbato il tuo potere sull’uomo che amo e che mi chiede senza parlare di fare la mamma per te, di dargli il sostegno e i consigli di una moglie finalmente saggia. E tu, piccolo impertinente, mi tratti così? Tratti così tuo padre, facendo leva sul suo senso di colpa? Questo pensavo, e questi pensieri sono stati cancellati domenica dalla risata di Lorenzo proprio come la schiuma delle onde arriva a cancellare le orme di chi si è giduto il calore della sabbia al tramonto. Questa risata ha goduto delle discese in slittino, a tutta velocità, solo io, Lorenzo e la sua vocina che mi dice: “Sistemati bene sullo slittino, Vale, che mi devi proteggere..”.


LA RISONANZA (marzo 2009) Pensavo si trovasse a Rivoli il centro per fare la risonanza, quando ho telefonato nessuno mi ha spiegato che via Fabro è a Torino, una traversa di via Cernaia. Eccomi partire con un’ora di anticipo, vista l’ansia, alla volta di Rivoli ed eccomi sprofondare nel pavimento di gres porcellanato della reception quando mi hanno detto che via Fabro è a Torino. Nell’istante della disperazione, anzi, forse proprio la disperazione ha richiamato verso di me una schiera di esseri angelici pronti a venirmi in soccorso. Il primo angelo è stato una dottoressa botticelliana lì a Rivoli, che ha consegnato direttamente nella mia mano un opuscolo con tutti i numeri di telefono del CDC, suggerendomi senza parole di telefonare, di tentare comunque di bloccare l’appuntamento. Sono le 19.00, la risonanza è fissata per le 19.30. Solo wonderwoman può sperare di raggiungere il centro di Torino attraversando tutto Corso Francia senza conoscere minimamente le strade, senza avere a portata di mano un navigatore, con il cuore gonfio d’ansia e di panico. Provo a telefonare, ma per due volte cade la linea, e la seconda proprio mentre mi stavano passando il reparto dove avrei dovuto fare la risonanza. Non demordo, o meglio, non demordo anche se ho mille pensieri di fallimento, “per cosa mi precipito?”, “A che serve scapicollarmi così?” “Non ce la farò mai, sono già in ritardo”. Però è l’unica chance che ho per fare l’esame e sapere finalmente di cosa soffre la mia colonna vertebrale, quale è l’impedimento che la blocca così, che da un mese a questa parte mi ha trasformata in un fascio di carne deforme, curva, di età indefinibile. Un miracolo, un altro angelo in soccorso, un medico, un infermiere, non so, con cui riesco a parlare. Mi dice “Accidenti!”, capisce la mia situazione e mi rassicura, sono disposti ad aspettarmi fino alle 19.50. Sono le 19,30. Ho venti minuti.


Chiedo indicazioni a Daniele, che con il vassoio della mensa fra le mani chiede ai colleghi in pausa indicazioni per via Fabro. I colleghi bofonchiano, lui chiude dopo due minuti. Sbaglio strada, ovvio, le indicazioni che l’occhio percepisce nei momenti di panico non sono mai quelle giuste, e la miopia fa il resto. Ecco il terzo angelo in soccorso, un signore giovane, forse un po’ più vecchio di me, dalla gentilezza rara, si ferma, scende dall’auto in coda per dirmi di seguirlo, gli manca solo il cavallo bianco, perché il mantello azzurro mi sembra già di vederlo. Mi guida fino a Porta Susa, mi dice dove andare. Seguo le indicazioni alla lettera e come un’oasi nel deserto trovo la stazione e anche un posto per lasciare la mia ruggente 600. Con uno sforzo da donna bionica aguzzo la vista nel buio della sera e intravedo via Cernaia. Mi lancio come una gazzella sulle strisce pedonali, arrivo sotto i portici. Un negoziante sta per abbassare inesorabilmente la saracinesca del suo negozio di abbigliamento. Gli porgo il sorriso più smagliante che posso, un richiamo per l’angelo che è in lui. Mi dà indicazioni precisissime, ma la strada è lunga. Avanzo, noncurante del dolore che tiene in una morsa la mia gamba sinistra dalla natica al piede. Primo, secondo, terzo, quarto, quinto incrocio, ma quant’è lunga questa strada? Finalmente arrivo, trafelata, e l’infermiere, bianco anche lui come un angelo, cerca di comprendere i mozziconi di parole che riesco ad articolare fra un sospiro e l’altro. Mi rassicura, dice che mi hanno aspettato, mi fa compilare i moduli, il ticket mi sembra irrisorio, tanta è la felicità per avercela fatta. Attendiamo in 4, una coppia con una lei che mi guarda comprensiva e sorridente mentre le racconto la corsa in auto da Rivoli e una coppia rumena, dal linguaggio stridente e dal cognome impronunciabile. Tocca a me. Una bellissima dottoressa straniera, dal viso altero e nordico, gli occhi luminosi tra efelidi e capelli rossi mi dà le indicazioni di rito con voce metallica. “Durerà un quarto d’ora, lo sa? Sentirà dei rumori, ma no le consiglio di mettere la cuffia, è già stretto lì dentro”.


Sento un rumore di sottofondo che si animerà e assumerà un’identità solo quando sarò dentro il bidone. Tunz tunz tunz tunz, un ritmo da house music perfetto, sul quale si innesta un pa pa pa pa continuo. Dietro le palpebre dei miei occhi chiusi si formano immagini sotto luci psichedeliche. Una cubista con i capelli lisci e sparati in una cresta si dimena in gonna argentata su tacchi a zeppa mentre le catene al collo sobbalzano frustandole le braccia. Tunz tunz tunz, ritmo perfetto, la serata continua, la cubista scende, vuol bere qualcosa, si avvicina al bancone, ride col barista, si accorge di un bruno tenebroso che la scannerizza dalla testa ai piedi e lei ammicca in risposta con le sue belle ciglia finte. Anch’io vorrei bere qualcosa ma una voce nordica mi porta nel tunnel. “Tutto bene? Ancora 5 minuti”, “Sì, sì”, rispondo lievemente mentre ascolto il mio respiro che si mescola al tunz tunz tunz, pa pa pa pa e te te te te che si incrociano come in un’orchestra polifonica. Poi, d’improvviso il silenzio, così assordante da sembrare un rumore. La fulva dottoressa mi guarda con occhi interrogativi, la faccio sorridere dicendole che finalmente ho avuto l’occasione per rilassarmi un quarto d’ora quel giorno. Mentre vado via dopo essermi rivestita la scorgo che guarda accigliata il monitor davanti a sé. Vorrei quasi chiederle come sta la mia colonna ma preferisco uscire. L’aria è fresca ed è un piacere camminare. Dovrei chiedere altre indicazioni per tornare a casa mia ma al momento non mi preoccupo e continuo a camminare. Col pensiero torno al parcheggio dove ho lasciato la macchina, l’unico luogo che saprei ritrovare in questa Torino.



Dato in pasto alla fotocopiatrice nel mese di Aprile 2009 Testo scritto grazie a Openoffice, il software libero e opensource: it.openoffice.org Libretto creato grazie a BookletCreator.


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