L'dera e l'olmo

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L’edera e l’olmo

Michele Calandri è direttore dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo, presso cui lavora fin dal 1967. Ha studiato il fascismo cuneese e la Repubblica Sociale Italiana, la Seconda guerra mondiale, la Resistenza e gli anni della ricostruzione. E’ autore di saggi e ha curato numerose pubblicazioni tra cui: Fascismo 1943-1945. I notiziari della GNR da Cuneo a Mussolini (L’Arciere, 1979); insieme a Mario Cordero Novecento a Cuneo. Studi sull’ottavo secolo della città, (Edizioni Gruppo Abele, 2000); Vite Spezzate. I 15.430 morti nella guerra 1940-45. Un censimento in provincia di Cuneo, (L’Artistica, 2001); Boves. Storie di guerre e di pace, (Primalpe, 2002); ha inoltre curato l’opera di Nuto Revelli, Le due guerre. Guerra fascista e guerra partigiana, (Einaudi, 2003). E’ direttore del semestrale dell’Istituto della Resistenza di Cuneo Il presente e la storia.

Storia di Livio, Pinella, Alda e Alberto Bianco

Storia di Livio, Pinella, Alda e Alberto Bianco

Alessandra Demichelis lavora presso l’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo. Si è occupata di storia sociale e associazionismo pubblicando due volumi sulla storia della Società Operaia di Cuneo e un saggio nel volume collettaneo Novecento a Cuneo. Studi sull’ottavo secolo della città, (Edizioni Gruppo Abele, 2000). E’ autrice del volume Ai confini del regno. Vivere a Entracque tra Ottocento e Novecento (Blu edizioni, 2002) e ha curato la mostra e il catalogo Lo sguardo di Leonilda. Una fotografa ambulante di cento anni fa (+eventi, 2002). Recentemente si è interessata di storia di genere indagando il mondo del lavoro femminile e ha pubblicato il romanzo Finimondi (Blu edizioni, 2006).

L’edera e l’olmo

Paola Agosti lavora come fotografa indipendente dal 1969 collaborando alle principali testate nazionali ed estere. Ha esposto in numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero, partecipando ad alcune di queste in qualità di curatrice: Volto d’Autore, L’Italia fuori d’Italia, Giorgio Agosti: Le quotidiane virtù dell’Italia civile. E’ autrice di una decina di libri fotografici tra cui Immagine del “mondo dei vinti” (Mazzotta 1978), La donna e la macchina (Editori Riuniti 1983), e, con Giovanna Borgese, Mi pare un secolo (Einaudi 1992), C’era una volta un bambino (Baldini e Castoldi 1996). Ha inoltre curato tre volumi dedicati alle memorie familiari: Francesco Agosti: lo sguardo discreto di un fotografo piemontese del primo Novecento (Peliti associati 1998), Aetatis suae (Cadmo 2000) e, con Camilla Bergamaschi, Giorgio Agosti nelle lettere ai familiari (Inside Out 2004).

€. 27,00 IVA compresa

ISBN 978-88-902997-1-1

a cura di Paola Agosti

È raro che accada nella marea ricorrente dell’umanità, ma a volte le storie individuali diventano la Storia. È il caso di Livio, Pinella, Alda e Alberto Bianco. Quattro ragazzi, due coppie inossidabili, di cui questo libro ricostruisce la vicenda nei saggi di Michele Calandri e Alessandra Demichelis. La guerra, una lotta di popolo, un partito - il PdA - che nasce e muore in una stagione, la libertà. E poi il «dopo», quando la realtà ridiventa quotidiana, le utopie ripiegano sotto il peso dell’usura. E sullo sfondo la solitaria purezza di una montagna che, diventato il luogo collettivo del riscatto, della lotta, torna luogo privato di confronto con se stessi. Le immagini fotografiche, scelte con sensibilità da Paola Agosti, raccontano i solidi privilegi di una famiglia borghese: le case liberty, gli studi, gli amici colti, i maestri. Con un regime fascista che appena sfiora, con la sua plebea volgarità, i due ragazzi Bianco, orfani acerbi di un capofamiglia dinamico e intraprendente che in Francia costruisce una solida fortuna. Belli, brillanti, studiosi, sportivi. Due gioielli di una borghesia che vive appartata anche se scossa e sgomenta per la tragedia che inesorabile si addensa sul mondo. Ma prima della tragedia nella vita dei due giovani irrompono con la forza e la tenacia indispensabili alla costruzione di un grande amore due ragazze diversissime. Pinella è minuta come una porcellana, il viso illuminato da un sorriso dolcissimo, una eleganza sorvegliata e personale. Alda è bellissima, luminosa; con Alberto forma una coppia da cinema come testimoniano le foto vecchie di settant’anni, ma ancora eloquenti. Sono bellissimi persino in montagna, nel dicembre ‘44, quando, sommersi dalla neve e circondati dai compagni partigiani, si sposano con quella giovanile incoscienza che germoglia nei momenti di grandi sconvolgimenti. Tutti e quattro si battono, dal ‘43, contro fascisti e tedeschi. Livio, il più maturo, è quel mitico commissario politico, rigoroso, coraggioso eppure schivo che si conosce, Alberto alla testa della sua formazione libererà Torino. Le ragazze sono staffette spericolate e non lo fanno solo per amore, ma per una intima, profonda necessità morale. Il «dopo» arriva in venti mesi e restituisce i Bianco alla vita, alle speranze, alle delusioni. Ma quella monade perfetta si schianta il 12 luglio del 1953 quando Livio muore sulle sue montagne che lo avevano visto forte, roccioso (così lo raffigura, coperto da una pelle di pecora come un cosacco, una eccezionale foto a Paralup), sfidare la sorte. Livio muore in una Italia opaca, povera e stanca. Muore a poco più di quarant’anni come a voler sfuggire all’inesorabile banalità del quotidiano. Pinella, spezzata dalla tragedia, se ne va quattro anni dopo. Agli altri, tutti gli altri - come si vede nella foto dei funerali sui volti fissi e sgomenti - resta la insondabile disperazione di chi deve vivere non solo per ricordare, ma per costruire. Come Alberto e Alda testimonieranno nelle loro esistenze ricche di amicizie, di affetti, di impegno civile.


L’edera e l’olmo Storia di Livio, Pinella, Alda e Alberto Bianco


L’edera e l’olmo Storia di Livio, Pinella, Alda e Alberto Bianco

a cura di Paola Agosti testi di Michele Calandri e Alessandra Demichelis

Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo Fondazione Avvocato Faustino Dalmazzo Compagnia di San Paolo


Presentazione Degli autori di questo libro sono la sola che ha avuto la fortuna di conoscere tutti e quattro i protagonisti. Sono la figlioccia di Livio e uno dei ricordi più vivi della mia infanzia è il pianto di mio padre1 quando a casa arrivò la notizia della morte di Livio il 12 luglio 1953. In una lettera alla propria madre, Cristina Garosci, il 19 luglio di quell’anno scrive: “Sono disperato come non ricordo di esserlo stato mai nella mia vita non quando sono morti Braccini2 e Jervis3, sia perchè non ero legato a loro come a Livio, sia perchè morire in guerra è un’altra cosa, il tuo lutto fluisce nel fiume dei mille altri lutti, e anche il dolore diventa una forza per il raggiungimento della vittoria.[...] A me sembra proprio di aver perso la parte migliore di me: tutto quello che mi legava a quei venti mesi, i soli in fondo in cui sento di aver fatto qualcosa di utile e di buono. [...] E poi Livio era un centro di amicizie, di relazioni: la sua casa era la casa di tutti: le sue iniziative erano quelle che ci trascinavano tutti. [...] Riuniva in grado tale forza fisica, forza morale e forza intellettuale da averne per tutti [...]”. Ma lo spirito operativo di Giorgio Agosti prevale e già il 23 luglio scrive alla moglie Nini: “Mi interessa rimettere insieme lettere e note per il numero di Resistenza, per Il Ponte e per il libro di Einaudi. Per fortuna molto materiale ho trovato da Livio che si era conservato e accresciuto un archivio prezioso dove ora Franco 4 ed io potremo attingere elementi preziosi per far rivivere la sua figura di comandante eccezionale, di organizzatore minuzioso, ostinato, tenacissimo” e il 24 agosto aggiunge “Tocca ai vivi far rivivere i morti e non ci si può rinchiudere nel proprio dolore e quasi morbosamente annegarci; ma bisogna in qualsiasi modo riprendere la lotta”. È stato in quello spirito e per la forza di un legame radicato dentro di me nel tempo che ho lavorato a questo libro. La sua origine è di qualche anno fa: nel 2004, scomparsi ormai da tempo i protagonisti di questa storia, a Valdieri, nella villa che fu dei Bianco venne inaugurata la sede amministrativa del Parco delle Alpi Marittime. In quella circostanza mi fu chiesto di allestire una mostra fotografica permanente sui Bianco. Doveva far conoscere ai visitatori la storia di chi aveva abitato in quella casa. Tornai a Valdieri dopo tanto tempo e grande fu l’emozione nel rivisitare la villa che più volte mi aveva ospitata bambina e adolescente con la piccola Alessandra, i suoi genitori Alda e Alberto e la signora Prosperina, madre di Livio e Alberto. Durante la cerimonia di inaugurazione, Michele Calandri tenne un bel discorso ricordando le figure dei due fratelli e fu allora che pensammo sarebbe stato interessante ampliare la ricerca e provare a raccontare in un

1 Giorgio Agosti (1910-1992), magistrato, membro del Comitato Militare Piemontese del Partito d’Azione, poi commissario politico regionale delle Formazioni GL del Piemonte. 2 Paolo Braccini (1907-1944), professore universitario alla facoltà di veterinaria, rappresentante del Partito d’Azione nel primo Comitato militare piemontese, condannato a morte dal Tribunale Speciale, fucilato al Martinetto di Torino il 5 aprile 1944, medaglia d’oro al valor militare.

3 Guglielmo Jervis (1901-1944), ingegnere, membro del 1° Comitato militare piemontese del Partito d’Azione, arrestato dalle SS nel marzo del 1944, ucciso a Villar Pellice il 5 agosto 1944, decorato di medaglia d’oro al valor militare. 4 Franco Venturi (1914-1994), storico, esponente del Movimento Giustizia e Libertà in Francia, ispettore del Comando Militare Piemontese GL.


libro, anche per immagini, la storia della famiglia. Suo è dunque il saggio che ci introduce alle vicende dei quattro protagonisti, mentre Alessandra Demichelis ha dedicato il suo scritto in particolare alle figure di Alda e Pinella, indimenticabili staffette partigiane e compagne di vita dei fratelli Bianco. Il titolo è stato suggerito da una frase di Ferruccio Parri “Livio era l’olmo, Pinella l’edera tenacissima”, secondo noi assai efficace per definire anche la coppia Alda e Alberto. Le fotografie che illustrano il libro (non è stata possibile l’attribuzione del copyright e ce ne scusiamo con gli autori, così come non sempre è stato possibile datarle con esattezza) provengono dall’archivio dell’Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo e dal mio personale, nonchè dagli archivi familiari di Alessandra Bianco, Anna Maria Branda, Federica e Francesco Frascarolo, Carla Gobetti, Mitì e Giovanna Galante Garrone, Giorgio e Lelia Vaccarino, Anna Maria Granatelli, Maria Luisa Dessy. Per la stesura dei testi, oltre queste persone abbiamo intervistato Gastone Cottino, Giuliana e Franzo Grande Stevens, Eugenio ed Evi Meinardi, Stefano Narici, Nicola, Paolo e Rita Mori, Renato e Mariella Paparo. A tutti loro va l’espressione più viva della nostra gratitudine così come alla Fondazione Avvocato Faustino Dalmazzo, e alla Compagnia di San Paolo che hanno reso possibile la pubblicazione di questo volume. Per altri, diversi e validi contributi ringraziamo inoltre Aldo Agosti, Elio Allario, Marcello e Nicoletta Blua, Marina Cassi. Il libro è dedicato, con affetto, ad Alessandra Bianco. Paola Agosti

Alda, Alberto, Prosperina, Livio e Pinella Bianco, sulla terrazza della casa di Valdieri, ottobre 1948.


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Le origini Le famiglie Bianco e Sartore

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I capicordata di Michele Calandri

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Livio “Quel moderno uomo senza miti”

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Alberto “L’entusiasmo di vivere”

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Pinella “L’edera tenacissima”

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Alda “Il brevetto di partigiana”

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Venti mesi 8 settembre 1943 - 25 aprile 1945

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La libertà ritrovata “Le amarezze del «dopo«”

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12 luglio 1953 “A tutti i costi bisogna salire”

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La vita riprende Alberto e Alda, un punto di riferimento

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Il “duetto celebre” di Alessandra Demichelis


Le origini Le famiglie Bianco e Sartore

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Teresa Lovera e Bernardo Bianco, genitori di Gioachino ritratti in una tela a olio alla fine dell’‘800. Nella pagina successiva matrimonio di Domenica Sartore con Giovanni Quaranta. Taggia, 28 febbraio 1908. In piedi al centro gli sposi.




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Multaj telefonoj parolis, sed Denvero gajnas nau tre malbela libroj, kaj multaj cxambroj mangxas la sxipoj, se

Le sorelle Sanino ritratte all’inizio del ‘900. La seconda da destra è Domenica Sartore.


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246, 248, 249 e 250 - Gioacchino Bianco ritratto a Cannes all’inizio del 900.

Gioachino Bianco, Giovanni Quaranta e Menegolo Sartore ritratti all’inizio del ‘900.


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141 - Giocchino Bianco (in piedi, a destra), tra i lavoranti della sua sartoria. Cannes, inizio ‘900. 151 - Gioacchino ritratto sulla porta della sua sartoria. Cannes, inizio ‘900.

Giochino Bianco (in piedi, a destra), tra i lavoranti della sua sartoria.


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Gioachino ritratto sulla porta della sua sartoria. Cannes, inizio ‘900.


I capicordata di Michele Calandri Livio Bianco nasce a Cannes il 19 maggio 1909 da Gioacchino e Prosperina Sartore. Il padre era emigrato da Valdieri. Sarto abile e con capacità artigiane, ma anche imprenditoriali, aveva realizzato una discreta fortuna ed era giunto a controllare grandi magazzini di abbigliamento.

Gioachino Bianco ritratto a Cannes all’inizio del 900.

A sua volta Gioachino, nato a Valdieri il 26 maggio 1859, era figlio di Bernardo (nato a Roccavione nel 1817 e deceduto a Valdieri l’8 ottobre 1894), sarto, e di Teresa Lovera (nata a Valdieri nel 1819 e deceduta nello stesso luogo il 26 giugno 1894). Aveva tre fratelli e una sorella: Giovanni, sarto; Antonio, calzolaio; Giuseppe Bernardo, calzolaio e infine Teresa, sarta anch’essa. Gioachino frequenta la scuola fino alla quarta classe elementare, impara il mestiere dal padre e dai fratelli, poi emigra in Francia dove, a Cannes, raggiunge una posizione sociale di rilievo, inserendosi nella cultura, negli ambienti progressisti e diventando una delle personalità più in vista della colonia italiana. Presiede per un certo tempo la “Dante Alighieri” locale (da qui il nome Dante del primo figlio1) ed è presidente fino alla morte della “Società di Beneficenza e Lavoro”. Al matrimonio dell’amico Giovanni Quaranta (poi sindaco di Entracque) con Domenica Sartore, avvenuto ad Arma di Taggia, Gioachino conosce Prosperina (classe 1885), sorella di Domenica, che sposa il 30 aprile 1908 a Taggia. Dopo Livio nasce una sorella, Lidia, morta soffocata da un fagiolo in tenerissima età, il 17 giugno 1914; infine, a Taggia nasce Alberto, il 19 novembre 1917, pochi mesi prima della improvvisa morte del padre avvenuta il 18 agosto 1918 per un colpo apoplettico che gli causa una agonia di dodici giorni. La scomparsa di Gioachino, che lascia due figli piccoli e una moglie di ventisei anni più giovane, non crea problemi dal punto di vista economico, dal momento che le sostanze della famiglia, per l’epoca, sono cospicue. Il vuoto, caso mai, lo si deve alla sua popolarità in valle Gesso e fuori: al momento del decesso egli è ancora assessore al comune di Valdieri e fa parte della commissione edilizia. Grande benefattore di enti assistenziali nel paese natale e a Cannes, è conosciuto anche a Taggia, dove alterna periodi di residenza con le altre due località. Non è insignificante, a questo proposito, che i due quotidiani liberali di Cuneo (ma solo “Il Corriere Subalpino”, portavoce di Marcello Soleri, astro nascente della democrazia liberale, ne riporta il necrologio familiare, a differenza della “Sentinella delle Alpi” di Tancredi Galimberti, ormai immischiato in un interventismo che è la premessa del futuro fascismo) dedichino, in occasione della morte, ben cinque trafiletti alla figura del compianto Gioachino Bianco. Prosperina, pur stordita dal colpo, ma sorretta da una energia che la caratterizzerà per il resto della vita, assume la veste di capo famiglia, appoggiandosi ai parenti taggiaschi e soprattutto al fratello Domenico

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(1883-1966), che diventerà per tutti il rispettato consigliere “zio Menegolo”. Menegolo, senza figli, avrà sempre un’attenzione particolare, accompagnata da una grandissima fierezza, per i nipoti Alberto e Livio in particolare. L’educazione dei due fratelli viene pertanto curata da questa famiglia allargata, di cui fa parte uno zio di Prosperina, padre scolopio di vasta cultura anche lui di nome Domenico Sartore. All’inizio del Novecento Gioachino aveva fatto costruire a Valdieri una villa in puro stile liberty, su progetto dell’ingegnere Cesare Arnaud, ed è in questa bella casa, così come in quella materna di Taggia, che vengono allevati i due figli. E’ soprattutto Livio a crescere con i cugini di Entracque (paese a pochi chilometri da Valdieri), il coetaneo Aldo Quaranta e suo fratello Remo, di poco più giovane, dimostrando fin dall’infanzia una serietà e un impegno uniti a una intelligenza pronta e vivace. Dopo le scuole elementari prosegue gli studi presso il ginnasio e il liceo di Cuneo, prima in collegio e poi contando sulla ospitale casa degli zii Quaranta in città.

Livio: gli anni della formazione

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Livio, avanti di un anno rispetto ai coetanei, studia con grande interesse e ottimo rendimento e coltiva un’altra passione: la montagna. Nascono in lui le prime curiosità letterarie che lo portano a redigere una recensione, per la Sentinella delle Alpi, del volume di Euclide Milano, Dalla culla alla bara2. La recensione è stroncatoria e induce il Partito fascista a intervenire per attenuare la polemica, data la notorietà dell’autore, presidente della locale Scuola Popolare di Cultura e professore all’Istituto Tecnico. Gli interessi di Livio sono soprattutto letterari, ma ampio spazio è riservato alla filosofia e alla storia. Inoltre, nella sua biblioteca sono conservate edizioni francesi che sottolineano il legame con la repubblica transalpina, le sue preferenze a causa della nascita e dei contatti che la famiglia continua ad avere con il Nizzardo3. Parecchi volumi contengono dediche dello zio Domenico, il padre scolopio, il quale segue attentamente questo giovane nipote dalla bella intelligenza. Ogni volta che Livio lo va a trovare a Savona (e sono in particolare gli anni del liceo e dell’Università), lo zio gli regala un libro con dediche affettuose: «a Livio, caro amico più che parente. Domenico, Savona 30 settembre 1930»4. I filosofi e i pensatori che sembrano catturare l’interesse di Livio sono Cartesio, Rousseau, Montesquieu, Jean Jaurés, Georges Sorel, Fichte, Carlo Cattaneo, Guido De Ruggero, Benedetto Croce, Mario Missiroli, Adriano Tilgher, Giovanni Papini. Il giovane è affascinato dalla storia delle idee e delle dottrine: una dispensa universitaria del suo altrettanto giovane docente Alessandro Passerin D’Entrèves - Storia delle dottrine politiche, Torino, G. Giappichelli, 1930 - è ampiamente sottolineata e annotata. Gli argomenti storici sui quali si sofferma sono le vicende dell’Impero Britannico, gli eventi della Francia rivoluzionaria e repubblicana, della Russia, dell’Italia barbarica, medioevale, risorgimentale.

Livio nella fotografia di laurea del 1930


Lo attraggono i libri sulle origini, lo sviluppo, la funzione dello spirito borghese e la sua crisi, sullo Stato etico, sulle correnti religiose e spirituali, sul federalismo, sulla Germania e il pangermanesimo, sull’Ottocento europeo. Tra i libri di Livio si trovano volumi di Piero Gobetti editore5 e delle edizioni La Voce di Prezzolini. Le annotazioni sui volumi lasciano, in qualche caso, trapelare le riflessioni di Livio. Sottolinea «Come assai bene dice il Colletta: “l’uguaglianza nasce da civiltà e per lungo uso della ragione [...]”»6. In una postilla di suo pugno scrive: «E’ molto più utile per l’uomo che Iddio gli abbia dato i mezzi per conquistare la verità, anziché la verità stessa.7» Da un volume riproduce, tra l’altro, su un foglietto: «La libertà è altamente favorevole allo sviluppo del vero sentimento religioso.»8 Scrive cinque pagine di appunti in difesa di Carlo Cattaneo e della sua «concezione di repubblica federalista [che] è una concezione democratica quant’altra mai: egli aveva la massima fede nel popolo non già nei prìncipi che in mezza giornata vanno colle gambe del trono in aria e che sono destinati a tramontare tutti nel giro di pochi anni, e tanto meno del pontefice “vecchio prete sacrilego”, capo degli oppressori d’ogni lingua e d’ogni religione»9. Questo, il giovane Livio in formazione. 19

La passione per la montagna cementa le amicizie con altri giovani cuneesi provetti scalatori: Gianni Ellena, Edoardo “Dado” Soria, Giovanni Mina. E con lo stesso cugino Aldo Quaranta. Risulta che la sua attività alpinistica abbia inizio nel 1924, quando a soli quindici anni, studente di ginnasio, si iscrive alla SARI, sezione studentesca del CAI che annovera, tra i soci, i giovani della borghesia cittadina come Duccio Galimberti, Detto Dalmastro, Modesto Soleri, Gigi Ventre, Giuliano Pellegrini ed altri. Le prime vere ascensioni di Livio Bianco risalgono al 1925 con la salita alla Cima Sud dell’Argentera e successivamente, senza guida, alla Cima della Maledia. Compagno di cordata il cugino. Adottando i nuovi metodi di allenamento e preparazione fisica, Livio diventa protagonista di memorabili scalate, basti pensare che, oltre a percorrere talvolta in prima ripetizione, come all’Uja di Santa Lucia, itinerari piuttosto impegnativi, partecipa direttamente a numerose prime ascensioni10. Anche nei riguardi della nuova attività invernale, quella dello sci-alpinismo, Livio ha occasione di realizzare, con gli stessi amici, altre prime.11 Sia in quegli anni, che in quelli precedenti e successivi alla Seconda guerra mondiale, compie la ripetizione di quasi tutte le vie classiche della Serra dell’Argentera e dei numerosi gruppi del versante italiano e francese delle Marittime, scandagliando anche le zone meno conosciute e rinomate: un elenco veramente troppo lungo da citare in queste pagine12. Livio in montagna negli anni Trenta

All’Università di Torino Livio e Aldo Quaranta scelgono la facoltà di Giurisprudenza che non prevede l’obbligo di frequenza e lascia il tempo per le scalate: entrambi sono in pensione presso l’associazione


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giovanile protestante YMCA (Young men’s Christian Association). Spiccano in quella facoltà alcuni docenti di grande prestigio scientifico e di forte levatura morale: tra gli altri Luigi Einaudi, Gioele Solari e Francesco Ruffini, che diventano punti di riferimento per un’intera generazione di studenti. Con Gioele Solari, che insegna Filosofia del diritto, si laureano Piero Gobetti, nel 1922, e poi Alessandro Passerin D’Entrèves, Mario Einaudi, Renato Treves, Mario Andreis, Franco Antonicelli, Aldo Garosci e, in seguito, Giorgio Agosti, Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone e lo stesso Livio. Con il cugino e un altro cuneese, Modesto Soleri (figlio dell’ex ministro della guerra nel ministero Facta prima della marcia su Roma), non si distinguono per alcuna particolare pubblica presa di posizione, salvo che nella vicenda della contestazione dei giovani fascisti al professore di Diritto ecclesiastico Francesco Ruffini, senatore del regno, fiero difensore delle prerogative dello Statuto Albertino. Questi era intervenuto nella discussione sul progetto di legge elettorale che avrebbe posto fine al Parlamento nella primavera del 1928 e al Senato aveva votato contro insieme ad altri, quali Benedetto Croce e Luigi Albertini. Quando, di ritorno da Roma nel maggio 1928, il professore tiene la sua prima lezione, i componenti del Gruppo Universitario Fascista (GUF) organizzano una contestazione. A loro volta gli studenti estimatori di Ruffini, conosciuta l’intenzione dei “gufini”, preparano una contro manifestazione ideata, pare, dal saluzzese Mario Andreis, già a contatto con elementi antifascisti. Vi partecipano, oltre a Bianco, Quaranta e Soleri, Aldo Garosci (anche lui già antifascista e tra gli organizzatori), Giorgio Agosti, Alessandro Galante Garrone, Ludovico Geymonat, Alfredo Perelli, lo studente in medicina Bersano e pochi altri13. La contestazione si svolge nel cortile dell’Università, in via Po, all’arrivo del professor Ruffini. Al rumoreggiare dei giovani fascisti il professore si arresta dal proseguire la sua salita in aula e il rettore gli consiglia di rinunciare alla lezione. Intanto si scatena anche il gruppo dei suoi sostenitori che vengono alle mani con gli avversari. Nella colluttazione pare che i primi finiscano, soprattutto per la solida stazza di Livio Bianco e Aldo Quaranta, per avere temporaneamente la meglio e tutto sembra placarsi. Ma Livio e Modesto Soleri vengono fermati dai fascisti in via Roma, mentre si recano alla stazione di Porta Nuova, e, portati nella sede del GUF di via Bogino, vengono violentemente picchiati allo stomaco e al viso, tanto da dover ricorrere alle medicazioni dell’Ospedale Maggiore per lesioni guaribili in otto giorni per Soleri e dodici giorni per Bianco. A Cuneo la polizia li priva poi dell’abbonamento ferroviario mensile per Torino. Dal momento che è coinvolto il figlio di Marcello Soleri, giunge all’ex ministro la solidarietà scritta di Giovanni Giolitti, oltre che quella del professor Ruffini, e Benedetto Croce manda a Modesto Soleri la sua Storia d’Italia con dedica autografa. Poiché poi l’autorità giudiziaria non procede d’ufficio per il reato di violenza privata “che non poteva non essere maggiormente palese”, si decide di non sporgere querela “e di fare dichiarare al Bianco che è guarito nei dieci giorni, con che il processo

Livio, Giorgio Agosti, Gianni Ellena. Punta dell’Argentera, inizio anni Quaranta.


rimane soffocato”14. E’ un episodio isolato. Livio ritorna semplicemente ai suoi studi e alla sua passione per la montagna, senza esibizioni né di forza, né di snobismo, partecipando anche a gare di sci nell’ambito studentesco. La “filosofia” del suo impegno alpinistico la si trova forse in una frase sottolineata su un suo libro: Se l’impetuosa attività giovanile non si deve “reprimere”, ma guidare verso un ‘ “espressione” saggia e coordinata, è chiaro che il mezzo più elementare a tale scopo debba cercarsi nella così detta educazione fisica; l’attività corporea è quindi [...] un mezzo indispensabile per mettere in gioco, in forma elementare, la forza di carattere dei giovani. Bisogna tuttavia guardarsi dal pericolo che lo sport degeneri in una antieducativa esagerazione materialistica, che consolidi sempre più la “scapestraggine” e rinfocoli l’esaltazione della forza bruta15.

Nel 1930 si laurea con una tesi sul ruolo politico della borghesia, tra il giuridico e lo storiografico, discutendola, appunto, con Gioele Solari. Subito dopo, Livio sarà dispensato dal servizio militare, quale primogenito di madre vedova16. Di non aver fatto l’ufficiale avrà occasione di dolersi più tardi, durante la guerra partigiana, in una lettera a Giorgio Agosti17.

La professione di avvocato e il matrimonio Livio non perde tempo, ha fretta di rendersi indipendente economicamente e si dedica con passione alla lettura mentre è alla ricerca di un lavoro che troverà presso lo studio cuneese dell’avvocato Rosario Romeo. Questa prima esperienza (insieme alla sua apprezzabile attività di alpinista) pone sotto gli occhi del ristretto mondo dell’avvocatura cuneese il praticante procuratore legale, tant’è che il senatore di fresca nomina Tancredi Galimberti gli invia con dedica due suoi discorsi: «Omaggio all’ottimo giovane dottor Bianco poiché si ricordi di T. Galimberti»18. Ben presto, tuttavia, viene notato dall’avvocato Federico d’Invrea che, con la malleveria del professor Gioele Solari, gli permette di entrare in uno studio torinese già prestigioso, quello di Manlio Brosio. In quel periodo Livio pensa anche ad altre possibilità, come quella di dedicarsi alla carriera universitaria, o alla magistratura, per la quale infatti sostiene, nel dicembre 1932, il concorso scritto superandolo brillantemente. Avendo però trovato una collocazione nello studio Brosio e superati altrettanto brillantemente gli esami di procuratore legale, rinuncia a sostenere l’esame orale. In quello studio non apprende soltanto la professione avvocatizia. Brosio vive profondamente la cultura e la politica del proprio tempo. Ha conosciuto e conosce scrittori contemporanei e politici del prefascismo e della corrente gobettiana. Ha una vastissima cerchia di relazioni. Di Piero Gobetti è stato collaboratore a Rivoluzione liberale. Egli stesso è un liberal-democratico, un liberale radicale, un antifascista. In quell’ambiente Livio può imparare molto, distinguere, conoscere un mondo di cui ignora fino ad allora l’esistenza e la radice etica, anche se per il momento non emergono particolari prese di coscienza, né tantomeno esplicite manifestazioni di schieramento. Compaiono nella sua libreria altri volumi19 che indicano un cambiamento, una maturazione in corso, e la presenza, nella sua vita, di nuove amicizie. Giorgio Agosti gli manda un suo lavoro del periodo universitario (1930) con la dedica: «All’amico Bianco, col rimpianto di non averlo conosciuto in quegli

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anni più sereni. Giorgio Agosti, luglio ‘40»20. Livio continua a coltivare i suoi interessi letterari - «con una spiccata predilezione per il Tolstoj di Guerra e pace e per lo Svevo de La Coscienza di Zeno»21 - e la cultura giuridica con uno scrupolo che sarà sempre la sua caratteristica. Pubblicherà, su indicazione del maestro, che stima moltissimo le sue capacità intellettuali, le prime collaborazioni alle più importanti riviste di diritto nel “suo stile semplice e scarno”, e frequenterà nei fine settimana i suoi amici alpinisti. Lo studio di Brosio è frequentato da avvocati e magistrati non certo proni al regime fascista. Tra i giovani magistrati incontra qui i fratelli Alessandro e Carlo Galante Garrone e Giorgio Agosti. Dice Sandro Galante Garrone: «Nello studio professionale di Manlio Brosio [...] Livio diede ben presto a noi giudici la misura del suo valore [...]. Lo ammiravo, ma ancora da lontano. La nostra grande amicizia nacque fulminea nella primavera del 1940. Lo avevo incontrato, a pochi passi dal suo studio di Corso Siccardi, e ci fermammo a discorrere. Fu uno di quei colloqui decisivi, rivelatori, che talvolta avvenivano negli anni del fascismo [...] quando, già sapendo o intuendo qualcosa l’uno dell’altro, su dati esili ma sicuri, ci si lasciava andare alla confidenza, e d’un tratto ci si scopriva con gioia affratellati dagli stessi sentimenti e pensieri. Da pochi giorni, le armate naziste avevano invaso il Belgio, l’Olanda, la Francia. Per tutti noi, era un momento terribile; [...]. In quell’ora buia, quel colloquio fu un sollievo, ci fece sentire meno soli. Ne parlai subito a mio fratello Carlo, all’amico Giorgio Agosti. Così sorse fra noi un’amicizia di ferro: fatta anche, in quei giorni tristi e ansiosi, e nei mesi e negli anni che seguirono fino alla Resistenza, di felici abbandoni (allietati anche dalla presenza di Pinella, la straordinaria moglie di Livio), a Torino come a Sambuy e a Valdieri, ma soprattutto di una solidarietà di fondo, che sarebbe durata, senza incrinature, sino alla fine22.

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“Pinella”, cioè Giuseppina Felicita Maria, è la sorella di Gigi Ventre, un altro alpinista fin dai tempi del SARI, e Livio l’ha probabilmente conosciuta durante una gita in montagna. Pinella, nata il 30 settembre 1910 a Cuneo, dove risiede, è figlia di un negoziante di maioliche, Felice Secondo, e di Francesca Fantino. Sposerà Livio il 25 gennaio 1937 e insieme andranno a vivere a Torino, al numero 45 di via Peyron23.

Alberto: gli studi e le scelte Alberto, il fratello di otto anni più giovane, deve molto della sua educazione scolastica allo zio della madre, il prete scolopio. E’ nei collegi di Savona, prima, e di Alassio, poi, che inizia il suo curriculum di studi, dalle elementari al liceo. Alberto vive gli anni dell’infanzia e della giovinezza in Liguria più che a Valdieri. Anche in lui c’è la passione per la montagna, ma ben meno categorica che in Livio. Nel 1935 consegue la maturità classica al Regio Liceo “Mazzini” di Genova e nel novembre si iscrive alla Facoltà di Veterinaria dell’Università di Torino, dove si laurea a pieni voti il 13 luglio 1939. Chiamato alle armi frequenta il corso allievi ufficiali e, ottenuto il grado di sottotenente, viene aggregato in qualità di veterinario al battaglione Fenestrelle del 3° reggimento alpini della Divisione Taurinense. E’ in questo periodo che conosce Alda Frascarolo, dipolomata

Collegio salesiano frequentato da Alberto negli anni Venti


maestra, ma impiegata presso il Consorzio Trebbiatori. Partecipa alla breve guerra sul fronte occidentale e poi, negli anni 1941-42, alle operazioni belliche in Montenegro, da dove rientra nel marzo 1943. Alberto vive a casa del fratello a Torino e ha occasione di apprendere i primi rudimenti della politica, dell’antifascismo e di conoscere gli amici di Livio. L’8 settembre 1943 si trova a Torino, provvisoriamente assegnato al Reggimento Nizza Cavalleria della Divisione Celere E.F.T.F., quale ufficiale dell’infermeria cavalli. Assiste alla cattura di tutto il reggimento da parte dei tedeschi, cui riesce a sottrarsi, e si rifugia per qualche tempo presso la famiglia della fidanzata sfollata a Bra. Nel 1942 si è praticamente esaurito il periodo di “preparazione” di Livio - «preparazione nella serietà degli impegni, nel vigore dello studio e della professione, nell’apprendimento e nelle scelte degli ideali»24 iniziato con il suo trasferimento a Torino e intensificatosi con la frequentazione di molti personaggi dell’antifascismo quali Giorgio Agosti, Alessandro e Carlo Galante Garrone. «Era un ambiente piacevolmente familiare quello in cui si ritrovavano. La casa di Livio a Valdieri, ovviamente la villa di Brosio a Sambuy; poi in via Fabbro, da Ada Gobetti, la moglie di Piero, la casa dei fratelli Sandro e Carlo Galante Garrone... Erano gite in montagna, pranzi conviviali, qualche ballo; lentamente trasmutarono in riunioni politiche»25. Il 30 settembre 1942 Livio viene chiamato alle armi nel Battaglione Susa del 3° Reggimento Alpini, ma ben presto, a causa di una colite spastica che gli darà poi molto fastidio nella guerra partigiana e di una lussazione dell’articolazione scapolo-omerale destra, “mal ridotta”, otterrà il congedo definitivo26. 23 Nel 1942-1943 Torino aveva assunto le spettrali sembianze della città bombardata e “sfollata”. La guerra irrompeva in una sua irripetibile quotidianità, con la vita della gente come sospesa tra la eccezionalità degli eventi distruttivi e la normalità di un progressivo adeguarsi alle esigenze e ai bisogni della sopravvivenza. Fu in questo scenario che Giorgio [Agosti] e Livio incontrarono la politica, quella vera. E per entrambi fu il Partito d’Azione. Non vi fu soluzione di continuità tra il loro essere amici e la loro comune scelta partitica. L’azionismo fu solo la sanzione di un rapporto sviluppatosi e consolidatosi nel tepore degli affetti profondi. A subire il cambiamento più vistoso fu il “tempo” della loro amicizia. La politica e la guerra vi imposero una brusca accelerazione; tutto si fece più rapido e più intenso, anche la loro conoscenza reciproca. Quando arrivò il momento, l’8 settembre 1943, sapevano tutto l’uno dell’altro e per questo erano totalmente amici27.

Nel novembre 1942 iniziano pesanti bombardamenti su Torino. Sfollano centinaia di migliaia di persone. Livio e Pinella con molti altri amici vengono ospitati a Reaglie nella villa di Nilde Vintani e Ostilio Granatelli28. Nella frazione alle falde della collina torinese si è al sicuro e al contempo vicini a Torino, dove si torna ogni giorno per lavoro. Da lì si vedono, soprattutto di notte, i tremendi bombardamenti sulla città, durante i quali tutti gli ospiti dei Granatelli osservano il terrificante spettacolo. Poi partono con la Topolino di Ostilio per andare a constatare i danni. Una volta trovano la loro casa di Corso Tassoni incendiata dagli spezzoni lanciati dagli aerei e aiutano a spegnere il fuoco portando l’acqua con i secchi dal piano terreno. Ostilio cattura per le scale un ladro che è entrato in casa e sta andandosene con una scatola d’argento sotto il braccio: lo ferma e gli dà qualche ceffone. A Reaglie, a godere di quella generosa ospitalità ci sono molte persone (arriveranno ad essere addirittura cinquantadue), accampate alla meno peggio, anzi ammucchiate nelle varie stanze, tante famiglie, quasi tutte


vicine di casa in Corso Tassoni, tutti amici e bambini all’incirca della stessa età. C’è una mensa comune e ognuno contribuisce con i generi alimentari che può procurarsi. Il dottor Dessy, che è lì con la moglie e i figli Maria Luisa “Cioni”29 e Paolo, è un medico dipartimentale per il Piemonte e la Liguria. Viaggia molto per ispezionare gli ospedali e ha numerose occasioni di procurarsi il burro e la carne, generi rari. Inoltre c’è l’orto con i suoi prodotti. Un piatto che piace ai bambini è fatto di patate condite con il burro. Livio e Pinella conoscono bene Nilde, cuneese, e fin dall’infanzia amica del cuore di Pinella, oltre che vicina di casa e coetanea. Pinella, sempre elegante, è allegra, estroversa e dolce; Livio invece appare burbero, può sembrare un orso. In realtà, forse perchè non ha figli, è molto tenero con i piccoli e ha un grande ascendente su di loro. Le bambine, in particolare, gli sono affezionate, cercano la sua approvazione nelle cose che fanno. Livio è contento che leggano e alla figlia dei Granatelli regala Il cucciolo, di Marjore Kinnan Rawlings. Già alle elementari lei riesce bene in italiano e lui se ne rallegra. Lei tiene ai suoi complimenti: «Come hai scritto bene...».

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A volte a Reaglie arriva anche Alberto Bianco, che è ora militare a Torino. Tutti gli ospiti dei Granatelli, poi, sono in qualche modo coinvolti nell’antifascismo, e in quella casa spesso si ammucchiano materiali di propaganda. Così, quando giunge l’8 settembre e Livio sale in montagna per diventare partigiano, la solidarietà cresce e ognuno si sente in dovere di fare qualcosa. C’è in tutti la perfetta consapevolezza dell’attività di Livio e Pinella che, pur diventata staffetta tra Torino e la montagna, continua a risiedere per qualche tempo nel bel rifugio di Reaglie. Anche Alda Frascarolo, la fidanzata di Alberto, a sua volta staffetta partigiana, ha fatto sua quella base, dal momento che ha all’incirca gli stessi compiti di Pinella.

Venti mesi di guerra partigiana: Livio, Alberto, Pinella e Alda In effetti, il fermo convincimento antifascista di Livio, che lo porta ad aderire al Partito d’Azione fin dalla sua fondazione nel 1942, contagia tutti, famigliari e amici. I continui scambi di opinione di quel periodo con Giorgio Agosti, i fratelli Galante Garrone, Franco Venturi e molti altri, fanno sì che il gruppo torinese sia perfettamente informato degli avvenimenti e possa valutare le scelte da farsi. Se al 25 luglio 1943 e alla caduta del regime fascista può ancora esserci sorpresa, la proclamazione dell’armistizio con gli alleati udita dalla voce di Pietro Badoglio alle ore 19,30 dell’8 settembre, non coglie impreparati gli aderenti al Partito d’Azione. Anzi, già il 26 luglio il discorso tenuto da Duccio Galimberti dal balcone di casa alla folla riunita nella piazza principale di Cuneo30 dimostra la chiarezza di idee degli aderenti al Partito e la decisione di iniziare la lotta armata contro fascisti e tedeschi, dopo aver invano chiesto l’arruolamento nelle truppe alpine a condizione che si apprestino a resistere all’occupazione germanica.

Pinella e Nilde Granatelli.


Scrive Nuto Revelli: «Malgrado tutto credono ancora nell’esercito, in un esercito che non esiste più. Due volte Livio e Duccio si umiliano di fronte al comandante militare della Zona, all’unico generale ancora reperibile, ancora in divisa. Non riescono a concepire che migliaia di soldati, che centinaia di ufficiali si disperdano senza piazzare una mitragliatrice, senza sparare un colpo»31. Sta di fatto che, mentre il comandante della 4ª Armata, generale Mario Vercellino, scioglie a Caraglio il suo esercito, un gruppo di antifascisti lascia Cuneo per andare a formare la prima banda partigiana, recandosi inizialmente a Valdieri, a casa Bianco e, di lì, il giorno dopo, a Madonna del Colletto. E’ il 12 settembre 1943 e, quasi in contemporanea, entrano a Cuneo le avanguardie tedesche della divisione SS Leibstandarte “Adolf Hitler”, dopo aver occupato praticamente l’intera provincia. A Madonna del Colletto salgono in dodici: oltre a Livio Bianco ci sono Enzo e Riccardo Cavaglion, Arturo Felici, Leonardo Ferrero, Duccio Galimberti, Dino Giacosa, Ugo Rapisarda, Leandro Scamuzzi, Edoardo Soria, Giancarlo Spirolazzi, Ildo Vivanti. La banda si chiama “Italia Libera” e diventa il nucleo formativo delle divisioni di “Giustizia e Libertà” nel Cuneese, insieme a un altro gruppo che negli stessi giorni, con Detto Dalmastro, si porta in Valle Grana. Anche Alberto raggiunge “Italia Libera”, il 29 novembre, nel distaccamento del Monte Tamone. E’ Alda a fungere da collegamento con la famiglia Bianco a Valdieri, dove si reca in bicicletta da Bra. Il 27 dicembre, avviene il fidanzamento ufficiale tra Alda e Alberto. Pinella e Alda diventano da subito le indomite e spericolate staffette tra il comando GL di Torino e le formazioni partigiane nelle valli cuneesi e poi nelle Langhe. Pinella è già presente quando si forma la banda a villa Bianco, dove arrivano provviste e armi che devono essere trasferite al Colletto. «Come base partigiana Madonna del Colletto (quota 1305) appare subito insicura, vulnerabilissima. Ma offre un vantaggio immediato che ne compensa i rischi. Livio è valdierese, con le radici ben piantate nella sua valle. Conosce tutto e tutti, così la diffidenza contadina non ha ragione di essere e la banda può muoversi subito in un ambiente amico»32. Il 19 settembre Joachim Peiper, il comandante del battaglione delle SS giunto a Cuneo, tenta di

Madonna del Colletto

stroncare sul nascere l’organizzazione degli ex sbandati dislocati nella valle Colla, punire la popolazione di Boves con una strage esemplare che diventi un monito. Il bilancio della giornata è tragico: ventisette [in realtà ventitré] i civili morti, donne e uomini, quasi tutti vecchi; trecentocinquanta le case incendiate, distrutte. Il raggruppamento della Valle Colla, sconvolto, si ridimensiona: con Ignazio Vian restano i migliori. Comincia un’epoca nuova. Sono finiti i giorni dello “sbandamento”, delle illusioni, delle speranze in una pace imminente. Comincia la guerra vera. Il giorno 20 la Banda “Italia Libera” abbandona Madonna del Colletto e raggiunge Paralup, nella bassa Valle Stura. La nuova base, sette povere baite a quota 1361, appare sicura. Ma sono i problemi logistici che adesso non trovano una soluzione pratica. La zona è poverissima, nel Vallone di Rittana il proprietario di due vacche è già un contadino ricco.

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Sul finire di ottobre la sistemazione definitiva a San Matteo (quota 1014), nella bassa Valle Grana. Poco lontano, ai Damiani, è in fase di costituzione la banda di Detto Dalmastro. I due gruppi, che hanno la stessa matrice politica, pur restando autonomi si aiutano a vicenda33.

Il 14 novembre la banda “Italia Libera” si dà un comando collegiale: Duccio Galimberti, primus inter pares, Livio Bianco, Leo Scamuzzi; comandante militare Aldo Sacchetti, sottotenente di complemento arrivato con lo sbandamento della 4ª Armata dalla Francia. Mentre Duccio e Leo sono ormai ben noti negli ambienti antifascisti e “per chiara fama” ottengono quel riconoscimento, Livio è rimasto finora nell’ombra, non ha ancora avuto modo di mettersi alla prova se non dopo l’8 settembre. Evidentemente sono bastati quei due mesi per evidenziarne la figura di grande organizzatore, di uomo pratico che sa passare dalla solida preparazione ideologica all’azione. Leo Scamuzzi, che lo frequenta in quei primi mesi di partigianato dirà: «Livio era un uomo di grande intelligenza, carattere piuttosto introverso, incapace di grandi slanci esteriori, ma di fede ardente e sicura. Aveva orrore delle manifestazioni esteriori»34.

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Livio ha un temperamento riflessivo - aggiunge Nuto Revelli -, è un uomo forte ma discreto, timido. In questo periodo, in cui si costruiscono le strutture portanti della banda, Livio svolge un lavoro di tessitura non appariscente ma preziosissimo. Tra il 5 e il 10 novembre è a Torino, dove incontra gli amici Giorgio Agosti, Sandro Galante Garrone, Mario Andreis, Giuseppe Manfredini, e altri del Partito d’Azione. Il giorno 11 è al Tamone e a Paralup. L’indomani raggiunge i Damiani per “prendere accordi con Detto”. Il giorno 13 scende a San Rocco di Bernezzo per “prendere accordi con Revelli, Dalmazzo, Delfino”. “Lunga discussione, -scrive Livio-. Si tratta di militari senza alcuna idea politica. Speriamo però di averli smossi dal loro atteggiamento”. E’ questo il ritmo del diario [di Livio], un succedersi continuo di lunghe sgambate in montagna, di rapide puntate in pianura, di incontri, discussioni, mediazioni difficili. Livio dà sempre per scontato l’ambiente in cui si muove: nel diario non parla mai della fatica, non dice che sei ore di mulattiera separano San Matteo da Valdieri; non parla mai del rischio, non dice che ogni puntata a Cuneo o a Torino potrebbe concludersi a Mauthausen o in paradiso. Ma quando ricorda Pinella si tradisce: allora ogni parola del diario nasconde la commozione, l’ammirazione profonda, l’ansia di Livio35.

Dopo svariate azioni per rifornire la banda di armi e munizioni, dopo i colpi per sfamare i sessanta uomini in montagna, vestirli e calzarli nella stagione più difficile, la prima vera azione militare, (se si escludono diversi tentativi sfumati di portare l’attacco ai fascisti e ai tedeschi) si materializza con il rastrellamento alla banda “Italia Libera” il 12 e 13 gennaio 1944. Tutte le formazioni coinvolte in quel ciclo di rastrellamenti tra lo fine del 43 e l’inizio del 1944 hanno subito durissimi colpi e alcune si sono sfasciate. Lo schieramento partigiano [di “Italia Libera”] resiste, e dopo una giornata di sparatorie i tedeschi devono ripiegare sulle basi di partenza. L’indomani alle ore 10 i tedeschi riprendono l’attacco. Ma ancora una volta la manovra di accerchiamento fallisce: la battaglia diventa episodica, si spegne. La Banda “Italia Libera”, quasi intatta, ripiega verso la Valle Stura [...]36.

Le perdite ammontano a un morto, cinque feriti e due dispersi. Seriamente ferito a una gamba è Duccio Galimberti che, d’ora in avanti, dovrà essere curato lontano dalla montagna e diventerà poi, a Torino, comandante delle GL in seno al Comando militare regionale piemontese. Livio fa tesoro di quelle esperienze e si convince sempre più che, nella guerriglia, tecnica militare e politicizzazione devono andare di pari passo. Chiede ai suoi uomini, con un giuramenteo, di: «[...] servire


nella Banda Italia Libera, promossa dal Partito d’Azione e inquadrata nel Comitato di Liberazione Nazionale, per partecipare attivamente alla lotta contro i tedeschi e i fascisti e perseguire la realizzazione degli ideali di giustizia sociale e libertà democratica. [...]» 37. E’ finito il periodo “romantico” del partigianato, quello dei volontari politicizzati delle prime bande; ora arrivano a frotte giovani che sfuggono ai bandi di arruolamento fascisti. Ora non c’è più Duccio. Leo Scamuzzi si trasferisce in Valle Maira con il gruppo di Detto Dalmastro. Livio assume la carica di “commissario politico” del settore, dopo che la banda “Italia Libera” si è notevolmente accresciuta e ha generato altre bande: in Valle Gesso, ai Fortini di Demonte in Valle Stura e, sempre in Valle Stura, la IV Banda nel Vallone dell’Arma. Quest’ultima, con una ottantina di uomini, è comandata da Nuto Revelli, ufficiale effettivo, uno di quei “militari senza alcuna idea politica” che Livio aveva ripetutamente incontrato e poi convinto, con la forza delle sue idee e la sua passione: «Ho chiesto a Livio - dirà Nuto Revelli - di far parte della banda Italia Libera: ho scelto. Ero incerto, non volevo piegarmi: non volevo riconoscere che i “politici” sono migliori dei “militari”. Livio ha accolto con un sorriso aperto la mia confessione»38. E’ uno dei capolavori dialettici e strategici di Livio Bianco, l’abbinamento con cui comincia a unire le competenze militari alla consapevolezza politica, alla sia pur “rudimentale coscienza delle vere ragioni e finalità della lotta partigiana”, per superare un “antifascismo che era ancor soltanto vergogna del passato, ribellione, rabbia”. Lo sforzo per fornire qualche idea, non dico politica, ma almeno di moralità, di consapevolezza, ai giovani arrivati in banda, insieme ai quotidiani problemi di sostentamento, di vestiario e militari, richiede energie sovrumane. Ottime le tue istruzioni ai comandi di banda - gli scrive Giorgio Agosti il 4 aprile 1944 -. Lascia che te lo dica, ma sei il commissario politico ideale, perché alla convinzione ideologica associ quel sano realismo piemontese [...]. Cioè, capisci che in molti casi sono più importanti le scarpe che le conferenze politiche, vivi con gli uomini e li segui, non li secchi con imposizioni che non possono sentire, ma li impegni su un piano morale - accessibile a tutti gli uomini di buona volontà - più che su un piano ideologico, di necessità precluso a molti [...]39.

Un commissario politico, un comandante di banda, due staffette All’educazione politica dei partigiani può anche giovare l’invenzione di una semplice canzone, proprio come accade, nel vivo di un rastrellamento, in un bivacco alle Grange di Narbona, il 26 aprile 1944, quando, appunto, tra scherzi e risate,viene creata La Badoglieide40. E’ Livio che mette il sale della politica in ogni strofa - scrive Nuto Revelli -: quando Livio si scatena non ci sono santi che tengano, coinvolge tutti con la sua allegria, con la sua gioia di vivere.

Intanto Ezio Aceto, altro ufficiale effettivo che sì è costruito fama di soldato esperto quale “colpista” nella banda di Boves, attivissima nei

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mesi del 1943, diventa comandante militare del settore. Ma è evidente che a tenere in mano il bandolo di tutta la matassa è Livio Bianco, il quale - in quel periodo - segue in particolare l’operato del comandante della IV Banda, stabilendosi presso la stessa, dove opera come vice di Nuto Revelli suo fratello Alberto. Di lì a poco, il 17 aprile, Alberto è promosso comandante di una nuova Banda, la V, che va ad occupare l’alta Valle Grana. E’ in quei mesi della primavera del 1944 che Livio matura una perfetta cognizione di ciò che deve essere sia un comandante militare che un commissario politico partigiano. Ammira Aceto «intelligente, aperto, sensibile, portato a sinistra, convinto della necessità di una gran rivoluzione con stangata di morti»41; ammira le interruzioni stradali da lui messe in atto in vista di un annunciato rastrellamento. Dopo il rastrellamento di fine aprile nelle valli Stura e Grana si convince che la guerra partigiana è dei piccoli nuclei, mobili, preparati, che non si accontentano però dei colpi e dei sabotaggi, ma che affrontano in modo ravvicinato il nemico con i loro comandanti alla testa. Infatti esprime apertamente all’amico Giorgio:

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[...] io non ho la minima intenzione di stare indietro, e di fare l’alto comando. Mi piace enormemente degradare a semplice fuciliere, e nessun maggior piacere potrebbe esserci che quello di sentir cantare il mio Thompson su qualche bel bersaglio nazi-fascista. E’ inutile che tu cerchi di convincermi: devi anche renderti conto delle ragioni personali che mi hanno spinto ad abbracciare la carriera delle armi in quel lontano 12 settembre, ragioni che persistono sempre e che mi impediscono di mettermi a fare il semplice “politico” cioè il civile al seguito delle forze armate. Del resto, te lo confesso, rimpiango vivamente di non aver fatto, a suo tempo, l’ufficiale, e di non possedere cognizioni militari: perché la cosa più bella è fare il comandante militare, è aver comando di uomini, attività questa che mi è preclusa appunto per la mia ignoranza ed inesperienza in materia.42

Nel suo diario annota, a proposito del brillante superamento del rastrellamento di aprile della IV Banda: credo che buona parte del successo vada ascritta alla naia che colla mia approvazione per non dire su mia iniziativa è stata introdotta nelle nostre formazioni. Dato il materiale umano di cui disponiamo (che in massima parte è formato da volontari per modo di dire), la disciplina strettamente militare è una inderogabile necessità: solo così si ottiene l’organicità e l’efficienza dei reparti, che possono operare (come ho visto io con i miei occhi) in modo ordinato e sicuro. Altrimenti, si finisce senza fallo nel caos.

Scrive poi: Questi nove mesi di partigianato mi avranno servito, non foss’altro, a conoscere gli uomini, ed a convincermi come basta metterne insieme due o tre per trovarsi di fronte una mala bestia. [...] anche qui ci sono ogni giorno piccole grane, difficoltà, attriti, ed io debbo essere continuamente teso ad appianare qui, ad intervenire lì, a mollare da un’altra parte.43

Anche Alberto si è ben comportato nel rastrellamento di aprile alla testa della appena costituita sua V Banda, la quale da quel momento si sviluppa e diventa la Brigata Valle Grana “Paolo Braccini”. Pradleves si trasforma in una capitale partigiana dove confluiscono i comandi

Alberto a Cauri (Pradleves). Autunno 1944.


non soltanto GL, dove risiederà di lì a qualche mese il “comando zona” con i rappresentanti anche dei garibaldini e degli autonomi “Rinnovamento”, dove faranno la spola da Torino le staffette, in particolare Pinella e Alda, ma anche Franco Venturi, Sandro e Carlo Galante Garrone. Scrive Giorgio Agosti a Livio, il 16 maggio 1944: Per fortuna che ci è rimasta quell’angelo che è Pinella: se abbiamo ancora un casa, una tavola alla quale passare un’ora di distensione lo dobbiamo proprio a lei; e questo non è che una minima parte del lavoro che fa per noi. Quello che ammiro in Pinella è quel suo saper essere così profondamente e umanamente donna, la sua comprensione per le pene e le preoccupazioni di tutti, e insieme il suo distacco così naturale e generoso dai legami con le cose, che le donne in genere sentono più di noi. La minaccia sulla vostra casa [la casa di Valdieri, saccheggiata dai tedeschi] (che dà un dolore grande anche a me: ti ricordi la mia prima visita lassù, ancora nella tua topo?), la perdita di tante cose sue, il non avere più un ambiente, una vita sua, ne parla come di episodi senza importanza di fronte alla tragedia generale; e solo si preoccupa di non fare abbastanza per noi, per te, e si illumina tutta quando ci mette dinanzi i risultati di qualcuna delle sue manovre...logistiche o finanziarie, condotte colla solita impudente disinvoltura e col suo tatto straordinario. Ma, diavolo, stasera altro che relazione! Ti sto facendo una mezza dichiarazione sul conto di Pinella, altro che! E dovrei, per debito di coscienza, aggiungerne un’altra sul conto di Alda, per la quale farai i miei più vivi complimenti ad Alberto44.

Alda nel giorno del suo matrimonio. Pradleves, 1 gennaio 1945.

Non passa molto tempo che le due staffette sono identificate. Corrono un brutto rischio, ma se la cavano appunto con la loro “impudente disinvoltura” e un momentaneo appartarsi dalla lotta. Livio scrive a Giorgio Agosti il 25 luglio 1944: «Prima di decidere [come utilizzare Pinella], pensateci bene, ponderate bene tutti i pro e i contro: e, sempre compatibilmente con i desideri di Pinella e colle esigenze sacrosante della causa, cercate solo di non lasciare che vada allo sbaraglio. Il suo temperamento generoso potrebbe anche portarla a far delle sciocchezze»45. Le due staffette sono alle dirette dipendenze di Giorgio Agosti, che è il commissario politico regionale delle Formazioni G.L. Collegano, in genere, Torino con le valli cuneesi, Agosti con Livio, due volte la settimana. Viaggiano in treno fino a Cuneo e poi in bicicletta salgono a Valdieri, o a Demonte, o a Pradleves. Giorgio Agosti, «un grand’uomo - dice Alda - una figura decisa, energica, che non faceva complimenti: “tu fai questo, tu fai quello”», le nasconde in una clinica a Torino. La clinica è piena di ebrei e qualcuno avvisa che ci sarebbe stata un’irruzione. Devono scappare. «Giorgio ci fa tingere i capelli» continua Alda. «Io divento bruna come l’ebano, Pinella color castano». Mentre Pinella viene nascosta a casa di Barbara Allason, sulla collina torinese, Alda torna in famiglia a Bra. A poco a poco riprendono i collegamenti. L’estate è una nuova epoca partigiana, tutto è cambiato dalla primavera: il bando del 25 maggio per la presentazione dei giovani alla RSI, la liberazione di Roma e lo sbarco in Normandia portano in montagna frotte di nuovi partigiani, cinquecento solo nella Valle Stura. E le valli sono ora occupate dai partigiani che devono anche accollarsi l’amministrazione civile. Come se non bastasse, vengono a galla i personalismi e i fraintendimenti sulla “militarizzazione”. Anche per qualche quadro partigiano tutto ciò significa gradi,

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burocrazia. E’ il caso di un ufficiale al quale era stata data incondizionata fiducia e conferito il comando militare, i cui atteggiamenti giungono fino al limite di una sedizione. Livio Bianco, sorretto solo da una inesausta forza di volontà, affronta ogni problema e vi pone un rimedio: rivoluziona i comandi delle formazioni divenuti ormai brigate e divisioni, inventa i nuovi quadri partigiani, si occupa dei rapporti con le formazioni autonome e garibaldine, segue le prospettive internazionali dopo gli accordi del Saretto con i francesi del maquis e gli ufficiali alleati distaccati presso la brigata Valle Stura “Carlo Rosselli”.

Con la Brigata “Rosselli” in Francia

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La speranza che tutto possa finire entro poco tempo provoca euforia, ma l’atteso sbarco americano, che avviene in Provenza il 15 agosto 1944, non porta la fine della guerra, anzi la inasprisce. Il 17 la brigata Valle Stura “C. Rosselli” è investita dall’attacco della 90ª Divisione corazzata tedesca che deve evitare lo “screstare” degli alleati al di qua delle Alpi. Per oltre una settimana la brigata, comandata da Nuto Revelli con a fianco Livio Bianco, vive uno dei momenti più drammatici, ma allo stesso tempo più epici della guerra partigiana: resiste all’attacco e assume tutte quelle decisioni fondamentali per la sua sopravvivenza, con la coscienza di giocare un ruolo nello scacchiere più vasto della guerra agendo i suoi comandi come un vero e proprio Stato Maggiore. Poi è costretta a sconfinare e diventa parte integrante del nuovo fronte alpino nella Francia liberata. Livio la segue e si assume tutti gli oneri di una difficile difesa dalle intenzioni dei francesi (che vogliono internarla) per mantenerla autonoma, per non lasciarla disarmare o inserire nei battaglioni stranieri, per rivendicare la dignità di alleati in mezzo alle truppe e ai comandi “degollisti”, americani e inglesi. «I problemi che in casa nostra erano difficili - scrive Nuto Revelli -, in Francia sono drammatici. Far vivere duecentocinquanta uomini in valli povere come la Tinée e la Vésubie è infatti impossibile. Nella Francia appena liberata la restaurazione è già in atto. All’Hotel Atlantic di Nizza, sede del comando francese, imperversano gli ufficiali di carriera. Gli accordi di Saretto sono lettera morta. Chiediamo soltanto di combattere, ma la strada dell’internamento è l’unica che i francesi ci aprono volentieri»46.

Il 10 ottobre Livio Bianco, con il comandante militare della I Divisione GL Ettore Rosa e i rispettivi porta ordini, Domenico Lovera e Ilario Berutti, rientra in Italia con una marcia pericolosissima attraverso le linee tedesche in tre tappe forzate: la prima di ben cinquantanove ore consecutive per giungere in Valle Roja, e altre due di dodici per giungere in Valle Gesso e di quindici ore per affacciarsi finalmente alla Valle Grana. A Pradleves, in valle Grana appunto, è rimasto il perno della I Divisione, incardinato sulla Brigata “Paolo Braccini”47 comandata da Alberto Bianco, il quale ha supplito per quasi due mesi all’assenza dei comandi sospinti in Francia, ha tenuto in piedi lo schieramento giellista e la rete di contatti con il Comando militare regionale.

Da sinistra: il capitano Flygt, Ettore Rosa, Livio Bianco. Belvédère. Val Vésubie settembre 1944


D’altra parte la sua assenza - scrive di Livio Nuto Revelli - ha fatto capire fino in fondo il valore della sua persona. In pochi giorni si impadronisce della nuova situazione e riprende la leadership del partigianato cuneese. La sua autorità è fuori discussione. Non ha bisogno di gradi. Non ne ha mai portati. I suoi gradi sono l’illimitata capacità di lavoro, la fermezza che non ammette cedimenti, la perfetta conoscenza dei problemi, l’intelligenza, l’impegno, il rigore per risolverli. Non vive alla giornata: cerca sempre di inserire le sue decisioni nel più ampio contesto e nella prospettiva in cui si collocano48.

Al ritorno - grazie alla sua fine capacità di osservatore e di politico - Livio porta nuove esperienze sulla guerra e sul dopoguerra in Francia, qualcosa che preconizza il postliberazione in Italia e da cui le GL e il Partito d’Azione devono trarre insegnamenti e guardarsi. Le sue lettere-relazioni di quei giorni a Giorgio Agosti sono, in questo senso, documenti diplomatici e politici esemplari di un commissario partigiano49.

Alberto comandante di divisione nelle Langhe

Documento di identità falso appartenuto a Livio Bianco.

La situazione della lotta in Piemonte e in provincia è ancora una volta del tutto mutata, non solo per l’esaurirsi della spinta offensiva alleata nell’Italia dopo la liberazione della Toscana, ma anche per il concentrarsi nelle nostre valli di imponenti forze tedesche e fasciste, con l’arrivo, per queste ultime, delle quattro divisioni “coscritte” della RSI addestrate in Germania. In provincia vengono dislocati la Divisione Littorio al completo, alcuni battaglioni della Monterosa e, sul confine con la Liguria, cospicui reparti della San Marco. Le valli cuneesi sono bloccate al loro sbocco in pianura e le formazioni partigiane imbottigliate in zone poverissime di risorse durante un inverno che fin dall’inizio si rivela rigido e carico di neve. Da questa impasse, da questo cul de sac, si esce grazie a una brillante idea del commissario politico regionale delle GL Giorgio Agosti50, ma anche attraverso la capacità organizzativa di Livio di cui dà prova realizzando la “pianurizzazione” delle formazioni di montagna, sgravandole di bocche da sfamare e di uomini da calzare. Infatti, interi reparti della I e II Divisione GL, particolarmente quelli più esposti e in posizione più disagiata, vengono fatti filtrare tra le maglie nemiche per costituire nelle Langhe due nuove divisioni: la III, tra Monforte e Somano, comandata da Alberto Bianco, e la X, al confine con la provincia di Asti comandata da Raimondo Paglieri. Alberto, dunque, è promosso da comandante di brigata a comandante di divisione, ma rimpiangerà la rude realtà montanara lasciata per impadronirsi di un nuovo ambiente, più ricco di risorse alimentari, ma più infido a causa delle strade che lo percorrono e delle difficoltà relazionali che gli faranno perdere, in quel finale della lotta, tanti uomini. A Pradleves, inoltre, il 1 gennaio 1945 ha sposato Alda Frascarolo. Il 3 dicembre, tuttavia, il partigianato G.L. cuneese e piemontese ha ricevuto il colpo più duro, la perdita umana più difficile da superare e quella politica più problematica da sostituire: l’assassinio, da parte dei fascisti, tra Cuneo e Centallo, di Duccio Galimberti, comandante militare regionale delle formazioni. Da quel momento, la più volte invocata presenza al centro, presso i comandi regionali, di un Livio Bianco

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recalcitrante, diventa indispensabile. A malincuore deve sostituire Duccio nella grande responsabilità. A fine febbraio 1945 Livio è dunque a Torino, in piena vita clandestina, alle prese con un impegno molto diverso da quello desiderato di continuare fino alla fine la vita partigiana sulle sue montagne, con le armi in pugno.

La liberazione

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Livio rende quindi i suoi ultimi preziosi servigi alla lotta partigiana all’interno del Comando Militare Regionale Piemontese, Alberto al comando della III Divisione Giustizia e Libertà, che conduce alla liberazione di Torino. Suo fratello, nel pomeriggio del 25 aprile, gli comunica: «Parti in fretta per Torino, con gruppi bene armati. Portami il Thompson che ho lasciato lassù.» E Alberto, con i suoi partigiani, riesce ad occupare l’Albergo Nazionale, luogo di tortura della polizia nazista, esegue alcune “bonifiche” di cecchini fascisti e fa di Villa Agnelli in corso Massimo d’Azeglio la sede del suo comando con l’ordine tassativo al vecchio senatore di non uscire di casa. E’ rimasto celebre, a questo proposito, l’episodio in cui il senatore Agnelli, smemorato, si presenta alla porta per uscire, e si rivolge alla sentinella quattordicenne: «Permette, senatore Agnelli». Il partigianello risponde: «Piacere, partigiano Cucciolo», mantenendo con cipiglio sicuro il divieto di farlo uscire. Nei giorni seguenti la III Divisione GL deve anche assicurare il controllo delle carceri “Le Nuove”. Pinella e Alda, anche loro partecipi di quelle fasi e poi finalmente smobilitate, si dedicano al soccorso dei partigiani feriti e ammalati ricoverati nelle case di cura. Alda, riprenderà il lavoro nei mesi seguenti, facendo per qualche tempo la maestra elementare a Faule, vicino a Savigliano. Il baricentro della vita dei Bianco torna - dopo la liberazione - a spostarsi a Torino, dove lentamente riprendono i loro impegni abituali: Livio la professione di avvocato, Alberto lavora alla Schiaparelli, industria chimico-farmaceutica, iscrivendosi già dall’autunno 1945 alla facoltà di Giurisprudenza di Torino. Non sembri tuttavia che, deposte le armi, tutto torni all’agognata vita borghese, tra lavoro, amici e dolcezze familiari. I problemi del dopoguerra sono enormi, la stanchezza accumulata tanta. Anche le loro storie personali, per il lavoro abbandonato e per le case saccheggiate, ripartono da zero. L’impegno profuso instancabilmente nella guerra partigiana continua ora nella politica per affermare quella “rivoluzione democratica” tanto auspicata dal Partito d’Azione, una rivoluzione che, confidando in uomini nuovi e onesti, porti una vera rottura con il pre-fascismo. L’obiettivo, innanzitutto, è di costruire la repubblica e, in continuità con la Resistenza, scrivere una nuova costituzione, veramente democratica. Non ci si può tirare indietro di fronte a nulla: Livio accetta di fare il sindaco della giunta comunale popolare di Valdieri, onerosa carica (per lui già così impegnato e lontano dal paese) che ricopre dall’agosto 1945 al 24 marzo 1946, quando si effettuano le prime elezioni amministrative del dopoguerra51.

Edoardo Caramello, il partigiano “Cucciolo”


Repubblica, giustizia, libertà Livio Bianco ha raggiunto una notorietà indiscussa e cresce anche la sua fama di avvocato. Smesso il fucile, col quale la minoranza partigiana ha fatto valere la dignità nazionale e riconquistato la libertà, si tratta ora di passare alla democrazia formale, un terreno insidioso per degli intellettuali preparati e coscienti. Un terreno in cui, sulla ragione, prevalgono gli interessi corporativi, gli egoismi di interi settori della società. Livio vi si impegna con tutta la sua passione, cerca di tenere unite le forze partigiane, si batte perché gli uomini della Resistenza occupino i posti di responsabilità nell’interregno tra la liberazione e le elezioni, perché vengano attuate una seria epurazione e una giustizia in grado di spazzare via ogni “vestigia” di fascismo. Con decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, viene costituita la Consulta Nazionale, che ha come scopo di «dar pareri sui problemi generali» al governo. Livio Bianco vi è nominato in rappresentanza dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI). Come sempre dà il suo contributo lavorando all’interno delle commissioni, ma in quell’assemblea si accentuano le disillusioni sulla possibilità di cambiamento. E se è vero che ha alcuni motivi di affiatamento con personaggi di primo piano dell’antifascismo (come Piero Calamandrei) con i quali si lega sempre più per i comuni ideali e la volontà di salvaguardare la lezione della lotta partigiana, in realtà vi trova anche l’ambiente rispettabile, ma stantio, degli esponenti politici del pre-fascismo, tutt’altro che incline alle rotture, anzi tutto impegnato nella più ostinata continuità. La Consulta inizia i suoi lavori il 25 settembre 1945. Scrive Nuto Revelli: Livio non smobilita, non si arrende. Vive l’esperienza della Consulta, intuisce che si sta ricostruendo l’Italia su fondazioni fasciste. “La situazione generale è gravissima,- scrive Livio,- la nostra democrazia è non solo sulla difensiva, ma in via di ripiegamento, a ritmo vertiginoso: ogni giorno è una posizione che si perde... Dobbiamo stare molto attenti, e tener molto la testa sul collo: senza isterismi polemici, senza diatribe intestine, senza eccessivi scoramenti, senza ripicchi e puntigli. Forse, dovremo ancora vederne delle belle...”. Con Livio parlo spesso delle armi sotterrate. Spareremo soltanto se vincerà, con un colpo di Stato, la monarchia!52

Intanto, nei “Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà” non più clandestini, Livio pubblica Venti mesi di guerra partigiana nel Cuneese, scritto di getto nei giorni immediatamente successivi alla Liberazione, sulla base dei ricordi, dei rapporti da lui inviati ai comandi regionali, del suo diario e delle lettere scambiate con amici e compagni di lotta. C’è «la fretta di fermare subito la straordinaria esperienza vissuta, prima che la nostalgia o il “senno del poi” la deformino con i miti.» I Venti mesi diventano poi libro, pubblicato dal tipografo partigiano Panfilo (Arturo Felici) all’inizio del 1946. Il libro, significativamente, è dedicato «a Pinella, partigiana della I Divisione alpina GL». Questa memoria viva, immediata, finirà per essere uno dei capisaldi della storiografia resistenziale per la sua lucidità e sinteticità, ma è anche un testamento spirituale,

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politico, di rigore morale: Veramente pensiamo talvolta che se Gobetti avesse potuto vedere un reparto di giellisti del Cuneese, perfettamente e modernamente armato, con una preparazione tecnica ed un inquadramento tanto curati, ed al tempo stesso una così profonda coscienza politica, una così spiccata forza morale, un così vigile senso dell’antiretorica, avrebbe provato la stessa ammirazione che provava davanti agli operai della FIAT. C’era anche là in fondo (e chiediamo scusa per le parole grosse che stiamo per dire), quell’insieme di tecnico e umano, di ideale e di pratico, di libertà e di disciplina, di popolare e di eletto, di organizzazione e di spontaneità, che doveva essere il segno della gobettiana rivoluzione liberale, di serietà appunto, e come di puritanesimo: un’avversione marcata per la retorica, un orrore per le parole e per ogni vana esteriorità, un disdegno quasi scontroso per ogni forma di compromesso, per qualunque iniziativa che potesse anche solo gettare un’ombra sulla limpidezza della linea seguita e da seguire53.

Il libro riscuote un successo notevole per la sua stringata e anti-retorica sintesi. Diventa un paradigma di come si vorrebbe sempre descritta la guerra partigiana. Emilio Lussu scrive a Livio il 4 luglio 1946:

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[...] E’ un lavoro magnifico. Per la prima volta, dopo la liberazione, mi trovo ad avere un po’ di tempo e vado leggendo tutto quello che trovo sulla guerra partigiana. Il tuo è uno scritto di straordinario interesse, con quella antiretorica che dovrebbe servire da pedagogia politica a questa Repubblica nascente. Adoprando degli aggettivi, io stesso mi accorgo d’essere in peccato mortale. [...] Mi duole molto che [tu] non sia alla Costituente: anche per Andreis mi duole molto. La democrazia italiana ha bisogno di combattenti della prima ora e non di demagoghi e di imboscati. A una rivoluzione mancata, succede questa Assemblea... Facciamoci coraggio e tiriamo innanzi. [...]54

In una lunga lettera dall’America, con dettagliate osservazioni sui contenuti e sulla politica, anche Gaetano Salvemini saluta i Venti mesi di guerra partigiana come un libro esemplare: E’ proprio un libro secondo il mio gusto. Forma semplice, diretta, senza orpelli, senza flatulenze “patriottiche”, un rapporto di “ordinaria amministrazione”, tanto più efficace quanto meno “letterario”. [...] Da due anni a questa parte io mi sto tormentando perché nessuno ha ancora pubblicato un libro sintetico sul movimento dei partigiani italiani - il più importante tra gli analoghi movimenti europei, su cui la “propaganda” inglese è riuscita a organizzare fuori d’Italia la congiura del silenzio, mentre il Ministero degli esteri ha pubblicato un volume sulle glorie inesistenti dell’esercito regio durante la “guerra di liberazione”. Occorrerebbe che lavori come i tuoi fossero preparati per ciascuna sezione territoriale, in cui il movimento si sviluppò, da Roma in su, definendo con onestà e chiarezza come hai fatto tu, in ciascun settore, il contributo dato al movimento dai diversi gruppi politici, e dalle diverse classi della popolazione, compreso il basso clero e l’alto clero. [...]55

A descrivere la situazione del dopoguerra e del lassismo che riconquista terreno dopo “il tempo del furore” resistenziale è Carlo Levi ne L’orologio, con pagine letterarie di rara efficacia. L’esempio descritto è quello della capitale intesa come luogo della burocrazia e del governo non rinnovati dal “vento del Nord”, insensibili, lontani, nemici:

Tessera di riconoscimento del Partito d’Azione.


L’immagine di Roma è come appestata dagli umori maligni che la infestano. E su quella immagine si deposita l’odio freddo e distaccato che circonda tutte le cose impure. Roma è odiata. Al Nord, durante la Resistenza, Roma era il nemico. “Deve essere uno di Roma dicevano i contadini quando passava qualche faccia sospetta. Quelli delle Valli non sono mica degli anarchici, e neanche dei rivoluzionari. Sono gente ordinata e di buon senso, che gli piace vedere le cose giuste... sono stati tutti con noi su in montagna perché non volevano più dipendere da Roma, da quelli di Roma. Non volevano più aspettare il permesso di Roma per fare un ponte di legno...”. A lanciare questa invettiva, - nella descrizione di Carlo Levi - è Dante Livio Bianco, comandante regionale delle formazioni “Giustizia e Libertà” del Piemonte, “un avvocato di Cuneo, che aveva tenuto con le sue bande le Valli per due anni; dai neri occhi brillanti e dal viso asciutto e nobile”56.

Quello che Livio aveva visto nella Francia liberata, avviene ora in Italia: i Comitati di Liberazione Nazionale vengono esautorati e relegati a funzioni consultive; i resistenti, appena posate le armi, diventano prigionieri della burocrazia, imbrigliati dai problemi di sopravvivenza nel difficile dopoguerra e dal controllo censorio del Governo Militare Alleato. Nelle pastoie della lotta tra partiti cade a novembre il primo governo dell’Italia libera, quello presieduto dal comandante generale delle GL Ferruccio Parri. E’ un altro duro colpo per chi aveva sperato nel rinnovamento, in un’altra Italia. Ora ci si avvia alle elezioni amministrative di primavera e la speranza è tanta. Ci si batte per creare una parvenza di organizzazione elettorale del Partito d’Azione. Su questo terreno si discute al primo Congresso regionale a Torino, il 5 e 6 gennaio 1946, e Livio sostiene le tesi dei cuneesi per un partito non dogmatico, che parta dai problemi concreti e proceda dunque in modo empirico. La collocazione è a sinistra del partito, secondo quanto va affermando Emilio Lussu che viene accompagnato dallo stesso Livio a Torino e a Cuneo, in un giro di formazione politica. Livio scrive su “Giustizia e Libertà”, già giornale clandestino delle sue formazioni e ora settimanale azionista cuneese e quotidiano torinese e intanto partecipa ai comizi per le amministrative di marzo-aprile. Nelle liste azioniste viene concesso non poco spazio alle posizioni e agli uomini moderati, nella speranza di ottenere una buona affermazione. La tesi di Bianco è quella secondo cui il Partito d’Azione, che ha saputo guidare la lotta partigiana, saprà anche amministrare in modo nuovo, democratico, rinnovatore, scalzando gli uomini proni alla monarchia responsabile del fascismo e della tragica guerra. I risultati, tuttavia, sono deludenti: soltanto tre consiglieri comunali eletti a Cuneo, di cui uno solo è un uomo “nuovo” forgiatosi nella lotta partigiana: Nuto Revelli. Le elezioni per il referendum istituzionale e per i membri della Costituente del 2 giugno sembrano offrire maggiori possibilità per una campagna elettorale sui temi di fondo propagandati da sempre, sia dalle formazioni GL, sia dagli azionisti. Inoltre, la lista può comprendere i nomi famosi dell’antifascismo e della Resistenza, nomi conosciuti sia regionalmente che a livello nazionale, uomini di azione e intellettuali. Tra essi anche Livio Bianco. Qui le scelte sono più nette: si tratta di optare tra schieramenti conservatori o progressisti, anche senza correre l’alea del voto all’estrema sinistra comunista. Livio torna nelle valli in cui è stato comandante partigiano, dove già durante la Resistenza ha seminato i principi repubblicani, laici, europeisti e autonomisti, accompagnato dai suoi prestigiosi compagni di lotta. Tiene l’ultimo comizio al civico Teatro Toselli di Cuneo, dopo una campagna elettorale condotta con la veemenza e con la forza di volontà che hanno caratterizzato le sue scelte e il suo agire resistenziale.

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Ma è la sconfitta definitiva, quella che pone fine all’esperienza politica del Partito d’Azione e a quella personale di Livio Bianco. Se nell’amarezza dell’insuccesso ci si può consolare con il risultato repubblicano del referendum - il primo degli obiettivi da sempre perseguito, un “miracolo” secondo la definizione di Piero Calamandrei - i suffragi raccolti in provincia e nel collegio sono comunque miserrimi: gli azionisti ottengono appena 12.000 voti nel Cuneese, 18.000 aggiungendo quelli dell’Alessandrino e dell’Astigiano, senza raggiungere il quorum necessario per avere un eletto. Nello stesso collegio prevale di misura il voto repubblicano, grazie alla provincia di Alessandria. In quella di Cuneo, la terra delle gesta delle formazioni GL, trionfa invece la monarchia e solo nel capoluogo la repubblica raccoglie più consensi. L’unica, amara consolazione viene da alcuni dei paesi in cui Bianco e i suoi sono stati partigiani, in particolare la sua Valdieri, dove la vittoria andrà alla repubblica. Caustico il commento di Nuto Revelli, esempio di quei “quadri” partigiani formatisi alla scuola di Livio:

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Le prime competizioni elettorali hanno deluso Livio. Il nostro mondo contadino è incapace di una scelta autonoma, è plagiato dal clero che teme il progresso, che serve la conservazione. Il voto è già un tributo da pagare ai parroci, ai mafiosi, ai padroni. Con la scomparsa del Partito d’Azione - prosegue Nuto - Livio abbandona la politica militante. E’ un uomo di studio, di giustizia e di diritto. Riprende con l’antico impegno, la professione di avvocato. Ma non abbandona il mondo partigiano. Continua, con le armi del diritto, la sua “guerra civile” [intesa come guerra per la civiltà]. Fin dai primi giorni della restaurazione sono Piero Calamandrei e Livio Bianco i grandi giuristi della nostra Resistenza. Livio non riesce a staccarsi dal suo mondo partigiano del Cuneese. Scappa sovente da Torino. La provincia di Cuneo - questa terra dove “le teste quadre solitamente sono la regola, e le teste calde l’eccezione” - è di nuovo una palude. Ma in ogni villaggio, anche nel borgo più disperso, sotto la cenere la brace è ancora viva. E’ tutto qui il miracolo della nostra Resistenza, di aver seminato partigiani autentici, teste calde, e non soltanto ex combattenti rassegnati, vinti57.

Il “giellismo” Sopravvive, quindi, il “giellismo”: cioè la creazione di una sorta di cenacolo, o di cenacoli, nei quali amici si ritrovano a riflettere e, partendo da una comune esperienza, elaborano i modi di una impegnativa fedeltà a scelte ideali. E’ stato Parri, nell’intervento alle celebrazioni di apertura del ventennale della lotta di liberazione a Cuneo, nel 1963, a spiegare cos’è questo giellismo, “a richiamare la presenza di amicizie che si rafforzano nella milizia e nella fedeltà a certi valori, a richiamare uno stile di vita che non ha nulla di anacronistico, ma che anzi si pone in termini conflittuali rispetto ad una situazione di marcato riflusso.” Era d’altronde l’impegno stabilito in un manifesto dettato da Arturo Felici “Panfilo” il 29 aprile 1945: [...] Ma i morti, tutti i nostri cari compagni caduti, fucilati, impiccati sono davanti alle nostre colonne e ci additano la via che ci resta da percorrere per assicurare la giustizia e la libertà al Paese. Non ci può essere sosta in questa battaglia: per questa generazione non vi è congedo!58

In questo impegno, rispettato fino alla scomparsa di quella generazione, notevole influenza ha avuto la figura di Dante Livio Bianco, che ha svolto il ruolo di maestro della sua stessa generazione e di tramite della realtà cuneese con il più vasto ambito piemontese e nazionale. Il riflusso tanto temuto è ora sotto gli occhi di tutti: la burla dell’epurazione, l’amnistia e la magistratura che salvano i peggiori criminali repubblichini, il riorganizzarsi del peggior fascismo, partigiani sotto accusa


per i loro atti di guerra. Inoltre, l’amarezza per lo scollamento dell’associazione partigiana unitaria, l’ANPI, in cui la corrente moderata prende la via della secessione, inducono Livio a una difesa sempre più tenace dei valori comuni, a un continuo tentativo di ricondurre la Resistenza alla sua unità. Livio, comunque, rimane nel Consiglio nazionale dell’ANPI, anche quando alcuni suoi amici, con Parri, aderiscono alla FIAP (Federazione italiana associazioni partigiane). Parlando il 25 aprile 1947 a Torino, in occasione della consegna della medaglia d’oro alla città, egli ricorda gli obiettivi della lotta partigiana e i modi di difenderli: dietro e dentro il 25 aprile ci son tutte le immense prove attraverso cui questo popolo è passato [...]. Le libere istituzioni democratiche ci sono e si riassumono in una parola: repubblica; ma la repubblica deve essere consolidata e difesa, essere perfezionata, mentre per la giustizia sociale bisogna ancora molto operare [...] bisogna che i partigiani siano uniti oggi, nella vita democratica, come lo furono ieri colle armi in pugno. Solo così saremo all’altezza della nostra tradizione.

Livio imbraccia ora l’arma del diritto e diventa il giurista della Resistenza. Non c’è quasi processo, locale o nazionale, contro i fascisti o in difesa dei partigiani che non veda esplicarsi la sua solida dottrina: dal processo a Rodolfo Graziani, ministro della guerra della RSI e responsabile dei crimini antipartigiani, a quello contro i gappisti attentatori di Via Rasella. Al convegno nazionale GL di Torino, nell’ottobre 1947, tocca a Livio Bianco affrontare “problemi e rivendicazioni della Resistenza”: “Passando a trattare degli effetti della epurazione e di quelli, per altro senso egualmente negativi, dell’amnistia, Bianco propone che si perseguano i fascisti con azioni civili, che li si colpisca con frequenza e con i mezzi che la legge concede ogni qual volta che capita l’occasione o si fa luce la possibilità di colpirli. L’interesse, dice l’oratore, è che ciò venga fatto in modo organico e il più possibile continuo: è un’arma di difesa e offesa che possiamo usare contro le risorgenti velleità del passato, sia pure per quanto modesti possano essere i suoi risultati”59.

Nello stesso tempo, Livio diventa l’oratore “ufficiale” nelle grandi cerimonie che ruotano attorno ai riconoscimenti per meriti resistenziali: è lui, per esempio, a parlare, a Torino, quando alla città viene consegnata la medaglia d’oro al valor militare. Lui stesso è insignito della cittadinanza onoraria di Cuneo, l’8 giugno 1947, insieme ad altri comandanti di formazioni partigiane, proprio nel giorno in cui anche la città viene decorata con medaglia d’oro al valor militare per il ruolo svolto nella lotta partigiana. Ed è ancora sua la ormai famosa “allocuzione” al primo presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, il 18 settembre 1948, in visita a Cuneo per consegnare ai partigiani le ricompense al valor militare. In quella “allocuzione” vi è tutto il significato che Livio assegna alla guerra di popolo che è stata la Resistenza e termina così: Tessera dell’Associazione GL nata a Torino nel 1946.

La Repubblica è uscita dal travaglio della guerra partigiana e dalla gloria della vittoria partigiana di cui la provincia di Cuneo fu splendida protagonista ed artefice; perciò è giusto, signor Presidente, che la suprema dignità della Sua carica e la Sua viva coscienza di figlio genuino della terra cuneese si siano insieme congiunte nel momento di consegnare queste medaglie60.

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Nel giugno 1949 una nutrita rappresentanza dell’Associazione GL, composta soprattutto da piemontesi, si reca con Ferruccio Parri a Bagnoles de l’Orne, per l’inaugurazione del monumento ai fratelli Carlo e Nello Rosselli, lì assassinati il 17 giugno 1937 dai sicari francesi dei fascisti. Alberto e Livio Bianco fanno parte del gruppo insieme a numerosi partigiani del Cuneese: Gigi Ventre, Renzo Minetto, Aurelio Verra, Nuto Revelli, Mario Giovana, Leonardo Ferrero ed altri. Oratore ufficiale di GL è Ferruccio Parri.

Livio e Pinella: le ultime gioie Livio e Pinella nel frattempo si sono trasferiti in via Susa 42 a Torino, lasciando la casa di via Peyron alla mamma di lui e alla fedele Anna Marro. Scrive Gastone Cottino:

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Nel settembre 1943, allorché prendeva, a 34 anni, la via di Madonna del Colletto, [Livio] aveva alle spalle una notevole attività professionale nello studio, allora di primo piano, di Manlio Brosio, ed una sostanziosa produzione scientifica, soprattutto nel campo del diritto processuale. Settanta e più “note a sentenza” rappresentavano un cospicuo patrimonio di realizzazioni che gli consentivano di affacciarsi, con buone possibilità, alla vita universitaria. Sarebbero state la sorte - i “venti mesi”, il dattiloscritto già pronto di una monografia sottratto dai tedeschi nella casa di Valdieri, l’immediato successo professionale al rientro dalla montagna - ma anche una sua (ben giustificata!) prevenzione verso il mondo ed il metodo degli studi universitari, a decidere diversamente. La lunga parentesi dei venti mesi avrebbe segnato una tappa decisiva nella maturazione dell’uomo. L’avvocato, lo scrittore, l’alpinista affermati sarebbero venuti a contatto con la politica e con gli esaltanti problemi che la guerra, la repressione nazista, le lotte di liberazione ponevano agli uomini in quegli anni cruciali. Livio Bianco sarebbe diventato un capo, un animatore, un combattente, un leader guerrigliero nel senso proprio del termine. Non mi si fraintenda. Livio Bianco non era, non divenne, non volle diventare un uomo politico. [...] Fu però chiaramente uno degli interpreti più limpidi e consapevoli del contenuto ideologico della Resistenza, un lucido sostenitore, più e meglio di altri comandanti prestigiosi, della assoluta priorità del momento politico su quello militare. Esercito di popolo, dovevano essere i partigiani; guerra tra ideologie non tra Stati era la guerra antinazista; rivoluzione democratica e sociale era e doveva essere l’obiettivo finale della lotta. In questo senso io sostengo che Livio Bianco, se pure la sua biografia non appartiene al vocabolario politico nel significato strettamente tecnico del termine, fu pur negando di esserlo un personaggio politico: e su un piano e con una statura che acquistano interesse e rilievo col trascorrere del tempo61.

Livio si è costruita una solida posizione professionale, è ormai uno dei più noti avvocati italiani. La sua immagine è all’opposto di quella dell’avvocato plateale, spagnolesco, retorico e possiede una prosa tanto disadorna quanto essenziale, efficace, chiara, che punta al nocciolo dei problemi. Anche la sua produzione scientifica, dopo il 1945, è cospicua: si tratta di una trentina di note a sentenze pubblicate in gran parte sul “Foro italiano”, assai meno delle settanta e oltre scritte prima dell’esperienza di partigiano, eppure, a giudizio di Gastone Cottino, molto più significative.62 Con la fama giunge anche una certa agiatezza. Uno dei piaceri più grandi continua ad essere, come per il passato, la convivialità con gli

Livio e Pinella. Valdieri, ottobre 1948.


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