Un baule pieno di gente Ciò che noi vediamo delle cose sono le cose. Perché mai dovremmo vedere una cosa se ce ne fosse un’altra? Perché mai vedere e sentire dovrebbe essere un’illusione Se vedere e sentire sono vedere e sentire?*
Catalogo della mostra a cura dell’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Cuneo Museo Civico - Cuneo 19 novembre-7 dicembre 2003
Progetto e ideazione Michele Calandri, Mario Cordero, Alessandra Demichelis Consulenza tecnica Pierluigi Manzone Progetto grafico Studio Blua Edizione catalogo e allestimento Associazione Più Eventi - Cuneo Testi del catalogo di Alessandra Demichelis Nota tecnica di Francesco Moro Si ringraziano per la collaborazione Luciano Ballotto, Milena Bruno, Maddalena Borgna, Fulvia Chiolero, Livio Mano, Umberto Oggerino, Dario Prato, Emilio Prato, Franco e Giuseppe Prato, Marina Prato, Marisa Prato, Robaldo Rodolfo, Germana Robaldo Prato, Alfonso e Beatrice Ravotti, Marco Ruzzi, Camillo Sciandra, Paolo Sciandra. Uno speciale ringraziamento va al signor Mauro Uberti, che ha donato all’Istituto Storico della Resistenza e della Società Contemporanea in Provincia di Cuneo il ricco archivio fotografico e familiare della nonna, Leonilda Prato, e che con pazienza e disponibilità ci ha permesso di ricostruire le vicende avventurose della sua famiglia. Un grazie anche alla signora Emilia Polacco Uberti.
Quanti itinerari, luoghi e avventure in quegli anni randagi; quanti incontri capaci di lasciare un segno, così tanti da affollare di ricordi una vita intera; fra questi, certamente qualcuno capace di segnarla davvero, la vita. Nessuno sa in quali circostanze, né esattamente dove, né quando - si racconta che fosse il volgere del secolo, era il Novecento che arrivava - ma un giorno Leonilda fece una scoperta importante, una scoperta che le mostrò un modo diverso di guardare il mondo, di catturarlo e ritagliarlo in un frammento, decidendo di volta in volta cosa esaltare e cosa escludere, a suo piacere.
Quel giorno Leonilda scoprì la fotografia.
Mostra e catalogo sono stati realizzati con il contributo di:
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€. 22,00
LO SGUARDO DI LEONILDA U N A F O T O G R A FA A M B U L A N T E D I C E N T O A N N I FA
in collaborazione con Assessorato alla Cultura del Comune di Cuneo Museo Civico di Cuneo
LO SGUARDO DI LEONILDA U N A F O T O G R A FA A M B U L A N T E D I C E N T O A N N I FA
Ci sono storie di vita vissuta che sfidano la letteratura, per la loro capacità di suscitare memoria. Talmente inverosimili, se non fossero vere. Ci sono storie che vorresti raccontare come romanzi, forzando il silenzio dei documenti e la frammentarietà delle testimonianze. Ci sono personaggi/persone ai quali non si addice il silenzio della dimenticanza, cui vorresti dare la parola, sentirli parlare. Farli vivere (attenzione, non dico “rivivere”). E’ il caso di Leonilda, fotografa ambulante di Pamparato. Sono le sue fotografie, scattate chissà quando e chissà dove, a provocare questo desiderio di raccontare. E’ quello che non si vede, nelle fotografie. L’altra parte dell’obiettivo, dietro l’apparecchio fotografico. Ti fanno scoprire, le fotografie, qualcosa di come lei vedeva, ma la sua personalità continua a sfuggirti e insieme a inseguirti come una verità nascosta, intrigante e sfumata. E’ vero che le fotografie tendono a restituirci l’autobiografia del fotografo. Ma qui il fotografo, Leonilda, continua a nascondersi. Poi ci sono i personaggi ritratti. Non sei tu a guardarli; sono loro a guardare te, dritto negli occhi. E’ come se volessero parlarti, raccontarti di loro. Diceva Roland Barthes: “Non appena io mi sento guardato dall’obiettivo, tutto cambia: mi metto in atteggiamento di ‘posa’, mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine.” E aggiungeva: “Davanti all’obiettivo, io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte.” Qui, nelle foto di Leonilda, l’arte sembrerebbe avere poco posto, se ci si ferma alla povertà improvvisata degli sfondi, all’approssimazione della messa in scena. Ma, a ben guardare, non è così. Leonilda sa inchiodare i suoi soggetti alla loro identità, sa spremerne le intenzionalità rispetto all’immagine che le hanno chiesto, sa leggere spesso quello che sta dietro il desiderio di farsi fotografare. In questo è, come si dice, un’artista! E chi oggi scorre queste immagini, appunto, si sente guardato e interpellato, vorrebbe sapere di più, vorrebbe capire di più, vorrebbe entrare di più in questo piccolo e variegato teatro dell’umanità che Leonilda ha allestito nelle tappe del suo vagabondare. Ma non si può. Possiamo soltanto guardare la superficie liscia della fotografia e cercare nei particolari - nel punctum, direbbe Barthes frammenti di verità; e immaginarci storie, e riflettere sul trascorrere delle cose e della vita, un giorno fissate sulla lastra o sul negativo per attestare a noi che sono state. Mario Cordero * Titolo della presentazione di Antonio Tabucchi a “Una sola solitudine” di Fernando Pessoa (Adelphi 1984), da cui è tratta la citazione in epigrafe (p. 107)
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LO SGUARDO DI LEONILDA U N A F O T O G R A FA A M B U L A N T E D I C E N T O A N N I FA
L E O N I L D A P R AT O 1 8 7 5 - 1 9 5 8
a cura di Alessandra Demichelis
“I capelli erano bianchi e soffici, e lei li portava raccoldel paese e scattava le fotografie, come aveva fatto gente di campagna le portava una formaggetta, cose riunite per le veglie e cantava, accompagnandosi con
ti in una crocchia. Sistemava la macchina agli angoli tutta la vita, ma non se li faceva pagare, i ritratti: la cosÏ. Qualche volta, la sera, raggiungeva le famiglie la chitarra. Aveva una bella voce, Leonilda...�*
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Non ricordano molto altro, gli anziani che oggi vivono a Pamparato, non possono ricordare. Quando l’hanno conosciuta erano ragazzi e lei già avanti con gli anni. I capelli, vaporosi; la voce armoniosa; quella sua inconsueta passione per la fotografia. Tutto qui. Eppure sanno gli abitanti di lì, perché nei paesi
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ognuno sa tutto della vita degli altri, di ciò che nascondono i muri delle case, delle storie dei singoli e delle famiglie, di quelle che hanno resistito al tempo e di quelle che non esistono più. Sanno, perché quella di “Nilda” fu una vita un po’ speciale, lei stessa fu una persona speciale, come lo furono suo marito, i
suoi figli e perfino i nipoti, distinti tutti da un tratto di originalità, da uno spirito difficile da definire, una impronta di famiglia, si direbbe, che si è tramandata nel tempo e nelle generazioni. Tutti, a Pamparato, conoscono qualcosa della storia della fotografa e del marito cieco, della loro vita vagabonda e dei loro figli... ne parlano con simpatia e sorridono, con il sorriso che si riserva alle persone insolite, un po’ fuori dal comune. Ma ne parlano con affetto sincero, perché con essi condividono le stesse radici e ne sentono, forte, l’appartenenza alla comunità, nonostante le fughe e le lunghe assenze, nonostante il tempo abbia lavorato inarrestabile, per dissolvere i legami.
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Quando nacque, nel 1875, nulla faceva pensare che la vita le avrebbe riservato un destino differente da quello delle sue coetanee. La sua era una famiglia modesta, una delle tante “Prato” presenti nella zona: la mamma, Innocenza, era tessitrice e ogni tanto dava una mano al marito Guglielmo aiutandolo come “bordeusa” (bordatrice) nella bottega di calzolaio. Quando questi morì, nel 1886, per il calcio di un mulo, toccò all’unica figlia femmina occuparsi dei due fratellini più piccoli, mentre i maggiori, di quindici e diciotto anni già lavoravano, contribuendo un poco al bilancio familiare. Leonilda apparteneva al ramo dei “Quaranta” ed era cresciuta come una ragazza semplice, quanto lo erano le ragazze di paese, imparando a tessere dalla madre e facendo di quest’abilità un vero mestiere. Tesseva,
Leonilda,
ma da qualche parte, dentro di sé, celava un’irrequietezza,
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forse il desiderio di fuggire per scoprire cosa c’era al di là delle montagne che la proteggevano e allo stesso tempo ne ostacolavano lo sguardo.
Impaziente e ribelle, Leonilda
voleva vedere.
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Leopoldo era un poco più grande, quattro anni più di lei, anche lui nato fra quelle case, arrampicate in cima alle colline che separano le Alpi dal mare. Come spesso accade nei piccoli borghi condivideva con molti compaesani il medesimo cognome, Prato, e con Leonilda addirittura il ramo dinastico, quello dei “Quaranta” o delle “teste matte” come osservava Leonilda. Tra loro non vi era parentela, ma la coppia scherzerà tutta la vita su quel “Quaranta” più “Quaranta” che dava come risultato ottanta, proprio come il numero civico posto sulla loro abitazione. Come dire una famiglia di matti due volte, insomma. Leopoldo apparteneva a una famiglia agiata, almeno per parte di madre. Suo fratello aveva potuto studiare da prete e lui stesso, da bambino, poteva permettersi piccoli lussi, negati, invece, ai suoi compagni, come mangiare una merenda a base di pane di frumento e non di grano marzaiolo - “ra marsora” amaro. Una volta giunto a scuola, quella merenda veniva barattata di nascosto e tutti uscivano soddisfatti dallo scambio. Leopoldo aveva tutte le carte in regola per intraprendere una buona professione, ma era anche sfortunato. Da bambino, mentre giocava con i coetanei nella “bigatera”, lì dove i bachi da seta si cibavano voracemente di foglie di gelso, un urto contro uno spigolo gli aveva compromesso gravemente la vista. In seguito aveva subito un intervento (in famiglia si parlava di una “pupilla artificiale” ma è difficile stabilire esattamente di cosa si trattasse), ma il destino si era accanito ancora e un nuovo gesto maldestro compiuto armeggiando con una stecca di balena rubata al busto della madre gli aveva causato la perdita irreparabile dell’occhio. Con il trascorrere degli anni la menomazione si estenderà ad entrambi gli occhi e, malgrado le cure, la cecità diverrà totale. Tra quella sventura e il mondo intorno a sé Leopoldo posò un paio di occhiali scuri, che divennero fino all’ultimo un elemento distintivo della sua persona, ma, oltre a ciò, nulla gli impedì di scegliere in piena libertà la vita che desiderava condurre. Nonostante i problemi fisici il giovane crebbe infatti coltivando le arti, la poesia, la letteratura, la musica. Ed era decisamente bello: alto, i lineamenti del viso regolari, l’animo di artista e curioso del mondo, Leopoldo doveva possedere qualcosa di diverso dai giovanotti del paese, una sensibilità particolare che aveva imparato a esprimere suonando, un carisma tutto personale, insomma, destinato a incantare, chi, come lui, ne possedeva uno altrettanto spiccato.
Leonilda e Leopoldo probabilmente si conoscevano fin dall’infanzia e in qualche modo si rassomigliavano; perfino i nomi erano simili, insomma sembrava scritto... Così alla fine lei si era messa contro tutta la famiglia e se lo era sposato, quel giovanotto, disobbedendo a chi avrebbe desiderato per 9 lei un partito migliore - e sì che ce n’erano a Pamparato, di buoni partiti - o semplicemente un brav’uomo con la testa sulle spalle, con un mestiere sicuro. E invece lui un vero mestiere non ce l’aveva, anzi, era un musicista e nella vita desiderava solo buttarsi sulle strade del mondo, proprio come un vagabondo, uno di quelli che partivano con l’organetto in spalla e attraversavano città e paesi, strade e piazze, un po’ di musica, un po’ di allegria per pochi centesimi, al vostro buon cuore...
Era il 1896: Leonilda attese di compiere i 21 anni, la maggiore età, e poi divenne la sua sposa e la sua compagna di viaggio, disposta a seguirlo e ad afferrare il mondo finora solo immaginato, finalmente al di là delle montagne. Giovani e incoscienti intrapresero una vita da pellegrini sulle strade del Piemonte, della Lombardia, spingendosi a piedi fino in Svizzera, da un cantone all’altro, intonando arie e ballate popolari, lui alla fisarmonica, lei con la chitarra al collo, a cantare e distribuire pianete della buona sorte. Di quel modo di vivere fecero un vero mestiere, con tanto di riconoscimento da parte delle autorità ed annessi doveri. Per “faire de la musique sur rue” le autorità municipali concedevano infatti una “patente” ma in cambio pretendevano una condotta ineccepibile ed il pagamento di una tassa. Nel mese di novembre del 1898 i due si trovavano nel distretto di Val-de-Travers, nel Cantone svizzero di Neuchatel, dove intendevano rimanere 8 giorni. Lì il ventisettenne Leopoldo fu registrato, schedato meticolosamente e obbligato a pagare un franco per ogni giorno di permanenza. Alla voce “signes particuliers” annotarono “aveugle”, cieco.
Quanti itinerari, luoghi e avventure in quegli anni randagi; quanti incontri capaci di lasciare un segno, così tanti da affollare di ricordi una vita intera; fra questi, certamente qualcuno capace di segnarla davvero, la vita. 10
Nessuno sa in quali circostanze, né esattamente dove, né quando - si racconta che fosse il volgere del secolo, era il Novecento che arrivava - ma un giorno Leonilda fece una scoperta importante, una scoperta che le mostrò un modo diverso di guardare il mondo, di catturarlo e ritagliarlo in un frammento, decidendo di volta in volta cosa esaltare e cosa escludere, a suo piacere.
Quel giorno Leonilda scoprì la fotografia. Fu un artigiano di origine austriaca, si racconta, un fotografo incontrato in Svizzera, nel Cantone del Vaud, ad introdurla ai segreti dell’arte, a svelarle il mistero delle immagini che magicamente si fissavano su semplici lastre di vetro, attraverso un gioco di specchi e di riflessi, dosando sapientemente la luce e le ombre, sfruttando le leggi della fisica e quelle misteriose della chimica. Era un universo del tutto nuovo e affascinante e, per lei, fu una folgorazione. Quanto al fotografo, capì che aveva di fronte una giovane capace ed entusiasta e ne fece la sua allieva. Furono sufficienti poche lezioni: appresa la tecnica non ci pensò due volte, si procurò l’apparecchiatura, un “Manuale di pratica e ricettario di fotografia”1 e decise che da quel momento il suo punto di vista avrebbe coinciso con quello del suo obiettivo, la realtà sarebbe stata filtrata dallo sguardo della sua macchina e soprattutto che di ciò avrebbe fatto un mestiere.
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Così fu. Senza rinunciare allo stile di vita che aveva scelto, Leonilda ampliò l’impresa coniugale, trovando il modo di trarre profitto dalla passione che non l’avrebbe più abbandonata. I coniugi Prato proseguirono così nel loro girovagare, raggiungendo borghi e attraversando villaggi, cantando, suonando e mettendo in posa chiunque lo desiderasse. Continuarono a spostarsi a piedi, ma adesso il bagaglio si era fatto pesante: c’era la macchina di legno, gli obiettivi, gli chassis, le lastre in vetro, i torchi, la carta, i treppiedi. Con quell’armamentario arrivavano nei paesi e si presentavano negli alberghi, dove soggiornavano. Da lì si spargeva la voce della loro presenza ed il resto veniva da sé. I clienti accorrevano numerosi e quando ripartivano tenevano fra le mani il proprio ritratto e, forse, anche la lastra su cui si era impressa la loro immagine. D’altra parte le lastre erano fragili, pesavano e trascinarle con sé avrebbe rappresentato un peso ulteriore2. Doveva essere uno spettacolo insolito, per la gente di quei luoghi, vederli arrivare, carichi degli attrezzi del mestiere, lui con il cappellaccio e l’aspetto da pirata, lei minuta al suo fianco, in nulla diversa nei tratti del viso e nell’abbigliamento dalle donne di montagna che incontrava, ma risoluta e capace di montare cavalletto, banco ottico e fondali e di organizzare sulla strada un vero studio fotografico, usando la fantasia laddove la mancanza di mezzi lo richiedeva.
Di ritratto in ritratto la ditta Prato scoprì che la nuova attività rendeva bene: la fama della fotografa si diffondeva e ovunque si presentassero i coniugi erano ben accolti. I suoi nipoti raccontano che perfino la moglie del presidente del cantone del Vaud - quella che lei chiamava “presidentessa” - li prese a benvolere, forse ne divenne la protettrice, e accettò di lasciarsi ritrarre da Leonilda, procurandole notorietà e clientela anche tra la borghesia svizzera. Di quella dama, seduta con posa aristocratica su una poltroncina, tra i pizzi di un abito elegante, è rimasta un’immagine.
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In quel modo trascorsero dieci anni: Pamparato rimaneva un punto di riferimento fondamentale, era la casa a cui far ritorno, di quando in quando, il luogo sicuro dove far crescere i figli, che nel frattempo erano arrivati e che certo non si potevano allevare come zingari. Leonardo e Ottavia Leopolda (conosciuta come Leopolda), rispettivamente del 1897 e del 1899, nacquero lì, infatti, e lì crebbero, anche durante le lunghe assenze dei genitori, protetti dalle famiglie di origine. Ma dieci anni di strapazzi non avevano giovato alla vista già compromessa di Leopoldo; nonostante i viaggi a Torino per le cure oftalmiche, il peggioramento era stato costante, e da lì a poco si sarebbe rivelato irreversibile. Così, per un crudele gioco del destino, mentre Leonilda sviluppava e in qualche modo modificava la sua percezione della realtà attraverso l’acquisizione di una nuova sensibilità visiva, Leopoldo perdeva il bene più prezioso, cadendo prematuramente in uno stato di grave invalidità che mai ne avrebbe fiaccato la vitalità, ma che lo avrebbe accompagnato fino alla fine dei suoi giorni. In condizioni di salute tanto precarie, con i figli che necessitavano delle cure e della presenza dei genitori, i coniugi Prato si risolsero ad interrompere la vita nomade che tanto amavano per cercare maggiore stabilità. La posizione economica della famiglia, d’altra parte, lo consentiva: l’attività legata alla fotografia si era rivelata un buon affare e, soldo dopo soldo, i risparmi accumulati erano cresciuti tanto da permettere a marito e moglie di lanciarsi in una nuova impresa, meno stimolante forse, ma sufficientemente redditizia da assicurare un’esistenza dignitosa a tutta la famiglia. Leonilda, dunque, si rinnovò
ancora una volta, indossando i panni della commerciante e aprendo un esercizio di merceria, mentre Leopoldo contribuiva all’economia domestica impartendo lezioni di musica e lavorando come rappresentante delle fisarmoniche Paolo Soprani di Castelfidardo. La 14
moglie raccontava che gli strumenti arrivavano smontati e che lui li assemblava al tatto. Allo stesso modo - solo attraverso la sensibilità manuale aiutava Leonilda nelle operazioni di sviluppo delle fotografie.
Ormai in tutto simile a quella di qualsiasi altra famiglia del luogo, con le attività quotidiane, la casa modesta, giù, al “Cantun”, da mandare avanti, i bambini da accudire, i momenti di svago da condividere con i compaesani, la vita prese a scorrere pacatamente, con l’unica eccezione di quella inusuale
abitudine, che Leonilda proprio non voleva saperne di abbandonare, di piazzare cavalletto e macchina ad ogni angolo del paese e di ritrarre la sua gente, immortalandone l’immagine di bambini e di vecchi, di sposi e famiglie. E come in tutte le case gioie e sofferenze si sarebbero alternate, negli anni a venire: la nascita della terza figlia, nel 1910, e di un quarto bambino, dopo due anni, che il padre ormai completamente cieco, non avrà la gioia di vedere, allargheranno la famiglia. I nomi scelti per i due ultimi venuti non potevano che cominciare per “Leo”, come quelli dei genitori e dei fratelli: ecco quindi per la bambina uno strano Leonìda (non Leònida, nome maschile che verrà usato fin troppe volte facendola arrabbiare), preceduto da un altrettanto anomalo Annita, frutto dell’errore di un impiegato dell’anagrafe che aggiunse una “n” al nome voluto da Leopoldo, cioè Anita. Ma Leopoldo non potè accorgersi dello sbaglio, e la “n” rimase. Per l’ultimo figliolo fu scelto, semplicemente, Leo. Poco tempo dopo, però, sarà la guerra a portarsi via il primogenito, Leonardo, un giovane dall’aspetto serio, un promettente pittore con un’autentica passione, che raccoglieva centinaia di cartoline raffiguranti monumenti, paesaggi, opere d’arte. Il professor Noelli dell’Accademia Albertina, che a Pamparato villeggiava e che Leonilda riprendeva con la tavolozza in mano, assorto nella pittura sulle rive del torrente, lo incoraggiava, ripetendogli che nella sua arte sapeva mettere l’anima. Morirà da bersagliere, combattendo sul Monte Zebio, un giorno di maggio del 1917.
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Arrivarono gli anni Venti. Il tempo era trascorso in fretta, le responsabilità erano aumentate e del periodo trascorso camminando sui sentieri del mondo rimanevano ormai solo i ricordi e gli aneddoti, con cui riscaldare le serate di veglia, fra un bicchiere di vino e un’aria con la fisa. Anche i figli erano cresciuti in fretta: Leonìda era stata una bella bambina, dallo sguardo vivace e l’aria furba, e adesso si stava trasformando in una fanciulla graziosa, fatalmente attratta, come il suo papà, dall’incanto della musica. Leopolda, che conservava l’atteggiamento un po’ severo di quando era fanciulla, era ormai in età da marito, e da lì a poco avrebbe incontrato il compagno della sua vita. L’ultimogenito, Leo, si era fatto adolescente anch’esso, perdendo il broncio perennemente stampato sul suo viso infantile e aprendolo in un sorriso luminoso. Come quelli dei loro ragazzi, anche i volti dei genitori erano mutati sotto i colpi impietosi del tempo: i capelli si erano striati di grigio, i segni sul viso fatti più profondi, le spalle incurvate nel sopportare la fatica del vivere. Negli occhi di Leonilda, tuttavia, si leggeva ancora l’antica audacia, e il coraggio di ricominciare ogni volta daccapo. 16
Il 1924 fu ancora un anno di cambiamenti per la famiglia Prato: ancora una partenza, questa volta tutti insieme, su consiglio del medico, alla volta di Sanremo, in cerca di un clima piÚ dolce, di un sole capace di riscaldare i corpi stanchi. Il patriarca poteva contare ancora sulla compagna di una vita e su tutta la famiglia, stretta intorno a lui, ma la sua salute peggiorava di giorno in giorno e le ultime fotografie scattate da Leonilda ritraggono un vecchio smagrito e sofferente, con il volto immerso in una nuvola di barba e capelli bianchissimi, intento a raccogliere gli ultimi istanti di calore del sole e della vita, su una terrazza della riviera. Sono immagini di struggente tenerezza, che rimandano ad antiche devozioni, che mostrano i coniugi Prato ancora uno accanto all’altro,
Leonilda assorta nella lettura del giornale, ancora una volta a sostituire gli occhi di lui con i propri, come aveva fatto nel corso di tutta una vita. E poi i figli, sereni e quasi adulti ormai, e altra gente ancora, accorsa su quella terrazza, per un momento di compagnia o un saluto, chissĂ .
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Non era più tempo per le fotografie, quello, le circostanze non lo permettevano; occorreva rimboccarsi le maniche e reinventarsi, ancora una volta, rischiare e lanciarsi in una nuova avventura, partendo dal nulla. Fu così che si arrivò a quanto di più lontano si potrebbe immaginare per una persona dallo spirito sensibile e dall’animo artistico: l’allevamento di galline ovaiole, da destinare al fiorente mercato alberghiero. Ma si è visto come Leonilda fosse in grado di coniugare un forte senso pratico ad una certa fantasia, o meglio, come riuscisse a sfruttare le doti di creatività di cui la natura l’aveva fornita anche nei frangenti più ardui in cui la vita la poneva. Lo aveva dimostrato con la fotografia, con l’attività commerciale e lo avrebbe dimostrato anche adesso, facendo fruttare un’impresa quantomeno azzardata della quale non aveva alcuna esperienza. Per arrotondare presto arrivarono anche due macchine per la maglieria. Leopoldo la lasciò nel 1926 e lei si trovò sola, ad allevare pulcini e a sostenere i figli, fintanto che non avessero preso la loro strada, cosa che avvenne forse fin troppo presto. Un paio di anni dopo Leopolda si accasò assottigliando ulteriormente la famiglia d’origine, e nel 1934 toccò a Leonìda, che da Sanremo si trasferì prima a Varese e quindi tornò a Pamparato, per breve tempo, prima di spostarsi definitivamente a Torino. Nella città di mare rimasero Leonilda e il figlio minore Leo, almeno fino al 1939, anno in cui anch’egli trovò una ragazza, guarda caso di Pamparato, e si trasferì nel capoluogo piemontese. Da quel momento per Leonilda il piccolo paese della Val Casotto tornò ad essere il punto di riferimento che era sempre stato, il luogo in cui trascorrere lunghi periodi alternandoli ai soggiorni presso le case dei figli, a Torino.
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Fu anche il luogo in cui, ormai quasi settantenne, tornò a guardare la sua gente attraverso l’obiettivo del suo amato apparecchio fotografico, rendendosi così testimone di una pagina di storia locale, quella relativa alla resistenza e all’occupazione tedesca.
Non molti anni fa, prima della morte avvenuta nel 1997 Annita Leonìda rammentava lucidamente l’attività della madre in favore dei partigiani, il suo prodigarsi nella produzione di documenti di identità falsi, insieme al segretario comunale Meglioli. Uno degli ultimi episodi che la riguardano risale al 1944, nel pieno della guerra di liberazione, quando i tedeschi misero a ferro e fuoco il castello per rappresaglia, distruggendo l’archivio. Invitata dal segretario a farsi testimone del disastro con l’ausilio della sua macchina, Leonilda camuffò il treppiede avvolgendolo in una tela di sacco e fingendo di avere un ombrello sottobraccio si incamminò su per la salita che porta al castello, procedendo con la maggior disinvoltura possibile tra i tedeschi che presidiavano il paese. Lo stesso fece poco dopo la figlia Leonìda, con l’apparecchio nascosto nella borsa, salutando cortesemente, in tedesco, ogni soldato in cui si imbatteva e ottenendo con questo semplice gesto una sorta di viatico, senza subire controlli.
Una volta sul posto installarono macchina e cavalletto nelle stanze messe a soqquadro documentando armadi divelti, cassetti svuotati e cumuli di carte sparse ovunque, mentre in altre stanze del castello transitavano ancora i tedeschi armati di tutto punto.
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Il ritorno a casa fu abbastanza semplice, facilitato da una trovata del segretario che giustificò la presenza di Leonìda consegnandole una tessera annonaria.
Giunti a fine guerra Leonilda ripose definitivamente gli strumenti con cui, più o meno coscientemente, aveva ritratto un’epoca. Riservando forse qualche scatto ai familiari si limitò a invecchiare con serenità, senza perdere mai, tuttavia, il senso del commercio che l’aveva contraddistinta e che la porterà, un’ultima volta, a mettere a segno un affare considerevole, cedendo le macchine da maglieria acquistate a Sanremo e acquistando la casa posta in vendita dal Marchese Cattaneo di Belforte, residente a Genova. In quella casa Leonilda amava risiedere quando la bella stagione lo permetteva. Nel 1958, a ottantatrè anni, Leonilda morì, lasciando una dinastia numerosa e affezionata. Tutti, in famiglia, parlano della “nonnetta”, anche quelli che, per ragioni anagrafiche non la conobbero.
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Di lei si tramanda il ricordo della
donna determinata
e coraggiosa che fu e gli aneddoti della sua vita avventurosa si raccontano ai bambini, i tanti che ancora scorrazzano in giardino, portando voci e allegria nella bella casa di Pamparato.
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Una delle ultime immagini che ci sono giunte di lei, scattata da un nipote, ce la mostra ormai anziana, ripresa di profilo nella sua casa, seduta in una stanza inondata dalla luce opalescente che irrompe da una finestra, come se provenisse da un riflettore. Leonilda sorride quieta, serena. La posa, gli oggetti, la luce quasi irreale che avvolge ogni cosa non sono improvvisate: si vede il tocco, la mano sapiente. Fu lei a immaginare quella fotografia prima ancora che venisse scattata? Fu lei a voler cogliere quell’istante di bellezza usando per sè, come mai aveva fatto, un pizzico di innocente civetteria? Non sappiamo rispondere, ma è dolce pensare cosÏ.
Le fotografie di Leonilda: Il gioco sottile della memoria C’è qualcosa di esaltante e al tempo stesso di frustrante nel trovarsi fra le mani le fotografie di Leonilda Prato. E’ frustrante scorrere decine, centinaia di immagini prive di riferimenti, annotazioni, didascalie; tentare di collocarle in un contesto spaziale o temporale seguendo le labili tracce di un oggetto, le caratteristiche di un abito, di un volto che invecchia; cercare di individuare i luoghi indagando sfondi e paesaggi, alla ricerca di un dettaglio che faccia scattare la scintilla di un’intuizione. Perché Leonilda non archiviava, non annotava i nomi dei soggetti che ritraeva, e se lo faceva, se teneva una contabilità del suo lavoro, oggi non ne è rimasta traccia. Così le sue 3000 lastre sono giunte fino a noi confuse, ferite dal tempo e dall’usura eppure ancora in grado di lasciare emergere volti, privi di un nome forse, ma vivaci e nitidi e capaci di comunicare. Ecco perché porsi di fronte a queste immagini può rappresentare un’esperienza entusiasmante, perché se ci si abbandona completamente all’incanto di questo universo apparentemente perduto ci si accorge che in realtà è più vivo che mai e che le immagini sono vive, ora, forse più di quanto lo siano mai state. Lasciarsi catturare da questi volti e sguardi e situazioni significa intraprendere un viaggio lungo itinerari della memoria personale e collettiva, significa porsi in una condizione di spettatori ma di spettatori attivi, disposti ad “entrare” in quel mondo, ma disposti anche ad accettare che quel mondo penetri fin nelle pieghe più profonde ed inizi a lavorare, sottilmente e in modo talvolta doloroso, sulle trame di ricordi di cui è intessuta la storia privata di ciascuno. E’ la memoria, dunque, a diversi livelli, a farsi protagonista assoluta, conducendo, quasi nostro malgrado, questo gioco di rimandi, diventando di volta in volta memoria storica di un territorio o di una civiltà, oggi scomparsi o trasformati; memoria familiare e personale dei soggetti raffigurati, di luoghi e di storie; memoria di una donna, Leonilda, della sua vita e del suo lavoro; memoria di un mestiere, di strumenti e tecnica; memoria, infine, di chi osserva, scoprendo in ogni immagine qualcosa di sé, del proprio passato, dei propri legami. E’ un labirinto di specchi, insomma, in cui si rischia di smarrirsi per la sovrabbondanza di stimoli visivi, ma da cui si esce, infine, appagati, anche se ognuno in maniera differente, ognuno toccato nelle corde più intime, mai le stesse, per gli uni e per gli altri.
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immagini per una mostra
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I criteri della mostra La natura del fondo fotografico di Leonilda Prato ha posto dei limiti oggettivi all’allestimento, liberandolo al tempo stesso da vincoli eccessivi. Privo, come si diceva, di indicazioni originarie, non è stato possibile seguire un criterio fondato sulla ricostruzione filologica del percorso professionale di Leonilda. Allo stesso modo, non essendo possibile attribuire alle foto più antiche - che sono la maggioranza - una datazione precisa nè un’indicazione certa della località in cui furono scattate, nè un nome ai personaggi ritratti, è risultato oltremodo difficoltoso distinguere le immagini risalenti agli esordi, da quelle di epoca più tarda. La lunga osservazione delle stesse, tuttavia, e l’intervento appassionato di alcuni cittadini di Pamparato hanno permesso il riconoscimento di un gran numero di personaggi immortalati; naturalmente, si tratta di fotografie relativamente “recenti”, risalenti all’ultimo periodo, a quando Leonilda ritornò a Pamparato già avanti negli anni, alla fine degli anni Trenta. Ma il corpus principale di opere, che sono anche, a nostro giudizio, le più significative e rappresentative del mestiere di fotografa ambulante, è costituito da una messe indistinta in cui è più difficile separare quelle scattate a Pamparato e immediati dintorni da quelle scattate invece nel corso dei viaggi tra Italia e Svizzera. E anche se siamo in grado di affermare, sulla scorta dell’attento esame compiuto da testimoni del posto, che in moltissimi casi proprio di gente del luogo si tratta (le case, i particolari degli sfondi lo rivelano), risulta impossibile operare una distinzione sicura. Tutti questi motivi hanno fatto sì che, nell’organizzare il materiale, si dovesse scegliere una strada alternativa a quella dell’esposizione strettamente cronologica del lavoro della protagonista. Ma quale? Per orientarsi è stato necessario partire dall’obiettivo che ci si intendeva prefiggere. Cosa si voleva mostrare insomma, cosa si voleva rappresentare con questa esposizione? Si intendeva documentare una società colta nel passaggio tra XIX e XX secolo, una società contadina composta per la maggior parte di uomini e donne dei ceti più umili da cui solo di tanto in tanto sbucavano personaggi borghesi immortalati nell’atto di fornire la migliore rappresentazione di sé? O era piuttosto la voglia di ricostruire l’immagine di un paese come non esiste più, con la sua folla di persone, i riti collettivi, i giovani nel momento della festa, i vecchi in posa, le case e le strade polverose? Oppure si voleva porre l’attenzione sulla specificità della professione, con la sua tecnica, anch’essa tramontata, filtrata da un occhio sensibile, e perdipiù femminile, caso già di per sé abbastanza straordinario da meritare di essere studiato? E ancora, quanto sarebbe stato interessante un discorso sulla “lettura” dell’immagine pura, svincolata dal suo contesto sociale, sulla fotografia da
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guardare in quanto tale lasciandosi colpire dal particolare che la rende ai nostri occhi unica e straordinaria? La risposta più immediata è stata che tutte le domande erano degne di risposta, tutte le chiavi di lettura ugualmente meritevoli di essere prese in considerazione; in una parola, tutto ci sembrava importante. Ognuna di queste strade, insomma, ci appariva ricchissima di stimoli anche se impegnativa da praticare, e tuttavia, mano a mano che ci si domandava quale aspetto privilegiare, quale taglio adottare, sentivamo che non era possibile puntare su un unica chiave interpretativa. O meglio, forse sarebbe stato possibile, ma la verità è che non ci siamo sentiti di farlo. E questo perché avrebbe significato sacrificare elementi significativi, troppe immagini a cui ci sentivamo già legati. Alla fine, si è deciso di rischiare e di seguire il cuore. A dispetto di qualsiasi lettura rigorosamente sociale o antropologica o “tecnica” (non siamo fotografi né esperti in tecnica fotografica) si è pensato così di inserire quanto più possibile, di esporre insomma tutto ciò che ci suggeriva riflessioni, secondo criteri arbitrari finchè si vuole, criticabilissimi e non condivisibili, ma certamente ispirati dalla passione folle per queste fotografie, passione che ha investito tutti quanti ne sono entrati in contatto. Oltre a ciò, ognuno di noi ha scelto sulla base del proprio, personalissimo gusto estetico e della propria sensibilità. Insomma, criteri soggettivi che hanno finito per evidenziare taluni aspetti escludendone inevitabilmente altri... ma, d’altra parte, non era la stessa Leonilda a praticare questo metodo nella sua pratica quotidiana, quando sceglieva i particolari a cui dar risalto e quelli da escludere dallo spazio compresso del perimetro delle sue lastre? Una volta intuita la via da seguire è stato chiaro che svincolando le immagini (anche per le ragioni oggettive di cui si è detto) da connotazioni spazio-temporali - non è più importante il chi, né il dove, né precisamente il quando - esse acquistavano la dimensione di rappresentazioni in qualche modo universali, capaci di incarnare situazioni, storie o “tipi” sociali la cui appartenenza a un luogo determinato assumeva assai scarsa rilevanza. Ecco dunque lo spunto “antropologico”, quasi “etnografico”, che abbiamo voluto seguire, senza tuttavia rinunciare agli altri, che, come si diceva, sono emersi cammin facendo. Con un’operazione forse ambiziosa, quindi, si è cercato di rispondere alle questioni di cui si diceva, attraverso un’organizzazione del materiale suddiviso in alcune sezioni, slegate le une dalle altre e tutte fruibili singolarmente.
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Leonilda, la sua famiglia Il mestiere Un racconto Leggere le immagini
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Quasi d’obbligo, dunque, partire dalla vera artefice di questa esposizione, la protagonista che stando dietro all’obiettivo, ha realizzato i lavori presentati. A lei abbiamo dedicato una sezione intitolandola “Leonilda, la sua famiglia”, nella quale abbiamo raccolto le foto “di famiglia” che ripercorrono alcune tappe della sua vita mostrandocela giovane sposa a fianco del marito, poi madre di figlioli che osserviamo crescere, di ritratto in ritratto, in numero e in età, infine anziana signora a fianco del consorte e della famiglia, già adulta. Occorre anche dire che questa è l’unica serie di fotografie che siamo in grado di corredare di nomi e date sufficientemente precise. Leonilda era, per la sua epoca, una figura irregolare; animata da coraggio e spirito di iniziativa non comuni, capace di impensabili ribellioni, visse esperienze che molte donne non avrebbero nemmeno osato immaginare e che qualcuna forse biasimava. Era donna di forti contrasti: musicista, creativa e allo stesso tempo dotata di spirito imprenditoriale, di indubbio senso pratico; indipendente, ma capace di condividere la sua esistenza con quella di un compagno dall’invalidità devastante; autonoma, ma legatissima alla famiglia, da cui non si staccherà mai per approfondire in modo solitario la tecnica professionale. Una donna a suo modo straordinaria e comunissima. E’ proprio questo tratto a colpire chi si sofferma sulle immagini della famiglia Prato, questa apparente antinomia che si incarna in una figura femminile tanto dinamica e volitiva nello spirito quanto minuta e dimessa nell’aspetto. Chi avesse immaginato, conoscendone la vicenda, un qualsiasi elemento, nella sua fisicità, che ne esaltasse il carattere, o che la distinguesse, innalzandola rispetto alle sue conterranee, si troverà spiazzato di fronte all’atteggiamento quasi schivo, al viso ordinario, alle mani abbandonate sulle vesti scure e severe. Leonilda era una donna della montagna posta a cavallo tra Piemonte e Liguria e il suo viso lo rivela: gli zigomi pronunciati e le mani forti di chi è abituato alla fatica, il viso segnato, i vestiti scuri e i capelli tirati in una crocchia, severi anch’essi, anche in giovane età, quando posava al fianco di un marito ancora bello e giovane e un po’ misterioso dietro agli occhiali neri. Leonilda possedeva uno sguardo scuro e penetrante, lo stesso che trasmise alla figlia minore, Annita Leonìda, ma non sorrideva mai, proprio come le madri circondate da nugoli di figli e mariti dai volti induriti e stanchi. Eppure, si è detto, erano tutti un po’ stravaganti in famiglia, ma certamente non noiosi o tristi, anzi, ben disposti a condividere con i compaesani qualsiasi occasione di festa o riunione. In quante fotografie compare Leopoldo; quando in paese ci si trovava lui era lì, inconfondibile, cappellaccio calcato sulla fronte, baffoni alla moda del tempo e occhiali, dritto come un fuso. E poco distante c’era lei, perché era lei a metterli in posa e a chiedere a Leonilda, la sua famiglia
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tutti di star fermi, il tempo dello scatto. E a volte ci riusciva, a volte no. Erano lì, entrambi, fra i giovani il giorno della leva, o seduti al tavolo fuori dalla “Cantina dell’Europa”, per un momento di riposo e un goccio di vino, insieme a osti e cameriere, con gli asciugamani ancora gettati sulla spalla (foto in basso); erano davanti all’uscio di una casa, di molte case, tra persone rilassate o concentratissime nello sforzo della posa; erano nel bosco dietro casa, sdraiati sull’erba della riva, in mezzo a famiglie e volti amici. Infine, anche loro erano lì, tutti quanti insieme, tutta la famiglia vestita a festa, composta e solenne di fronte all’obiettivo. Stessi fondali, stessi decori usati per conferire un poco di armonia ad una scena fin troppo severa: qualche vaso, qualche fiore fra le mani. I ritratti dei Prato non si differenziano in nulla dalle centinaia di ritratti di famiglia realizzati per i compaesani: le stesse pose, anno dopo anno, con i ragazzi che crescono... (a fianco il ritratto della terzogenita Leonìda)
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Parte dell’esposizione è stata riservata invece al mestiere, dove si tenta di illustrare il lavoro della fotografa attraverso l’indagine delle stampe, con un occhio particolarmente attento alla scelta dei soggetti, delle pose, degli sfondi. Naturalmente, l’intero campionario di immagini che compone la mostra si presta a questo genere di osservazione. Leonilda fu, secondo una definizione amata da Ando Gilardi, una “magnifica randagia”3 della fotografia, una di quelle centinaia di lavoratori dell’immagine che “penetrarono fra la gente del popolo come le gocce dell’acqua nella sabbia e non vi fu atomo sociale vivente, genuino, proletario che non fosse riflesso nel prodotto dozzinale del loro lavoro”4. Quando apprese i rudimenti della tecnica fotografica, ormai da almeno un quarantennio le strade, i paesi, le caserme venivano battute da persone che, più o meno consapevolmente, attuavano i principi di quella rivoluzione democratica dell’immagine che aveva prodotto un rapido scivolamento del gusto borghese per il ritratto in ogni piega del tessuto sociale, tra le masse del proletariato urbano come tra gli abitanti delle campagne5. Si era trattato di una rivoluzione “democratica” solo in apparenza, per la verità: le distinzioni sociali continuavano ad esistere e si notavano, soprattutto nei modi e nelle forme. Così, mentre schiere di distinti signori accorrevano presso gli atelier cittadini, accettando di buon grado lunghe sessioni di posa per ottenere la migliore rappresentazione di sé; mentre la borghesia celebrava la propria ascesa, atteggiandosi fra colonnine di finto marmo e orpelli di cartapesta, gli operai si accalcavano fuori dagli opifici, i soldati nei cortili delle caserme, i contadini accorsi alla fiera per vendere i frutti del loro lavoro schieravano i figlioli di fronte all’obiettivo dell’ambulante, ottenendo per pochi soldi un prodotto che, almeno agli inizi, doveva apparire come qualcosa di entusiasmante e misterioso. Negli anni Sessanta, quando la presenza degli ambulanti cominciò ad infittirsi, l’oggetto che finiva nelle mani dei sempre più numerosi clienti non era altro che una piccola lastra in lamina di ferro (ferrotipia), supporto povero e non certo soddisfacente in termini di qualità dell’immagine, ma che aveva il pregio di venire realizzato in tempi rapidissimi (un buon operatore lo poteva ottenere anche in cinque minuti). Ai tempi delle peregrinazioni di Leonilda, e negli anni della più intensa attività (anni Dieci-Venti del Novecento), i supporti in metallo avevano lasciato il posto alle lastre di vetro, ma le caratteristiche del mestiere erano rimaste le medesime. L’atelier di Leonilda era la strada, sia quando si spostava di paese in paese in compagnia del marito, sia quando risiedeva per lunghi periodi a Pamparato. Per le sue realizzazioni non si avvaleva di scenari sofisticati, di luci artificiali, degli oggetti che troviamo nei ritratti coevi realizzati negli studi professionali. Mai si vedranno i Il mestiere
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fondali dipinti che fanno da quinte ad improbabili scene di genere, con gentiluomini in gessato e bombetta a dorso di mulo o alla guida di un’auto, o spavaldi su un piccolo aereo, tutto posticcio, tutto rigorosamente di cartone colorato. Lei piazzava il suo treppiede ovunque il terreno glielo consentisse: in mezzo alla via, nei boschi alle spalle del paese, sulle rive di un torrente, sul selciato antistante il castello, nei giardini, nei cortili delle cascine o davanti alle porte di povere case. Negli interni non amava lavorare, tranne in rarissime occasioni, quando veniva chiamata per riprendere un momento di vita familiare o per immortalare l’ultima immagine terrena del caro defunto, come voleva la consuetudine del tempo. In questo caso Leonilda fissava sulle sue lastre il sonno senza vita di corpicini infantili adagiati amorevolmente sopra letti addobbati di trine e fiori, o il viso esangue e drammaticamente rivolto all’obiettivo di una giovane consumata dalla malattia, o l’ultima veglia dei figli al capezzale del padre. Era un costume condiviso da tutte le classi sociali dell’epoca, ed è indicativo di quanto la fotografia fosse penetrata profondamente nella vita degli individui, accompagnandone l’intero percorso e documentandone le scansioni più importanti, dal primo vagito fino all’estremo passo. Il suo studio, dunque, veniva allestito ovunque se ne presentasse l’occasione, ed anche se non disponeva degli strumenti e degli artifizi di cui si avvalevano i più pretenziosi colleghi, Leonilda non rinunciava a ricreare una parvenza di scenografia, così come aveva visto fare, forse, da chi l’aveva istruita. Drappi di tessuto damascato [fot. 2], pesanti coperte [fot. 1], tendaggi, lenzuola, venivano così usati come fondali; talvolta, non a caso nei ritratti più importanti (in genere per i ritratti di famiglie numerose [fot. 3-4]), esibiva un drappo scuro su cui campeggiavano, da un lato, un ricamo raffigurante un ramo fiorito e dall’altro la scritta “Fotografia Prato”. Era una sorta di ragione sociale ed è questa praticamente la sola traccia, l’unica “prova”, potremmo dire, di un’attività condotta in modo professionistico. E’ possibile che quando utilizzava il drappo personalizzato Leonilda si sentisse lei stessa un poco più “professionista”, tanto da sbilanciarsi in qualche altrimenti raro formalismo, studiando e imponendo ai suoi soggetti pose più che mai artificiose (fot. 3, in cui due donne e una bambina, una in piedi ed una seduta, sono riprese di profilo, lo sguardo rivolto al nulla, avanti a sé). E tuttavia, anche in questo caso, la modestia dei mezzi, che rispecchia pienamente la semplicità delle persone che aveva di fronte e in qualche caso la “rusticità” dell’ambiente, finivano per emergere costantemente, straripando a volte dalle immagini e vanificando qualsiasi sforzo di creare uno scenario garbato. La precarietà delle condizioni di lavoro si intuisce così dalle fascine che spuntano da sotto i fondali [fot. 3], dall’instabilità di un terreno in pendenza da cui sbocciano pietre e radici e su cui posa, completamente Il mestiere
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obliqua, un’intera famiglia [fot. 7], dalle mani volonterose che sorreggono i fondali stessi, appesi alle bella e meglio [fot. 8] o dalle figure che fanno capolino da dietro, nell’istante stesso in cui l’immagine si fissa sul negativo [fot. 6]. Questi fondali improvvisati (anche un muro o una porta potevano servire, all’occorrenza, fot. 5) assolvevano a una duplice funzione: dare contrasto all’immagine, ma soprattutto celare, mascherare ciò che di brutto non si voleva mostrare, proprio perché considerato degradante o meschino e comunque stridente rispetto all’immagine che si intendeva fornire di sé. Anche chi godeva di un certo status, tuttavia, non poteva far nulla contro l’ambiente circostante. In una delle poche fotografie di cui è stato possibile identificare la persona ritratta, si vede una delle proprietarie della fabbrica di acido tannico di Pamparato intenta a posare, in un giardino o in un cortile [fot. 9]. L’atteggiamento denota sicurezza (la mano sul fianco), l’abbondanza di goielli sfoggiati al collo e ai polsi una certa agiatezza, ma dietro di lei, inesorabili, sedie sfondate e un generale senso di disordine. Ma, dopo tutto, l’enorme fascino che emanano queste fotografie è proprio quello che deriva dai contrasti violenti: la cura dei preparativi e l’indifferenza al dettaglio. Leonilda, d’altra parte, faceva ciò che poteva, impiegando per i ritratti tutti gli artifici che conosceva: i soggetti in genere venivano ripresi seduti, di fronte o di tre quarti oppure in piedi, appoggiati a sedie impagliate o a tavolini da cui a volte scendeva una tovaglia o su cui poggiava un vaso di fiori; perfino un comodino spuntato da chissà dove poteva essere usato come “décor”. I tentativi di migliorare, di ingentilire l’immagine, da parte di chi agiva da entrambi i lati della macchina era dunque commovente ma spesso inefficace. Il mondo di Leonilda era un mondo umile, nella maggior parte dei casi composto di contadini, piccoli artigiani, operai, serve, osti, commercianti. Era un mondo in cui la subalternità sembrava possedere vita propria, capace di riaffiorare ovunque, a dispetto di qualsiasi tentativo di abbellimento: dagli attrezzi di campagna che stonavano con l’atteggiamento severo e gli ombrellini vezzosi [fot. 10-11], dagli abiti dei bambini confezionati con l’unico taglio di stoffa [fot. 23], dalle scarpe impolverate e logore dall’uso [fot. 7], dalle mani callose di chi non sa far altro che lavorare; e dagli sguardi, naturalmente, dalle centinaia di sguardi di uomini e donne in cui ciò che si legge è soprattutto fatica e stanchezza. E ciò nonostante chiunque si ponesse consapevolmente di fronte all’obiettivo, non importa se donna o uomo, giovane o anziano, lo faceva con l’intenzione di fornire la miglior rappresentazione di sé e magari, se possibile, di gettare un po’ di fumo negli occhi, fino a distorcere un poco la realtà, naturalmente perfezionandola. E’ stato detto che quando la fotografia penetrò fra gli strati più umili questi se ne impadronirono emulando i gesti della borghesia e trovando in questo quasi Il mestiere
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l’illusione di un’autentica elevazione sociale. Se accettiamo questa interpretazione, allora non sarà difficile trovarne innumerevoli riscontri nelle nostre fotografie. Non c’è persona che, preparandosi per il “rito”, non volesse apparire un po’ “più su” e per fare questo sceglieva il vestito migliore (spesso l’unico, buono, posseduto), indossava ciò che aveva di più prezioso, esibiva gli oggetti conservati gelosamente. Lo rivelano certe pieghe sugli abiti, come di vesti appena uscite dai bauli o l’abbondanza di spille che chiudono i colletti, o i cammei, o le lunghe catene d’oro che scendono sul petto annodate, come vuole l’usanza, o i pizzi cuciti su polsi e colli. Leonilda, probabilmente, ci metteva del suo. Leonilda era donna, questo è un dato importante, e amava fotografare le donne, che probabilmente con lei si sentivano a proprio agio e si lasciavano consigliare. E’ possibile quindi che fosse lei stessa ad aggiustare, a imporre un contegno, ad imprestare oggetti. Ricorre in molti ritratti femminili un boa di piume - accessorio abbastanza improbabile al collo di donne del popolo specie se appoggiato su camicette di tela di cotone - ma che doveva essere considerato ornamento di gran moda e che contribuiva a conferire la sicurezza necessaria per fissare dritto nell’occhio della camera [fot. 8 e 12]. E quando non era il boa, anche una sciarpa di seta con le frange appoggiata al braccio poteva servire allo scopo [fot. 13-14-15]. Molte giovani o signore, poi, amavano farsi riprendere intente alla lettura, o con con un libro fra le mani [fot. 16)], in pose assai comuni a tutta la ritrattistica del tempo. Il libro diventava così un oggetto-simbolo molto apprezzato poichè accordava una connotazione di rispettabilità e cultura ai soggetti ripresi, pur non rappresentando certamente un indicatore attendibile del reale livello di istruzione. Le stesse riflessioni possono essere estese ai bambini, di tutte le età, che Leonilda sembrava divertirsi a riprendere, assecondando le madri nel gusto, anche qui, molto borghese, di agghindare di tutto punto i figli prima di esporli. A qualunque condizione appartenessero, le madri amavano esibire i figli, lasciandoli soli di fronte all’obiettivo o posando inseme a loro. I più piccini finivano così per essere impietosamente infiocchettati [fot. 17 e 18], deposti in tinozze [fot. 19], adagiati in bilico su morbidi cuscini [fot. 21], o in mezzo a vasi di fiori [fot. 20], o fissati su enormi sedie con lacci anticaduta [fot. 22]. Costretti a posizioni innaturali, qualcuno se la rideva di gusto, altri sembravano attoniti o sul punto di crollare ad ogni respiro, se non fosse stato per la provvidenziale mano della mamma che li sorreggeva da dietro come fossero marionette. E se i piccolissimi talvolta, del tutto inconsapevoli, ridevano, regalando all’immagine un che di spontaneo e gioioso “malgrado tutto”, il discorso cambia radicalmente per i più grandicelli. A guardarli in queste fotografie pare che tutto il peso del mondo gravi sulle loro gracili spalle e Il mestiere
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tutti sembrano condividere la medesima serietà: sui loro volti non compare traccia di sorriso. Mai. E se può risultare difficile distinguere il figlio del carpentiere da quello del notaio, considerando l’identica smania delle madri, tutti riservano lo stesso sguardo serio all’obiettivo. Forse proprio perché donna e madre, Leonilda arricchì il suo archivio di centinaia di sguardi innocenti e meravigliati. Alcuni, circondati da fratelli maggiori e poveri genitori invecchiati precocemente, sembrano davvero non avere alcun motivo per sorridere alla vita che si dischiudeva davanti a loro [fot. 23]. Altri, anche se un poco più fortunati, appaiono comunque del tutto incapaci di godere i balocchi che si trovano fra le mani, anche perché si tratta ancora una volta di “pose” artificiali, in cui il tamburo di latta o il cerchio o la palla [fot. 24-25-26] vengono rappresentati in quanto simboli del gioco e dell’infanzia e non perchè colti nell’attimo di essere goduti. E come mai potrebbe, d’altra parte, anche solo pensare di giocare con la sua palla il bambino impeccabile nel suo vestitino immacolato, se mentre calcia gli tocca reggere contemporaneamente un mazzolino di fiori? [fot. 25]. Ma non ci meravigliamo più di tanto: il nostro sguardo è distorto dal modello contemporaneo dell’infanzia, che la concepisce quale massima espressione di naturalità e che per essa coltiva il culto della spensieratezza e della spontaneità. Altra cosa era il mondo di fine Ottocento, che fin dalla culla costringeva i neonati alle angustie delle fasce e che proseguiva poi senza troppi complimenti, sia negli ambienti contadini, dove si attingeva alle piccole braccia per i lavori dei campi fin dalla più tenera età, sia in quello borghese, che riversava su di esso le aspirazioni familiari. Ecco perché questi adulti in miniatura, compunti nell’impersonare lo scolaro ideale desiderato da papà [fot. 27] o più ancora i patrioti in erba, con tanto di bandiera sabauda esibita [fot. 28]6 o il più recente piccolo “balilla”, o la coppia di sorelle in cui la maggiore sembra già perfettamente compresa nella parte della mamma premurosa [fot. 29]. Non dimentichiamo infatti che, proprio per la percezione che si ha della fotografia come documento destinato a durare nel tempo e a testimoniare in modo permanente, la scelta degli atteggiamenti risponde all’esigenza di ribadire un preciso ruolo sociale o sessuale. Ecco dunque i bambini ripresi in divisa da soldatini o le femmine abbigliate a foggia di piccole signore - secondo i ruoli che i genitori e il contesto sociale hanno loro assegnato come se la fotografia potesse diventare un ulteriore mezzo pedagogico di addestramento alla mascolinità o alla femminilità. A fare da contraltare all’infanzia la vecchiaia, che non sfugge alla tentazione di fermare il tempo, seppur per un solo istante. I ritratti degli anziani sono i più commoventi, capaci di raccontare intere esistenze, vite combattute o sconfitte, vite realizzate nell’unione della famiglia, a cui partecipano ancora, occupando nelle case Il mestiere