Con inediti di Cioran, Eliade e Culianu PROSPETTIVE ANTIMODERNE N. 07/2014 /2014 2014
Il paradosso romeno
Eliade, Cioran e la «giovane generazione»
Il paradosso romeno
Eliade, Cioran e la «giovane generazione» pag. 2 Il miracolo di una generazione in esilio di Adolfo Morganti pag. 3 Editoriale: il secolo breve della Romania
n. 07/2014 Antarès, Prospettive Antimoderne RIVISTA TRIMESTRALE GRATUITA Direttore responsabile: Gianfranco de Turris Direttore editoriale: Andrea Scarabelli Caporedattore: Rita Catania Marrone Redazione: Gianpiero Mattanza, Valerio Morosi, Natale Pezzimenti, Luca Siniscalco Hanno scritto: Claudio Bartolini, Mario Bernardi Guardi, Luca Bistolfi, Liviu Bordas, Massimo Carloni, Horia Corneliu Cicortas, Emanuela Costantini, Giorgio Guido, Gianpiero Mattanza, Roberta Moretti, Adolfo Morganti, Radu Motoca, Andrei Plesu, Draga Rocchi, Giovanni Rotiroti, Lara Sanjakdar, Andrea Scarabelli, Luca Siniscalco Illustrazioni di: Alessandro Colombo, Irene Pessino Traduzioni dal rumeno di Horia Corneliu Cicortas (A. Plesu, Ioan Petru Culianu: un’amicizia e alcuni non-incontri; M. Eliade, L’India e l’Occidente e Il mistero; I. P. Culianu, Il gioco dei dadi) e Valentina Elia (E. M. Cioran, Lo stile interiore di Lucian Blaga) Traduzione dal francese di Andrea Scarabelli (L. Bordas, Mircea Eliade e Giovanni Papini, una “corrispondenza” spirituale)
Saggi: pag. 4 Il grande (dittatore) rimosso di Claudio Bartolini pag. 7 Emil Cioran: un abisso di vitalità di Mario Bernardi Guardi pag. 10 Il falso mito di Dracula: dal diabolico «burlesque» alla realtà di Luca Bistolfi pag. 14 Cioran e la poesia del fallimento di Massimo Carloni pag. 19 Il giovane Eliade dall’Italia all’India di Horia Corneliu Cicortaș pag. 23 Nae Ionescu e la giovane generazione di Emanuela Costantini pag. 26 Gherasim Luca: «Come uscirne senza uscire» di Radu Motoca pag. 29 Constantin Noica: il divenire entro l’essere di Draga Rocchi pag. 33 Eugène Ionesco e la «Cosa balcanica» di Giovanni Rotiroti pag. 37 Sergiu Al-George, l’India e Mircea Eliade di Lara Sanjakdar
Progetto grafico e AD: panaro design Impaginazione: Studio Caio Robi Silvestro
Documenti: pag. 40 Lo stile interiore di Lucian Blaga di Emil Cioran pag. 42 Lettere a Wolfgang Kraus di Emil Cioran pag. 47 L’India e l’Occidente di Mircea Eliade pag. 49 Ioan Petru Culianu: un’amicizia e alcuni non-incontri di Andrei Pleșu
Edizioni Bietti - Società della Critica srl, Sede legale: C.so Venezia 50, Milano www.edizionibietti.it
Dossier: pag. 51 Carteggio Mircea Eliade-Giovanni Papini a cura di Liviu Bordaş
In copertina: Emil Cioran, Eugène Ionesco e Mircea Eliade © Louis Monier/Rue Des Archives/Lebrecht Music & Arts
In attesa di registrazione presso il Tribunale di Milano Stampa: ProntoStampa srl, Via Redipuglia 150, Fara Gera d’Adda (BG) antares@edizionibietti.com www.antaresrivista.it Antarès è anche su Facebook, alla pagina “Antarès Rivista”.
Narrativa: pag. 61 Il gioco dei dadi di Ioan Petru Culianu pag. 65 Il mistero di Mircea Eliade Recensioni: pag. 67 Heimo Schwilk: “Ernst Jünger” di Andrea Scarabelli pag. 68 Segnalazioni pag. 70 Indice dei collaboratori
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Il miracolo di una generazione in esilio di Adolfo Morganti
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birinto” dell’esilio stesso. I nomi che riempiono fittamente queste pagine sono oramai in buona parte noti a ogni lettore colto italiano, ma costituiscono l’avanguardia di una falange ben più numerosa. Accanto agli allori degli storici delle religioni Mircea Eliade e Ioan Culianu, dei filosofi Emil Cioran, Nae Ionescu e Constantin Noica, dei letterati Paul Celan, Ion Barbu, Lucian Blaga, Eugene Ionesco (il grande innovatore del teatro contemporaneo, che qualche buontempone continua ancor oggi a spacciare per francese) e Vintilă Horia, fino a singolari e preziose figure di mistici del XX secolo come Dumitru Stăniloae e Nicolae Steinhardt (quest’ultimo solo ultimamente riscoperto in Italia), è necessario ricordare come anche il nostro Paese abbia conosciuto nel medesimo periodo una qualificata e costante presenza culturale romena, rappresentata da alcune istituzioni come l’Ambasciata di Romania presso la Santa Sede, l’Accademia di Romania a Roma e l’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia. Centri che ancor oggi stupiscono per la qualità – oltre che per il ritmo – della proposta culturale rivolta a tutti gli interessati (provare per credere!), tenuta sempre viva, sovente con grande sacrificio, a dispetto di tutte le vicissitudini che la Romania ha dovuto attraversare negli ultimi ottant’anni. Tutto ciò attesta ulteriormente il legame profondo che unisce la cultura romena a Roma, “quella Roma onde Cristo è romano”, che per secoli ha difeso e della quale si è fatta testimone. Quanto detto basterebbe per salutare con grande favore questa iniziativa di «Antarès». Ma a tutto ciò si unisce provvidenzialmente un ulteriore motivo di gratitudine, perché quest’occasione ci consente di ricordare con profondissimo affetto un’altra grande figura di artista romeno dell’esilio: Camilian Demetrescu, scomparso due anni fa. Fu a lui che dovemmo lo stimolo per la creazione, nel 1987, di una diffusa catena internazionale di solidarietà cristiana che ci consentì di ristampare in Italia uno dei grandi monumenti della cultura romena del XX secolo: la tradizionale versione romena della Sacra Bibbia, opera massima di Gala Galaction. Essa venne distribuita clandestinamente in Romania negli ultimi anni del regime, segno di un’identità immortale che si preparava a risorgere ancora una volta dalle catacombe. Quest’anno, per il novantesimo anniversario della sua nascita, è stata fondata in Italia un’associazione a lui intestata, e la Sua famiglia, che la anima, sa di poter contare su una rete di amici che ne valorizzeranno nel tempo l’opera e gli insegnamenti spirituali. Il racconto così iniziato potrebbe continuare, ad esempio rammentando l’arte antica e la grande forza di un Maestro dell’Icona romena, Aurel Ionescu: da decenni ha scelto il nord Italia come sua nuova casa e ivi prosegue la tradizione (che è anche concreta trasmissione) di quest’antica arte pittorica, testimonianza della persistenza dell’Arte Sacra medievale europea, conservata e riportata dalla Romania, ma con profonde radici venete e mediterranee… Che queste pagine possano servire al lettore per iniziare un viaggio verso il Limes Carpaticus. Esso custodisce da sempre meraviglie sublimi.
el panorama ricco solo di rovine dell’Europa post-1945, in cui andava solidificandosi quel muro fra Est e Ovest che avrebbe segnato per decenni non solo una separazione politica, ma anche la sincope dell’Europa stessa – vittima tanto delle ideologie sconfitte durante la guerra quanto di quelle vincitrici –, il particolarissimo caso della generazione dell’esilio, che dalla Romania si disseminò in tutto il mondo (particolarmente a Parigi e negli USA), rimane una sfida per la logica e la storia. Si trattò infatti di un autentico miracolo. L’unico evento affine è forse la fecondissima diaspora degli intellettuali grecofoni in Italia e in altre zone dell’Europa mediterranea occidentale, dopo la caduta di Costantinopoli del 1453. Mai, però, negli ultimi secoli era accaduto che da un popolo potesse sorgere e prendere vita un’ondata di pensiero e azione simile, in grado addirittura di scuotere – nella condizione meno favorevole, quella dell’esilio – le fondamenta spirituali della quieta diarchia comunismo-capitalismo, fino a contribuire meravigliosamente al suo superamento. Il popolo di cui stiamo parlando ha custodito lungo i secoli il limes orientale del continente, sebbene non fosse particolarmente numeroso (si pensi, ad esempio, alle cifre dell’emigrazione polacca postbellica) né in precedenza molto noto per la diffusione e la profondità della grande Cultura continentale (diversamente dall’Ungheria, caratterizzata da un secolare rapporto con Vienna e la tradizione del Sacro Romano Impero) e fondato su una peculiare eredità linguistica – isola neolatina nel grande mare slavo, ai confini del non meno grande mare turcofono – tanto orgogliosamente preservata quanto minoritaria. È da questo popolo che scaturisce quella schiera d’intellettuali feriti dalla lontananza dalla propria patria, dalla costruzione di una “nuova Romania” comunista sulle ceneri della civiltà romena, dall’urto scientifico della dittatura ideologica e della diffamazione verso ogni reprobo, dalla stessa viltà e imbarazzo di un Occidente che a lungo ha finto di opporsi al comunismo in realtà sostenendolo, nascondendo per vergogna quella penna che aveva firmato gli osceni patti di Yalta. L’intera élite romena si mise in cammino – fuori dall’Egitto di un esperimento sociale e politico sempre più soffocante, feroce, implacabile, profondamente paranoico e idiota – alla ricerca non tanto di un paradiso terrestre, quanto di uno spazio sufficiente di libertà, in primo luogo intellettuale e spirituale. E in questo spazio continuò a operare, scavando un solco profondo in tutti gli ambiti della cultura umanistica contemporanea e seminando senza tregua, consentendo così a generazioni di europei (e non solo) di nutrirsi di frutti, forse non noti a tutti, ma ancor oggi preziosi. Il pensiero della generazione romena dell’esilio fu difatti, fin dal principio, europeo, capace di mantenersi profondamente radicato nel proprio tessuto storico, antropologico e spirituale, e proprio per questo in grado di “essere ponte” con il mondo intero, dentro e fuori dall’Europa. Questo numero di «Antarès» è acutamente concentrato sulle testimonianze e le tracce che questa “generazione-miracolo” ha lasciato nel corpo vivo della cultura europea, in parte già a partire dagli anni Venti e Trenta, e massimamente dopo la “prova del La-
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Editoriale: il secolo breve della Romania
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tadinanza alcuna nella cultura “alta”. Ma occorre fare i conti con loro, per capire meglio quelle stesse antinomie che sono marchio indelebile della nostra epoca. Anche la Romania conobbe una “giovane” generazione di “inattuali”, il cui maestro fu quel Socrate (anti)moderno conosciuto con il nome di Nae Ionescu, il quale si rifiutò di mettere per iscritto il proprio pensiero, ritenendo che la vera tradizione filosofica fosse quella che affida all’oralità i propri insegnamenti. Il suo magistero diede i natali a una generazione che agli ultimi strascichi dell’Ottocento oppose nuovi valori, abbracciando la necessità di porsi al di là della modernità. È anche in quest’ottica che possiamo analizzare le invettive di Emil Cioran contro il mito del progresso, contro quella Storia – con la dovuta maiuscola – propria all’ottimismo idealistico del XIX secolo, ma anche contro l’elemento bizantino-ortodosso, ch’egli considerava come una zavorra della tradizione spirituale romena; e che altro rappresenta la riscoperta della dimensione del sacro da parte di Mircea Eliade se non una reazione alla miopia di quell’Illuminismo che viveva nell’illusione – altrettanto religiosa e fideistica – di averla relegata tra i rottami di un’epoca buia? Cos’altro rappresentano gli studi di Ioan Petru Culianu se non il tentativo di ridimensionare l’arroganza della modernità, che attraverso la scienza e la tecnica squalifica come superstiziosa ogni forma di pratica non materialista, volta a dimensioni altre? Questo il valore della loro testimonianza nel contesto delle attività della rivista «Antarès». La riflessione sull’antimodernismo proposta da questi personaggi – la quale, priva di qualsivoglia pretesa di esaustività, non è che un modesto esercizio propedeutico a un loro approfondimento in questa direzione – è stimolata anche da due recenti pubblicazioni per i tipi di Bietti, all’interno della collana “l’Archeometro”: il saggio di Eliade Salazar e la rivoluzione in Portogallo e il carteggio di Cioran L’agonia dell’Occidente (un estratto del quale è pubblicato in questo fascicolo). La realizzazione di questo numero è stata resa possibile da feconde collaborazioni, testimonianza di come vi siano generazioni di ricercatori intenzionati a sviluppare in maniera scientifica e accurata argomenti trattati superficialmente dai più, specialmente in un Paese nel quale le attività degli studiosi sono sovente limitate da un certo basso giornalismo. Un ringraziamento particolare va qui a Horia Corneliu Cicortaş, senza l’aiuto del quale questo numero non avrebbe mai visto la luce così com’è. In conclusione, l’eredità e il retaggio della “giovane generazione”, cui è dedicato questo contributo bibliografico, attestano non solo la necessità di fare i conti con la realtà romena, ma ci spingono anche nella direzione di un nuovo confronto con quello che è stato definito il “secolo breve”. Il secolo breve dell’Europa, della Romania, dell’Occidente, i cui ultimi bagliori rischiarano ancora le nebbie del nuovo millennio.
l fascicolo di «Antarès» che avete tra le mani non è solo testimonianza della fecondità di un contesto culturale assai poco studiato in Italia – e, spesso e volentieri, in maniera parziale e scarsamente scientifica – come quello romeno tra le due guerre, ma anche e soprattutto un esercizio che, muovendo da un contesto particolare, si spinge verso una più generale riflessione sulla nostra attualità, nel suo rapporto con il proprio passato. Molti sono infatti i modi di affrontare la storia: il più diffuso ordina in maniera lineare passato, presente e futuro, utilizzando come chiave di lettura i valori del presente. Le categorie con cui viene analizzato il nostro tempo sono, per così dire, “proiettate” anche sulle epoche passate, le quali vengono così riscritte in base alla sensibilità degli studiosi di turno. Eppure, chi misura – tutta – la storia in base ai criteri dell’utilitarismo e del materialismo non s’interfaccia realmente con il passato ma sempre solo con se stesso. D’altra parte, è noto come una visione del mondo non possa essere fatta oggetto di studio senza essere snaturata: il confronto con la storia esige cautela e accortezza, nonché il rispetto del suo eros peculiare. Passato e presente non devono essere subordinati a un’idea unica, quale che sia – tra epoche storiche differenti si stagliano abissi, talvolta incolmabili, i quali, da un certo punto di vista, impediscono una loro comprensione che voglia dirsi totale. Studiare quella generazione romena che annoverò tra le proprie fila intellettuali come Emil Cioran, Mircea Eliade, Constantin Noica e Vintilă Horia equivale a fronteggiare uno degli scarti di cui sopra. I nomi menzionati sono infatti indice di una rivolta contro le categorie ottocentesche, il cui naufragio fu palese nei primi decenni di un secolo bifronte, dilaniato tra Belle Époques, esposizioni universali e le carneficine di due conflitti mondiali. Agli inizi del Ventesimo secolo l’Europa fu percorsa da un brivido di novità. Nuove generazioni nate a seguito del crollo del positivismo e dello scientismo del secolo precedente presentarono il conto a una modernità in procinto di crollare. Si trattò di una vera e propria “contestazione”, che diede il colpo di grazia al mondo razionalista, borghese, ancora discepolo del contratto sociale e posto sotto l’egida di quella tecnica che, dopo aver sedotto l’Europa del XIX secolo, di lì a poco l’avrebbe messa a ferro e fuoco. Fu quella generazione ribelle e anticonformista che diede i natali ai Prezzolini e ai Papini, ai Longanesi e alle riviste vociane, ai motti incendiari dei futuristi – nel loro tentativo di dotare le macchine di una nuova mistica –, ai Burzio, ai Michelstaedter, agli Jünger e agli Spengler, ai Drieu e ai Céline. Antimoderni? Forse, non fosse altro per il fatto che è la loro stessa esistenza a testimoniare la frattura incolmabile tra il XIX e il XX secolo. È del tutto naturale che i sostenitori di una visione progressista della storia non riconoscano a queste generazioni diritto di cit-
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Il grande (dittatore) rimosso di Claudio Bartolini
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movimento creativo e produttivo in costante evoluzione, non è di fatto mai esistita, sclerotizzata com’era in produzioni di genere storico e apologetico o innocuamente umoristico. Più che scuola di cinema, quella romena era accademia, e di partito»1. La settima arte romena, intesa come movimento artistico, nasce dunque a partire dalla rivoluzione del 1989 e dalla conseguente esigenza di tornare a fare luce sul buio per comprendere, esorcizzare e riflettere una stagione contrassegnata da un blocco, da un rimosso. Come una seduta di psichiatria nazionale, il cinema si incarica di (ri)mettere in scena il nodo irrisolto, per scioglierlo e restituire all’immaginario la possibilità di un “dopo”, di un punto zero dal quale smettere di voltarsi indietro. I cineasti della nuova generazione tornano sempre al regime, facendosi portavoce di un’esigenza nazionale e confrontandosi con temi sovra-individuali. Una corrente filmica di particolare rilevanza è costituita da pellicole ad ambientazione dittatoriale, nelle quali i registi palesano
a storia su un tavolo operatorio, alla ricerca di una ferita mai (mal) cicatrizzata. Il ritorno eterno a quel punto vitale inciso, mai del tutto reciso, frettolosamente cauterizzato e ora marcescente nella memoria. Noul val românesc – nuovo cinema romeno, arte della cicatrice, dell’incessante ricerca di un dialogo impossibile con un passato fin troppo prossimo quanto a riverberi nel presente, eppur troppo remoto per poter essere raccontato con realismo empirico. La piaga imposta dalla dittatura comunista esige un’arte continuamente ripiegata, da una parte verso il controllo dell’effettiva rimarginazione, dall’altra verso nuovi interventi per limitare ulteriori fuoriuscite di dolore. Dal 1989 a oggi, il cinema romeno è arte della sutura impossibile, del continuo ma frammentario ritorno a quei quarantadue anni di comunismo e, in particolare, ai ventiquattro di regime scanditi dal culto della personalità di Nicolae Ceaușescu. «Per decenni, d’altronde, una vera e propria “cinematografia” romena, nel senso di un
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sterminata dalla stessa Militia, in quanto sprovvista di parola d’ordine. Nella (ri)messa in scena della dittatura e della conseguente rivoluzione, manca la certezza identitaria. Soldati che sparano su altri soldati, rivoluzionari che disconoscono anche i propri alleati, in un film che si apre con la strage sopracitata e si chiude con il ritorno alla medesima scena, a dimostrazione di un girovagare nella mimesi storica che non ha portato a nulla. Alla Noul val românesc ad ambientazione retroattiva manca dunque la possibilità di attingere e, conseguentemente, restituire certezze ineluttabili, come se una forza contraria al dispiegamento della piaga dittatoriale persistesse e continuasse un’operazione metodica di occultamento del dato reale. Nell’intero corpus filmico romeno post-1989, è un’assenza basilare a generare l’impotenza cinematografica nel rappresentare la storia nel suo insieme e il Partito Comunista Romeno nei suoi gangli fondamentali, aprendo in seguito a una decisa presa di posizione politica su quanto messo in scena. Un’assenza che impedisce la sutura storica, il pieno aggancio del singolo individuo al realismo geopolitico, oltre che quotidiano. Al cinema della Noul val românesc manca Nicolae Ceaușescu, mai rappresentato in forma di fiction e quasi mai attingendo a materiali d’archivio. Se a prima vista potrebbe apparire insolito che un cinema interamente rivolto al periodo della dittatura occulti l’immagine del Conducător, nel caso romeno ci sembra del tutto naturale, dato che ancora oggi la sua figura gode di un’ambiguità di lettura irrisolvibile. Alla luce di un momento storico tutt’altro che glorioso e di una presenza tuttora massiccia di ex fedeli ceaușeschiani negli attuali quadri parlamentari romeni, è impossibile attestare con certezza la “morte” del dittatore nell’immaginario nazionale e, analogamente, esprimere un giudizio univoco sul suo operato, condotto con una spiazzante (e sapiente) alternanza di spietatezza e condiscendenza che riverbera in letture demonizzanti contrapposte ad aperte agiografie. La figura del Conducător è talmente attuale nei discorsi, nella vita quotidiana e politica della Romania da condannare il cinema a farsi mezzo (in)espressivo, privato di una materia prima storicizzata da tenere a debita distanza in sede di messa in scena e messa a tema. La Noul val românesc gira in tondo sulla questione identitaria, confondendo l’adesione al Partito con la sua contestazione, l’appartenenza alla Militia con la diserzione, l’unità d’intenti rivoluzionari con una fedeltà a Ceaușescu tuttora molto forte. Nemmeno la frequente adozione del registro grottesco permette ai cineasti contemporanei il superamento della realtà come chiave della sua stessa riappropriazione, come solitamente avviene nelle cinematografie più consapevoli2. In Racconti dell’età dell’oro (Amintiri din Epoca de Aur, 2009) Cristian Mungiu assembla in sede di soggetto un mosaico a sei tessere (in forma di cortometraggi) trovando nell’assurdo e, appunto, nel grottesco l’elemento di coesione. Il frammento La leggenda della visita ufficiale (Legenda activistului în inspecție) narra di un paese di campagna nel quale vengono eseguiti gli ordini più inverosimili per preparare la visita di Ceaușescu. Ma il dittatore non arriverà, la visita sarà cancellata e, nel finale, gli abitanti del borgo saranno costretti a girare (all’infinito?) su una giostra che non ne vuole proprio sapere di spegnersi. La giostra della storia e la recita dell’assurdo, in attesa di un disvelamento filmico che, ancora una
l’esigenza della sutura scoprendo il corpo della storia e tornando a inciderlo, per meglio curarlo. L’ossessione per la ricostruzione dei fatti domina narrazioni collettive nelle quali il singolo – in stretta correlazione alla filosofia del Partito Romeno dei Lavoratori (divenuto, sotto Ceaușescu, Partito Comunista Romeno) diegeticamente imperante – è schiacciato dalla storia, fagocitato nel proprio pensiero individuale da movimenti che si compiono ineluttabili sopra la sua testa. In Portrait of the Fighter as a Young Man (Portretul Luptatorului la tinerete, 2010) Constantin Popescu documenta, con tanto di metodiche indicazioni temporali e geografiche, le azioni compiute dalla Garda de Fier – organizzazione paramilitare nazionalista e antisemita guidata in quel periodo da Gavrila Ogoraru – tra il 1950 e il 1957, anno del suo sterminio da parte dell’esercito comunista. Con esattezza filologica, il regista mette in scena il peregrinare delle pattuglie nei boschi, le incursioni armate, i momenti di svago di Ogararu e dei suoi fedeli, alternandoli a squarci sui deliri repressivi del governo stalinista di Gheorghe Gheorghiu-Dej in forma di interrogatori e torture ai danni di qualunque pensiero divergente. Il dilemma etico sulla violenza come risposta alla coercizione governativa affiora a più riprese, senza che l’autore adotti una posizione univoca. La rappresentazione mimetica della storia riflette la palese urgenza di chiarezza, scontrandosi inevitabilmente con l’impossibilità di restituire il quadro generale degli eventi. Le scaglie di filologia che Popescu restituisce sono consapevolmente esatte ma altrettanto eterogenee e frammentarie, slegate l’una dall’altra e poco utili a costruire un insieme. I punti di sutura applicati alla ferita sono precisi, ma distanti. Qualcosa sfugge e il sangue continua a defluire, lento e instancabile, dal corpo della storia. Altrettanto emblematico in tal senso è The Paper Will Be Blue (Hârtia va fi albastră, 2006), nel quale il regista Radu Muntean ricostruisce la notte del 22 dicembre 1989, quando i dimostranti si riversarono nelle strade di Bucarest costringendo la Militia alla resa e Ceaușescu alla fuga. La macchina da presa è mobile come quella di un documentarista, condotta a spalla tra i vicoli della capitale alla ricerca di verità, oggettivizzazione ed esattezza contenutistica. Niente musiche, nessun suono che comprometta un realismo fatto di spari, rumori statici di canali radio, brevi e frammentari dialoghi tra personaggi sfuggenti. Dalla difesa della sede della tv di Stato ai posti di blocco con manifestazioni ultraviolente, dagli autoblindo alla deriva su strade deserte alla villa del Conducător abbandonata e presa d’assalto, The Paper Will Be Blue è il ritratto frammentario di una città in stato confusionale, che grazie all’unità di tempo e luogo riesce a veicolare l’istanza realista necessaria alla cicatrizzazione della storia. Tuttavia, anche al film di Muntean manca una percezione d’insieme, quella capacità di restituire certezze tramite le quali compiere la fatidica sutura. L’autore del film si scontra con una tra le più spinose problematiche sviscerate dalla Noul val românesc: l’impossibilità di risoluzione della questione identitaria. «Voi pensate davvero che mi piaccia Ceaușescu?». Con questa frase il miliziano Costi si congeda dalla sua pattuglia e diserta, unendosi a un manipolo di dimostranti, i quali, tuttavia, lo picchiano a sangue e lo rinchiudono in una cantina, credendolo un terrorista. Accertata la sua identità lo rilasciano, e Costi si riunisce alla pattuglia che, giunta a un posto di blocco, viene
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volta, non può verificarsi. Ne La leggenda del fotografo ufficiale (Legenda fotografului oficial) il Conducător è finalmente visibile, seppur soltanto in fotografia e in qualche sfuggente fotogramma di un corteo, durante la visita di Valéry Giscard d’Estaing. Ma lo scatto lo ritrae con il cappello in mano: «Il protocollo non è stato rispettato», poiché l’immagine apre all’idea che Ceaușescu compia un gesto di sottomissione al capitalismo del quale Giscard d’Estaing – e, dunque, la Francia – è simbolo. Le rotative vengono immediatamente bloccate, la fotografia cancellata, l’ordine dell’occultamento ristabilito: di nuovo, il dittatore non può essere rappresentato, sebbene al grottesco qualche licenza in più sia stata concessa. Al realismo mimetico, seppur incompleto e incerto, delle pellicole ambientate durante la dittatura, il nuovo cinema romeno contrappone un altro modo di ritornare all’“età dell’oro”. C’è un nucleo di opere, nella Noul val românesc, che rilegge retrospettivamente il passato prossimo attraverso racconti contemporanei di memoria fugace e perdita di senso. È un insieme di pellicole che al tentativo di chiudere la ferita della storia predilige la semplice verifica della sutura originale, attestandone la putrefazione. Se l’ambientazione di film come A Est di Bucarest (A Fost sau n-a fost?, Corneliu Porumboiu, 2006) e Medalia de onoare (Călin Peter Netzer, 2010) è contemporanea nella messa in scena, dal punto di vista contenutistico è a tutti gli effetti retroattiva. Nella pellicola di Porumboiu il conduttore Virgil Jderescu organizza un talk show nella periferica Vaslui per ripercorrere, a sedici anni di distanza, gli eventi che segnarono la rivoluzione del 1989. Il film si apre con campi totali sul degrado delle case popolari, illuminate da lampioni che si spengono in primo piano al sopraggiungere dell’alba: all’arrivo del giorno (rivoluzionario), si è spenta la luce (Ceaușescu). Se a prima vista l’associazione potrebbe sembrare ardita, lo sviluppo di A Est di Bucarest non fa che corroborare questa incertezza storico-ideologica. «Celebriamo oggi il sedicesimo anniversario della Rivoluzione Romena e i suoi momenti magici, quando i romeni vinsero la loro…». La tv cessa di trasmettere il segnale proprio quando sembra decisa la posizione anticomunista, mentre gli eminenti professori chiamati al talk show declinano l’invito, sostituiti dall’alcolizzato professor Manescu e dal confuso signor Piscoci. Il primo è pieno di debiti e chiede aiuto a un negoziante cinese (paradigma di un comunismo forse ancora necessario?), il secondo non è in grado di ricordare il passato rivoluzionario. Manescu, invece, afferma di essere stato protagonista in quei giorni, ma viene smentito da telefonate i cui contenuti manifestano altrettanti “buchi” di quelli emersi dal racconto del docente alcolizzato. L’eroe rivoluzionario è ridotto a macchietta, senza che vi sia la benché minima certezza del suo supposto eroismo. Le contraddizioni continuano, investendo anche la professione del conduttore Jderescu (giornalista o ingegnere tessile?) e gli eventi passati, fino a quando interviene in collegamento telefonico un ex membro della Securitate, le cui minacce spingono tutti, di nuovo, al silenzio. Sotto la spessa coltre grottesca, Porumboiu mette in scena la problematica ricostruzione (rielaborazione, rimarginazione) del passato prossimo. Fu vera rivoluzione? La confusione istituzionale e linguistica del presente fa eco a quella passata, e l’affermazione di Jderescu attorno a cui ruota il talk show («Ci fu un tempo in cui la gente scambiò per il sole un piccolo fuoco») presenta due
possibilità di lettura altrettanto legittime: il sole potrebbe essere tanto Ceaușescu quanto la rivoluzione del 1989. Allo stesso modo, in Medalia de onoare l’anziano Ion I. Ion riceve una medaglia al valore militare per fatti non meglio specificati, ma relativi alla lotta antinazista dell’esercito romeno nel 1944. La ricerca delle ragioni dell’investitura porta a contraddizioni e dubbi, menzogne e inefficienze burocratiche: Ion sarà decorato direttamente da Ion Iliescu, presente nei panni di se stesso, prima di vedere l’onorificenza revocata a causa di un problema di omonimia. Quando il cinema rivolge l’attenzione al passato, i conti non tornano mai, e la questione identitaria riaffiora preponderante: chi è questo Ion I. Ion, che afferma per tutta la narrazione di avere combattuto il nazismo e vede cancellata la propria memoria dall’apparato burocratico (proprio lui, che sotto Ceaușescu aveva denunciato alla Militia il figlio dissidente)? Risposte univoche, inutile dirlo, non sono possibili, e la ferita della storia continua a slabbrarsi in modo sempre più marcato, mentre nelle strade messe in scena dai due film “contemporanei” orde di ragazzini esplodono petardi e giocano con pistole laser, come a perpetuare il clima militarista della dittatura (o della rivoluzione?). Ceaușescu è ancora al centro del rimosso, frenando così ogni possibile legittimazione anche (e soprattutto) in quei titoli che vorrebbero approcciare la dittatura da un punto di vista odierno, retrospettivo, residuale. La memoria audiovisiva – e dunque la capacità del cinema di rimettere in scena la storia – incontra nell’immagine del Conducător un “tappo” insuperabile e resistente, la cui presenza-assenza risale ai tempi della sua morte, che non fu ripresa dalla troupe incaricata a causa dell’eccessiva fretta con cui ebbe luogo la fucilazione. Riflesso pavloviano di un’arte che rifiuta di esporsi? Paradigma di una condizione esistenziale romena che persiste ancora oggi? Pietra miliare simbolica per interpretare l’endemica impossibilità di suturare quelle ferite? Forse quel primigenio gesto mancato è tutto questo, e di certo attesta quanto Ceaușescu, nell’immaginario audiovisivo romeno, non sia mai stato dichiarato morto. Estremizzando il concetto in un ultimo folle volo simbolico, possiamo affermare addirittura che, oggi, l’unico punto di vista in grado di raccontare il dittatore sia proprio il suo, emerso con prepotenza nel documentario di Andrei Ujica Autobiografia lui Nicolae Ceaușescu – The Autobiography of Nicolae Ceaușescu (2010). Tre ore di assoluto protagonismo, di narrazione in prima persona in immagini d’archivio paradigmatiche e agiografiche, a dimostrare che «non esiste altro che la messa in scena di Sé del Potere, della sua verità»3, perché, nell’immaginario (non solo audiovisivo), quello del Conducător è ancora un potere reale in grado di propagandarsi, raccontarsi e imporsi come fattuale. La verità della storia, a fronte di queste considerazioni, non può che sanguinare. Mentre il cinema osserva, inerte, la ferita. 1. Francesco Saverio Marzaduri, Noul Val. Il nuovo cinema romeno 1989-2009, Archetipolibri, Bologna 2012, p. 20. 2. Si pensi, per esempio, ai casi italiani recenti de Il caimano (Nanni Moretti, 2006), Gomorra (Matteo Garrone, 2008) e Il divo (Paolo Sorrentino, 2008). 3. Giulio Sangiorgio, Autobiografia Lui Nicolae Ceausescu, ne “Gli Spietati” [www.spietati.it].
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Emil Cioran: un abisso di vitalità di Mario Bernardi Guardi
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e c’è uno scrittore che per la sua vocazione apocalittica e il suo moralismo bruciante, cupo e derisorio, si presta a definizioni “tranchant”, questo è Emil Michel Cioran, di volta in volta battezzato «barbaro dei Carpazi», «eremita antimoderno», «esteta della catastrofe», «apolide metafisico» o «cavaliere del malumore cosmico». Ma anche lui, da buon Narciso, ci ricamava sopra e sulla sua “carta d’identità” scriveva cose come «idolatra del dubbio», «dubitatore in ebollizione», «dubitatore in trance», «fanatico senza culto», «eroe dell’ondeggiamento» (si veda il suo Squartamento, Adelphi, Milano 1981). E, nei suoi “manuali di dissoluzione”, si divertiva a lanciare folgori di tenebra. Lo fece anche nell’ultimo libro pubblicato in vita, apparso in Francia nel 1987, otto anni prima della sua morte – una sorta di «biografia compendiosa», per usare un’espressione cara a Borges, sodale dello scrittore romeno in brividi metafisici e dissacranti sberleffi gnostici (Confessioni e anatemi, Adelphi, Milano 2007).
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Milano 1996) alla “Genealogia del fanatismo”, così collocandosi «all’opposto delle fascinazioni giovanili». E cioè di quelle, chiamiamole così, “fascio-fascinazioni”. Ora, Castronuovo fa bene a mettere in evidenza il grande “stilista” e “moralista”, lo scrittore impertinente e beffardo che s’interroga sul senso della vita e della morte, il chierico blasfemo che cerca di stanare Dio dai suoi misteri e dai suoi abissali silenzi. E tuttavia siamo convinti che Cioran e altri “dannati” dello scorso secolo – Pound e Céline, Drieu e Heidegger, Eliade e Jünger, tanto per fare i primi nomi che ci vengono in mente – non debbano essere alleggeriti dalle proprie “responsabilità”. Basta, insomma, con la vecchia storia dei “peccati di gioventù”, una specie di rituale giustificativo-assolutorio che li “disinfetta” e rende “presentabili”, ma toglie loro qualcosa, e cioè le ragioni di una scelta. Per scandalose che possano apparire alle “animule vagule blandule” che vorrebbero, fortissimamente vorrebbero, che Cioran non avesse detto e/o scritto “certe cose”. Senza rendersi conto che “sbianchettare” E. M. significa strappargli la carne e lo spirito. A farla breve, il Cioran della “tentazione fascista” ha un rilievo e un peso. Come emerge dalla lettura del saggio di Emanuela Costantini Nae Ionescu, Mircea Eliade, Emil Cioran. Antiliberalismo, nazionalismo alla periferia d’Europa (Morlacchi, Perugia 2005) e da quello di Alexandra Laignel-Lavastine Il fascismo rimosso: Cioran, Eliade, Ionesco nella bufera del secolo (UTET, Torino 2008), che testimoniano appunto quella milizia. “Scorrettissima”, visto che il Cioran «in camicia verde» auspicava per la Romania «un destino aggressivo da grande cultura». Insomma, E. M. non si esaurisce nell’ambito delle acuminate provocazioni. Non si può immaginare la sua vita solo come una fiammeggiante costellazione di (coltissime) invettive. Perché fu appunto “vita”, appassionatamente e dolorosamente “vita”. Sia dunque reso merito a Friedgard Thoma per averci raccontato un Cioran innamorato (Per nulla al mondo. Un amore di Cioran, l’orecchio di Van Gogh, Falconara Marittima 2010). Anzi, più che innamorato: addirittura un Cioran “maniaco sentimentale”. Da non crederci: un genio dell’aforisma ma anche un umanissimo, fragile, tenero settantenne, tutto preso da lei, giovane insegnante tedesca di filosofia e lettera-
Già nelle prime pagine E. M. ci atterrisce e atterra. Come sempre, in conformità con la sua vocazione. E che di questo si tratti ce lo conferma il fatto che lo scrittore, all’insegna di un pessimismo vorticoso, vergò il proprio epitaffio nel 1949, quando aveva solo trentotto anni: «Ebbe l’orgoglio di non comandare mai, di non disporre di niente e di nessuno. Senza subalterni e senza padroni, non diede né ricevette ordini. Sottratto all’imperio delle leggi, e come anteriore al bene e al male, non fece patire anima viva. Nella sua memoria si cancellarono i nomi delle cose; guardava senza percepire, ascoltava senza udire; profumi e aromi svanivano all’avvicinarsi delle sue narici e del suo palato. I sensi e i desideri furono i suoi soli schiavi: perciò non sentirono e non desiderarono. Dimenticò felicità e infelicità, seti e paure; e se gli capitava di ricordarsene, disdegnava di nominarle e di abbassarsi così alla speranza o al rimpianto. Il minimo gesto gli costava più sforzi di quanti non costino ad altri per la fondazione o il rovesciamento di un impero. Nato stanco di essere nato, volle essere ombra: quando visse dunque? E per colpa di quale nascita? E se, vivendo, portò il suo sudario, per quale miracolo riuscì a morire?». Come vediamo, in lui tutto è iperbole, barocchismo scatenato ed enfasi debordante, anche se siamo in presenza di un retore d’eccezione che non si perde in scoppiettanti banalità, ma inanella immagini di rara extravaganza. Ora, raccontare Cioran significa fare i conti per intero con l’indubbia vocazione a un coltissimo (e studiatissimo) annientamento. E, d’accordo, questo è l’elemento caratterizzante. Ma significa anche prendere atto che queste suggestioni dissolutrici non solo si intrecciano, ma trovano punti di forza in una vita per tanti versi scandalosamente “affermativa”, visto che prima del Cioran “parigino” – è nel 1937 che il Nostro approda in Francia –, capace di confezionare le proprie auree sentenze nihilistico-gnostiche in un brillantissimo francese, c’è un Cioran duro e puro, di fiera stirpe rumena, che fa propri i miti del radicamento e dell’identità, simpatizzando per il fascismo di Codreanu e delle sue Guardie di Ferro e scrivendo numerose pagine che si riveleranno “compromettenti”. Di questo aspetto, Antonio Castronuovo, in un agile profilo pubblicato da Liguori nel 2009 (Emil Michel Cioran), dà solo rapidi cenni, ricordando che comunque E. M. dedicò un intero capitolo del suo Sommario di decomposizione (Adelphi,
“ Raccontare Emil Cioran significa fare i conti con l’indubbia vocazione a un coltissimo (e studiatissimo) annientamento ”
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tura che, folgorata dalla lettura del libro L’inconveniente di essere nati, nel febbraio del 1981 gli scrive una calda lettera di ammirazione. C’è da stupirsi del fatto che Cioran non fosse “corazzato” di fronte ai complimenti di una donna intelligente e affascinante? Come, lui, l’apocalittico, così inerme, così indifeso! Eppure, in Sillogismi dell’amarezza (Adelphi, Milano 1993), è proprio il «barbaro dei Carpazi» a invitarci a tenere la guardia alta di fronte al vorticoso nichilismo degli “apocalittici” e magari a scavarvi dentro. «Diffidate – scrive – di quelli che voltano le spalle all’amore, all’ambizione, alla società. Si vendicheranno di avervi “rinunciato”. La storia delle idee è la storia del rancore dei solitari». Dunque, Cioran, uomo d’idee ma anche di emozioni, compiaciuto per quella lettera affettuosa, risponde immediatamente alla sua “fan”, con un mezzo invito ad andarlo a trovare a Parigi. Lei, che ci tiene a essere un’interlocutrice culturale e cita Walser, Hölderlin e Gombrowicz, non manca di allegare alla risposta una sua foto (il perché lo faccia si perde negli abissi dei misteri femminili…). E, siccome si tratta di una donna giovane – capelli sciolti, bocca carnosa, sguardo intenso –, “le coeur en hiver” di Cioran, che è, sì, un “barbaro dei Carpazi”, ma anche un ammiratore del cosiddetto sesso debole, comincia a battere furiosamente. Sarà infatti lui stesso a confessarle un paio di mesi dopo: «Tutto in fondo è cominciato dalla foto, con i suoi occhi direi». È una tempesta dei sensi, un’«eruzione emotiva». Ancor più incontrollabile, allorché lei decide di trascorrere qualche giorno a Parigi. Lui va a prenderla all’hotel e arriva dieci minuti prima: è «un uomo di costituzione fragile, con un ciuffo di capelli grigi, arruffati, e gli occhi dello stesso colore». Lei «cerca di apparire attraente, indossando un abito nero non troppo corto, sotto un lungo cappotto chiaro». Di nuovo l’interrogativo: perché «cerca di apparire attraente»? Seguono conversazioni, passeggiate, cene, visite a musei, telefonate… Cioran vive una sorta di voluttuoso invasamento al punto che, quando lei torna a Colonia, le scrive con spudorata audacia: «Ho compreso in maniera chiara di sentirmi legato sensualmente a lei solo dopo averle confessato al te-
lefono che avrei voluto sprofondare per sempre la mia testa sotto la sua gonna». Insomma, non siamo di fronte a una venerazione di tipo platonico… Poi, è lui ad andarla a trovare in Germania. «Vestita di rosso e nero», e non già con un abitino accollato da collegiale, Friedgard lo accoglie alla stazione. Lui è innamorato pèrso, lei, sedotta intellettualmente, continua a sedurlo fisicamente, senza nulla concedere. Lui soffre, la chiama «mia cara zingara», le scrive: «Non capisco cosa sto cercando ancora in questo mondo, dove la felicità mi rende ancora più infelice dell’infelicità». Friedgard vuol tenere intatte «venerazione e amicizia», parlando di autori e libri, entrando nella sua intimità, portando alla luce le sue contraddizioni. Ma confessando anche, con franchezza: «Dunque, caro: Lei mi ha trascinato nell’immediatezza inequivocabile d’una relazione fisica, mentre io cercavo l’erotica ambiguità della relazione “intellettuale”». Proprio quella che a Cioran non basta. È innamorato, desidera la giovane prof. con una sensualità “vorace”, le fa scenate di gelosia perché lei, ovviamente, ha un “compagno” cui è legata. «Sono vulnerabile – le scrive – e nessuno quanto Lei può ferirmi tanto facilmente». E consolarlo, anche. Così, la immagina nelle vesti di una suora, «dalla voce sensuale però». E come uno studentello inebriato d’amore, che non rinuncia alle battute, confessa che vorrebbe morire insieme a lei: «A una condizione, però, che ci mettessero nella stessa bara». Così potrebbe raccontarle tante cose, «tante, ancora non dette». Non manca nemmeno la proposta di matrimonio. Friedgard annota: «Al telefono, Cioran si dilettava volentieri con la proposta di sposarmi, contro tutti i suoi principi, addirittura secondo il rito ortodosso (“su questo devo insistere”), il che per lui significava essere cinti entrambi da corone. Quante risate, su un sogno triste». Un sogno che, così, non poteva certo continuare. La non appagata, sofferta ed estrema accensione dei sensi di Emil «s’incanalerà negli anni lungo i binari d’una tenera, affettuosa amicizia». Nella cui calma piatta si spegnerà fatalmente la «tentazione di esistere»: carne e spirito, almeno una volta, insieme.
“ Diffidate di quelli che voltano le spalle all’amore, all’ambizione, alla società. Si vendicheranno. La storia delle idee è la storia del rancore dei solitari ”
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Il falso mito di Dracula: dal diabolico «burlesque» alla realtà di Luca Bistolfi
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sfere della religione, della spiritualità e del sacro. “Tradizione” è ciò che, nato puro poiché consegnato agli uomini da Dio per mezzo delle Sue manifestazioni, si perpetua nei secoli e nei millenni, trascorrendo nelle mani di coloro i quali sono stati scelti per codesto compito – conservazione e trasmissione – e possiedono tutte le qualificazioni per svolgere simile delicata e preziosissima funzione. Muovendo dall’assunto appena enunciato, offriremo al lettore, per quanto consente lo spazio di un contributo di rivista, una serie di spunti che sgombreranno il campo da molti e pericolosi equivoci. La presente trattazione sarà pertanto utile per mettere in guardia il lettore contro un assedio libresco e cinematografico, nonché fumettistico e ulteriormente declinato, che veicola non solo un errore, bensì una vera e propria inversione satanica, la quale, proprio a causa della sua popolarità longeva e planetaria e della sua presenza in pressoché ogni dominio della creatività umana, sta infettando l’Occidente da ormai oltre cent’anni, un Occidente già più che
noto quanto il concetto di “tradizione”, con o senza la maiuscola, talvolta susciti tra gli intellettuali alcuni dibattiti. La questione, da un punto di vista meramente culturale, potrebbe anche essere interessante. Tuttavia è necessario rendersi conto che determinati concetti non debbono e non possono esser fatti oggetto di discussione, dacché ineriscono a dominii del tutto estranei al comune discorrere, foss’anche il più colto ed erudito. Vi sono in sostanza concetti che hanno l’obbligo d’essere maneggiati solo da chi abbia piena consapevolezza e rispetto di essi. Il termine “tradizione” è uno di questi, pertanto non può che avere un solo significato, a prescindere dal contesto in cui esso è collocato – ricordando, tra l’altro, che l’alibi del contesto è ciò che relativizza, forzandolo e abbassandolo al massimo grado, anche ciò che non può essere contestualizzato per via delle sue unicità e univocità. La “tradizione” va intesa come l’autentico deposito immutabile di conoscenze e pratiche, le quali concernono le
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corrotto e alla cui corruzione il falso mito di Dracula ha fornito un contributo decisivo. Com’è noto, in Occidente il cosiddetto conte Dracula – il vampiro che succhia il sangue degli umani, che a loro volta si tramutano in vampiri – è nato dal romanzo dello scrittore irlandese Bram Stoker (1847-1912) nel 1897. Sin da subito Dracula ebbe risonanza mondiale e oggi le sue derivazioni nei più diversi dominii culturali non si contano più. Codesta popolarità ha una sua spiegazione: l’essere umano è irresistibilmente attratto e affascinato dal male e, inoltre, tende con grande facilità – che, se non conoscessimo la tragica e grottesca storia umana, ci lascerebbe sbigottiti – a dimenticare e ad accantonare con lestezza le proprie radici, e a innestarsi su autentiche e pericolose menzogne. Sebbene non tutti i popoli ritengano che le leggi umane sian fatte per essere aggirate o infrante, di certo pochissimi sono gli uomini che considerano aberrante e propriamente diabolico abbandonare l’autentica tradizione per gettarsi nelle fauci degli “dèi falsi e bugiardi”. Ne siano coscienti o meno, questo è ciò cui essi acconsentono, è il destino che si scelgono: rigettare la sapienza antica alla ricerca del nuovo a tutti i costi, servendo così il pregiudizio e la superstizione del progresso, secondo cui tutto ciò che è nuovo è anche necessariamente un bene e tutto ciò che è “vecchio” è inutile o addirittura dannoso. È per questo, ma non solo, che gli ultimi decenni dell’epoca moderna hanno creduto e ceduto alla menzogna di Stoker e dei suoi epigoni, e hanno rigettato, senza consapevolezza, il mito autentico e il suo significato. Prima di addentrarci in medias res, è necessario precisare che quanto portato a compimento da Stoker non è solo aver preso e pervertito un personaggio storico, bensì aver invertito una tradizione che, a dispetto di ogni pregiudizio e ignoranza, appartiene al cristianesimo. È quanto rileva per esempio Mihai Marinescu nel suo illuminante Il mito di Dracula nella tradizione romena (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2005). Vasile Lovinescu (1905-1984), conosciuto anche come Geticus, rilevò, compendia Marinescu, che il mito è «come il piano di rifrazione intermedio tra l’Assoluto e il mondo, mondo che il mito crea e anima». Da ciò si deduce che tutti i miti rientrano in questa definizione e che, soprattutto, un mito rovesciato
mette in relazione il mondo non già con l’Assoluto, bensì con il suo esatto opposto, ossia con la morte eterna e, più plasticamente parlando, con gli inferi e le sue potenze. È esattamente ciò che ha compiuto Stoker: ha ghermito motivi tradizionali della mitologia e li ha tramutati, invertendoli. Iniziamo col dire che il personaggio di Dracula «non è stato e non è romeno». «Stiamo parlando – continua l’autore – del mito di Dracula così come esso è arrivato a essere compreso e divulgato oggi, nella forma del conte-vampiro di Bram Stoker, con le derivazioni corrispondenti. Ciò non significa che il folclore e le “superstizioni” popolari romene non contengano nulla che ispiri o alimenti una costruzione letteraria di questo genere». Essi sono infatti ricchi di «entità notturne», quali «vampiri, spettri (strigoi), larve (vârcolaci) ed esseri di altra natura», i quali non sono tuttavia «propriamente individualizzati, non si riferiscono a un determinato personaggio storico che possa essere seguito nella storia nazionale, per quanto abbiano una posizione centrale nel calendario popolare o intervengano in modo decisivo nella storia nazionale. Quelli che di solito sono intesi come nomi sono in realtà denominazioni simboliche relative a una determinata funzione… Di conseguenza, là dove la ricerca strettamente storica su personaggi di questo genere non è in grado di illuminarci sul ruolo essenziale che essi possono svolgere per un certo popolo, la risposta ci proviene della stessa storia sacra della nazione rispettiva». In base a questo, spiega Marinescu, e alle definizioni tradizionali di mito fornite da tutta una serie di autori, «difficilmente potremmo inquadrare l’argomento “Dracula” in una qualunque di esse. Nelle concezioni popolari sui vampiri in generale e tanto meno nella forma “finale” del “mito” di Dracula, non c’è nulla che possa essere considerato come orientato verso il sacro o come un simbolo, nel senso vero e proprio di questi termini». Il senso del sacro è del tutto assente in Stoker, al contrario delle sue fonti d’ispirazione. Il falso mito del conte-vampiro si configura come una «vera e propria allegoria demoniaca, per via della negazione e della contraffazione parodistica di alcuni elementi simbolici e mitici forniti di un autentico significato spirituale». Di più: «Come probabilmente la maggior parte di voi già sa, il nome scelto da Stoker per il suo personaggio sta
“ Nel romanzo di Bram Stoker è totalmente assente il senso del sacro, legato alla figura del principe Vlad III, che si trova invece nelle sue fonti ”
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spirituale iniziatico, che il neofita doveva affrontare e vincere per compiere il proprio percorso iniziatico». Non è infatti un caso che in molte chiese cattoliche antiche il drago sia posto sotto l’acquasantiera, che è forma del fonte battesimale, inizio sacramentale della vita cristiana. Inoltre, il motivo araldico dell’Ordine del Drago raffigura un drago rovesciato sotto una croce. Altri due elementi stravolti da Stoker sono il simbolismo ematico e quello del Rex absconditus. L’utilizzo del sangue è forse la perversione più evidente. È attraverso il morso del vampiro e la susseguente ingestione del sangue della vittima che sono creati esseri diabolici (non dimentichiamo che il Dracula romanzesco è una figura negativa, palesemente infera, che ha spezzato il legame con Dio). Nel Cristianesimo – è quasi ridicolo ricordarlo – bere il sangue del Cristo significa invece vivere in lui. «Grazie all’eucaristia – ci richiama Marinescu – l’uomo vive e rinasce in Gesù, mentre per il tramite del sangue il vampiro si assicura una perpetuità nella morte». In buona sostanza: mentre nel Cristianesimo il sangue del Cristo dà la vita, in Dracula destina alla morte. La questione del Rex absconditus è meno evidente ma altrettanto importante. Non avendo qui lo spazio per segnalarne tutti i dettagli, rimandiamo all’integralità del saggio di Marinescu e al Monarhul ascuns di Lovinescu5. In quest’ultimo leggiamo che «nella vita e nella continuità di un popolo non esiste elemento più positivo, benefico, vitale, risanatore, della presenza – nel suo centro occulto e mitico ma altrettanto reale – di un personaggio archetipico del quale si dice che non è morto e che, nascosto, soffre e fiorisce assieme a quel popolo, riunendo in un fuoco quintessenziale tutte le possibilità latenti di esso, sublimandone le sofferenze, introducendo la malinconia nelle sue gioie e scoprendo, tra il sole e la luna, la posizione dell’astro del mattino». Simile figura è rappresentata, nella storia e nella tradizione romene, da Ştefan cel Mare (Stefano il Grande, 14331504), voievod moldavo molto amico di Vlad Tepeş e figura centrale nella spiritualità ortodossa, tanto da esser proclamato santo nel 1992 e da diventare oggetto di un culto ufficioso non solo da parte del semplice popolo. Ora, secondo alcune leggende, il voievod non sarebbe mai realmente morto, e dal regno dei
in relazione con una celebre figura della storia romena […]. Stoker era interessato a creare in Romania una figura di vampiro credibile, idealmente storica, che facesse passare la narrazione come “ispirata a fatti reali”. L’impresa di Stoker, cioè l’introduzione del vampiro nella realtà concreta e attuale, distrugge l’essenza simbolica di tutto il mito. “Materializzato”, fissato entro delle coordinate esatte di spazio e di tempo, il mito viene pervertito e perde proprio quel carattere di atemporalità che lo rende universale». Nonostante le apparenze, Dracula, secondo Stoker, non è cattivo, e la pellicola di Francis Ford Coppola ha aiutato questo modo di guardare al personaggio. Sono ben noti i motivi per cui il conte-vampiro può suscitare simpatia tra gli ingenui. Eppure, l’inganno sta proprio qui. E ora alcuni esempi molto concreti per denotare meglio la diabolicità del romanzo e dei suoi intenti. Al personaggio storico di Vlad III di Valacchia1 – Vlad Draculea in romeno (1431-1476), rinominato Vlad Tepeş, ossia Vlad l’Impalatore, per via dell’abitudine che aveva d’impalare i nemici2 – è legato il simbolo del drago. Infatti, Vlad II Dracul (circa 1390-1447), padre del voievod (principe, sovrano) valacco3, apparteneva all’Ordinul Dragonului (l’“Ordine del Drago”), una confraternita riservata, fondata il secolo precedente da Sigismund von Luxemburg con la precisa missione di difendere la Cristianità4 dall’Impero ottomano. Ora, drac in romeno significa “diavolo” (dracul è articolato, “il diavolo”) e deriva dal latino draco, ossia “drago”. La mentalità moderna ha attribuito a questa figura un significato radicalmente negativo. Ma anche questo è un errore… diabolico, ossia una menzogna. Nonostante le apparenze, il drago ha caratteristiche in certo qual senso “positive”: «Il simbolo – scrive Marinescu – non comunica l’appartenenza al dominio del male, ma esattamente al contrario, la sua vittoria su queste forze, secondo il modello della Vergine che schiaccia la testa del serpente». La più celebre raffigurazione cristiana del drago, visibile in moltissime chiese ortodosse, è quella di san Giorgio. Non si tratta dunque di un simbolo cristiano (infatti nell’iconografia mariana è associato al serpente che la Madre di Dio schiaccia), ma rappresenta il «“guardiano della soglia”, custode del tesoro
“ Ciò che ha fatto Bram Stoker non è stato solo pervertire un personaggio storico, ma tutta una tradizione che, a dispetto di ogni pregiudizio e ignoranza, appartiene al cristianesimo ”
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monti cui si ricollega la figura di Vlad Tepeş sono i Carpazi. Interessante è invece Il racconto su Drakula voevoda, anonimo documento originale dell’epoca attribuito a un membro della corte dello zar, che però va letto avendo ben presenti le dinamiche geopolitiche centro-orientali d’allora7. Da ultimo vorremmo ancora ricordare un particolare, di cui anche critici e storici ignorano l’importanza, pur essendo inerente a una questione biografica: Stoker, la cui vita è peraltro avvolta in misteri certo assai più foschi di quelli del principe valacco, non si mosse da solo, ma ebbe un ispiratore. Costui era tal Arminius Vámbéry8, al secolo Hermann Wamberger (o Weinberger), un ebreo che per tutta la vita visse nell’inganno e dell’inganno, tanto da spacciarsi per musulmano e riuscire ad aggregarsi a dei pellegrini di ritorno dalla Mecca, città santa dell’Islam. Fu proprio costui a fissare nella testa di Stoker alcuni punti decisivi per la compilazione del Dracula. Inoltre Stoker, oltre a fare uso di stupefacenti, faceva parte della Golden Dawn, un’organizzazione palesemente antitradizionale e controiniziatica cui aderì, tra gli altri, anche il famigerato Aleister Crowley (1875-1947). Quanto abbiamo proposto all’attenzione del lettore è solo una sintesi del problema, da cui però emergono in maniera sufficientemente chiara l’origine e le mire del falso mito di Dracula e dei suoi suggeritori ed esecutori.
morti ritornerà. «Non è morto, tuttavia non è neanche vivo, senza però essere morto», scrive Lovinescu commentando un’icona dell’arcangelo Michele custodita nel museo del monastero ortodosso di Văratec, in Moldova. Sotto l’arcangelo si trova un voievod anonimo e incoronato, posto all’interno di ciò che rassomiglia a una grotta o a una cripta. Ascoltiamo ancora Marinescu: «L’elemento simbolico fondamentale che nel cosiddetto mito di Dracula è stato invertito per primo è quello della grotta-cripta. Nel mito del Rex absconditus, la grotta è innanzitutto un luogo della nascita futura, un luogo in cui si conservano le energie latenti di un popolo, affinché con la Parusia possano manifestarsi nella luce e nella gloria. Nel mito di Dracula, la cripta è un luogo della morte perpetua, che reca a sua volta la morte. Inoltre, la grotta è tradizionalmente un luogo della totalità, del compimento, che “contiene in sé la rappresentazione del cielo e della terra” (R. Guénon) […]. Nel caso di Dracula, la cripta reca l’impronta demoniaca dell’inquietudine, della cupidigia divorante. Quando giunge il momento, essa non si apre nella luce ma, al contrario, in mezzo alla tenebra, manifestando la natura satanica di Dracula». Secondo i Vangeli, confermati anche dal Corano, Gesù nasce proprio in una grotta; e la successiva rivelazione – che amplia, approfondisce e sigilla tutte le profezie –, ossia quella islamica, è ricevuta per la prima volta dal Profeta Muhammad proprio in una grotta. Dati che non necessitano di ulteriori chiose. Inoltre, questa contraffazione ha senza dubbio soverchiato l’aspetto storico del principe valacco, esacerbandone e deformandone moltissimi aspetti. Si sappia per inciso che la percezione del voievod che abbiamo in Occidente, quantunque alterata e manipolata da Stoker, è infatti incommensurabilmente superiore a quella che si ha da sempre in Romania, Paese nel quale Vlad Tepeş, pur celebre e importante, è uno dei non pochi gloriosi e nobili voievozi (pl. di voievod) che ha dominato su questo o quel principato romeno nel corso dei secoli – tra i quali ricordiamo, a sol titolo d’esempio, Mihai Viteazul (Michele il Coraggioso, 1558-1601) e Mircea I cel Bătrân (Mircea il Vecchio, 1355-1418). Si potrebbe dire che una fama maggiore di quella normale per un principe si è in parte avuta solo allorquando nel Paese carpatico ha iniziato a penetrare il diabolico e macabro burlesque stokeriano di Dracula, ciò che si può collocare senz’altro dopo la caduta del comunismo (1989) e l’ingresso della Romania nell’area d’influenza occidentale6. In ogni caso, sulla figura storica di Vlad Tepeş i libri in lingua italiana ovviamente non mancano, anche se, fra i pochi validi, uno solo contiene un maggior numero di dati ed è storiograficamente denso e affidabile. Si tratta di Dracula. La vera storia di Vlad III l’Impalatore (Mondadori, Milano 2006) di Matei Cazacu (1946), romeno naturalizzato francese, che si avvale di notevole rigore di ricerca e d’una bibliografia in molteplici lingue eurasiatiche. Assai meno ragguardevole è Dracula. Una storia vera di Vito Bianchi (Cortina, Milano 2011), a cui però non guasterà prestare un po’ di attenzione. Da evitare invece Dracula l’Impalatore. La biografia di Vlad Tepes Principe della Valacchia di Roberto Gargiulo, edito da Minerva: l’ennesimo volume dal titolo e dalla copertina “inquietanti”, in perfetta sintonia con l’aura falsa e oscura che circonda il coraggioso voievod, che denunziano in modo eloquente l’attitudine di fondo di un libro poco serio. A solo titolo d’esempio, si pensi che l’autore colloca il sovrano valacco nei Balcani, quando è noto che i
1. La Valacchia (in romeno, Valahia o Ţara Românescă) era quel territorio a sud della Romania che costituiva un principato a se stante, insieme alla Transilvania e alla Moldova (in Italia chiamata in maniera imprecisa “Moldavia”), che nel 1859 andrà a costituire insieme a quest’ultima la prima forma di Stato unitario romeno. Per una disamina esauriente, cfr. L. Boia, Romania, tară de frontieră a Europei, Humanitas, Bucarest 2007, pp. 58-78. 2. In verità pare che il soprannome abbia origine presso i turchi (Kazıklı Bey, principe impalatore), i maggiori “fruitori” della pratica del sovrano, e che sia citato per la prima volta in una cronaca valacca del 1550, conservandosi in seguito nella storia romena. 3. “Draculea” è la forma genitivale slavona (l’antica lingua slava) di Dracul, che equivale al von tedesco, al van fiammingo o anche al de adoperato in Italia. Pertanto la desinenza –ea starebbe a indicare la nobiltà della casata ma vieppiù la discendenza da un antenato di rango. La dicitura “Dracula” – sconosciuta in Romania sino a qualche tempo fa, come d’altra parte tutta la falsificazione stokeriana – è con tutta evidenza una contrazione o, per meglio dire, una deformazione. 4. In quella che oggi consideriamo Europa orientale – o, secondo punti di vista geopolitici differenti, Europa centrale – il Rinascimento così come lo intendono gli occidentali non vi fu mai e, mentre in questa nostra parte d’Europa possiamo collocare la fine del Medioevo con l’inizio del XV secolo, per le terre al di là di Vienna possiamo ancora parlare di Cristianità, ossia di quel complesso geoculturale e geopolitico che fondava ogni singolo aspetto dell’esistenza, da quelli più quotidiani a quelli di più vasto e profondo ordine, sulla fede e sulla dottrina cristiane, declinate, in Occidente, sotto il papato e nella stragrande maggioranza dell’Europa centroorientale e orientale nella Chiesa ortodossa. 5. V. Lovinescu, Rex absconditus, Aragno, Torino 1999. 6. Volendo esser ancor più minuziosi, potremmo rilevare che Stoker, oltre alle altre ingiustizie commesse nei confronti di Vlad III, lo ha altresì degradato: da principe a semplice conte. 7. Il racconto su Drakula voevoda, Sellerio, Palermo 1995. 8. Si può trovare scritto anche erroneamente Vambéry (essendo un cognome, ungherese la pronuncia cambia).
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Cioran e la poesia del fallimento di Massimo Carloni
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atrice Bollon, nel suo libro su Cioran, ricorda il loro primo incontro, avvenuto in occasione di un’intervista concessa a un settimanale. La conversazione, a un certo punto, prese una piega insolita: Bollon divagò sulle vicende d’una rockstar, tale Vince Taylor, detto «l’Arcangelo nero del rock», protagonista di un’ascesa fulminante e di un altrettanto precipitoso declino. Insomma, una delle tante meteore che attraversano la storia della musica pop, eroi d’una stagione che salgono improvvisamente alla ribalta, per poi bruciare in poco tempo tutti i talenti e la fortuna per via della droga o dell’alcool. Miti d’oggi, direbbe qualcuno... Pur essendo lontano mille miglia da quel mondo, Cioran mostrò subito interesse per la vicenda, al punto di non voler riportare la conversazione sui binari della serietà letteraria, pregando Bollon di proseguire nel racconto di quella vita scialacquata, perché, a suo dire, «sono delle lezioni viventi di filosofia. Per quanto mi riguarda ho appreso molto di
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ti per un giovane intellettuale come lui, relegato nella banlieue della storia. Solo se all’infinito negativo della nostalgia subentrerà quello positivo dell’eroismo, la Romania cesserà di essere un «Sahara popolato» da un «gregge invertebrato»10 e diventerà una nazione, ovvero un’unità politica che fa la storia invece di subirla, assurgendo a destino per sé e per gli altri popoli. Prima dei trent’anni – limite anagrafico dopo il quale l’intellettuale romeno si pietrifica, «ridiventa materia»11 – Cioran scommette nella trasfigurazione del proprio popolo, in una sua mutazione genetica provocata dall’alto, sotto l’egida di un capo carismatico – nella fattispecie Corneliu Zelea Codreanu – in grado d’incarnare ai suoi occhi l’idea di nazione. Il suo Paese si trova quindi davanti a un bivio, a un’ora solenne: «O la trasfigurazione storica o niente!»12. Se la Romania, dopo secoli di sordida esistenza, non irromperà bruscamente nella storia con un salto qualitativo, come fece la Russia, ai suoi abitanti non rimarrà che il suicidio o… la fuga. Ad ogni modo, il furore profetico del giovane Cioran non è del tutto privo di metodo. Imponendo un ultimatum al Paese, egli chiarisce subito di non essere disposto, in caso d’insuccesso, a immolarsi alla causa: «Se la trasfigurazione è illusoria, il problema della Romania non esisterà più per me»13. Nel 1937, traendo le conseguenze da quell’amara promessa, Cioran lascia la Romania alla volta di Parigi, abbandonando la patria al suo fosco destino. Salvo un fugace e tempestoso rientro tra il novembre del ‘40 e il febbraio del ‘41, non vi farà più ritorno. Fallita la missione di risvegliare la Romania dal suo letargo storico, al Cioran francofono riuscirà in compenso l’impresa più ardua che possa capitare a un uomo: trasfigurare se stesso.
più a contatto con questi falliti dell’esistenza (ratés de l’existence) che in qualsiasi libro serioso di morale»1. 1. Un popolo di vinti Prima ancora di essere una questione individuale, il fallimento, almeno in certi Paesi che si trascinano nelle periferie della storia, assume i contorni funesti d’una piaga collettiva, d’un retaggio ereditario impresso nell’anima di tutto un popolo. «La fierezza di un uomo nato in una piccola cultura è sempre ferita» scrive Cioran a venticinque anni, nel suo libro più militante e crudele, Trasfigurazione della Romania2 – tentativo estremo e disperato di scuotere i compatrioti, dopo secoli di dominazione straniera, dal torpore e dalla paralisi di un’esistenza anonima, al di fuori d’ogni divenire storico e culturale. Con la spietatezza e la ferocia d’un torturatore, Cioran, reduce dal soggiorno di studi in Germania e imbevuto di filosofia tedesca, analizza le tare antropologiche e culturali del proprio Paese, considerato nulla più che un’espressione geografica3. Scetticismo superficiale, passività, derisione e disprezzo di sé sono i tratti ereditari del carattere romeno, assieme a mollezza contemplativa, inazione, remissività, rassegnazione, oziosità e fatalismo. L’esistenza larvale e vegetativa del popolo romeno è ascritta da Cioran al folklore pastorale del villaggio, ai miti e ai riti che scandiscono i cicli naturali di una realtà a-storica e provinciale, ben rappresentata da quella «maledizione poetica nazionale» che è la Mioriţa4. Ogni popolo elabora nella propria tradizione una parolasimbolo, «un’allusione all’indicibile»5 in cui è racchiuso il segreto della propria anima, con il suo originario essere al mondo. Il termine chiave romeno è dor: «Significa nostalgia – precisa Cioran – ma nessun equivalente può renderne la sostanza particolare. Cresce su un fondo di sofferenza e si espande, aerea, sopra la prostrazione di un popolo, estraneo alla felicità. Occorre pensare alla sua storia di sconforto, al cumulo di disgrazie, d’insuccessi e di sventure per comprendere la nota lamentosa che sprigiona la sonorità condensata e volatile del dor. L’intera poesia popolare n’è intrisa. Non è un fiore raffinato, né un pretesto per sensibilità disincantate, ma la confessione poetica di un’anima alla ricerca di se stessa. Molto più diffusa tra i contadini che presso gli intellettuali, sgorga dall’oscurità del sangue, come una sorta di tristezza della terra»6. L’anima romena si perde nel languore del vago: è un desiderio indefinito, da cui proviene quella vitalità impotente, quella «paura dell’atto» che genera un’inguaribile diffidenza nei confronti dell’esistenza e della storia. La «virtualità dello scacco», così definita da Cioran7, aleggia come una cappa sopra un intero popolo, stroncando sul nascere ogni tentativo di inserirsi nel flusso del divenire. Il fallimento è marchio indelebile, infamante, autentico genius loci della stirpe valacca. «Non c’è essere più incline allo scacco del Romeno»8 incalza Cioran, ostentando tutto il proprio disprezzo verso quei perdenti nati, naufraghi dell’esistenza, «appassionati della caduta e della periferia», relitti del genere umano che, ai suoi occhi, «non sono degni di alcuna considerazione»9. Pur avendo già assimilato tutti gli elementi filosofici che fanno da sfondo all’idea di fallimento, il Cioran romeno dimostra di non averne ancora elaborata la portata universale, lo sfacelo biologico ch’essa comporta, limitandosi a un’analisi politica e culturale del fenomeno, dagli esiti inevitabilmente scoraggian-
2. L’erranza profumata di Parigi Un anno prima di partire per la Francia, Cioran aveva scritto: «Chi si distacca dalla propria nazione diventa un fallito»14; ed è proprio in questa nuova veste di diseredato che inizia a Parigi la sua nuova esistenza di apolide. Tra vaghi propositi di ricerca filosofica e incerte borse di studio, si ritrova a vivere d’espedienti nel Quartier latin, accanto agli espatriati di ogni dove, deambulando senza meta nel ventre d’una città «che vi culla di illusorie promesse di felicità per meglio divorarvi»15. Qui, in una corrispondenza per il giornale romeno «Cuvântul» [La parola], ritrae i frequentatori del celebre quartiere, delineando per la prima volta quella concezione estetica e romantica del fallimento che diventerà uno dei tratti fondamentali del suo pensiero. «L’assenza di riserva interiore e il desiderio di esaurire freneticamente la vita fanno, presto o tardi, di quasi tutti gli abitudinari del Quartiere dei falliti. Ogni volta che osservo quelle ombre umane, studenti romeni, polacchi, spagnoli o cinesi (hanno tutti la vocazione all’insuccesso), so fin troppo bene ciò che li ha spinti allo scacco. Non è forse caratteristico trovare i falliti soprattutto nelle metropoli del mondo e nelle piccole città di provincia? La vita non si realizza né nell’infinito né nel finito […]. Qui si è infelici gradevolmente. È il segreto di Parigi, quella poesia conferitagli da individui maledetti erranti di caffè in caffè, posseduti da una noia avida, è il vuoto profumato di Parigi»16. Pur essendo questa la ville de l’échec, la città dello scacco par excellence, la cornice ideale di un’agonia, Cioran non cede alle
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posizione dove non disdegnerà di ritrarre se stesso sotto l’effigie del fallito.
tentazioni suicide d’un Nerval o del Malte di Rilke; piuttosto, sulla scia di Baudelaire ed Heine, egli vuole assaporarne fino in fondo il fascino amaro e decadente, farne «lo spazio ideale della propria solitudine», «irrorare la noia di poesia». Vuole insomma «abbandonarsi esteticamente all’infelicità»17. Se Baudelaire ci ha donato lo sguardo per cogliere i fiori che sbocciano dal male, Cioran, ammaliato dal «crepuscolo irresponsabile» di Parigi, ci mostra l’essenza poetica del fallimento o, se si vuole, l’intimità originaria tra il naufragio esistenziale del poeta e la scaturigine del canto – quasi che l’ispirazione lirica presupponesse, in un certo senso reclamasse, l’esperienza dello scacco, con cui sembra condividere lo spazio, la cui unica dimensione si rivela essere l’incompiutezza. Il canto d’Orfeo, sorgente eterna del dire poetico, è innanzi tutto canto dell’assenza, lamento della mancanza, lacerazione interiore di fronte all’irreparabile perdita. Non si dà poesia nella pienezza dell’essere, ma unicamente nel suo venir meno. È l’impossibilità stessa della vita, la sua straziante invivibilità a farsi musica, parola, nell’incessante dileguare fantasmatico dell’oggetto desiderato. Iniziato alla scienza della caducità, alla geometria dei sospiri, il poeta, cantando gli esseri e le cose, li salva dal loro immediato svanire, conservandoli nella provvisoria immortalità della parola. Vivendo in intimità con la morte, si annulla per essere in tutte le cose, diventando puro sguardo sul mondo. Il prezzo pagato per la superba inutilità della sua arte è altissimo: la perdita d’identità e il fallimento umano agli occhi della società, di cui lo smembramento di Orfeo a opera delle Baccanti è eterno simbolo. «Non può esserci compimento nella vita di un poeta. È da tutto quanto non ha vissuto che proviene la sua potenza. Più il contenuto dell’istante è nutrito d’inaccessibile, più il poeta è in grado di esprimerne la sostanza. La quantità di resistenza che la vita oppone alla sete di vivere determina la qualità del respiro poetico. L’espressione si condensa nella misura in cui l’esistenza ci sfugge e il peso della parola è proporzionale al carattere fuggevole del vissuto»18. Se da un lato l’esistenza del poeta implica sempre la realtà dello scacco, dall’altro è possibile leggere l’equazione anche al contrario: vale a dire che il fallito autentico, colui che accetta consapevolmente e fieramente la propria disfatta, approda a suo modo a una dimensione poetica dell’esistenza. In altri termini, s’installa nell’incompiutezza, sebbene vi giunga percorrendo altre strade, privo del concorso delle Muse: «Fallire la propria vita significa accedere alla poesia – senza il supporto del talento» sentenzia Cioran19. Non avendo conosciuto la grazia e la maledizione della poesia, ma solo «il rimpianto di non essere poeta», costretto a brancolare «al di qua dell’ispirazione», ad accasciarsi «alle soglie del canto»20, Cioran è condannato a frequentare i poeti da «amico», o meglio da «parassita», pronto a saccheggiarne la materia, traducendo nell’aridità impersonale della prosa le loro visioni folgoranti. Del resto, la sua modesta aspirazione di allora sarà di essere nient’altro che «un pensatore pessimista da boulevard»21, un flâneur melanconico, immerso nella nebbia azzurrognola di Parigi, tra le strade strette e fumose del Quartier latin; un solitario che rimugina sulla vacuità della vita, nel silenzio monacale di una delle «mansarde della terra», tappezzata «dalla patina grigia delle insonnie ospitate»22. Proprio in quelle petites chambres d’hôtel la poetica dello scacco ispirerà a Cioran le pagine più liriche del suo primo libro francese, quel Sommario di decom-
3. L’estasi della capitolazione Se in una prima fase il fallimento assume in Cioran una rilevanza prettamente estetica – aspetto ripreso più tardi dallo stesso Beckett23 – in seguito si radicherà a un livello spirituale più profondo, incidendo sul suo cammino interiore, sino a diventare una vera e propria art de vivre. Proviamo, innanzitutto, a circoscrivere il fenomeno. Chi è il raté, il fallito? Pur essendo un esemplare tipicamente balcanico, lo si ritrova un po’ ovunque, a ogni latitudine, nelle città di provincia non meno che nelle metropoli. Cioran ne azzarda una definizione: «Un tipo molto dotato che non si realizza, che promette tutto e non mantiene le sue promesse»24. È quindi un dissipatore di risorse – materiali, ma soprattutto intellettuali – il quale, invece di metterle a frutto, le spreca. Non si abbassa a lasciare un’opera, una traccia scritta del proprio sembiante, preferisce frantumarla e disperderla in mille divagazioni orali, in attesa che un moderno Plutarco le raccolga in qualche Vita parallela degli uomini incompiuti...25 Detesta sistemarsi o progettare la propria parvenza d’essere; avanza inanellando rinunce, sperimentando tutte le sfumature dell’impasse: sterilità, stagnazione, astensione e trascuratezza. Si adatta a vivere da parassita dell’assurdo, da scroccone del caos: «È un Ecclesiaste da marciapiede, che attinge dall’insignificanza universale un alibi per le proprie disfatte»26. Certo, sul piano della performance sociale è destinato ad apparire impotente, goffo, inconcludente, sbeffeggiato com’è dagli atleti della produttività obbligatoria. Inchiodato ai blocchi di partenza, non prende parte alla gara della vita, ben sapendo che tutti i partecipanti, presto o tardi, inciamperanno rovinosamente in qualche ostacolo e che nessuno, veramente nessuno, taglierà mai il traguardo. Se nell’immediato sembra aver torto marcio, alla fine, statene certi, riderà per ultimo. Orgoglio supremo del fallito, rivincita estrema del perdente, la si chiami come si vuole, resta il fatto che le evidenze si schierano a ranghi serrati dalla sua parte. Nei Sillogismi dell’amarezza, Cioran non esita a sposarne la causa (persa), sferrando un fendente micidiale agli apostoli del rendimento: «Se la Storia avesse un fine, come sarebbe penosa la sorte di noi che non abbiamo compiuto niente! Ma, nel nonsenso universale, noi c’innalziamo, puttane inefficaci, canaglie fiere d’aver avuto ragione»27. L’universale ineluttabilità della morte ci suggerisce come il fallimento, inscritto dalla natura nell’essenza stessa dell’individuo, finisca per coincidere col nostro destino. In altre parole, «l’individuo è uno scacco esistente»28, un essere votato al fiasco, insomma. Tuttavia, quanti ne sono consapevoli? Quanti all’altezza? «Gli uomini non sanno essere inutili. Hanno dei cammini da seguire, delle mete da raggiungere, dei bisogni da saziare. Non sanno gioire della propria incompiutezza, mentre la vita non si giustifica altrimenti che per l’estasi di questa incompiutezza!»29. Il fallimento non è qualcosa d’accidentale nella vita, che può o meno verificarsi a seconda dei casi, quanto piuttosto una sgradita sorpresa che attende al varco tutti gli esistenti. Se la morte è lo stratagemma più democratico escogitato dalla natura per rinnovarsi, diventa inutile incaponirsi, rilanciare a ogni occasione la posta: tanto vale adeguarsi, ben sapendo che nessuno uscirà vinci-
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Infine si rende conto che «la Valacchia del cuore»37 – quel misto di fatalismo atavico e di straziante nostalgia, frutto di un’incompiutezza essenziale, di un’inadeguatezza congenita all’essere – l’ha accompagnato ovunque, come «una poesia senza ritmo, un canto anteriore all’ispirazione, l’abbozzo di un’impossibile melodia»38. Senza quella disciplina di fronte all’Irreparabile che è l’idea del destino – grazia ereditata dalle sciagure dei propri antenati – sarebbe forse riuscito a sopportare «l’orrore d’ogni giorno»39? Quella saggezza funebre, vera e propria metafisica rurale che un tempo lo riempiva di vergogna, ora diventa un segno d’elevazione, «una salvezza negativa», «una filosofia della storia ad uso quotidiano»40, una risorsa indispensabile per affrontare i rovesci della vita, al punto da far impallidire le sterili elucubrazioni degli intellettuali parigini. Il debito di riconoscenza va quindi a tutti quei falliti frequentati in gioventù, debosciati sublimi che lo hanno svezzato dalle illusioni della vita: «Imponendomi le loro amarezze mi avevano preparato alle mie»41. In particolare, rimane indelebile nella memoria di Cioran la figura d’un compaesano di Răşinari. Costui, dopo aver ereditato una fortuna da uno zio d’America, la dilapidò nel giro di qualche anno, trascorrendo le sue giornate cantando e ubriacandosi nelle osterie, in compagnia d’un musicista di strada. «Ma gli dèi si mostrarono clementi: morì subito dopo. Senza sapere perché, ne ero affascinato – racconta Cioran – e avevo ragione di esserlo. Ora quando ripenso a lui, persisto nel credere che egli fosse veramente qualcuno, che tra tutti gli abitanti del Paese lui solo avesse abbastanza levatura da sprecare la sua vita»42. Qualcuno, a questo punto, potrebbe insinuare che l’apologia cioraniana del fallimento sia solo una posa letteraria decadente, una provocazione poetica mirata a épater les bourgeois o, peggio ancora, una giustificazione ideologica del proprio status di scrittore senza lettori. Ad ogni modo, l’austera sobrietà della sua vita sarà la migliore confutazione di certe maliziose calunnie, nonché la conferma dell’autenticità, del sonner vrai, della sua prosa. Sul finire degli anni Settanta, in seguito alla pubblicazione di Squartamento, il successo bussò infine alla minuscola porta della mansarda, al 21 di rue de l’Odéon. Cioran non si scompose, anzi, fu visibilmente contrariato dall’improvviso clamore suscitato dal libro43. Trent’anni d’apprendistato nel mimetismo dell’anonimato – all’insegna di quell’ama nesciri («desidera di essere ignorato») raccomandata dall’ignoto autore dell’Imitatio Christi44 – lo avevano corazzato per resistere alle sirene d’una notorietà tardiva, alla calamità di una fama planetaria che aveva già contagiato tanti suoi amici, il filosofo Gabriel Marcel in testa.
tore dalla roulette della vita. «Si crede di avanzare verso tale o talaltro scopo, dimenticando che non si avanza realmente che verso lo scopo stesso, verso lo sfacelo, insomma, di tutti gli altri»30. Come la malattia svela brutalmente la deperibilità del nostro corpo, così lo scacco ci mette di fronte alla vanità d’ogni obiettivo e alla vacuità dell’Io che cercava in esso la propria realizzazione. Se il perdente saprà mantenersi all’altezza del proprio fallimento, sfruttandone le potenzialità metafisiche, allora sarà a suo modo un illuminato, qualcuno che ha definitivamente compreso: «Anche se incolto, il fallito sa tutto»31. Solo in quel momento, «sulle rovine della vita»32, lo spirito si desta, «fiorisce». Poiché «ciò che conta – assicura Cioran – non è produrre ma comprendere. E comprendere significa [...] percepire la somma d’irrealtà che entra in ogni fenomeno»33. Se lo scacco svela la nudità ontologica del reale, il successo, al contrario, equivale più o meno a un abbaglio, a un annebbiamento interiore, a un arretramento spirituale. Frutto di una congiuntura favorevole quanto imprevedibile di condizioni e accadimenti, la cosiddetta “riuscita” nasconde all’individuo i propri limiti – il determinismo biologico che lo sottende e quello cosmologico che lo sovrasta – rendendolo, in altre parole, oscuro a se stesso. Illudendolo di essere stato lui a pilotare il corso degli eventi verso il raggiungimento del risultato, il successo lo adula, lo lusinga, inoculandogli il veleno dell’onnipotenza e dell’infallibilità. Mostri di superficialità accecati dal demone dell’efficacia, i self-made men procederanno insensibilmente, come dei «perfetti idioti», verso l’abisso, verso «la smentita di tutto ciò che sono stati e di tutto quello che hanno fatto»34. Persino uno scrittore di successo come Scott Fitzgerald non riuscirà, secondo Cioran, a trarre tutte le conclusioni dal crollo che lo colpì all’improvviso. Benché The Crack-up – cronaca e autopsia del suo fallimento – sia d’una lucidità abbagliante, dinanzi al gouffre, all’abisso pascaliano, reagirà da romanziere, cercando un improbabile equilibrio tra «il senso dell’inutilità d’ogni sforzo e quello della necessità della lotta, tra la convinzione dell’inevitabilità dello scacco e l’imperativo della riuscita»35. Trascinato dall’inguaribile ottimismo yankee, Fitzgerald vivrà hollywoodianamente il resto dei suoi giorni, come «un piatto incrinato», spiritualmente al di sotto dell’abissale verità intravista. Consapevole che «non si sfugge alle proprie origini, specialmente alle nostre»36, alla fine Cioran, a differenza di Fitzgerald, reagirà pascalianamente, facendo i conti con se stesso e il proprio passato. In altre parole, diventerà ciò che era, riconciliandosi con l’anima romena, quella parte di sé rinnegata e rifuggita in gioventù.
“ La dimensione del fallimento è radicata spiritualmente nell’insieme dell’opera di Cioran ”
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Allorché i suoi opuscoli iniziarono a circolare in Spagna, qualcuno insinuò che il nome Cioran non fosse altro che un eteronimo inventato dal traduttore, il filosofo Fernando Savater. Questi lo informò prontamente del malinteso: «Cioran, qui dicono che lei non esiste». Da Parigi, a stretto giro di posta, arrivò l’insolita risposta: «Per favore, non li smentisca!»45. La fedeltà alla sapienza dello scacco di chi aveva dichiarato «piuttosto in una cloaca che su un piedistallo»46 rimarrà inalterata, respingendo l’assalto della più becera alleata dell’«abominevole Clio»47: la televisione. All’invito allettante di Bernard Pivot, conduttore della celebre trasmissione letteraria Apostrophes, Cioran opporrà un secco rifiuto: «Non voglio che la gente si ricordi della mia faccia e che mi guasti il piacere maggiore della mia vita, le passeggiate per il giardino del Luxembourg»48. Raramente l’umanità ha dato prova di simili esempi d’eleganza morale, che consiste «nell’arte di mascherare le proprie vittorie in sconfitte»49. Per noi moderni, genìa prometeica e faustiana al capolinea della storia, che abbiamo cercato e atteso l’eterno nel tempo, invasati dalla strampalata idea di edificarlo mediante l’azione, per noi, armeggiatori nell’incurabile, il fallimento finisce per diventare un passaggio obbligato, qualcosa come una tappa tutta occidentale verso il risveglio. In aperto dissenso con l’etica mistificante della vittoria, la saggezza paradossale di Cioran invita a vedere la débâcle en rose, ad abbracciarla, ad amarla: «Dopo, non si avranno più sorprese: si è superiori a tutto ciò che capita, si è padroni dei propri scacchi. Una vittima invincibile»50. Il fallito? Un recalcitrante divino, un eroe à rebours…
17. Ivi, pp. 389-390. Più avanti, comunque, confesserà di essere stato perseguitato da questo brano dell’Aurelia di Nerval: «Arrivato sulla piazza della Concorde, il mio pensiero era di distruggermi». D’altronde, il suo sogno giovanile era di vivere da eterno studente e morire infine in una stanza d’hotel del Quartier latin. Cfr. L’inconvénient d’être né, p. 1379; Gabriel Liiceanu, Itinéraires d’une vie: E. M. Cioran. Les continents de l’insomnie. Entretien avec E. M. Cioran, Michalon, Parigi 1995, p. 107. 18. E. M. Cioran, Mihai Eminescu, in Exercices négatifs, cit., p. 112. 19. Syllogismes de l’amertume, p. 747. Altrove si descrive come «un frenetico che vive nell’interminabile poesia dello scacco» (E. M. Cioran, Cahiers 1957-1972, Gallimard, Parigi 1997, p. 65). 20. Précis de décomposition, p. 671. 21. E. M. Cioran, Fragments de Quartier latin, cit., p. 390. 22. Ivi, p. 391. 23. «Essere artista è fallire, così come nessun altro ha il coraggio di fallire, il fallimento è il mondo dell’artista, e sfuggirlo equivale alla diserzione, ad arti e mestieri, a buona amministrazione casalinga, a vivere» (cit. in Samuel Beckett, Il “fallimento” di Bram Van Velde, in «L’Europa letteraria», aprile 1961). 24. Entretien avec Michael Jakob, in E. M. Cioran, Entretiens, Gallimard, Parigi 1995, p. 294. 25. Cfr. E. M. Cioran, Bréviaire des vaincus II, Éditions de L’Herne, Parigi 2009, p. 61. 26. Précis de décomposition, p. 655. 27. Syllogismes de l’amertume, p. 781. 28. Le crépuscule des pensées, p. 492. 29. Bréviaire des vaincus I, p. 513. 30. Aveux et anathèmes, p. 1716. 31. Des larmes et des saints, p. 322. 32. Le crépuscule des pensées, p. 263. 33. Le mauvais démiurge, p. 1221. 34. E. M. Cioran, Cahiers, cit., p. 989. 35. Francis Scott Fitzgerald, The Crack-Up, cit. in Fitzgerald, in Exercices d’admiration. Essais et portraits, p. 1617. 36. Lettera ad Aurel Cioran del 30 agosto 1979, in E. M. Cioran, Ineffabile nostalgia. Lettere al fratello. 1931-1985, a cura di Massimo Carloni e Horia Corneliu Cicortaş, Archinto, Milano, di prossima pubblicazione. 37. E. M. Cioran, Bréviaire des vaincus II, cit., p. 19. 38. Ivi, p. 16. 39. La tentation d’exister, p. 852. 40. Ivi, p. 851. 41. Ivi, p. 886. Nei Cahiers (cit., p. 913), Cioran ricorda: «Tutti i Romeni che hanno contato nella mia vita: Sorin Pavel, appunto, Ţuţea, Zapraţan, Crăciunel, e il più grande di tutti, Nae Ionescu, erano dei “falliti”». 42. Aveux et anathèmes, p. 1704. 43. Cfr. la lettera ad Aurel Cioran del 25 novembre 1979 (ora in E. M. Cioran, Ineffabile nostalgia, cit.): «Ecco adesso questo libro, sicuramente meno buono degli altri, di cui tutti si sono messi a parlare. Fenomeno inesplicabile e… deprimente. Ho chiesto all’editore di bloccare ogni pubblicità e, t’assicuro, se fosse in mio potere, ritirerei questo povero Squartamento dal commercio». 44. Cfr. L’inconvénient d’être né, p. 1288. 45. Fernando Savater, Cioran, un angelo sterminatore, tr. di C. M. Valentinetti, Frassinelli, Milano 1998, p. XV. 46. L’inconvénient d’être né, p. 1342. 47. Écartèlement, p. 1485. 48. Cit. in Fernando Savater, op. cit., pp. 153-154. 49. Écartèlement, p. 1449. 50. E. M. Cioran, Cahiers, cit., p. 983.
1. Patrice Bollon, Cioran, l’hérétique, Gallimard, Parigi 1997, p. 20. 2. E. M. Cioran, Transfiguration de la Roumanie, Éditions de L’Herne, Parigi 2009, p. 109. I riferimenti bibliografici cioraniani privi del nome dell’autore e di altre specifiche sono tratti dall’edizione Oeuvres, Gallimard, coll. «Quarto», Parigi 1995. 3. «La Romania è geografia, non storia» (E. M. Cioran, Transfiguration de la Roumanie, cit., p. 135). 4. Cfr. ivi, p. 149. Protagonista del poema è un pastore moldavo in procinto di essere assassinato e derubato da altri due, uno transilvano e uno vranceano. Sebbene avvertito per tempo da una sua agnellina (Mioriţa), accetta supinamente e con fatalismo la propria morte, accogliendola come una «regina radiosa», «sposa del mondo» cui si unirà in un matrimonio celebrato e festeggiato dall’intero cosmo. 5. E. M. Cioran, Les secrets de l’âme roumaine. Le «Dor» ou la nostalgie, in Exercices négatifs. En marge du Précis de décomposition, Gallimard, Parigi 2005, p. 116. 6. Ivi, p. 118. 7. Ivi, p. 119. 8. E. M. Cioran, Transfiguration de la Roumanie, cit., p. 237. 9. Cfr. ivi, pp. 257-258. 10. E. M. Cioran, Profilul interior al căpitanului, in «Glasul Strămoșesc», 25 dicembre 1940, ora in Cioran, «Cahier de L’Herne», n. 90, Éditions de l’Herne, Parigi 2009, pp. 53-54. 11. E. M. Cioran, Transfiguration de la Roumanie, cit., p. 237. 12. Ivi, p. 125. 13. Ivi, p. 128. 14. Ivi, p. 131. 15. E. M. Cioran, Fragments de Quartier latin, in «Cuvântul», 31 gennaio 1938, ora in Solitude et destin, tr. di Alain Paruit, Gallimard, Parigi 2004, p. 392. 16. Ivi, pp. 388-392.
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Il giovane Eliade dall’Italia all’India di Horia Corneliu Cicortaș
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ell’aprile del 1928, il giovane Mircea Eliade arriva in Italia, questa volta non per un viaggio di piacere – anche se il precedente, del 1927, era stato perlopiù impiegato in attività strettamente connesse al suo lavoro di studioso e giornalista – ma di ricerca per la sua tesi di laurea1. Nonostante gli interessi orientalistici, che iniziavano a essere dominanti, Mircea aveva scelto come soggetto la filosofia del Rinascimento italiano. Questa decisione era legata alle esigenze “metodologiche” con le quali il laureando si stava confrontando, nel tentativo di “corredare” la storia comparata delle religioni (assimilata soprattutto tramite i lavori di Raffaele Pettazzoni) con una filosofia “universale”, capace di rendere conto anche delle realtà culturali e religiose “esotiche” o “sotterranee”. Inoltre, ricorderà Eliade trentacinque anni più tardi, «in Pico della Mirandola trovavo magia e occultismo a profusione, abbastanza mistica neoplatonica in Marsilio Ficino e una fantasia senza limiti in Campanella. Parimenti ritrovavo, in tutto il Rinascimento ita-
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che ad approfondire un autore italiano contemporaneo, Arturo Farinelli, «una conoscenza di vecchia data. Nell’ultimo anno di liceo avevo letto i due volumi de La vita è un sogno, e da allora avevo cercato di tenermi aggiornato sulla sua prodigiosa produzione, acquistando tutto ciò che potevo procurarmi e chiedendo all’autore il resto con lettere appassionate»8. Il soggiorno romano non è destinato solo alle ricerche sui vari aspetti del Rinascimento, legate al progetto di tesi. Qui Eliade completa anche la sua «documentazione sull’India e in particolare sulla filosofia indiana. Attraverso la rivista Bilychnis avevo saputo, alcuni anni prima, del viaggio di Carlo Formichi e di Giuseppe Tucci in India. Con il professore di sanscrito Formichi ero già in corrispondenza e da lui avevo ricevuto libri e articoli»9. Quando, un giorno di maggio, Eliade va a cercare Giuseppe Tucci all’università, gli viene detto che questi si trova ancora a Dacca: «Mi permisero tuttavia – aggiunge il Nostro – di lavorare nella biblioteca del seminario di Indianistica»10. È lì che avviene la scoperta che avrebbe cambiato il suo destino: leggendo la prefazione al primo volume dell’opera di Dasgupta A History of Indian Philosophy, Eliade apprende che l’autore aveva portato avanti il proprio lavoro con l’aiuto finanziario di un mecenate indiano, referente di «tutte le iniziative in campo culturale e educativo del Bengala»11. Senza pensarci più di tanto, stende velocemente una lettera al mecenate indiano per chiedergli una borsa di studio: «Emozionato, copiai il nome e l’indirizzo del mahārāja e poi lì, sul tavolo della biblioteca, cominciai a scrivere la brutta copia di una lettera in francese, che pensavo di inviargli. Gli dicevo che stavo preparando una tesi di laurea sulla filosofia del Rinascimento, ma che ero sempre più interessato alla filosofia indiana e che avrei voluto recarmi a Calcutta per lavorare per due anni con S. N. Dasgupta. Ero disposto a vivere modestamente, così come vive uno studente indiano, e gli chiedevo se, una volta arrivato a Calcutta, avrei potuto ottenere una borsa di studio da lui. In quella stessa notte, nella mia camera, trascrissi la lettera e la spedii il giorno dopo»12. Questa missiva sarebbe dunque da considerarsi un atto spontaneo, un’illuminazione istantanea, apparentemente non preceduta dall’intenzione di andare in India. Sicuramente, una certa India “interiore” si era già insinuata nella passione di Eliade, tutta romantica, per le discipline “sotterranee” della cultura europea e per alcuni aspetti poco indagati degli universi “esotici” come, ad esempio, l’alchimia indiana – interesse che l’aveva spinto, nel 1927, a ordinare alcuni libri sull’argomento, spediti il 17 novembre da Calcutta13. A interessarlo era anche il tantrismo, sul quale scrisse un articolo – cui ne sarebbero seguiti altri – pubblicato sul numero dell’11 luglio del 1928 di «Cuvântul», intitolato Varnamala o la ghirlanda delle lettere. Negli ultimi anni di liceo e in quelli universitari questa passione si era spostata verso lo studio comparato delle religioni e delle filosofie – come, per l’appunto, quella rinascimentale – che avrebbe potuto fornire il quadro teorico di un “umanesimo integrale”, incentrato sull’idea più ampia dell’“uomo universale”. I progetti di Eliade prevedevano un eventuale soggiorno all’estero, preferibilmente in un Paese occidentale: «Non c’è dubbio che senza questa lettera la mia vita sarebbe stata un’altra. Sapevo che il miglior posto per imparare la lingua sanscrita e per studiare la filosofia indiana era un’università dell’India, ma non osavo sperare di potervi arrivare tanto in fretta. Pensavo che avrei ottenuto, probabilmente, una borsa
liano, la fede nelle possibilità illimitate dell’uomo, il concetto di libertà creatrice e un titanismo quasi luciferino, cioè tutte le ossessioni della mia giovinezza»2. Per quanto disparati, questi interessi convergevano insomma in quell’eroismo laico (inteso come superamento non conformistico dei limiti interiori e sociali) che, nel 1928, definiva la personalità di Eliade. Un’altra motivazione a posteriori – anch’essa plausibile, oltre che degna di attenzione da un punto di vista psicologico – è, tuttavia, suggerita poco prima dall’Eliade memorialista: «Senza rendermene conto, cercavo di equilibrare, attraverso uno studio serio e approfondito dell’immanentismo neopagano, del panteismo e della “filosofia della natura”, la mia passione per la trascendenza, la mistica e la spiritualità orientali»3. Il giovane Mircea è desideroso d’intraprendere nuove esperienze, forse decisive, all’estero. Ha scritto, durante gli anni universitari (1925-1928), il romanzo Gaudeamus, per fissare quelle «immagini che cominciavano già a impallidire» (la mansarda, la «vita da studente» e i primi incontri amorosi), ma anche per una ragione pienamente romantica: «Avevo il presentimento che avrei rinunciato alla “grande passione” che allora stavo vivendo e cominciavo a prepararmi in vista di questa prova e a preparare allo stesso tempo anche R., facendole capire che la più bella prova d’amore che le potevo dare era proprio questa: mi sacrificavo a lei, sacrificandola»4. In una lettera scritta alla famiglia l’8 aprile dello stesso anno, pochi giorni dopo l’arrivo a Roma, Eliade precisa di essere «in rapporti molto stretti» col direttore della Scuola Romena, il quale gli avrebbe chiesto di «venire a Roma l’anno prossimo per il dottorato»5. I progetti di Eliade per il futuro non sono ancora precisi. È alle prese con la raccolta dei materiali per la sua tesi e trascorre molte ore nelle biblioteche romane. Il Rinascimento che lo attrae non è quel movimento intellettuale che aveva riscoperto i valori classici dell’antichità greco-romana ma, come scriverà nel suo elaborato, quello «desideroso di un nuovo enigma (proiettato verso l’Oriente)»6. È insomma il Rinascimento delle correnti magiche, ermetiche, cabalistiche e alchemiche, associate soprattutto a figure come Pico della Mirandola. Eliade, che passa per la prima volta così tanto tempo in una biblioteca occidentale, trascrive giorno dopo giorno tutto quel che può, consapevole del fatto di trovarsi davanti a «pubblicazioni irreperibili a Bucarest», ma rischiando al contempo di non concludere il lavoro. Il materiale raccolto aumenta considerevolmente, anche per le prospettive di ricerca che apre: «La mia tesi di laurea minacciava di diventare una storia comparata della filosofia del Rinascimento. In apposite cartelle raccoglievo una documentazione supplementare sull’ermetismo e l’occultismo, sull’alchimia e le relazioni con l’Oriente. Avevo molti progetti in testa: tradurre in romeno una raccolta di frammenti e appunti di Leonardo da Vinci, commentare I Sonetti di Michelangelo, formare un’antologia di testi di Pico della Mirandola»7. Tra i “grandi” del Rinascimento, Pico fu certamente un modello e un punto di riferimento anche per l’Eliade più maturo, fautore di un “nuovo umanismo”, legato a quello “integrale” appreso dai filosofi rinascimentali. Tuttavia, lo studente romeno non si ferma ai soli pensatori italiani del Rinascimento (Pico, Ficino, Leonardo, Campanella, Machiavelli, Galileo e Bruno). La sua predilezione per l’enciclopedismo lo porta a scoprire anche i grandi eruditi spagnoli – Menéndez y Pelayo e Adolfo Bonilla y Saint Martin – oltre
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come prosecuzione della rivista teologica internazionale «Logos», fondata sempre da Nae e “morta” dopo soli due numeri. Il primo fascicolo avrebbe dovuto essere stampato entro il Natale di quell’anno, ma il progetto non si realizzò. Esso si proponeva di occuparsi del tema della magia, come ricorda Eliade stesso: «A me venne assegnato il compito di presentare la struttura delle filosofie magiche e di far vedere in che misura la magia rappresentava una delle più grandi tentazioni dello spirito. […] Riuscii a terminare il mio articolo all’inizio di dicembre, mentre mi trovavo a bordo della nave Hakone Maru, in rotta verso Ceylon. L’avevo intitolato Il fatto magico e lo spedii a Mircea Vulcănescu appena giunto a Colombo. Ma […] quel testo, che non era privo d’interesse, andò smarrito tra le carte di Mircea Vulcănescu e non l’ho più rintracciato»20. La sorpresa, destinata a sconvolgere «tutti i progetti e l’orientamento generale degli studi» sui quali Eliade si era concentrato, è tuttavia la breve lettera del mahārāja, ricevuta a settembre, in cui questi si dichiara disposto a “sponsorizzarne” il soggiorno in India. Il mecenate chiede a Eliade di comunicargli il preventivo mensile per la sua permanenza, non prima di aver precisato – in un francese piuttosto approssimativo – che «la filosofia dell’India non viene insegnata nelle università del Paese. La si studia negli istituti tradizionali, la cui lingua è il sanscrito». Nel post scriptum, gli comunica inoltre l’intenzione del professor Dasgupta di accettarlo come studente21. Eliade aveva già chiesto informazioni sul costo della vita in India in una lettera a Dasgupta, nella quale gli aveva espresso il desiderio di restarvi un anno, come risulta dalla risposta, che trascriviamo per intero: «Gentile Signore, in riferimento alla Sua lettera del 4 settembre mi permetto di informarla che, in genere, l’Università di Calcutta è il posto migliore dove studiare Filosofia Indiana. Per quanto riguarda i costi, uno studente indiano deve spendere più o meno 4 £ al mese, ma se si vuole mantenere uno stile di vita europeo bisogna pagare molto di più. Non capisco nemmeno come Lei possa trarre profitto studiando in India per un anno solo – credo che Lei non conosca il sanscrito; se le cose stanno così, non può sperare di imparare la filosofia indiana in tempi così brevi. Cordiali saluti, S. N. Dasgupta»22. Eliade deve dunque affrettare la redazione della sua tesi di laurea e reperire denaro per il viaggio asiatico, ormai imminente. Scrive anche a Formichi, chiedendogli consigli e informazioni nell’eventualità di un soggiorno di studio in India. Questi gli risponde dall’Università della California, dove si trova in quel momento (è il 19 settembre), consigliandogli “caldamente” l’università di Dacca e suggerendogli di rivolgersi a Giuseppe Tucci a nome suo. Dalle scuse di Formichi per il ritardo nella sua risposta a Eliade, come anche dal tipo di informazioni fornite, possiamo dedurre che nei mesi estivi il giovane studioso non avesse ancora le idee chiare sulla sua partenza: a Formichi potrebbe aver scritto mentre era ancora a Roma, in preda all’euforia generata dalla scoperta del libro di Dasgupta, oppure dalla Romania, in attesa di notizie dall’India. Elementi ulteriori dimostrano come, prima di partire per Calcutta, Eliade avesse preso in considerazione l’ipotesi di recarsi a Dacca e studiare con Tucci. Ad esempio, in una lettera a Valeriu Bologa datata 22 ottobre 1928, scrive: «Tra venti giorni partirò per l’India (Dacca University). Resto lì un anno e mezzo per preparare la tesi di dottorato, sulla logica buddhista», per poi aggiungere: «Come vedi, sto per lasciare il Paese – e per un territorio così fantastico e incerto»23. In un’altra missiva, scritta solo il giorno
per una delle università occidentali, nel qual caso mi proponevo di studiare la filosofia comparata. È per questo che le mie ricerche sulla filosofia del Rinascimento non mi sembravano senza senso. Contavo di completarle più avanti con uno studio approfondito della filosofia orientale»14. L’India, da quel momento in poi, divenne così una “tentazione”, una modalità di sperimentare quella “disponibilità dello spirito” che Eliade proponeva negli articoli del suo Itinerario spirituale15. Questa apertura doveva tradursi nella nascita di una nuova coscienza culturale nazionale, che avrebbe sostituito quella precedente, dominata dal positivismo, dal razionalismo e dagli ideali “importati” dell’anteguerra. In questo manifesto programmatico della “nuova generazione”, Eliade si faceva portavoce dei suoi coetanei, accomunati dall’appartenenza a una nuova “realtà spirituale”, diversa da quella precedente la Grande Guerra. Sul piano della cultura europea, i vecchi ideali dell’illuminismo e del positivismo erano stati resi obsoleti dal conflitto; la guerra aveva messo in discussione tutto, favorendo la reazione di correnti irrazionali e spiritualistiche. In secondo luogo, sul piano nazionale, la vittoria militare a fianco degli alleati aveva reso possibile l’unificazione del Paese (l’integrazione della Bessarabia, della Transilvania e di altri territori più piccoli strappati agli Imperi), rendendo le nuove generazioni “orfane” di un ideale collettivo politico: «Eravamo la prima generazione romena non condizionata preliminarmente da un obbiettivo storico da realizzare»16. Di conseguenza, pensato in termini vitalistici, spiritualistici, elitari e necessariamente iconoclasti, il “programma” della “giovane generazione” mirava all’affermazione di valori sintonizzati sulle esigenze del nuovo momento storico e fondati sulle esperienze, viste come necessità dello spirito di allargarsi oltre i confini delle proprie “specializzazioni”. A metà maggio, Eliade salpa da Napoli verso la Romania, passando da Atene e Istanbul. Nella città turca divisa tra due continenti, sono le atmosfere orientali a richiamare alla mente del giovane studioso romeno questa “tentazione”, questa possibilità di dare una svolta “indiana” al proprio destino: «Nel bazar, la mia emozione crebbe ancora e il cuore cominciò a battere più forte. Il mahārāja risponderà alla mia lettera? Non osavo sperarlo. Sentivo che l’Oriente rappresentava per me molto di più che uno scenario fiabesco o un oggetto di studio. Era una parte del mondo che meritava di essere conosciuta per la sua storia segreta e per la grandezza delle sue creazioni spirituali»17. Da parte sua, nella prefazione al primo volume della History of Indian Philosophy, Dasgupta aveva sottolineato l’importanza della conoscenza del pensiero filosofico indiano, spesso trascurato o frainteso in Occidente: «La scoperta delle caratteristiche più importanti del pensiero filosofico indiano e il dovuto apprezzamento del loro pieno significato potrebbero rivelarsi tanto importanti per il pensiero filosofico moderno quanto la scoperta del sanscrito lo fu nelle ricerche filologiche»18. In queste pagine, il giovane Eliade aveva sicuramente trovato una lampante ed entusiasmante conferma della correttezza delle proprie ricerche, volte a superare il “provincialismo” europeo e a scoprire una nuova universalità per il pensiero filosofico. Tornato a Bucarest, sostiene gli ultimi esami, rimandando all’autunno la discussione della tesi. Incontra di nuovo Nae Ionescu nella redazione di «Cuvântul» [La parola], che sta attraversando un periodo di difficoltà economica19, e progetta insieme a Mircea Vulcănescu e Sandu Tudor un nuovo periodico di filosofia religiosa, «Duh şi slovă» [Spirito e Dottrina], pensato
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dopo, le previsioni sul viaggio sono tuttavia diverse, inserite in un progetto più ampio di permanenza all’estero: «Vado in India, in Giappone e poi in Germania. Per almeno quattro anni, sarò qui solo provvisoriamente»24. Nel frattempo, a quanto pare, Eliade aveva convinto Ionescu della necessità di andare in India: «Essendosi reso conto del mio interesse sincero e costante per l’Oriente e soprattutto per l’India, Nae Ionescu non cessava di ripetermi, tutte le volte che ne aveva l’occasione, che una filosofia è comprensibile solo là dove si è formata. È in India, ad esempio, aggiungeva, che ci si deve recare per vedere come si comporta e come cammina per la strada un uomo che non crede nella realtà ontologica del mondo»25. A ottobre Eliade discute la tesi di laurea: è ormai consapevole che, partendo per l’estero (come il protagonista di Gaudeamus), dovrà congedarsi da R., dai suoi amici, dai tanti progetti aperti e dalla sua cara mansarda. La “tentazione” dell’India si scontra drammaticamente con il sentimento di non aver portato a compimento nulla e il suo scoprirsi legato a tanti affetti. «D’altra parte – ricorda il memorialista, interpretando la partenza per l’India nella prospettiva del proprio destino – sapevo che se non mi fossi staccato in quel momento, quando quelle separazioni mi facevano soffrire oltre ogni limite, non avrei più affrontato in tempo il mistero che mi attendeva da qualche parte in India. Sapevo che quel mistero si trovava là perché io lo decifrassi, e che decifrandolo avrei scoperto chi ero veramente e perché ero così come mi piaceva essere, perché mi erano capitate certe cose nella vita e perché mi avevano appassionato a volta a volta i problemi della materia, le piante, gli insetti, le letterature, le filosofie, le religioni, e attraverso quali vie, dalle partite a oină26 sullo spiazzo del Municipio nella mia infanzia ero arrivato ai problemi che mi tormentavano»27. Il 22 novembre, il padre e la sorella del giovane Mircea lo accompagnano alla stazione Nord di Bucarest. Ad attenderlo c’è un treno, diretto a Costanza. Una settimana dopo, sulle colonne del settimanale «Vremea», un amico pubblica una breve nota in cui descrive scherzosamente la partenza dell’anticonformista leader della “giovane generazione”: «Alle quattro e cinque minuti, inesorabile come quell’inexorabile fatum, il treno incominciò a muoversi. Ovazioni, grandi emozioni e lacrime scorrono a fiotti, la generazione presente al binario è presa dal panico… “Il capo se ne va, il capo se ne va!”, urla in coro la generazione… Alle quattro e sei minuti la più fresca di tutte le generazioni era rimasta senza capo»28. È una svolta decisiva nel destino di Mircea Eliade che, a contatto diretto con la realtà indiana, troverà non soltanto una fonte rinnovata per i propri studi e scritti, ma anche l’impulso a intraprendere nuovi viaggi, orientali e non, nel segno della ricerca e del superamento eroico di sé.
metà di giugno, decisi di ritornare in Romania. Dovevo essere a Bucarest prima della fine del mese, per dare i miei ultimi esami» (Le promesse dell’equinozio, cit., p. 158). In realtà, le cartoline e le lettere spedite da Eliade alla famiglia durante i suoi spostamenti ci consentono di ricostruirne il soggiorno italiano, la cui durata fu di un mese e mezzo. Cfr. M. Eliade, Europa, Asia, America... Corespondenţă, vol. I (A-H), a cura di M. Handoca, Humanitas, Bucarest 1999, pp. 233-244 (d’ora in avanti indicato come Corespondenţa I). 2. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 140. 3. Ibidem. 4. Ivi, p. 151. 5. M. Eliade, Corespondenţa I, cit., p. 235. 6. M. Eliade, Contributi alla filosofia del Rinascimento, in Mircea Eliade e l’Italia, a cura di M. Mincu e R. Scagno, Jaca Book, Milano 1986, p. 146. 7. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 156. 8. Ibidem. 9. Ibidem. 10. Ivi, p. 157. 11. Ibidem. Il brano menzionato fa parte della prefazione di Surendranath Dasgupta, A History of Indian Philosophy, vol. I, Motilal Banarsidass, Delhi 1975, p. XI. 12. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 157. 13. M. Handoca, Mircea Eliade şi corespondenţii săi, vol. I, Ed. Minerva, Bucarest 1993, p. 174. 14. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 157. 15. Le dodici “puntate” dell’Itinerario spirituale furono pubblicate su «Cuvântul» tra il 6 settembre e il 16 novembre del 1927 (ora in M. Eliade, Itinerariu spiritual. Scrieri de tinerețe, 1927, a cura di M. Handoca, Humanitas, Bucarest 2003, pp. 263-362). 16. M. Eliade, Memorie, cit., p. 144. 17. Ivi, p. 159. 18. S. Dasgupta, op. cit., p. VIII. Traduzione nostra. 19. Quell’estate il giornale fu infatti comprato dallo stesso Nae Ionescu, che dovette lavorare sodo – e spesso solo, non potendo pagare i collaboratori – per rimettere a posto la situazione. 20. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 161. 21. Lettera del 5 settembre 1928, in Corespondenţa I, p. 175. 22. Lettera del 12 ottobre 1928, in ivi, p. 248. Traduzione nostra. 23. Ivi, p. 74. Contestualmente a queste notizie, in un articolo – pubblicato alla fine di aprile del 1933 sul settimanale «Vremea» – dal titolo L’inverosimile e utilissima vita del mahārāja di Kassimbazar, Eliade aggiunse come l’impulso di scrivere al mecenate indiano fosse stato determinato dall’intenzione di recarsi in India: «Siccome stavo progettando un viaggio in India, gli scrissi. E, circa due mesi più tardi, ricevetti una risposta in francese» (M. Eliade, La biblioteca del mahārāja e Soliloqui, Bollati Boringhieri, Torino 1997, p. 92). 24. M. Eliade, Corespondenţa I, cit., p. 75. 25. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 160. 26. Gioco sportivo tradizionale, simile al baseball e allo tsan valdostano. 27. Ivi, p. 165. 28. P. Mihai [Mihail Polihroniade], Il Sig. Mircea Eliade se n’è andato in India, ovvero su come la “generazione” è rimasta senza capo, in «Vremea», 29 novembre 1928, ora in M. Handoca, Dosarele Eliade, Curtea veche, Bucarest 1998, p. 35.
1. Nel primo volume delle sue Memorie (Le promesse dell’equinozio, a cura di R. Scagno, Jaca Book, Milano 1995, p. 155), Eliade “dilata” la durata di questo secondo soggiorno italiano: «All’inizio dell’aprile del 1928, partii per trascorrere tre mesi a Roma». Se questa frase potrebbe tradire un’intenzione, l’originale romeno recita letteralmente: «La începutul lui aprilie 1928 am plecat pentru trei luni la Roma», cioè «All’inizio di aprile andai per tre mesi a Roma» (Memorii I, a cura di M. Handoca, Humanitas, Bucarest 1991, p. 157). Poco dopo, può leggersi: «Verso la
[Saggio inedito tratto dal primo capitolo (L’adolescente miope e la scoperta dell’India) della nostra tesi di dottorato su Mircea Eliade e l’India, sostenuta nel 2005 all’Orientale di Napoli]
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Nae Ionescu e la giovane generazione di Emanuela Costantini
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a figura di Nae Ionescu, poco nota fuori dalla Romania, è stata dopo il 1989 al centro di un forte interesse in patria. Intellettuale controverso, è stato giudicato contraddittoriamente un fine pensatore e un filosofo poco originale, un formatore di grandi intellettuali e un “cattivo maestro”, un autentico nazionalista e l’“eminenza grigia” della Guardia di Ferro. Nae Ionescu (Brăila, 1890-Bucarest, 1940) fu indubbiamente un filosofo, per formazione e percorso biografico. Completò i suoi studi tra Bucarest, dove ebbe come maestri grandi studiosi quali Nicolae Iorga e Constantin Rădulescu-Motru, e la Germania, dove conseguì il dottorato ed ebbe la possibilità di conoscere Edmund Husserl. Tornato nel suo Paese, entrò a far parte dell’élite intellettuale della capitale, collaborando a diverse riviste (tra le quali il giornale di cui divenne direttore, «Cuvântul» [La parola]); negli anni Venti gli venne conferita la cattedra di Logica e Metafisica
all’Università di Bucarest. Fu grazie alla sua attività come docente e pubblicista che Ionescu divenne una delle voci più ascoltate e autorevoli della Romania di quegli anni, oltre che per la sua frequentazione con Carol II, re di Romania dal 1930, conosciuto quando era studente all’università, di cui diventò anche consigliere, salvo poi distaccarsene per divergenze circa il ruolo della monarchia in politica1. La fama di Ionescu e l’interesse per la sua vicenda biografica e il suo pensiero sono dovuti soprattutto all’influenza che esercitò su alcuni degli intellettuali più brillanti della Romania interbellica, tra i quali spiccano nomi di primo piano anche per la cultura internazionale, come Emil Cioran e Mircea Eliade. Un’influenza che, secondo alcuni, fu alla base dell’avvicinamento di questi e altri giovani studiosi romeni alla Guardia di Ferro, il movimento di estrema destra di orientamento spiritualista e di marca antisemita fondato da Corneliu Zelea Codreanu.
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ferenti concezioni filosofiche e politiche e i diversi interessi culturali, alcuni dei giovani che avevano avuto Ionescu come professore continuarono a collaborare con lui anche dopo la fine della carriera accademica: tra essi ricordiamo Emil Cioran, oltre ai già citati Mircea Eliade, Mihail Sebastian e Mircea Vulcănescu, che firmarono diversi articoli su «Cuvântul». Il gruppo di allievi formatosi intorno a Nae fu il nucleo forte della cosiddetta “giovane generazione”: intellettuali nati all’alba del XX secolo, negli anni Venti studenti universitari, alcuni di loro cominciarono a lavorare poco dopo come assistenti e talvolta anche come docenti. Provenivano da diverse regioni del Paese – alcuni, come Cioran, da quelle annesse alla Romania dopo la Prima Guerra Mondiale (il giovane Emil era nato in una cittadina transilvana). Ebbero la fortuna di entrare in contatto con il panorama culturale romeno proprio nel suo periodo probabilmente più fecondo e ricco di opportunità. Molti di loro ebbero anche la possibilità, attraverso le borse di studio messe a disposizione dallo Stato, di viaggiare in Europa e arricchire la propria formazione confrontandosi con grandi personalità della cultura – come, nel caso di Mircea Eliade, Giovanni Gentile. Ciò che rese questo gruppo disomogeneo di intellettuali una “generazione” fu il fatto di condividere una condizione: quella di succedere culturalmente a chi aveva avuto come ideale di riferimento l’obiettivo storico dell’unificazione nazionale. Diceva Mircea Eliade nel 1965: «A differenza dei nostri predecessori, che nacquero e vissero nell’ideale della reintegrazione del popolo, noi non avevamo un ideale a portata di mano. Eravamo liberi, disponibili a ogni tipo di “esperienza”. […] Eravamo la prima generazione romena non condizionata nell’immediato da un obiettivo storico da realizzare»8. Completata l’unità nazionale con l’acquisizione dei territori “irredenti” dopo la Prima Guerra Mondiale, i giovani intellettuali cresciuti alla scuola di Ionescu e di altri grandi pensatori si ponevano l’obiettivo di dare un’identità alla cultura romena e di trovarle una collocazione nel panorama europeo. Erano però “liberi” di decidere in che modo farlo, diceva Eliade, ovvero potevano proporre soluzioni diverse. Cionondimeno, all’interno della “giovane generazione” è comunque individuabile una corrente maggioritaria composta da allievi di Ionescu che avevano fatto propri alcuni aspetti del suo pensiero: l’antirazionalismo, la valorizzazione della dimensione spirituale e l’importanza della fede come base del patrimonio valoriale di una comunità. Nella cultura romena, questi ultimi andarono a rafforzare la componente critica nei confronti della recezione passiva di modelli e valori occidentali – imperniati sul positivismo in filosofia e sul liberalismo in politica – che in passato era rimasta minoritaria e aveva condotto la propria lotta contro la cultura ufficiale in nome del recupero della tradizione, identificata col mondo rurale. L’apporto innovativo degli intellettuali attivi nel periodo interbellico, che in buona parte derivava dall’influenza di personaggi come Ionescu, risiedeva nell’attribuzione alla tradizione di un significato nuovo, che affondava le proprie radici in valori spirituali. Se in Ionescu ciò comportava il recupero dell’ortodossia – che gli valse il titolo di “ortodossista” – nei suoi allievi assunse sfumature diverse e, in alcuni casi, anche più ricche rispetto a quelle del maestro. Da questo punto di vista, Eliade e Cioran sono tra le personalità più significative. L’interesse di Mircea Eliade per la spiritualità doveva molto alla convinzione di Ionescu che i valori spirituali fossero la base dell’identità delle comunità umane. Il futuro storico delle religioni aveva già lasciato emergere queste posizioni nella sua tesi di
Al di là di questo, appare tuttavia forse di maggiore interesse analizzare le modalità con cui questa influenza si esplicò, ripercorrendo il rapporto tra il filosofo e i suoi allievi. Per comprenderlo, occorre partire dalla concezione che Ionescu aveva della filosofia. Se George Călinescu affermò nella sua monumentale storia della letteratura romena come Ionescu «non [avesse] personalmente e in linea di principio nessuna filosofia»2, questa affermazione è corretta solo a patto di concepire la filosofia come una concezione sistematica del mondo. Per Ionescu, al contrario, era un metodo di conoscenza, una ricerca continua attraverso un procedimento maieutico. Per questo egli rifiutava anche la storia della filosofia, ritenendo – come sostiene Mircea Vulcănescu, uno degli allievi a lui più legati e autore di un ritratto biografico del maestro – che «ogni uomo è solo con il suo pensiero»3. Questa concezione della filosofia come continua messa in discussione di concetti e idee comporta l’impossibilità di fissare il pensiero una volta per tutte e spiega anche perché Ionescu non abbia prodotto testi organici destinati alla pubblicazione, oltre agli articoli pubblicati sui periodici con i quali collaborava. Questo non significa che il pensiero di Ionescu sia riconducibile a un mero relativismo: partendo dal rifiuto del razionalismo cartesiano, egli recuperava il patrimonio di valori dell’ortodossia proponendo una concezione che attingeva all’esistenzialismo tedesco e allo slavofilismo russo. L’ortodossia era intesa come un deposito di esperienze interiori alle quali l’anima accedeva prima ancora dell’intervento della razionalità e che quindi costituiva la base del pensiero dell’uomo. Il patrimonio spirituale che derivava dalla fede non era però vissuto individualmente, bensì attraverso la mediazione della comunità dei fedeli (un concetto molto vicino alla sobornost’ degli slavofili4). Caratteristica della fede era perciò il non poter essere vissuta come esperienza individuale – aspetto che la distingueva dalla ragione. Ad ogni modo, Ionescu non concepiva queste idee come patrimonio di conoscenze fissate una volta per tutte e soprattutto non intendeva l’insegnamento come semplice trasmissione di conoscenze a degli allievi, bensì come discussione di problemi aperti, in cui ciascuno è chiamato a dare il proprio contributo e la propria interpretazione, senza ricorrere a risposte predefinite. Come ricordava il suo allievo Mircea Eliade: «Nae Ionescu non parlava come un professore, non teneva una lezione o una conferenza. Iniziava una conversazione e si rivolgeva a noi direttamente […], proponendoci un’interpretazione e aspettando poi i nostri commenti. Avevi l’impressione che tutta la lezione fosse parte di un dialogo, che ognuno di noi fosse invitato a prendere parte alla discussione, a esprimere il proprio parere alla fine dell’ora. Comprendevi che ciò che diceva Ionescu non si trovava in nessun libro. Era qualcosa di nuovo, appena pensato e organizzato lì, di fronte a te, sulla cattedra»5. Fu questo uno dei punti di forza della sua attività didattica, che consentì a lui più che ad altri di creare un gruppo di giovani che lo reputò un “maestro”, non dal punto di vista della condivisione di una concezione filosofica, ma come guida per la formazione di una visione del mondo. Se Ionescu venne considerato in effetti un punto di riferimento per una generazione, fu soprattutto perché il contatto con lui servì a «portare in superficie»6 le convinzioni di ciascuno, di modo che camminasse «con le proprie gambe»7. Non a caso non si può parlare di una vera e propria “scuola”: i suoi allievi elaborarono concezioni profondamente diverse tra loro, in alcuni casi persino antitetiche – basti pensare che uno dei più legati a lui era Mihail Sebastian, ebreo di convinzioni democratiche. Nonostante le dif-
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laurea sul Rinascimento, nella quale aveva offerto una lettura di quel periodo storico tesa a valorizzarne il misticismo piuttosto che il razionalismo umanista. Rispetto al suo maestro, Eliade offriva una lettura più ampia della dimensione spirituale, non riducendola semplicemente alla fede, ma facendo confluire in essa occultismo, mistica e religione. Al dualismo ragione-fede proposto da Ionescu, Eliade sostituiva quello ragione-misticismo, definendo quest’ultimo come «una ricca vita interiore e un’organizzazione di questa vita fuori dalle facoltà razionali»9. Così come Ionescu aveva posto la fede alla base dell’identità nazionale romena, sostenendo l’identificazione tra l’essere romeni e l’essere ortodossi, anche Eliade riteneva che l’elemento spirituale fosse fondamento dei vari aspetti della vita di una comunità, da quello sociale a quello politico, ma andava al di là della semplice dimensione nazionale. Riteneva, ad esempio, che tutto il mondo cristiano avesse risentito della sintesi tra la mentalità asiatica, impregnata di misticismo, e quella europea, influenzata dallo spirito scientifico razionalista. Eliade avrebbe poi sviluppato queste idee giovanili nell’interesse per le religioni, che in seguito sarebbe stato al centro dei suoi studi, portandolo ad acquisire una certa fama a livello internazionale. A non attribuire un ruolo essenziale alla religione nella costruzione dell’identità delle comunità umane era invece l’altro celebre allievo di Ionescu: Emil Cioran. Il suo pensiero si basava, già in gioventù, su un profondo scetticismo e si collocava nel panorama culturale romeno in una posizione originale anche rispetto ai suoi coetanei. Se l’antirazionalismo di Cioran, influenzato da Oswald Spengler, era, come quello di Ionescu, fermamente critico nei confronti dell’Occidente, considerato portatore di un modello culturale individualista e spersonalizzante, era purtuttavia anche profondamente vitalista (ed è questo a distinguere la produzione giovanile di Cioran da quella postbellica). Nel suo lavoro giovanile più ambizioso e controverso, Schimbarea la faţă a României [La trasfigurazione della Romania], del 1936, Cioran distingueva tra grandi e piccole culture e attribuiva alle prime la “missione” di imporre i propri valori come universali. Nel divenire storico, le nazioni occidentali erano ormai in declino e toccava a quelle giovani e dinamiche imporsi e diventare “grandi” – come, a suo parere, stava facendo la Germania nazionalsocialista. Il passo in avanti rispetto a Ionescu era ancora più netto: Cioran non riteneva la tradizione culturale romena un patrimonio da recuperare o su cui fondare la propria affermazione nel mondo. Al contrario, solo dal rifiuto di una tradizione che aveva reso il Paese “mediocre” poteva sorgere uno stimolo a che la Romania uscisse da una condizione di “piccola nazione” e diventasse “grande”. Affinché ciò fosse possibile era però necessario un impulso messianico il quale, secondo Cioran, poteva provenire solo da una personalità forte, un “profeta” che si ponesse a capo del Paese al pari di quanto avevano fatto Hitler in Germania e Lenin in Russia. La sua ammirazione per il modello dello Stato forte era infatti trasversale10: Cioran era alla ricerca di una personalità in grado di cambiare il destino della propria nazione, indipendentemente dall’orientamento politico, anche se riconosceva come un’ideologia di destra meglio si sarebbe prestata alla realtà romena11. Il rapporto del pensiero di Cioran con quello di Ionescu si prefigurava per certi versi in maniera opposta rispetto a quella di Eliade. Quest’ultimo partì da basi molto simili a quelle del suo maestro per poi arrivare a concezioni differenti, mentre Cioran seguì il percorso contrario. Per lui il problema non era definire l’identità della nazione romena, ma trovarle una collocazione nel mondo. Si spiega così il rifiuto del «patriottismo consolatorio»12 della
vecchia generazione. Il punto di convergenza con il maestro era però nella soluzione ipotizzata: un cambiamento profondo della realtà realizzato da una personalità forte. Mircea Eliade ed Emil Cioran furono indubbiamente i più noti fra gli allievi di Ionescu. Il loro controverso periodo giovanile non si può comprendere fino in fondo se si prescinde dal legame che entrambi ebbero con Nae. In una fase della cultura romena caratterizzata dalla realizzazione di quell’obiettivo storico dell’unificazione con il quale tutte le precedenti generazioni d’intellettuali avevano dovuto confrontarsi, Ionescu fu colui che “guidò” le giovani leve della cultura romena verso nuove problematiche. La nuova generazione “libera”, come la definiva Eliade, avrebbe prodotto concezioni profondamente diverse e seguito percorsi molto eterogenei, ma la frequentazione con Ionescu avrebbe costituito un punto di partenza comune. Nel caso di Eliade e Cioran, il lascito condiviso del maestro fu l’antirazionalismo, che si tradusse sul piano filosofico (e anche politico) nel rifiuto di alcune componenti post-illuministiche della tradizione speculativa occidentale. Il passo in avanti che la giovane generazione aveva compiuto rispetto a Ionescu era il rifiuto di concepire l’identità romena come qualcosa di fisso e immodificabile, il porsi come problema non più la definizione di cosa la romenità fosse, ma cosa dovesse diventare, in nome della costituzione di nuovi valori. 1. Ionescu auspicava che Carol guidasse una trasformazione radicale del sistema politico romeno, che doveva abbandonare la democrazia e costruire uno Stato autoritario corporativo con il re come capo illuminato. Cfr. Nae Ionescu, Vine revoluţia, in «Cuvântul», a. VII, 26 agosto 1931. 2. George Călinescu, Istoria literaturii române de la origini şi pîna la prezent, Aristarc, Oneşti 1998, p. 653. 3. Mircea Vulcănescu, Nae Ionescu aşa cum l-am cunoscut, Humanitas, Bucureşti 1992, p. 25. 4. Il pensatore russo Aleksej Chomjakov (1804-1860), tra i massimi esponente dello slavofilismo, sosteneva che la conoscenza fosse possibile solo tramite la mediazione di una “comunità d’amore” organica che, in contrapposizione alla concezione cattolica, rifiutava l’idea del rapporto individuale tra il fedele e Dio, contrapponendovi quella dell’unione armonica delle individualità in una comunità di fede posta, con la mediazione dello Spirito Santo, in contatto diretto con Dio. Cfr. Andrzej Walicki, Una utopia conservatrice. Storia degli slavofili, Torino, Einaudi 1973, p. 189. 5. Mircea Eliade, Memorii, vol. I, Humanitas, Bucureşti 1991, p. 112. 6. Mircea Vulcănescu, op. cit., p. 145. 7. Ivi, p. 147. 8. Mircea Eliade, Cuvântul in exil, n. 40-41, settembre-ottobre 1965, cit. in Mircea Eliade, Profetism românesc, Roza Vînturilor, Bucureşti 1990, vol. I, pp. 10-11. 9. Mircea Eliade, Diario italiano, in Mircea Eliade e l’Italia, a cura di Roberto Scagno e Marin Mincu, Jaca Book, Milano 1986, p. 37. 10. Cioran considerava «merito assoluto della rivoluzione russa aver creato nel paese più reazionario, sulle rovine dei più sinistri autocrati, una coscienza industriale come, nella sua accezione mistica, mai aveva conosciuto la storia» (E. M. Cioran, Schimbarea la faţa a României, Vremea, Bucureşti 1936, p. 10). 11. Come afferma Alexandra Laignel-Lavastine, Cioran proponeva un «modernismo conservatore […], una variante antidemocratica della filosofia dello sviluppo» (Cioran, Eliade, Ionesco. L’oubli du fascisme, Presse Universitaire Française, Parigi 2002, p. 127). 12. E. M. Cioran, Adamismul românismului, in «Vremea», a. VIII, n. 379, 10 marzo 1935.
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Gherasim Luca: «Come uscirne senza uscire»
C
di Radu Motoca
omment s’en sortir sans sortir è il titolo di un film realizzato nel 1989 da Raoul Sangla, il cui protagonista performa, o meglio “balbetta”, le proprie poesie. Nel filmato – commenta André Velter – vediamo un piccolo uomo vestito di nero, che si muove come fosse una nota su un pentagramma o un carattere di stampa su una grande pagina bianca. Con perfetta sobrietà, il regista riesce a dischiudere una dimensione magica, a catturare e trasmettere una sequenza d’istanti, in una fusione quasi alchemica. Il personaggio si muove appena, abbozza una danza immobile che lo costringe in bilico su uno strapiombo, le sue parole sembrano appoggiarsi su di lui senza mai cadere. La partecipazione vocale, psichica e muscolare è totale – a cercare di posarsi sul vuoto è solo una funambolica mano sinistra. L’attenzione si concentra sulla semplice azione del dire: eppure è una dizione particola-
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dal 1939 al 1946, insieme a Dolfi Trost, Gelu Naum e Virgil Teodorescu, è a capo di un consistente gruppo surrealista, il cui manifesto (intitolato La dialettica della dialettica) si propone di rivoluzionare il surrealismo stesso, i cui “canoni” sono diventati ormai troppo stretti, quando richiederebbero invece uno stato continuamente rivoluzionario, il quale «non può essere mantenuto e sviluppato se non assumendo una posizione dialettica di permanente negazione e di negazione della negazione, una posizione della più ampia estensione immaginabile, verso tutti e tutto». Il rischio del surrealismo è lo scadimento nella ripetizione meccanica, un certo manierismo e, soprattutto, lo spegnimento della sua vitalità. Il programma del manifesto afferma come «la necessità di scoprire quell’amore che può rovesciare senza sosta gli ostacoli naturali e sociali ci conduca verso una posizione non-edipica». Fedele allo spirito di rivolta, il poeta rifiuterà tutti i limiti, giungendo persino a rigettare quello che all’epoca (soprattutto in seno al movimento surrealista) sembrava l’elemento psicanalitico più intrigante, vale a dire il complesso di Edipo. Da qui, la nascita del concetto di Anti-Edipo. Una lettera a Sarane Alexandrian contiene una spiegazione esaustiva di questo principio: «La lotta mitica tra la libertà e il suo contrario si svolge oggi tra Edipo e Non-Edipo. La vita edipica invivibile, descritta con ferocia ma anche con esattezza dai sistemi (marxismo, freudismo, esistenzialismo e naturalismo), deve essere superata in modo folle attraverso un salto formidabile in una specie di vita nella vita, di amore nell’amore, indescrivibile, indiscernibile e irriducibile al linguaggio dei sistemi. Parlo della vita e dell’amore non-edipici (raggiungibili attraverso il comportamento surrealista, se portato alle sue estreme conseguenze), cioè di negazione assoluta del cordone ombelicale nostalgico e regressivo, sorgente lontana della nostra ambivalenza e infelicità»2. Come la maggior parte dei surrealisti, anche Luca e i suoi amici simpatizzano per il comunismo, soprattutto in virtù del suo messaggio rivoluzionario e antiborghese, nonché per la sua volontà di trasformazione e distruzione. Eppure, ad onta di queste simpatie, l’“uomo nuovo” del comunismo si mostrerà fin troppo realista e il nuovo ordine sociale spingerà Luca a
re, che srotola con accento romeno le parole in francese, fino a gioire di questa singolare arte del raptus e lasciarsi coinvolgere dal suo spasmo recitativo1. Protagonista del filmato è il poeta Gherasim Luca. Nato a Bucarest nel 1913, si forma nell’effervescente clima culturale della capitale interbellica – un vero laboratorio, che André Breton proclamò capitale del surrealismo, in luogo di Parigi. È la stessa Bucarest nella quale, nel 1912, Tristan Tzara avrebbe pubblicato con un gruppo di amici la rivista «Il Simbolo», per poi giungere a Zurigo, culla del movimento dadaista. Ma è, d’altra parte, anche il periodo che vede nascere – o meglio, insorgere – l’antisemitismo. Dopo il trattato di pace di Trianon, il Paese ingloba la Transilvania: il sogno di una Grande Romania viene così realizzato. Sulla scia dei padri della patria s’instaura un clima di ricerca dell’identità nazionale, concepita all’interno di una categoria etnica nella quale gli “stranieri” sono visti appunto come estranei a quell’essere romeno inteso, anche se con sfumature diverse, in accordo con quella linea che da Eminescu conduce a Nae Ionescu e a Nicolae Iorga. Nato in una famiglia di ebrei liberali, Gherasim Luca – il cui vero nome è Salman Locker – oltre allo yiddish e al romeno impara ben presto francese e tedesco. Il cambio del nome, come nel caso del suo compatriota e amico Paul Celan (nato Paul Pessach Antschel) non ha finalità “mimetiche” ma piuttosto anti-edipiche, sostituendo all’eredità biologica la forza della creazione. Il surrealismo aveva come nota dominante la rivolta, e Luca non si ribella solo alla sua stessa famiglia e all’antisemitismo dell’epoca: il suo rifiuto è rivolto alla società in generale. Abbandona dapprima la facoltà di chimica a Bucarest, poi gli studi di filosofia a Parigi – infine, scegliendo il suicidio, farà lo stesso con la vita. Eppure, a ben vedere, questo gesto non è un commiato rivolto alla vita ma alla morte stessa – se con essa non intendiamo altro che il timore di morire. Abbandonando la vita, insomma, il poeta sconfigge la paura della morte, emancipandosene. È questo stesso spirito di rivolta ad animare la sua partecipazione alla fondazione di due riviste – di cui non escono che numeri unici – con nomi a dir poco “ribelli”: «Pula» (Cazzo, 1931) e «Muci» (Mocci, 1932). Nel periodo che va
“ La poetica di Gherasim Luca, un balbettio visionario che implica una partecipazione fisica totale, nasce come risposta alla domanda su come sia possibile dire l’indicibile ”
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il poeta: insieme a Beckett e Kafka, secondo Deleuze Luca è l’esempio più evidente di come il linguaggio riveli le proprie potenzialità nel momento in cui ci si trova a essere come uno straniero nella propria lingua. Scrive infatti: «Se la parola di Gherasim Luca è cosi eminentemente poetica, è perché fa del balbettio un affetto della lingua e non un’affezione della parola. È tutta la lingua a scorrere e variare per liberare un blocco sonoro ultimo, un solo soffio al limite del grido Ti amo appassionatamente»6. Quello che usualmente viene interpretato come un semplice gesto nella poesia sonora diventa invece genesi del linguaggio e, al contempo, del soggetto – il quale sorge fenomenologicamente, messo alla prova, per così dire, nella sua auto-affezione. Incarnarsi, esprimersi ed esistere furono le ossessioni e, contemporaneamente, le condanne di Gherasim Luca: «Rifiuto di esistere… rifiuto di esistere» mormorava, camminando per le vie di Parigi. Una nota, lasciata su un tavolo in occasione del suo quinto tentativo di suicidio, recita: «Se è vero, come pretendono, che dopo la morte l’uomo prosegue un’esistenza fantomatica, te lo farò sapere. Se non darò alcun segno di “vita” per un mese, sappi che moriamo come marcisce una cipolla, una sedia o un capello. Mi suicido per disgusto». Come scrisse nella Morte morta, nel commiato dalla vita il poeta vedeva una necessità, una «valvola per la disperazione, una risposta di amore e odio, un prolungamento del mio essere all’interno delle proprie contraddizioni». Eppure, misteriosamente, anche dopo la morte Gherasim Luca ci offre segni di vita indiscutibili.
scegliere l’esilio, sempre in segno di protesta, prima in Israele, nel 1952, e poi – a partire dal 1953 – a Parigi. Qui sceglierà definitivamente la lingua del surrealismo, abbandonando il romeno, in cui aveva scritto buona parte della propria produzione poetica giovanile. Il rapporto particolare di Luca con la lingua e il linguaggio è diventato argomento di studi letterari e filosofici. Il suo parlare poetico – assai evidente quando recita – è infatti un balbettio che implica una partecipazione fisica totale, nascendo da un quesito fondamentale: come dire l’indicibile? Scrive Laurent Mourey: «Balbettando o facendo balbettare, Luca inserisce nel noto tracce di ignoto. Il balbettio incarna un certo sapere – in Luca, è una strategia filosofica. Perciò Luca non è un malato del linguaggio»3. A differenza della poesia “bianca” ed ermetica del suo amico Celan, la sua è stata chiamata sonora, poiché delega al suono la funzione di testimonianza dell’indicibile. Le parole evocate non hanno altra funzione se non quella di lasciarne intravedere altre che non si possono dire, né incarnare. È per questo motivo che spesso si è parlato di Luca come di un autore travagliato dall’incarnazione, da un lato, e dalla sua impossibilità, dall’altro – aspetto che si evince, ad esempio, dalla poesia Prendre corps [Prendere corpo] (1969). Nella sua libertà dalla discorsività tradizionale, la poesia sonora è a sua volta non-edipica, ma il suo balbettare è anche in contrasto col dettato automatico, così caro ai surrealisti. Il riconoscimento tardivo di Luca deve senz’altro molto alle parole del filosofo francese Gilles Deleuze il quale, nel suo Dialogues (1977), lo inserì nel novero dei più grandi letterati del Novecento (nel 1972, lo stesso filosofo aveva peraltro pubblicato, insieme allo psicanalista Felix Guattari, un libro intitolato Anti-Edipo). Deleuze scrisse a Luca: «Lei dà alla poesia una vita, una forza e un rigore pari solo ai più grandi poeti. Appartiene proprio a questa schiera. Provo un’ammirazione e un rispetto per il suo genio e, ogni volta che la ascolto o leggo, è una scoperta assoluta. […] Della sua opera, a colpirmi sempre più è la potenza di una logica singolare, che muove ogni poema»4. La maggioranza degli esegeti si è soffermata sul poema Passionnément, scritto a Bucarest nel 1947, in francese5. Lo stesso Deleuze, nel suo Critique et clinique del 1993, ne parla in modo eclatante, dichiarando la propria ammirazione per
“ Gherasim Luca si formò in quella Bucarest interbellica che André Breton proclamò capitale del surrealismo, preferendola a Parigi ”
1. André Veter, Gherasim Luca Passio passionnément, Parigi 2001, pp. 17-18. Il filmato è disponibile, nella sua interezza, sul sito internet www. youtube.com. 2. Sarane Alexandrian, L’evolution de Gherasim Luca à Paris, Bucarest 2006, p. 35. Le traduzioni in italiano, dove non diversamente indicato, sono nostre. 3. Laurent Mourey, Gherasim Luca: la poétique contre la métaphisique, in Avec Gherasim Luca passionnément, Saint-Benoît-du-Sault 2005, p. 18. 4. Cit. in Giovanni Rotiroti, “Non-Edipo”: l’implacabile passione di Gherasim Luca, in «Orizzonti culturali italo-romeni», aprile 2012. 5. La scelta di questa lingua a discapito del romeno era peraltro già stata compiuta nel 1945, con il poema Le vampire passif. 6. Gilles Deleuze, Critique et Clinique, Parigi 1993, p. 139.
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Constantin Noica: il divenire entro l’essere di Draga Rocchi
I
l filosofo romeno Constantin Noica (1909-1987), collega di studi di Cioran ed Eliade, ha posto al centro della sua ricerca il problema dell’ontologia e, in particolare, la possibilità di codificare una “grammatica” dell’essere. Tra le sue opere tradotte in italiano ricordiamo le Sei malattie dello spirito contemporaneo e, soprattutto, il Trattato di Ontologia. Completato da Noica nel 1981 e pubblicato in Italia nel 2007, il Trattato di Ontologia nasce dal tentativo coraggioso di proporre, dopo tanti dibattiti novecenteschi, la nuova affermazione di un’ontologia che sia espressione di una diversa e originale dimensione dell’essere, dal carattere specificamente intramondano. Lontano dai fasti dell’Essere sublime della tradizione, situato in un “altrove” incorruttibile, il pensiero di Noica si pone al margine della prossimità con le cose più umili, sempre fedele alla formula per cui nulla di tutto ciò che è esprime l’essere, ma l’essere non è senza l’ultima e la più piccola delle cose che sono. Questo assioma fon-
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speciale. La distribuzione indivisa è il nome che Noica conferisce a questa peculiare modalità dell’essere, la quale però non coincide – e, del resto, non potrebbe farlo, pena la sua riduzione a una forma d’esistenza determinata – con nessuna delle modalità tradizionali dell’attuarsi. L’essere non può trovarsi in un altrove, ma neppure in un luogo preciso. Agisce dall’interno delle realtà, distribuendosi senza dividersi e, in questo modo, rimane sempre altro, ma mai nella forma di un’alterità totale. L’essere non è qualcos’altro, ma solo in qualche altro modo: questa idea rende ragione dell’originalità del pensiero di Noica solo se questo “altro modo” non viene a sua volta concepito come una forma specifica d’attuazione. Qui la vicinanza con Aristotele è più intensa proprio per la diversità degli esiti del Trattato di ontologia. Questa alterità dell’essere rispetto alle cose non è mai totale proprio in virtù del fatto che esso riesce a distribuirsi senza dividersi, ovvero a manifestarsi secondo una modalità che non ha nulla dell’attuarsi determinato. La distribuzione di sé senza mutilazione o perdita è il privilegio più grande delle realtà spirituali e, allo stesso tempo, il piccolo ma grandioso spiraglio per il recupero di senso di ogni esistente: è quella modalità, mai veramente attuata e attuabile, in grado di salvare l’umiltà della materia, da Noica intesa sempre e comunque come espressione dell’essere, seppure in forma altra. L’azione dell’essere nell’intimità di ogni cosa attesta come la sua alterità sia profonda ma mai totale; l’essere è diffuso nelle cose, senza cambiare né dividersi: nel suo distribuirsi non c’è perdita, ma solo una positiva testimonianza di precarietà. Per spiegare il tratto ontologico decisivo di questa distribuzione indivisa, Noica ricorre ad alcuni esempi molto efficaci, tratti dalla distinzione classica tra beni legati alla materia e beni propri dello spirito: tale scelta esemplificativa scaturisce dal motivo di fondo – anch’esso, a nostro avviso, eredità dell’etica tradizionale – secondo cui vige una stretta parentela, o addirittura una palese filiazione, tra il problema del bene e quello dell’essere, solitamente espressa dall’idea per la quale ens et bonum convertuntur. «Un bene materiale si divide distribuendosi, solitamente; un pane si divide, il terreno da coltivare si divide, i beni industriali si dividono. Oppure, se persino divise le cose restano unità distinte, esse dividono coloro a cui spettano tra loro, potendo spettare solo o all’uno o all’altro. Il denaro è per eccellenza ciò che si divide (ha “dividendi”), come ciò che spartisce e separa i possessori tra loro. Tutte le cose sono beni da
damentale spinge Noica a rivendicare il ruolo imprescindibile di un’ontologia altra e, allo stesso tempo, a un confronto serrato con la tradizione, avente come referenti privilegiati Aristotele, Kant, Hegel (in particolare, il movimento circolare della dialettica dello Spirito) e Heidegger. Questo tentativo apologetico d’impostazione del pensiero – ritenuto, forse con troppa facilità, vecchio e inadeguato – si fonda sull’idea secondo cui l’ontologia è scomparsa dalla cultura tutte le volte in cui l’uomo ha voltato le spalle al mondo: a condannare le ontologie passate non è, secondo l’espressione di Martin Heidegger, l’«oblio dell’Essere», ma il mancato accesso a esso, dovuto a un metodo d’indagine che ha cercato l’essere quasi sempre e solo come Essere sublime, rispetto al quale tutto il resto appare destinato passivamente a degradare. È proprio dall’esigenza di una reintegrazione dell’“ultimo” che nasce la nuova via suggerita da Noica, che, come primo passo, procede dalle cose – con la loro chiusura che si apre – al divenire. All’interno dell’opera noichiana, questa via è scandita, inizialmente, dal seguente tema: l’essere nelle cose che sono. Questo tema costituisce la radice e il presupposto ontologico di fondo del pensiero di Noica: a ogni livello, dalle realtà più umili – che Noica intende recuperare e integrare nel suo sistema – a quelle più alte e di più ampia valenza spirituale, l’essere si esprime sempre, manifestando la propria presenza nel mondo, mediante una distribuzione indivisa di sé. Il tema ontologico della distribuzione indivisa dell’essere nelle cose – o meglio, entro le cose, per usare un’espressione cara all’autore – costituisce il Leitmotiv dell’intero Trattato ed è il momento di massima vicinanza a un tema tipico di ogni ontologia, ossia il rapporto tra l’Uno e il molteplice. Nonostante la profonda ricchezza d’analisi derivante dal portato della tradizione, questo tema è riaffrontato da Noica in modo unico, il che attesta la sua abilità di “farsi sempre nuovo” entro i momenti più alti della speculazione ontologica tradizionale. Niente di ciò che è esprime l’essere, ma l’essere non è altrove rispetto alle cose: è un’assenza in esse. Ogni cosa è, infatti, secondo Noica, “luogo possibile” dell’essere. Pur non essendosi mai mostrato in quanto tale in nessun luogo, l’essere si è distribuito ovunque. In questo senso, non può né venire ricercato in un “altrove” rispetto al mondo né venir separato dalle cose. È nelle cose, ma non è le cose: ciò significa che non è iscritto in realtà privilegiate e che si trova entro il mondo. Evidentemente, la sua unica differenza consiste nel trovarsi in un altro modo rispetto agli esistenti, nello stare secondo una modalità del tutto
“ Come un canto, l’Essere fa vibrare tutto il reale, innalzando ogni ente alla sommità dell’accordo con sé ”
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consumare. Ma esistono anche beni da assommare, che non si dividono né dividono i possessori tra loro. Se un pane si distribuisce spartendosi, un canto o una verità si distribuiscono senza spartirsi. Sono così tutti i beni di tipo spirituale, ma non solo. Poiché la materia stessa è, nel suo profondo, della stessa natura del bene che si distribuisce senza dividersi, alla maniera in cui appare come energia e campi, e poi come vita» (Constantin Noica, Trattato di ontologia, a cura di S. Daini, ETS, Pisa 2007, pp. 216-217). Distribuendosi senza dividersi, l’essere, come un canto, fa vibrare di sé tutto il reale, recuperandone gli strati più infimi e i livelli più profondi, per innalzare ogni piccolezza – necessaria – al vertice sommo dell’accordo con sé. In questo accordo intimo scompaiono divisori e dividendi, non ci sono lacerazioni e ferite da lenire. Niente dell’essere, fattosi esistente, è perso, come se fosse separato in maniera irrimediabile o fatto oggetto di una mutilazione. Niente sanguina di solitudine, poiché tutto ciò che è, sia pur precariamente, si mostra come avviluppato entro l’essere. Quest’ultimo, non più inteso come Eccedente rispetto al tutto o come luminoso centro d’irradiazione, si fa vuoto nelle cose, azione ovunque, presenza intima ed effimera, struttura complessa. Eliminata l’idea di un essere che parla solo di sé, vengono meno anche i tratti con cui la tradizione ontologica ha solitamente descritto l’essere, ovvero la pienezza, la fissità, la permanenza eterna e la semplicità – elementi che, nell’arco di tutta la storia del pensiero, hanno creato un’immagine cristallizzata dell’essere, mai in grado di rendere ragione della sua peculiare complessità. Come decisivo spartiacque tra filosofia antica e filosofia moderna, Noica considera in particolare la distinzione di due possibili immagini dell’essere: come sostanza o come funzione. Tale dicotomia è riletta alla luce del testo di Ernst Cassirer Substanzbegriff und Funktionbegriff del 1910, nel quale vengono identificate due concezioni dell’essere in generale, tra loro antitetiche: - la sostanza, che mira al chiarimento di cosa siano le cose; - la funzione, che ricerca invece il modo d’essere delle cose e la loro trama interna. Se l’essere come sostanza ha caratterizzato tutto il pensiero antico, è la comparsa del concetto di funzione a sancire la nascita del pensiero moderno, ovvero di un’impostazione speculativa per la quale le cose sembrano perdere d’importanza e lasciare il posto alle relazioni, in una sorta di sostituzione dell’essere sostanziale con un divenire privo di determinazioni. Rispetto a queste due modalità di interpretazione dell’essere, Noica sente l’esigenza di individuare una terza possibilità, quasi una forma media tra le due, in grado di restituire a entrambe piena validità, proprio entro quella comunanza reciproca, originaria e imprescindibile che l’ontologia antica e moderna sembra aver smarrito. Nel pensiero di Noica, infatti, le cose scompaiono come realtà sostanziali, ma non si trasformano sic et simpliciter in relazioni. Pur perdendo la loro consistenza sostanziale, le cose non sono puro divenire, mere relazioni, ma realtà che conservano ancora una certa sussistenza. Per esse, l’essere non è più concepibile né come sostanza né come funzione, ma come modalità terza tra le due. Questa terza via, aperta dalla speculazione noichiana, fa dell’essere un termine medio tra sostanza e funzione, considerandolo allo stesso tempo – al di là di ogni logica binaria, fondata sul principio di non contraddizione – privo di una consistenza sostanziale e privo di una inconsistenza funzionale.
Rifiutando la rigida dicotomia tra sostanza e funzione, responsabile della paralisi speculativa di un’ontologia che ha perso il proprio vigore originario, Noica riaccende la questione dell’essere a partire dalla sua ridefinizione come divenire. A una prima attenta analisi, l’essere è anzitutto divenire, è complessa contraddizione. Solo l’idea di un divenire entro l’essere (nell’originale romeno, devenirea întru ființă) è in grado, superando il rigido dualismo tra sostanza e funzione, di restituire efficacia all’ontologia, riaprendo la strada stessa dell’individuazione dell’essere in sé, sempre a partire dall’analisi della sua presenza attiva e vivificante entro ogni esistente. Lontano dai fasti, diffuso nell’intimità profonda di tutto ciò che è: questo è l’essere da indagare nella complessità della sua struttura, straordinariamente contraddittoria e altamente intramondana. C’è qualcosa di comune nell’essere che non è dell’ordine dell’essere messo assieme. Secondo Noica, l’essere si annuncia nelle cose come chiusura che si apre, ovvero come una pulsazione che fa sì che tutto ciò che è sia aperto all’essere, come verso il suo senso più proprio. Ecco ciò che accomuna tutte le cose e le coinvolge entro un’unica apertura. La chiusura che si apre – tratto comune di tutto ciò che è – è come una contrazione che inizia a espandersi, conferendo continuità al reale e organizzando l’essere nelle cose, secondo un movimento espansivo di tipo ondulatorio. Essa non indica un semplice schema ed è più di una struttura: allude a un sistema in nuce. All’inizio dell’ontologia non va posto alcun principio, ma va pensata una situazione, come un germoglio dell’essere. Tutto ciò che è pulsa. La tensione iniziale, espressa dall’idea di una chiusura che si apre, non si ritrae dalle cose come una causa dai suoi effetti, ma continua a operare al loro interno, come regolarità meccanica, entro le realtà più elementari, e come libertà da ogni forma di ritmo, ai livelli superiori. Misconoscendo questo tratto distintivo dell’essere, le ontologie tradizionali ne hanno proposto immagini statiche o dinamiche, intendendolo come rotazione o movimento perfetto, ma quasi mai come pulsazione a cadenza libera. In questa forma, invece, l’essere è presente ovunque: in ogni esistente si manifesta come promessa e, allo stesso tempo, come limite che conferisce perfetta realizzazione a tutto ciò che è. Non si tratta mai di una chiusura netta, ma di una chiusura che si apre ed è tesa intimamente verso l’oltre sé: in essa, infatti, ogni cosa si dà un perimetro per meglio essere, come un’isola che nasce dal profondo dell’oceano e va ad aumentare la realtà del mondo, con i suoi confini che non relegano ma pulsano e sono indizi di espansione e crescita, entro un gioco continuo di sconfinamenti. Il desiderio dell’essere in tutto ciò che è rappresenta la tendenza spontanea alla saturazione dell’essere e del suo modello. Esiste, infatti, secondo Noica, un preciso modello ontologico atto a individuare la struttura generale di tutto l’esistente, che si articola secondo la tensione scaturita dalla triplice natura dell’essere stesso, presente ora come generale, ora come determinazioni, ora come individuale. Per spiegare questa triplicità in atto nell’essere, Noica ricorre a un parallelo con il sistema categoriale aristotelico che, a suo avviso, tradisce una presenza latente della tripartizione strutturale dell’essere. In questo senso, l’individuale può essere rapportato alla sostanza prima, il generale alla sostanza seconda (ovvero alla specie e al genere) e le determinazioni alle altre nove categorie, ricevute dalla sostanza.
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dunque, con un certo modo di essere reale del possibile stesso. È per questo che, parlando di divenire, Noica afferma che siamo in presenza di una chiusura che si apre. Il divenire è lo svolgimento di una realtà già in atto, maturazione di un certo modo d’esistere già costituitosi. Il divenire è la chiusura che si apre, propria di un’esistenza che, per essere, ha già chiuso – nell’atto di venire al mondo – la propria possibilità entro un’apertura reale specifica. L’essere è, in prima istanza, divenire: tra essere e divenire non vige più un’opposizione netta. Il divenire entro l’essere rappresenta la maturazione stessa di ciò che è, in vista del perfezionamento della propria realizzazione. La vera differenza rispetto al pensiero aristotelico, molto vicino in questi passaggi, soprattutto per la possibilità di distinguere anche al suo interno – si pensi al De Anima ad esempio – diverse modalità d’attuazione, ora realizzative ora perfettive, è racchiusa nel sintagma tutto noichiano, riferito al divenire, di «chiusura che si apre»: la staticità sostanziale del pensiero antico, operante nel processo di distinzione tra un tipo d’atto e l’altro, viene sostituita da un’idea tutta diversa di limitazione che non limita e che, dunque, in quanto tale, si pone a salvaguardia della pulsazione a cadenza libera entro cui l’essere, inteso come divenire, palpita nelle cose, distribuendosi senza dividersi. Il divenire è diverso dalla trasformazione e dal cambiamento (ad esempio dal cambiamento del tempo, dall’evoluzione delle stagioni e della natura); è diverso dallo scorrere e dal passare delle cose (ad esempio, il fiume non diviene, la vita non diviene); è diverso anche dall’evolversi, poiché esiste anche un divenire di corruzione, non solo di modellamento. Il divenire trova una perfetta immagine di sé nella danza, ovvero in un tipo speciale di movimento che si ottiene con un cammino regolato da una forma superiore di equilibrio. È un movimento sui generis che, allo stesso tempo, riesce a essere sovramondano in mezzo al mondo. Tra essere e divenire non vige più un’opposizione netta: l’essere è, in prima istanza, divenire. Il paradosso costituito dall’ontologia di Noica è di porre nel cuore del reale l’idea del divenire entro l’essere, ossia di una trascendenza immanente che si rigenera in modo costante in tutto ciò che è, espandendone le potenzialità. Nel suo distribuirsi senza dividersi, l’essere è divenire e, in quanto divenire, apre alla possibilità di una nuova – e paradossale – ontologia: di essa il pensiero di Noica è apertura e fondamento sorgivo.
Tale modello ontologico indica uno scandirsi dell’essere entro le cose, prima a partire da un individuale che si dà in svariate determinazioni libere o contingenti, per poi specificarsi secondo una natura che può dipendere ed essere controllata esclusivamente dal generale. Questo modello possiede un dinamismo interiore, dal momento che l’individuale può aumentare le proprie determinazioni non una a una ma con l’infinitezza feconda del generale, e, d’altra parte, il generale stesso si regola e trasforma mediante l’individuale. A seconda dell’intreccio, ogni volta diverso, di questi tre tratti ontologici, l’essere si manifesta secondo un diverso grado di realtà. Il presupposto fondamentale è che, rispetto al modello ontologico, il reale rappresenta sempre una forma di sviamento, dovuta all’inadeguatezza di uno dei tre termini in gioco. In questo senso, il reale è connotato proprio come il caso, ogni volta diverso, di insaturazione del modello ontologico. L’essere si rivela così come un intreccio, intimo al reale, nella cui struttura triadica è espresso l’andamento e il cammino intrapreso da tutto ciò che esiste al fine di saturare un modello irraggiungibile, in quanto pulsazione mai esaurita e cadenza libera. Non esiste dunque una trascendenza dell’essere rispetto alle cose. Nelle cose, infatti, il trascendente coincide con il trascendentale, poiché mediante ciò che la rende possibile (trascendentale) ogni cosa supera permanentemente se stessa e rimanda al di là di sé (ovvero si trascende). Esiste, infatti, un possibile prima della realtà della cosa e un possibile nella sua stessa realtà: della stoffa di quest’ultimo è fatta la tensione immanente a ogni livello dell’esistere o – vista la costitutiva impossibilità di saturare il modello ontologico da parte delle cose – da tale potenza deriva lo stato di precarietà ontologica di tutto ciò che è. Nel modello ontologico noichiano il possibile non si disciplina, se non in parte, entro modalità d’atto determinate, ma come chiusura che si apre nelle cose, si rigenera continuamente in un movimento di straordinaria e sempre inattuale liberazione di sé. Ogni volta che si realizza il modello dell’essere nelle cose, tutto ciò che è, lontano dall’assumere un assetto statico, si apre al dispiegamento delle proprie potenzialità, entrando così nel divenire. In questo senso, Noica può sostenere che l’essere sia, prima di tutto, divenire. Il divenire è la modalità matura del reale. Infatti, mentre nel costituirsi stesso delle diverse realtà delle cose era chiamato in causa il passaggio dalla potenza all’atto, come passaggio dal possibile al reale, ovvero era richiamato qualcosa all’essere tramite l’esistenza, ora, invece, con il caso del divenire, abbiamo a che fare con una maturazione stessa di ciò che già è e,
“ L’ontologia è scomparsa dalla cultura tutte le volte che l’uomo ha voltato le spalle al mondo ”
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Eugène Ionesco e la «Cosa balcanica» di Giovanni Rotiroti
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opo l’avvento dei totalitarismi ideologici del “Secolo breve”, il teatro di Ionesco è stato il luogo della denuncia della mistificazione intellettuale, ma allo stesso tempo un’esperienza simbolica e una sperimentazione soggettiva della parola. Il sintomo dei Balcani è come una catastrofe naturale, un terremoto che esplode negli scenari più rassicuranti del sistema culturale dominante. A teatro, Ionesco ha mostrato come il «balcanismo» non fosse solamente radicato – attraverso la sua coordinata «tracia», «bogomila» e «legionaria» – nella spirale fantasmatica dei miti storici della Romania, ma si annidasse anche nel cuore stesso dell’Europa democratica. La Cantatrice chauve è ambientata in Inghilterra, ma può essere adattata «in Italia o in Turchia», suggerisce l’autore. Le radici del conflitto di civiltà non sono localizzabili solo nei Balcani ma nella stessa Europa, nella «Francia civilizzata», sua patria d’elezione, che nel dopoguerra si è lasciata sedurre e intossicare dalla tentazione dell’ideologia totalitaria comunista.
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firmatario delle Scrisori rivendica senza mezzi termini «il senso cattolico francese» e il primato «dello spirito, della libertà, della persona umana»1. Da Parigi, si fa quindi portavoce in Romania del manifesto personalista di Mounier e della rivista «Esprit». Contro i due profili negativi della civiltà, l’«uomo borghese e individualista» e l’«uomo nuovo fascista e marxista», l’inviato parigino rilancia i valori della «persona», dell’«amore per il prossimo» e della «solidarietà sociale», che «riflettono la giustizia e l’ordine divino»2. Prendendo come esempio Julien Benda, rivendica «l’ideale della verità» e «il diritto alla democrazia» in tutta l’Europa: «L’idea di libertà deve ritornare mistica, deve risollevarsi e dominare la storia che l’ha superata. L’odio, l’istinto, la volontà di crescita e di potere, il cameratismo collettivista – ecco cose riprovevoli, ma vive e forti. La democrazia deve ridiventare disinteressata. Deve insegnare all’uomo a liberarsi, in modo sincero, sia dell’onnipotenza dell’economia che è diventata disumana […] sia dell’onnipotenza della tirannia del sangue e della biologia. Questa liberazione non è una fuga né una rottura, ma una padronanza di certe realtà che non possono essere ignorate […]. Penso, riferendomi al mondo di oggi, a quanta possibilità di riabilitazione possa avere l’idea stessa di libertà – liberazione dall’economia, dai miti del sangue e della razza»3. Alla mitologia della comunità di sangue e suolo Ionesco oppone «l’ideale della libertà e della pietà universale nel mondo». E aggiunge: «I miti oscuri della biologia e degli istinti non resisterebbero molto tempo di fronte al dinamismo spirituale delle nazioni (nazione intesa come comunità dell’amore, e non della vendetta; come comunità spirituale, e non biologica)»4. Il gergo spiritualista di «Criterion» è ancora presente in queste pagine spedite da Parigi. Contro l’ideologia legionaria in voga tra le frange estremiste degli intellettuali di destra e contro il regime autoritario imposto dal re – che ha affossato, di fatto, le libertà democratiche garantite dalla Costituzione – dichiara: «Le idee di sacrificio, di disindividualizzazione, di eroismo non appartengono oggi alla democrazia. […] Se rinunciassimo alla mediocre felicità, tranquilla e confortante, sarebbe di nuovo irresistibile l’idea della libertà, dell’amore e della carità universale. I miti oscuri della biologia e degli istinti, dell’espansionismo dinamico, dell’imperialismo storico, della conquista dei mercati economici e commerciali, dell’asservimento degli altri popoli, della cosiddetta libertà realizzata mediante lo Stato, sono solo, di fatto, la sua più feroce incarcerazione»5. Polo politico e profetico si incrociano indissolubilmente nella pubblicistica di Ionesco di questi anni. Il culmine dell’assurdo non è stato però ancora raggiunto. I coniugi Ionesco tornano in Romania per sfuggire all’occupazione nazista di Parigi. Hanno, tuttavia, fatto male i conti. Gli attori principali del potere politico nazionale sono cambiati. Il re ha
In tal senso, i Balcani non sono unicamente lo spazio senza tempo sul quale l’Occidente proietta il proprio contenuto fantasmatico rimosso – anzi, con l’opera di Ionesco si potrebbe dire esattamente il contrario. È a Parigi che – oltre lo specchio, cioè al di là o al di qua delle proiezioni occidentali sulla cornice dell’immaginario culturale dei Balcani – l’autore di origine romena allestisce sul palcoscenico il ritorno di tutto ciò che l’Europa, in maniera alquanto difensiva, ha proiettato sui Balcani. Le formazioni spettrali animano e attraversano inconsciamente tutto l’Occidente. La cifra immaginaria della «cultura dei Balcani», sedimentata nelle proprie rappresentazioni storiche e sociali, non si è lasciata completamente accerchiare dalla forza simbolica della parola. Vi è, nel teatro di Ionesco, come una rimanenza non del tutto simbolizzata, che preme costantemente verso la “Cosa balcanica”. Si tratta di una forza misteriosa e «assurda», che ha sempre la possibilità di tradursi e attualizzarsi nel fragore di una legge perversa. In netto contrasto con tutte le visioni improntate su un ideale generico di buon senso, lo scrittore fa emergere a teatro questa legge fuori-legge, quasi ne rispecchiasse la violenza originaria. Elaborando il lutto infinito della generazione di «Criterion», di cui Eugen Ionesco faceva parte insieme a Mircea Eliade e a Emil Cioran agli inizi degli anni Trenta, l’autore parigino ha rivelato le proprie autentiche convinzioni sulla politica mettendo in scena lo sfondo fantasmatico del balcanismo a Parigi. Cos’è in fondo la pièce Rhinocéros se non il fantasma individuale di portata collettiva, quasi di massa, del totalitarismo politico e ideologico trasformatosi progressivamente in mito, racconto, opera teatrale? Ionesco era partito per la Francia verso il 1938, insieme alla moglie, ufficialmente come borsista, per scrivere una tesi di dottorato su «Il peccato e la morte nella poesia francese dopo Baudelaire». Giunto nella capitale, invece di occuparsi della dotta ricerca ingaggia apertamente una personale battaglia politica per opporsi, come Bérenger, all’infezione psichica della rinocerontite che ha contagiato alcuni prestigiosi componenti della “Giovane generazione”, ormai in preda al delirio rivoluzionario nel campo della destra nazionalista. L’autore spedisce alcuni articoli, pubblicati su «Viaţa românească» dal dicembre 1938 al giugno 1939, più un altro, datato febbraio 1940. Si tratta delle famose Scrisori din Paris. Queste Lettere da Parigi sono un inno alla libertà, all’eguaglianza e a quella democrazia ormai seriamente minacciata dalla svolta dittatoriale e totalitaria impressa da Carol II alla vita politica in Romania. La Francia, che ai suoi occhi appare come un’isola di pace non ancora colonizzata dalla barbarie ideologica che ha progressivamente invaso e devastato quasi tutta l’Europa, sembra indicare invece la via privilegiata per il ritorno alla convivenza civile. Contro il comunismo imperialista sovietico e il legionarismo fondamentalista autoctono il
“ I Balcani sono la proiezione del rimosso dell’Occidente ”
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della Francia collaborazionista. Ionesco scrive: «I miei amici di differenti ministeri mi hanno procurato un buon passaporto, con dei visti in regola. Prendo il treno domani. Mia moglie mi accompagna. Sono come un evaso che fugge con l’uniforme del guardiano»14. Nel 1942, anche quando crede di essere in salvo dai Legionari sotto l’ombrello della missione diplomatica in Francia, Ionesco è ancora attraversato da pensieri atroci: «Anzitutto, la nostra vita fisica è minacciata. Minaccia imminente, viviamo in un rifugio precario: c’è la guerra, per tutti. In più per noi, sarebbe la fine nel caso di una ribellione della Guardia di Ferro (saremmo eliminati come uomini di sinistra); sterminati lo saremmo ugualmente nel caso d’una rivoluzione comunista (come borghesi); oppure, potremmo essere eliminati anche in seguito a provvedimenti presi dal governo legale contro le persone della nostra “categoria”»15. In Présent Passé può leggersi: «Il fenomeno della Guardia-diFerro non è qualcosa di passeggero, è veramente l’espressione della durezza dell’anima balcanica senza raffinatezze»16. Uno dei suoi «Rapporti diplomatici» redatti in Francia durante la Seconda Guerra Mondiale fa cenno a questa «durezza» e inscalfibilità del sintomo della “Cosa balcanica”, sullo sfondo delle «relazioni culturali bulgaro-romene». In qualità di «segretario culturale» presso l’ambasciata romena di Vichy, nel rapporto diplomatico del 1 maggio 1943 dal significativo sottotitolo Su un articolo magiaro sulla cultura romena guardata come vassalla della cultura slavo-bizantino-bulgara, lo scrittore denuncia il discorso della propaganda nazionalista ungherese. Nel contesto della politica collaborazionista, egemonica e competitiva dei regimi totalitari europei allineati all’Asse, il testo di Ionesco riporta, non senza qualche ironia, il resoconto di uno “studio” di Gàldi che all’epoca aveva destato scalpore: «Il numero di febbraio della Nouvelle revue de Hongrie pubblica uno “studio”, intitolato Les relations culturelles bulgaroroumaines, firmato Ladislau Gàldi. Ecco le tesi che emergono da questo studio curioso: i romeni sono sempre appartenuti alla sfera culturale slavo-bizantina, i cui rappresentanti sono soprattutto i bulgari. Dunque, subordinati a questa cultura “bulgara”, i romeni si sono mostrati ostili all’espansione della cultura di tipo occidentale, rappresentata dall’Ungheria […]. Così, scopriamo che i romeni non sono latini e occidentalizzati […]. L’originalità dello spirito romeno non avrebbe trovato altra occasione di manifestarsi se non nel quadro di una rivol-
abdicato. Amputata territorialmente, la Romania si appresta a partecipare al secondo conflitto mondiale. L’autore rischia di partire verso il fronte russo, per partecipare alla «crociata antibolscevica» indetta dal regime militare di Ion Antonescu e dalla seconda ondata dei Legionari di Horia Sima6. La paura si fa sempre più pressante. Présent passé, passé présent riporta alcuni di quei momenti, strazianti e angosciosi: «Mi chiedo come potremo fuggire. Nel nostro cielo, la minaccia. Il pericolo si avvicina, ci accerchia, stringe sempre di più. Saremo schiacciati, come resistere e durare? Voglio dire: come resistere e durare moralmente, come mantenere la fiducia, come non cedere, come credere nella giustizia?»7. Gli esponenti della generazione di «Criterion» sono ormai quasi tutti irriconoscibili8: «Guardateli; sentiteli: non si vendicano, puniscono. Non uccidono, si difendono: la difesa è legittima. Non odiano, non perseguitano, ma fanno giustizia. Non vogliono conquistare né dominare, vogliono organizzare il mondo. Non vogliono scacciare i tiranni per prendere il loro posto, vogliono stabilire l’ordine vero. Non fanno che sante guerre. Hanno le mani piene di sangue, sono orridi, sono feroci, hanno delle teste di animali, sguazzano nel fango, urlano. Non voglio vivere con questi pazzi, non prendo parte alle loro feste, mi vogliono trascinare di forza con loro. Non c’è tempo per spiegare»9. Ionesco assiste in presa diretta alla scalata politica delle frange più estremistiche della Guardia di Ferro, prima del loro imminente tracollo. Non vuole fare la guerra, né per i nazisti né tantomeno per i comunisti. Sa bene che ormai solo «quattro o cinque intellettuali» la pensano come lui, nel Paese. Sogna di essere a Parigi, ma si risveglia in Romania, «pieno di cocente dolore e di nostalgia». È il momento di fare una scelta improrogabile: «Convinto che tutto fosse assurdo e che coloro che combattevano fossero stupidi, ero fiero di “non stare al gioco” e di svignarmela, grazie alla mia condizione che mi permetteva di non essere né romeno né francese, o ora l’uno ora l’altro»10. Il brano di Passé présent datato 31 dicembre 1941 registra la decisione di Ionesco di lasciare la Romania “rinocerontizzata”11. Ma non è facile fuggire: «Il consiglio dei ministri ha deciso che nessuno può partire al di là delle frontiere a meno di una missione ufficiale»12. Dopo vari tentativi andati a vuoto di ottenere un visto per l’estero, il «miracolo si è prodotto»13. La destinazione della «missione ufficiale» è Vichy, capitale
“ Contro l’individuo borghese e l’uomo nuovo, marxista o fascista, Ionesco rivendica quei valori che riflettono l’ordine divino ”
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no posti inattaccabili nell’apparato statale ebbero il tempo di cambiare il costume di scena e diventare perfetti comunisti, al soldo d’un altro padrone. E dirà anche che solamente gli esponenti della generazione di «Criterion», o perlomeno quelli che non erano morti sul fronte russo o in Siberia, scontarono realmente la pena del loro abbaglio. Alcuni di questi – peraltro neppure iscritti nelle liste della Legione – impazzirono, furono ridotti all’afasia o al mutismo coatto imposto con la forza dal nuovo regime totalitario comunista, e altri ancora furono costretti a marcire nei campi di lavoro forzato, per le grandi opere statali di canalizzazione.
ta contadina contro la grande cultura bizantino-slava-bulgara, oppure nel quadro di una setta religiosa come il “bogomilismo”, di origine oscuramente orientale, tipica della mentalità romena di ribellione, mentalità così radicata da essersi manifestata, nello stesso senso, negli ultimi tempi, attraverso il movimento della Guardia di Ferro»17. Tramite lo studio di Gàldi, Ionesco precisa il nesso analogico tra il bogomilismo e la Guardia di Ferro alle autorità nazionali di competenza, spiegando l’intenzione propagandistica dello “studio” di Gàldi: «Le suggestioni che devono emergere da questo pamphlet sono quelle molto note della propaganda magiara in Francia: i romeni sono anarchici (il “bogomilismo e la Guardia di Ferro”) e quindi non possono gestire uno Stato»18. Il rapporto del «segretario culturale» si conclude con queste parole: «È inutile insistere sull’assurdità delle tesi della propaganda magiara. […] Possiamo tuttavia sottolineare, anche in questa occasione, la tempestiva necessità di pubblicare in lingua francese una rivista di ricerche romene che informi, scientificamente e permanentemente, l’intellettualità francese non solo sulle verità romene storiche e nazionali, ma anche sulle nostre realtà culturali e spirituali e sui nostri valori di civiltà»19. Il nucleo fantasmatico più persistente del balcanismo romeno sembra dunque essere, come segnalato dal rapporto di Ionesco, etnico, religioso e politico. Nell’après-coup storico, il fenomeno legionario non è leggibile al di fuori dell’immaginario della cultura dei Balcani. Il paradigma del balcanismo, da questo punto di vista, è un sintomo che si manifesta come crisi e ritorno del fantasmatico stesso, che potrebbe essere accostato nell’immaginario alla potenza del reale proprio al fanatismo fondamentalista religioso. L’esperienza della pièce Rhinocéros, elaborata retroattivamente da Ionesco, ha messo a nudo la definizione di ambivalenza fantasmatica della “Cosa balcanica”, soprattutto in ordine al suo possibile “slittamento” in una forma anche politica di ambiguità, la quale si è poi tradotta di fatto in un atto eversivo e cruento per mezzo della mano armata e sanguinaria della Guardia di Ferro. Il fantasma del nazionalismo, però, è duro a morire. Dopo la destituzione del regime militare di Ion Antonescu, la Romania si avvia verso la stabilizzazione politica e la riappacificazione stalinista. Ed è proprio in tale contesto che la Corte Marziale di Bucarest condanna «in contumacia» Ionesco a cinque anni di reclusione «per insulti contro l’esercito romeno» e ad altri sei «per pregiudizi recati alla nazione»20, a causa di un’ultima Lettera da Parigi pubblicata su «Viaţa românească», a guerra ormai finita, quando credeva ormai di aver vinto la propria battaglia contro i rinoceronti legionarizzati. Ionesco riporta quell’episodio, che segnerà duramente la sua vita, con queste parole: «Durante la guerra e il dopoguerra ero a Parigi. Da Parigi inviai una lettera a una rivista romena, una lettera che mi attirò le ire della stampa e la condanna di un tribunale di cui faceva parte il cognato [di mio padre], magistrato militare del nuovo regime dopo aver condannato, qualche anno prima, nella stessa veste, le “spie comuniste”. Mio padre, da lontano, mi fece sapere che avevo avuto torto ad attaccare l’esercito, giacché adesso era l’esercito del popolo, e i magistrati romeni, poiché ora erano magistrati socialisti. In sostanza mi si rimproverava di non essere bolscevico»21. L’autore de La Cantatrice calva non smetterà mai di ripetere che coloro che erano stati realmente legionari e che occupava-
1. Il Legionarismo è definito da Ionesco «politicamente falso, tradizionalista», poggiante «su un fondamento nazionalista (e non nazionale)», che parla «in nome di un’idea cristiana altrettanto falsa» (Un sens catolic şi francez de aşezare a lumii, in Scrisori din Paris, ora in E. Ionesco, Război cu toată lumea, vol. 2, Humanitas, Bucarest 1992, p. 216). 2. E. Ionesco, Disperare şi reînălţare, in Scrisori din Paris, ora in ivi, p. 231. 3. Ivi, pp. 232-233. 4. Ivi, p. 233. 5. Ibidem. 6. Ionesco scrive: «Come fare la guerra a fianco dei tedeschi? Come farla a fianco dei russi, dopo che essi avevano occupato la metà delle province moldave appartenenti alla Romania, dato che a quell’epoca ero romeno? E come fare la guerra per difendere la Romania, un Paese che non amavo, nel quale mi trovavo malissimo e che non sentivo come mio?» (E. Ionesco, Passato presente, Rizzoli, Milano 1970, pp. 224-225). 7. E. Ionesco, Présent passé, passé présent, Mercure de France, Parigi 1968, p. 60. 8. «N. dev’essere nominato libero docente alla facoltà di filosofia dell’Università di Bucarest. È un uomo molto gentile, molto fine, molto distinto, troppo gentile, troppo fine, troppo distinto. È Guardia di Ferro. Raccomanda ai militanti del partito di essere tremendamente buoni. Il buono ha in questo caso il compito, cosciente o no, di nascondere il tremendamente. Egli dunque dice che occorre uccidere, ma con “bontà” (Il leur dit donc qu’il faut qu’ils tuent, avec “bonté”)» (Passato presente, cit., p. 288; ed. Mercure de France: pp. 178-179). 9. Présent passé, passé présent, cit., p. 75. 10. Ionesco aggiunge, dopo qualche rigo, questa riflessione: «Che milioni e milioni di persone muoiano è tollerabile. Che esse siano massacrate da altri uomini, questo non è più tollerabile. La mia ribellione era e resta romantica. Fortunatamente. Essa non è politica, giacché colui che prende partito si condanna a essere un assassino» (Passato presente, cit., p. 225). 11. Présent passé, passé présent, cit., p. 120. 12. Ivi, p. 183. 13. Passato presente, cit., p. 274. 14. Ibidem. 15. Ibidem. 16. Ivi, p. 290 (ed. Mercure de France: pp. 181-182). 17. Cfr. il rapporto di Ionesco in «Manuscriptum», a. XXIX, n. 1-2, 1998, p. 212. 18. Ibidem. 19. Ivi, pp. 212-213. 20. Cfr. M. Petreu, Ionescu în ţara tatălui, Polirom, Iaşi 2012, pp. 107-171. 21. Passato presente, cit., p. 187.
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Sergiu Al-George, l’India e Mircea Eliade di Lara Sanjakdar
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ersonaggio chiave dell’indologia romena, autore di tre monografie specialistiche e di trentun contributi apparsi in riviste indologiche e romenistiche, nonché medico e ricercatore scientifico1, Sergiu Al-George (13 settembre 1922 – 10 novembre 1981), allievo di Mircea Eliade, divulgò la cultura indiana in Romania negli anni più difficili del regime comunista. Questo gli costò, come vedremo, non soltanto l’arresto e la detenzione politica ma anche l’impossibilità d’inserirsi pienamente nell’ambiente universitario della capitale romena. Nel 1974, infatti, fu costretto a interrompere le proprie collaborazioni con l’Università di Bucarest – dove teneva un corso di Civiltà indiana – da una parte perché non aveva conseguito un diploma in filologia indiana, dall’altra, presumibilmente, anche per via dell’ostilità nutrita dal governo nei suoi confronti2. Eppure, nonostante un clima culturale e sociopolitico avverso a qualsivoglia genere di dottrina o speculazione non autoctona, lo studioso si adoperò in ogni modo per restituire al pubblico della “Sorella latina d’Orien-
te” un’immagine realistica dell’ambiente intellettuale dell’India, mostrandone le convergenze con la semiologia, la linguistica e, più in generale, la cultura europee – in special modo, romene. Al-George scoprì l’India già in età adolescenziale, quando, grazie al fortunato incontro con tre opere scientifiche e letterarie di Eliade (Maitreyi del 1933, Yoga. Essai sur les origines de la mystique indienne del 1936 e Secretul doctorului Honigberger del 1940), si avvicinò alla temperie culturale asiatica, affrontando lo studio della lingua sanscrita da autodidatta. In una sua lettera, Eliade salutò il primo articolo di Al-George, Le mythe de l’atman et la genèse de l’absolu dans la pensée indienne [Il mito dell’atman e la genesi dell’assoluto nel pensiero indiano] (1947), esclamando: «Ancora un indologo romeno! […] Vedo che Lei, interpretando i fenomeni culturali indiani, segue la linea ermeneutica che ho inaugurato in Yoga». Convergenza, quest’ultima, messa in luce anche da Radu Bercea, che scrisse: «Questa filiazione spirituale, riconosciuta da entrambi gli studiosi [Al-George ed Eliade], ha
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coadiuvato da Roşu5. L’approccio ermeneutico di Al-George, rimasto immutato nel corso degli anni successivi, era dichiaratamente “simbolico”. A tal proposito va osservato che l’orientalista mostrò un interesse privilegiato non soltanto nei confronti di alcuni aspetti del simbolismo e delle fonti religiose e simboliche indiane, ma anche per la grammatica, cui dedicò tutta una serie di studi tra i quali segnaliamo Le sujet grammatical chez Panini [Il soggetto grammaticale in Panini] del 1957, che gli valse un riconoscimento internazionale in qualità di indologo. A tal proposito è interessante rilevare come, nel corso degli anni Novanta del secolo scorso, alcuni indianisti di chiara fama (come André Padoux di Parigi e Vidya Nivas Misra di Benares) ricordarono la figura di Al-George, il cui nome era noto anche al famoso Bhandarkar Oriental Research Institute di Poona. Pur non facendo parte del mondo accademico, l’indologo riuscì comunque a ottenere dei riconoscimenti dal milieu universitario e quindi a partecipare a eventi degni di nota, come il Congresso Internazionale di Sanscrito di Benares del 19816. Per tornare alla produzione scientifica dello studioso, menzioniamo anche un altro suo lavoro degno di nota, Limbă şi gîndire în cultura indiană [Lingua e pensiero nella cultura indiana] del 1976, che si inserisce a pieno titolo nella linea esegetica del succitato contributo del ’57. In questo studio, come messo a fuoco da Bercea, l’indologo trattò i fondamenti del pensiero simbolico – rituale e mitologico – sui quali si basa la cultura indiana, nella persuasione che questi conferissero validità alle soluzioni proposte dalla scienza indiana del linguaggio e rappresentassero delle risposte culturali molto più antiche e spesso più feconde di quelle offerte dalla scienza occidentale moderna. Nello stesso periodo, pubblicò anche due brevi lavori dedicati rispettivamente alla medicina indiana e a quella tibetana: Medicina indiană e Medicina tibetană, entrambi pubblicati nel 1970. L’opera più importante del Nostro – un originale contributo allo studio della cultura romena contemporanea – è senz’altro Arhaic şi universal. India în conştiinţa culturală românească [Arcaico e universale. L’India nella coscienza culturale romena], del 1981. In questo fondamentale studio, Al-George, partendo dalle idee di Eliade, delinea il profilo “indiano” di una serie di letterati, intellettuali e artisti romeni (Brâncuşi, Blaga e il poeta nazionale romeno Mihai Eminescu), tra i quali figura anche il suo maestro, cui è dedicato il libro7. L’originalità di Arhaic şi universal risiede soprattutto nel fatto che esso ci svela il modo, inatteso, tramite il quale Eliade esprime il pro-
segnato profondamente l’esistenza di Al-George». Le relazioni tra i due furono contrassegnate da una profonda stima reciproca. L’attaccamento di Al-George alla figura del grande storico delle religioni, nonché scrittore e indologo, fu tale da indurlo a divulgare uno dei suoi libri messi all’indice dal regime comunista, ovvero Forêt interdite, del 19553. Al-George si trovò così, suo malgrado, coinvolto in una triste vicenda che ebbe ripercussioni anche sulla vita di altri intellettuali di spicco del panorama culturale romeno. Infatti, l’indianista fu implicato nel cosiddetto “Processo Noica”, uno degli ultimi grandi casi politici della Romania comunista: la produzione intellettuale dello studioso venne così interrotta brutalmente dall’arresto nel dicembre del 1958 e, successivamente, dalla detenzione politica del 1959. Al-George potrà dedicarsi nuovamente agli studi d’indianistica soltanto nel 1966, a due anni di distanza dalla scarcerazione. Ma facciamo un passo indietro e torniamo agli anni Cinquanta del secolo scorso, nei quali l’indologia romena mosse i primi passi, in concomitanza con alcuni avvenimenti rilevanti. In particolare, il 1959 segnò una tappa importante nel quadro della storia dei rapporti tra Romania e India: nell’ambito delle relazioni diplomatiche tra i due Paesi venne fondata l’Ambasciata Indiana a Bucarest; inoltre, si assistette a una serie di scambi nel campo della scienza, della tecnica e dell’istruzione. Gli ingegneri e i periti tecnici romeni aiutarono l’India a costruire una raffineria a Gauhati. Sul piano culturale, invece, il ’59 vide la pubblicazione di un volume di racconti di Rabindranath Tagore in traduzione romena e di una grammatica sanscrita di Theofil Simenschy (filologo classico romeno dedicatosi anche alla linguistica comparata indoeuropea). Venne inoltre ripubblicata la Shakuntala, nella versione curata da G. Coşbuc (prefata dal critico letterario e comparatista Edgar Papu) e la prima delegazione culturale romena visitò l’India grazie all’accordo bilaterale siglato nello stesso periodo4. Si aprì così una stagione feconda tanto per la produzione scientifica quanto per quella orientalistica di Al-George, il quale l’anno precedente aveva dato alle stampe il primo trattato romeno di foniatria e si era occupato, con l’amico Arion Roşu, della revisione critica di una versione romena della Storia dell’India, già precedentemente tradotta dal russo da un altro studioso (malauguratamente, questi testi sono andati perduti dopo l’arresto). Inoltre, aveva lavorato con grande assiduità a due importanti contributi di carattere indologico che comparirono in riviste berlinesi e parigine, ancora una volta
“ Al-George si avvicinò all’India dopo l’incontro con le opere letterarie e scientifiche di Eliade, di cui seguì le tracce ”
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nath Tagore e si impegnò sempre a mostrare le convergenze culturali indo-romene, ottenendo prestigiosi riconoscimenti in Romania, dove redasse a mano – dal momento che all’epoca le tipografie non possedevano i caratteri bengali – il primo dizionario bengali-romeno (1985). Bhose, che conobbe il Nostro nel 1972 in India, sostenne, a torto o a ragione, come egli avesse la stessa forma mentis dei sanscritisti indiani – altrimenti, non avrebbe potuto comprendere la spiritualità hindu “dall’interno”10. Sergiu Al-George è, in conclusione, un personaggio davvero singolare e prezioso che s’inserisce a pieno titolo nella cornice dell’indologia e della cultura romene del Novecento, tristemente dimenticato dai romenisti italiani e spesso ricordato unicamente a causa delle sue disavventure politiche.
prio atteggiamento conflittuale nei confronti della “Storia” e quindi, al contempo, il disagio esistenziale e l’istanza metafisica tanto nel periodo giovanile quanto in quello successivo. In quest’opera, tra le altre, Al-George mostrò come il cuore pulsante dell’ermeneutica eliadiana del religioso, il “Tempo sacro”, fosse un’idea squisitamente hindu. L’amico e collega di Eliade – al quale quest’ultimo avrebbe voluto affidare il compito di redigere una parte del suo opus magnum, Histoire des croyances et des idées religieuses (1976-1983) – adottò un sistema interpretativo indubbiamente inconsueto rispetto alle letture “classiche” del pensiero eliadiano, soprattutto se si considera che il libro uscì nel 1981 e pertanto lo storico delle religioni ebbe tutto il tempo di recensirlo prima di morire, anche se Al-George, spentosi il 10 novembre dello stesso anno, non ebbe modo di leggere la felice recensione del suo maestro, il quale scrisse: «Sergiu Al-George è stato certamente il più capace e il più creativo indianista romeno. Si è sforzato seriamente di conoscere e di comprendere la cultura indiana, nel suo complesso». Agli occhi di Eliade, Al-George manifesta inoltre una singolare «capacità di penetrazione esegetica, la stessa intuizione e la stessa comprensione in ogni suo sforzo di illustrare e l’architettura interna dello spirito indiano e la propria creatività […]. Sfortunatamente, nelle riviste straniere di orientalistica sono apparsi soltanto alcuni degli studi di Sergiu Al-George. Ci auguriamo che questi lavori, insieme alle traduzioni degli altri suoi significativi contributi, ora disponibili solo in lingua romena, siano al più presto raccolti in volume. Il suo libro più originale, un contributo di grande spessore all’ermeneutica della spiritualità romena, è Arhaic şi universal. India în conştiinţa culturală românească (Edizioni Eminescu, Bucarest 1981, 295 pp.). Le sue analisi e interpretazioni delle creazioni culturali di Brâncuşi, Eminescu, Blaga e del sottoscritto, basate su un’ampia e impeccabile documentazione, aprono nuove prospettive di ricerca per la valorizzazione della cultura romena. Se fosse tradotta in una lingua più diffusa, questa nuova e profonda interpretazione potrebbe risvegliare l’interesse di un pubblico più ampio, competente e variegato [rispetto a quello attuale]; non sarebbe rivolta solo agli ammiratori di Brâncuşi […], ma anche ai critici e agli storici dell’arte, agli storici e ai filosofi della cultura, agli scultori e ai poeti. […] In fondo, Sergiu Al-George è riuscito a illustrare in modo esemplare quello che potrei definire “un nuovo metodo comparativo di ricerca e di analisi applicato alle creazioni delle civiltà tradizionali”. […] Chicago, maggio 1984»8. Tornando al Nostro, possiamo aggiungere che egli, sanscritista volto tanto alla linguistica comparata quanto allo studio dell’immagine dell’India nella cultura romena, recuperò e portò a compimento l’orientalistica eliadiana. Il nucleo del suo pensiero risiede in una dialettica simbolica totalizzante, che vede il simbolo come punto d’intersezione tra l’ideale e il sensibile. Inoltre, Al-George estende il motivo eliadiano dell’unità di mito, simbolo e rito nelle società arcaiche e tradizionali proiettandolo sul piano linguistico-semiotico e della storia delle idee. Al-George collaborò con un altro personaggio chiave dell’indianistica romena, Amita Bhose (Calcutta, 1933 – Bucarest, 1992), docente di lingua bengali e sanscrita all’Università di Bucarest dal 1978 al 19919. Bhose, oltre a far conoscere in India la letteratura romena contemporanea e il poeta nazionale Mihai Eminescu, tradusse alcune opere di Rabindra-
1. Come medico, si specializzò in foniatria e si occupò anche di ricerca scientifica nel campo allergologico e immunologico. Per i dati biografici, cfr. Radu Bercea, Nota bio-bibliografica sulla figura di Sergiu Al-George, in Lara Sanjakdar, Mircea Eliade e la Tradizione. Tempo, mito, cicli cosmici, Il Cerchio, Rimini 2013, p. 354 e segg. e Id., Sergiu Al-George. O personalitate exemplară [Sergiu Al-George. Una personalità esemplare], in «Viaţă medicală», 1995. 2. Per alcuni aspetti della questione, cfr. Amita Bhose, Ultimul drum al lui Sergiu Al-George [L’ultimo viaggio di Sergiu-Al-George], in «Literatorul», n. 49/1992 [disponibile anche online, all’indirizzo: http:// amitabhose.net/Articol.asp?ID=51]. 3. Tr. it.: La foresta proibita, Jaca Book, Milano 1986. Il romanzo, scritto originariamente in romeno con il titolo Noaptea de Sînziene (La notte di Sanziene), uscì per la prima volta nel 1955 in francese, per i tipi di Gallimard, con il titolo Forêt interdite – l’edizione romena sarà pubblicata soltanto nel 1971. Cfr. Mircea Handoca, Mircea Eliade, 1907-1986. Biobibliografie, Jurnalul literar, Criterion, Bucarest 1997-2007, vol. I, pp. 28, 290. 4. Amita Bhose, Indianistul din Iaşi [L’indianista di Iaşi], in «Convorbiri literare», a. XCIV, n. 1220, aprile 1988, p. 7, ora in Maree indiană. Interferenţe culturale indo-române [La marea indiana. Interferenze culturali indo-romene], Cununi de stele, Bucarest 2009, pp. 172-173. 5. Cfr. lo scritto di Dorina Al-George, moglie di Sergiu, Şocul amintirilor [Lo shock dei ricordi], Paralela 45, Piteşti 2006. 6. Per la questione, cfr. Radu Bercea, Sergiu Al-George. O personalitate exemplară, cit., p. 3. 7. In realtà, come precisato da Bercea in una comunicazione personale, il testo non riporta alcuna dedica in calce. Si tratta invece di una testimonianza orale della moglie di Al-George. 8. Mircea Eliade, In memoriam. Sergiu Al-George, in «România literară», a. XVII, n. 30, 26 luglio 1984, traduzione nostra. Nella nota introduttiva al breve necrologio, Mircea Handoca precisa come Al-George, poco prima di morire (lunedì 9 novembre 1981), gli avesse confessato per telefono l’ansia di conoscere il parere di Eliade sul libro. Poco dopo, colto da malore, si sottopose a un elettrocardiogramma. L’esame non individuò alcun genere di patologia cardiaca (in precedenza, l’indologo aveva avuto due infarti) e, purtuttavia, poco dopo lo studioso si spense. Per ulteriori ragguagli sulle relazioni tra Al-George ed Eliade cfr. Mircea Eliade e la Tradizione, cit., p. 309 e segg. 9. Per alcuni aspetti della questione, cfr. Liviu Bordaş, Zece ani de la plecarea surorii mai mari [A dieci anni dalla scomparsa della sorella maggiore], in «Origini. Caiete Silvane», n. 3-4/2002, pp. 148-151. 10. Amita Bhose, Ultimul drum al lui Sergiu Al-George, cit. Si ringraziano Radu Bercea e Horia Corneliu Cicortaş, per gli indispensabili consigli e le consulenze tecniche.
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Lo stile interiore di Lucian Blaga di Emil Cioran
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menti spirituali, senza per questo mascherarli. Blaga fa parte di questa categoria. Il silenzio, la forma e la limpidezza non sono voluti, né cercati intenzionalmente, ma sorgono dalla logica di un certo modo d’essere. Queste “apparenze” sono costitutive. Da qui deriva un’inclinazione molto importante per comprendere Blaga: la conversione del musicale in plastico o, in altre parole, dell’infinito in forma. Tutto quel che è fluidità inosservabile, scorrimento illimitato, propensione verso la decadenza e richiamo dell’abisso, tutto ciò che è svolazzante e irresistibile assume una forma definita, cristallizzandosi in piani e limiti. Ciò che vi è di musicale in noi è la nostra grande tentazione, poiché la musica ci rende irresponsabili: da qui la sua essenza demoniaca. La conversione della dimensione musicale in plasticità chiarisce perché alla prima lettura dell’opera di Blaga si abbia la sensazione di una maniera indiretta di sentire e pensare: ciò suggerisce l’immagine di un contatto mediato col reale. In realtà, il processo di elaborazione è maggiore e la reazione più controllata, a differenza dei comportamenti di un animo musicale, che vibra immediatamente e in maniera dirompente per le provocazioni esterne. Un animo musicale coglie la realtà in una vibrazione diretta: l’estasi degli animi musicali è pura. Ciò che non è “musicale” nell’animo di Blaga spiega perché egli abbia raggiunto un’estasi solo intellettuale; spiega il razionalismo della sua visione statica, come pure il modo deduttivo di considerare il mistero. Detto questo, non vogliamo contestare il fatto che l’intera filosofia del mistero sia originata da un’esperienza intima del mistero stesso. Cogliere l’infinito nella forma – ecco un modo di essere non-romantico di un pensatore legato ai temi del romanticismo: nella sua visione, il mondo delle forme svolge un ruolo molto più importante di quanto possa sembrare. L’elemento
na volta un filosofo ungherese definì la vita un’anarchia del chiaroscuro. Si riferiva, naturalmente, a quella proiezione confusa di ombre e luci, a quel gioco inconsistente, eccessivo fino al dramma, che ostacola la dissociazione e l’autonomia, per amalgamare gli elementi distinti della natura in una strana confusione. Chissà perché mi ritorna in mente questa inquieta definizione della vita quando penso a Lucian Blaga, considerato nella compiutezza della sua opera? Forse perché in lui l’anarchia degli strati profondi dell’esistenza ha trovato un’espressione corrispondente oppure perché questo sconvolgimento è riuscito a rischiararsi? A destarci è l’immagine di una frenesia di ombre e luci o, al contrario, un chiarore nella tempesta? Questa oscillazione, questo continuo dondolìo, che fa della luce e dell’ombra limiti reciproci, appartiene al carattere della vita. Viviamo nel chiaroscuro, cioè nella condizione naturale della tragedia. Possiamo trasfigurarci sia intensificando al grado più alto la tensione organica intrinseca al chiaroscuro, sfruttando fino alla follia le potenzialità drammatiche di questo dualismo, sia rasserenandoci, assumendo forma nella confusione, placando la tempesta attraverso un’autolimitazione. Tutte le altre soluzioni appartengono alla mediocrità. Lo stile interiore di Lucian Blaga è caratterizzato da una serenità nel chiaroscuro. Questa è la chiave di lettura dell’uomo e dell’opera. Con essa apriamo le porte segrete dell’animo e scopriamo sotto il silenzio la paura, sotto la forma l’infinito, sotto la limpidezza il mistero. Non si creda che il silenzio, la forma e la limpidezza siano in Blaga semplici apparenze. La verità è che queste “apparenze” fanno parte del suo stile interiore, lo individualizzano e configurano in modo specifico. Ci sono uomini che hanno un certo timore a entrare in contatto con i propri abissi, poiché sentono il bisogno di rivestire e proteggere i tor-
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visione tellurica, relativa cioè alle sue componenti originarie, alle sue “fonti” ancestrali. Così come la filosofia della vita parte da una mistica delle fonti vitali, allo stesso modo l’antistoricismo di Blaga deriva da una mistica degli elementi tellurici e sub-storici. Parlando della «rivolta del nostro fondo non latino», ha precisato le premesse di un’autobiografia. Se in Eminescu è esploso l’elemento slavo dell’animo moldavo, in Lucian Blaga si è reso altrettanto evidente l’elemento germanico nella psicologia della Transilvania. Pensiamo non tanto a un’affinità di sangue, quanto a quell’imponderabile che spinge una coscienza a gravitare verso l’essenza di una nazione o di una stirpe. Chi non si è sorpreso, leggendo le opere di Blaga, a vagabondare per qualche vecchia città tedesca in notti serene, sotto stelle fredde e immobili, perso in viuzze strette e fuori dal tempo, nell’incanto di una malinconia trattenuta e un sognare concentrato – ebbene, costui non ha una rappresentazione adeguata, né possiede lo schema di fondo necessario a una sua comprensione più profonda. Di Lucian Blaga amo il contatto vivo con realtà morte. Credo di non sbagliare affermando come egli non veda le cose, ma le ascolti. Dalla sua poesia si sprigiona il sentimento di una presenza del tutto in misura tale da indurre a chiederci se le cose non parlino. La risonanza intima dell’essere si acuisce in una vibrazione universale. Nella sua opera filosofica, le prime reazioni di fronte al mondo hanno incontrato una trasformazione essenziale, uno spostamento e una deviazione, così che l’impressione paradossale di un mondo resistente si è interposta tra la rivelazione estatica del mistero e la sua elaborazione derivata, intellettualizzata. L’inesprimibile delle grandi intuizioni è rivestito dal mondo delle forme per via di un timore di soggettivismo, di esaltazione, per una specie di paura d’isolarsi nella propria visione. Se Lucian Blaga avesse sofferto molto, sicuramente la sua metafisica sarebbe divenuta una mistica pura. Ciò che è transilvanico in Lucian Blaga si manifesta nella riservatezza e nello slancio contenuto, che si sprigionano tanto dall’uomo quanto dall’opera. Il romeno è in genere scettico, pieno di slancio e ironico. Il fascino di Lucian Blaga deriva dall’ingenuità, dono ammirevole che incontriamo negli intellettuali di altri Paesi ma che manca a quelli romeni, disillusi senza problematiche, scettici senza inquietudine, ironici senza tragicità, galvanizzati da un’eccitabilità non vulcanica. Lucian Blaga è il primo transilvano a essersi posto dei problemi che trascendono l’ambito pratico e “militante” della storia nazionale. Prima di lui, i transilvani erano tutti combattenti. Il suo modo di pensare e la sua particolare sensibilità mostrano con quale spirito la Transilvania potrebbe distinguersi in Romania. Lo stile interiore di Blaga è un’importante smentita del supposto pragmatismo e positivismo transilvanici – aspetti che non significano molto di più di quanto la passione per la tecnica costruttiva rappresenta per la psicologia tedesca. Lucian Blaga è la personalità più completa della Romania, poiché si è elevato allo stesso livello negli ambiti in cui si è realizzato. Ancora una volta, nell’anarchia del chiaroscuro vedo una distensione tra luci e ombre, nonché una coscienza che sotto la quiete sperimenta il timore, sotto la forma l’infinito e sotto la chiarezza il mistero.
costruttivo semplifica l’impeto, scarnisce la passione irresistibile e conquistatrice e prende in prestito un’ammirevole andatura ascetica dinanzi ai problemi ultimi. Lucian Blaga non sarebbe mai giunto al problema della conoscenza estatica se non avesse avuto esperienza intima del mistero. L’intensità dell’estasi cresce con l’ampiezza del mistero. L’impossibilità di renderlo riducibile e di convertirlo in nonmistero è un aspetto centrale di questa filosofia, che rivela il mondo nell’ottica di quanto non può essere rivelato. Alla forza devitalizzante dello spirito e all’attività devastante dell’intelletto – così come espressi dal vitalismo di Klages, che sostiene in maniera estrema il dualismo vita-spirito, mantenendo questi due termini nella più categorica irriducibilità – Blaga oppone l’incapacità dell’intelletto di convertire il mistero in non-mistero. Tale obiezione è piuttosto interessante, poiché combatte il vitalismo sul suo stesso piano e con elementi mutuati dalla sua prospettiva. L’intelletto è sconfitto dalla propria incapacità di deflorazione metafisica. La presenza del mistero nel mondo limita l’azione distruttiva dell’intelletto, smascherando le illusioni del logocentrismo. Il vitalismo scopre il mistero nell’essenza stessa della vita. La struttura del vitale e il suo divenire irrazionale dispongono di una zona inaccessibile alla nostra comprensione. Tutto il demonismo della nascita e della distruzione determina un complesso di fenomeni la cui pulsazione possiamo cogliere e immaginare soltanto nel ritmo nascosto della nostra interiorità. Il vitalismo implica necessariamente l’irrazionalismo e l’esperienza dionisiaca del mondo. Per Blaga, il mistero non risiede nell’essenza della vita in quanto tale, bensì proviene da più lontano, da quell’esistenza che comprende la vita solo come un momento della propria dialettica. In una critica severa dei filosofi vitalisti, Heinrich Rickert dimostra che il vitalismo realizza un’ingiustificata assolutizzazione di un singolo aspetto dell’essere, che i problemi ultimi trascendono il campo entro cui si manifesta la vita, cosicché una metafisica della vita non sarebbe che una tappa. Considerate nel proprio aspetto analitico ed esteriore, tali osservazioni sono sicuramente valide. Ma in questa regione di contiguità col mistero, l’avvicinamento all’assoluto ci viene offerto da affinità e vibrazioni di natura totalmente irrazionale. La rivelazione della vita quale assoluto, come dato originario e irriducibile, avviene in modo così diretto e intimo da rendere irrilevante qualsiasi obiezione razionale. Se anche la vita fosse soltanto un momento della dialettica dell’esistenza, non perderebbe comunque il proprio tratto misterioso. Nella materia si nasconde un mistero limitato e degradato, mentre nello spirito, prodotto derivato e tardivo della vita, il mistero ne è un riflesso lontano. Lucian Blaga non ha affinità dirette con la problematica della filosofia della vita. Tuttavia, nella sua opera sopravvive qualcosa della sua atmosfera, che riguarda una determinata visione degli aspetti originari e finali. In particolare, la sua poesia presenta una tale solidarietà con le forme primarie della vita e una strana complicità con quelle crepuscolari, che è dalla loro fusione a risultare quella persistente sensazione di serenità nel chiaroscuro. «Nel sonno il mio sangue come un’onda si ritira da me e torna verso gli antenati». «Sulle mie orme mature la morte posa il bacio giallo – e nemmeno un canto mi sprona a essere ancora una volta». «Il mondo: straniero sorridente, incantato, avvolto da lui vi cresco tutto stupefatto». Blaga non è propriamente un tradizionalista, poiché del divenire di una nazione non ha il sentimento storico ma piuttosto una
[Stilul interior al lui Lucian Blaga, in «Gândirea», a. XIII, n. 8, dicembre 1934, pp. 334-336, ora in Revelațiile durerii, a cura di M. Vartic e A. Sasu, Echinox, Cluj 1990, pp. 132-136]
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Lettere a Wolfgang Kraus di Emil Cioran a cura di Massimo Carloni
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urato quasi vent’anni, il carteggio intrattenuto da Cioran con il filosofo della cultura austriaco Wolfgang Kraus, in uscita in edizione italiana (Emil Cioran, L’agonia dell’Occidente. Lettere a Wolfgang Kraus 1971-1990, Edizioni Bietti, Milano 2014, pp. 442, € 24,00), con le sue centocinquantotto lettere si presenta come uno dei più ragguardevoli tra quelli a oggi pubblicati dello scrittore romeno. L’orizzonte che fa da sfondo al dialogo epistolare è quello della crisi della cultura europea, prefigurata dallo sgretolamento dell’Impero asburgico e sclerotizzata, nel secondo dopoguerra, in una geopolitica dei blocchi contrapposti. Le lettere a Kraus registrano in presa diretta, tra le altre cose, le spietate analisi di Cioran sull’attualità politica e sul destino dei popoli; i timori per l’avanzata dell’egemonia sovietica e le sferzate contro il culto vacanziero, «nuova religione» dell’Occidente; le mortificazioni dovute alla propria amara condizione di “forzato della penna”, nonché le caustiche considerazioni sulle stravaganze del mondo letterario. Il carteggio è arricchito inoltre da due toccanti lettere di Simone Boué, compagna di Cioran, scritte durante la malattia del filosofo e all’indomani della morte, nonché da cinque missive di Kraus, le uniche finora ritrovate. Il volume è completato, infine, da centoundici brani scelti dal Diario di Kraus, dove, tra ricordi, ritratti e gustosi aneddoti, l’opera e la figura di Cioran vengono ripercorse in filigrana, tanto nella loro indiscutibile grandezza quanto per le inevitabili controindicazioni che recano in sé, sempre all’insegna di una stimolante e riconoscente amicizia.
E. M. Cioran 21, rue de l’Odeon Paris VI° Parigi, 10 dic. 1971 Caro Signor Kraus! La ringrazio per Stillen Revolutionäre1. Ho letto il libro con grandissimo interesse. È una lucida analisi del «disagio» della civiltà, senza illusioni psicanalitiche. I capitoli che mi hanno coinvolto di più sono Gli intellettuali dell’Est sull’Europa Occidentale – Rivolta contro la civilizzazione – e, in particolare, Tentazione dell’irrazionale. Ad esempio, l’analogia tra Marcuse e Klages mi sembra un’osservazione filosofico-culturale molto feconda. Nel medesimo capitolo riporta la concezione della coscienza in Dostoevskij: «Io sono fermamente convinto che non solo molta coscienza, ma perfino qualsiasi coscienza sia una malattia». Per mia sfortuna, ho sempre sperimentato su me stesso l’esattezza di quella frase2. Bewusstsein als Verhängnis [La coscienza come fatalità] è il titolo di un libro di tale Seidel, apparso dopo la prima Guerra Mondiale. L’autore si è ucciso. Il libro non era granché, ma il titolo non l’ho mai dimenticato3. Sono stanco della cultura, benché sia figlio di un popolo privo di cultura. Come vede, non sono estraneo alle contraddizioni dell’irrazionalismo. Sono rimasto molto colpito dalle seguenti righe a pagina 182, dove sostiene: «Si può rimanere affascinati dalla visione di un totale disfacimento del mondo, creato dall’umanità in modo così imperfetto, ma a questo punto sorge la domanda se ciò sia contrario alla cultura, alla civilizzazione, se l’agire contro l’intero operato umano non comporti, forse, proprio quella decadenza cui bisognerebbe opporsi».
Massimo Carloni
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Appena le ho lette, mi sono sentito colpevole. Il contratto con Fischer sarà sicuramente risolto. Kurt Leonhard è disposto ad accettare la traduzione del Mauvais Démiurge. Pare sia pronta la traduzione della Chute dans le temps4. Riscrivo il suo indirizzo: Kurt Leonhard 73 Esslingen / N. Zollberg, Auchtweg 24 La ringrazio ancora molto per il suo interessante libro. Se torna a Parigi, sarei lieto di poter proseguire la nostra conversazione. Con i miei più cordiali saluti. Suo E. M. Cioran
alla sua opera. Tuttavia, quel poco che ho letto di lui ha avuto una grande importanza per me. Trovo inquietante ciò che mi scrive su Istanbul. Ora capisco perché la gioventù turca tenda verso la sinistra radicale. Il mio punto di vista è semplice: meglio la corruzione del terrore. Sfortunatamente “Storia” e “Saggezza” sono concetti antitetici. Sono molto soddisfatto della veste tipografica della Creazione. Peccato che Gallimard non voglia imitare l’editore Europa. La ringrazio ancora per le lettere e i due importanti capitoli. Cordiali saluti Suo E. M. Cioran P.S. Sono fermamente convinto che il mio nuovo libro, in uscita a novembre2, sia troppo “privato” e, benché cupo, troppo frivolo per meritare una traduzione. È un libro tipicamente francese.
1. Il libro di Wolfgang Kraus I rivoluzionari tranquilli. Profilo di una società del domani, Vienna-Monaco-Zurigo 1970. 2. Cfr., ad esempio, l’appunto di Cioran dell’8 dicembre 1971: «L’unica cosa che abbia mai capito a fondo: il dramma della coscienza. Essere coscienti è un dramma che finisce con la morte. Almeno speriamo». E. M. Cioran, Cahiers 1957-1972, prefazione di S. Boué, Gallimard, Parigi 1997 (tr. it.: Quaderni 1957-1972, tr. di T. Turolla, Adelphi, Milano 2001, p. 1061). 3. A. Seidel, Bewusstsein als Verhängnis, a cura di H. Prinzhorn, Bonn 1927. Cioran, che citò il libro nel saggio Valéry face à ses idoles, in un’intervista chiarì: «Il titolo [La coscienza come fatalità] è la formula che riassume la mia vita» (H. Perz, “Mein ganzes Leben war vom Tod beherrscht…” Ein Gespräch mit dem Schriftsteller E. M. Cioran [Tutta la mia vita è stata dominata dalla morte… una conversazione con lo scrittore E. M. Cioran], in «Süddeutsche Zeitung», n. 231, 7-8 ottobre 1978, p. 112, poi in E. M. Cioran, Entretiens, Arcades Gallimard, Parigi 1995, p. 37 [tr. it. in E. M. Cioran, Un apolide metafisico: conversazioni, tr. di T. Turolla, Adelphi, Milano 2004, p. 44]). 4. La Chute dans le temps, Parigi 1964 (ed. it.: La caduta nel tempo, tr. di T. Turolla, Adelphi, Milano 1995). Il traduttore sarà, come già avvenuto per altre opere cioraniane, Kurt Leonhard.
1. Lo scrittore Wystan Hugh Auden (1907-1973), residente in Austria a partire dal 1957, aveva parlato in termini molto elogiativi de La caduta nel tempo (cfr. il suo The Anomalous Creature, in «New York Review of Books», vol. 16, n. 1, 28 gennaio 1971; Cioran, Œuvres, a cura di Nicolas Cavaillès e Aurélian Demars, Parigi 2011, p. 1435). Fu insignito del Premio Statale Austriaco per la Letteratura Europea nel 1966. 2. E. M. Cioran, De l’inconvénient d’être né, Parigi 1973 (ed. it.: L’inconveniente di essere nati, tr. di L. Zilli, Adelphi, Milano 1991).
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Parigi, 29 maggio 1976 Caro Signor Kraus, Le chiese di Bucarest sono piene, ma più per motivi politici che religiosi. Forse mi sbaglio. In ogni caso, la vittoria del marxismo è l’ultima chance del cristianesimo. La Chiesa dev’essere oppressa, altrimenti diventerà troppo convenzionale e antiquata. In Occidente, solo una spietata tirannia può ancora salvarla. Sono consapevole di esistere, in qualche modo, nella… mia terra. Sfortunatamente sono diventato uno sradicato, soprattutto perché ho rinunciato alla mia lingua madre. Che significato avrebbe l’Austria per lei, se abbandonasse la lingua tedesca? Non ricordo se le ho detto che, tre mesi orsono, mi hanno offerto un premio americano istituito di recente (12.000 dollari), con l’obiettivo di gratificare uno scrittore poco conosciuto (o apprezzato). Ho rifiutato subito l’offerta, soprattutto a causa della consegna solenne del premio (giornalisti, televisione, ecc.), ma anche perché un successo forzato mi ripugna. Si può vivere benissimo senza applausi1. Ma non senza aver visto Ispahan. Che avvenimento per lei una simile visita! Luc, il figlio di Bondy, è un giovane amabile e intelligente. Tutti quelli che lo conoscono sono sconvolti. In casi simili, il termine inferno acquisisce senso e significato. François e Lillian sono sicuramente disperati. Quasi certamente, l’itterizia di loro figlio è la conseguenza delle sue esperienze matrimoniali negative. Il matrimonio è un’avventura che conduce sovente all’ospedale. L’edizione francese dei Wasserträger [Portatori d’acqua] di Sperber ha avuto una recensione favorevole su «Le Monde» e «Le Figaro». Cordiali saluti Suo E. M. Cioran
[2]
Parigi, 10 ottobre 1973 Caro Signor Kraus! La ringrazio molto della lettera da Istanbul, di quella da Vienna e dei due capitoli, che ho appena finito di leggere. Solo un austriaco poteva esprimere, e in modo così penetrante, la duplice carenza dell’Ovest e dell’Est. Nel quarto capitolo ha formulato una diagnosi corretta della malattia occidentale: «Manca un punto d’orientamento da una categoria fondamentale – l’autentico “a che scopo”». – Dopo le dichiarazioni degli intellettuali cechi, con cui ha iniziato, quel finale è d’obbligo e appare come un coronamento. Nel capitolo successivo prosegue la diagnosi: la scomparsa della religione, la mancanza di contenuti della vita spirituale nel mondo libero. Mi ha colpito in particolare un’osservazione (a pagina 6): si spende molto di più per l’arte riprodotta che per «la creazione artistica diretta». Ovunque la «riproduzione» è più importante dell’opera. Faccio una profezia: tra dieci, vent’anni, lei andrà incontro inevitabilmente a una «disperazione culturale». Ha già fatto fin troppe esperienze in questo campo! Anch’io, come lei, sono rimasto sconvolto dalla morte di Auden1. Non ho avuto la fortuna di conoscerlo. In Francia era quasi sconosciuto e anch’io, per la verità, non mi sono interessato
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tile e al di sopra delle parti, specialmente grazie agli ebrei – che sono un’autentica benedizione, sotto il profilo intellettuale. Non credo tuttavia al futuro dell’America, sebbene il mio pessimismo non sia chiaramente fondato. Può forse adempiere a un’autentica missione un popolo che, per un intero anno, è stato assorbito da una bagatella come il Watergate? Per l’intellighenzia locale, Croissant è un eroe. È considerato una vittima. A mio parere, la sua estradizione sarebbe un errore politico1. Agli inizi di ottobre, Michael Klett è stato a Parigi. Mi ha detto di non aver ancora letto il suo manoscritto. Ha ricevuto una risposta da lui? La traduzione di Celan dev’essere ripubblicata entro un anno! Incomprensibile. Dovrebbe essere un po’ disgustato dalla brama di gloria dei nostri amici. L’esempio di Gabriel Marcel è stato per me molto istruttivo. Desiderava tutti i premi. A lungo andare, l’ho trovato indecente e ho giurato di non cedere alla sua stessa malattia. La mia salute è peggiorata. La consapevolezza ininterrotta di avere un corpo, col tempo, diviene insopportabile. Recentemente ho avuto una lunga conversazione con Taubes. Non ha più illusioni politiche, e vuole addirittura lottare contro i “saccenti” tedeschi. Quando torna a Parigi? Sono curioso di conoscere le sue ultime esperienze e i suoi incontri. Cari saluti, anche da Simone, Suo E. M. Cioran
1. A partire dal Prix Rivarol del 1950 – Premio per la letteratura francofona riservato agli autori stranieri, per il quale Cioran si era candidato nel 1949, per mere ragioni economiche e per attirare su di sé l’attenzione dell’ambiente letterario – Cioran non accettò nessuno dei riconoscimenti che gli furono conferiti: Prix Sainte-Beuve, Prix Combat, Prix Morand, Prix Roger Nimier… Cfr. Quaderni, cit., p. 68: «Aver proclamato la vanità del tutto, ed esporsi agli onori!». Come scrisse a Wolf Aichelburg il 28 aprile 1976, «il successo dev’essere rifiutato» (cit. in Bernd Mattheus, Cioran, Berlino 2007, p. 218). Cfr. anche ivi, pp. 141, 160, 171, 222; Cioran, Œuvres, cit., p. 1490.
[4] Parigi, 29 ottobre 1976 Caro Signor Kraus, Grazie tante per le due lettere. Penso alle sue grandi responsabilità e al carico che una famiglia rappresenta. Lo spirito di sacrificio non appartiene al mio carattere, sebbene in gioventù, in due o tre occasioni, stavo per rinunciare alla mia indipendenza. La mia vita avrebbe preso una piega completamente diversa e, per mia fortuna o sfortuna, non avrei avuto abbastanza tempo per rovinare me stesso. A dire il vero, ho sempre creduto che la mia famiglia fosse in qualche modo degenerata da entrambi le parti, e che non meritasse di perpetuarsi. Anche mio fratello è di questa opinione1. Solo mia sorella2 la pensava diversamente. Suo figlio si è suicidato, come ha fatto lei, indirettamente, fumando cento sigarette al giorno. Da queste parti tutto si sta dissolvendo, come in Europa centrale prima della Grande Guerra. Ripenso sempre al destino dell’Austria: che esempio perfetto per la decomposizione odierna! Inglesi e francesi accettano la situazione, solo il mascalzone è in lutto. Del resto, sono convinto di soffrire più di tanti austriaci per la situazione storica del loro Paese. Trent’anni fa lessi un importante libro di Pierre de Labriolle sugli ultimi pagani3; l’ho letto di nuovo, trovandolo più attuale che mai. I periodi di decadenza sono affascinanti, specialmente avendo la fortuna di vivere in un’epoca simile. Gli avversari dei primi cristiani mi attraggono di più rispetto ai Padri della Chiesa, perché senza futuro, mentre questi ultimi appaiono complici e “compari”. I giardini del Luxembourg sono veramente belli, ci vado tutti i giorni per una breve passeggiata. Purtroppo, ogni giorno incontro qualche esponente della commedia parigina. Simone è in Vandea per dieci giorni. Tanti cari saluti Suo Cioran
1. Simpatizzante della “Frazione dell’Armata Rossa” (RAF), organizzazione terrorista di estrema sinistra, l’avvocato Klaus Croissant (1931-2002) ne difese i fondatori, Ulrike Meinhof e Andreas Baader; condannato perché sospettato di aver favorito le comunicazioni interne fra i membri della RAF, nel luglio 1977 chiese asilo politico in Francia, ma fu arrestato e il 17 novembre, pochi giorni dopo la lettera di Cioran, consegnato alle autorità tedesche. Parlando di «intellighenzia locale», Cioran si riferì probabilmente a Jean-Paul Sartre e Michel Foucault, che si batterono a favore del suo rilascio. Estradato nel 1981 in Germania dell’Ovest, iniziò a lavorare per la Stasi.
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Parigi, 29 settembre 1979
Caro Signor Kraus, La mia lettera le arriverà quando sarà a Pompei, o in qualche posto lì vicino. Fa bene a viaggiare molto, il pericolo per ognuno è di perdere, come me, il gusto del viaggio. In tutta franchezza, non farei meglio ad andarmene da qualche parte all’estero, piuttosto che chiacchierare con la gente per ore di questioni frivole e insolubili, in questa città infernale? Oggi mi hanno chiamato dalla Germania, per una trasmissione sull’anno 2000. Ho accettato controvoglia, salvo poi disdire per lettera. Avevano bisogno d’uno… scettico. Avrei dovuto svolgere questa funzione. Quando si fanno delle concessioni, si corre il pericolo di diventare convenzionali o di credersi importanti. Per tutta la vita ho vissuto ai margini, adesso non voglio esercitare alcun ruolo, poiché ho la fortuna d’esser vecchio. L’altro giorno osservavo con sgomento un mappamondo. Paragonata alla Russia e agli altri Stati socialisti, l’Europa Occidentale è ridicolmente piccola; Israele, solo un puntino in seno all’Islam. Ero come annientato. “Noi” non abbiamo futuro – lo dico con un sentimento misto di perversione e serenità.
1. Aurel Cioran (1914-1997). 2. Virginia Cioran (1908-1966). 3. Pierre de Labriolle, La Réaction païenne. Étude sur la polémique antichrétienne du I au VI siècle, Parigi 1934 (II ed.: 1942).
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Parigi, 14 nov. 1977 Caro Signor Kraus, Tante grazie per la cartolina da New York e la lettera. Riconosco che gli Stati Uniti, se paragonati all’Europa, sono dotati di maggiore vitalità, persino sul piano culturale. Leggo regolarmente «The New York Review of Books». Eccellente, vivace, versa-
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Ieri sera mi trovavo a Montmartre (intorno a Pigalle) – l’immondizia, un’eruzione della Terra. Un campione di decadenza. Così dovette apparire Roma prima del crollo. Come può vedere, sono di un umore strano. La prego di scusarmi. La ringrazio molto per la lettera e la cartolina da Monaco. Tanti cari saluti Suo E. M. Cioran
ca e mondiale della Russia è la disgregazione interna dell’Europa Occidentale e, in parte, dell’America. Questo l’ho sempre saputo, al pari di tutti gli europei dell’Est. Sono contento che trovi il tempo di lavorare al suo libro, e le faccio tanti auguri per il nuovo anno. Tanti cari saluti da entrambi. Suo E. M. Cioran
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1. Cfr. E. M. Cioran, Il funesto demiurgo, tr. di Diana Grange Fiori, Adelphi, Milano 1995, p. 17: «Quale non sarebbe stata la sua [di Dio] longevità, se si fosse dato ascolto a un Marcione, di tutti gli eresiarchi colui che con maggior vigore si scagliò contro l’occultamento del male, e più d’ogni altro contribuì, grazie all’odio che gli tributava, alla gloria del dio cattivo!». Sempre Marcione sarà protagonista dell’incipit di Confessioni e anatemi, ultimo libro di Cioran, cui questi cominciò a lavorare pochi mesi dopo questa lettera.
Parigi, 30 nov. 1979
Caro Signor Kraus, La ringrazio molto per la lettera e la cartolina da Zurigo. Sono felice che il suo libro sia per 3/4 già pronto. Per favore, mi spedisca qualche capitolo, due o tre settimane prima del suo arrivo a Parigi. Il mio libro1 è ciò che si può definire un “successo”. I giornali (di destra e sinistra) lo hanno recensito in modo superficiale, alla maniera parigina. Uno scrittore normale sarebbe soddisfatto dell’accoglienza favorevole. Su di me, invece, tale clamore ha avuto un effetto deprimente. Essere attuali è, in fondo, una disfatta spirituale. Sono stato punito per aver previsto molto chiaramente l’impotenza dell’Occidente. Non ho nessuna voglia (almeno per il momento) di fare l’autore. A cosa serve ancora un altro libro? Sono stanco, esaurito, svuotato: esco tutte le sere, e questi inviti estenuanti mi hanno ridotto a uno spettro. Un mio vecchio amico è all’ospedale, gravemente malato. L’ho visitato di recente. Non sa di essere spacciato. Durante il nostro colloquio ha fatto ogni sorta di progetto, parlando unicamente del futuro. Una volta fuori, mi son detto che, in fin dei conti, noi siamo come lui, ossessionati dall’incurabile malattia delle illusioni. Sarò molto felice di poterla rivedere a gennaio. Arrivederci, i migliori auguri e cari saluti anche da Simone, Suo E. M. Cioran
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Venerdì santo, 4 marzo 1980 Caro Signor Kraus, Ieri sera, verso le dieci, sono uscito di casa; in piazza SaintSulpice la chiesa era illuminata. Sono entrato. Nessuno. Assolutamente vuota. Di solito, il giovedì santo la chiesa rimane aperta sino alle due di notte. Neppure un fedele. Ho pensato subito a lei, alle obiezioni di Etkind, che non sono le mie: egli è contro la religione per principio, anch’io lo sono, ma solo perché non possiede più forza vitale. Sono allo stesso tempo religioso e irreligioso. La cristianità è stanca, e io la odio a causa della sua stanchezza. La fede ha ancora una speranza? Nel mondo “libero” purtroppo no, salvo il caso di una dittatura atea su scala planetaria. Allora i suoi moniti e le sue speranze diventerebbero attuali e urgenti. Questa possibilità esiste. Ora mi occupo principalmente di psichiatria, per aiutare in qualche modo mio fratello. Il suo crollo mi ha scosso più di quanto pensassi inizialmente. Talvolta dico che egli ha tratto le conseguenze del mio stesso malessere. Ieri è stato qui da me Roberto Calasso, l’editore milanese (Adelphi)1. Gli ho parlato di lei e di Trude2. Mi ha detto che accoglierà Trude, dato che la casa editrice pubblica soprattutto scrittori austriaci. Una persona molto colta. Simone è andata in vacanza. Io non ho avuto il coraggio di lasciare Parigi; tutta la popolazione è in viaggio. Una nuova versione dell’inferno. Tanti cari saluti. Suo Cioran
1. Squartamento, pubblicato da Gallimard appunto nel 1979 [ed. it.: Adelphi, Milano 1981].
[8] Parigi, 2 gennaio 1980 Caro Signor Kraus, Dopo tanto tempo ho riletto l’Antico Testamento. Il libro di Giobbe e quello di Re Salomone mi hanno influenzato parecchio in gioventù! Quei due libri sono proprio inseparabili dai miei successi di allora. Simone Weil ha sferrato un attacco tremendo e penetrante al vecchio Dio e all’alleanza con gli ebrei, allontanandosi quindi del tutto dal giudaismo. Ciò che mi affascina di quel Dio e dell’alleanza – o meglio mi affascinava, poiché non sono più così entusiasta come allora – è l’incredibile provocazione. La sublime disinvoltura. Una religione limitata non poteva diventare una religione universale; tuttavia, attraverso la forte impronta nazionale, ha isolato gli ebrei dagli altri uomini, e così facendo li ha salvati, non spiritualmente, ma storicamente, come popolo. La reazione più vigorosa contro Jahvé la troviamo in Marcione, forse la figura più interessante della Gnosi. Quell’eretico è stato il punto di partenza del Funesto demiurgo…1 Sulla situazione non c’è più nulla da dire. Tutto quanto abbiamo sempre ripetuto è ora diventato innegabile. L’occasione stori-
1. La casa editrice Adelphi, diretta da Roberto Calasso, pubblicherà a partire dagli anni Ottanta la maggior parte dei libri di Cioran, promuovendo il pensatore romeno all’interno del panorama culturale italiano. Squartamento apparirà in edizione italiana nel 1981. 2. Gertrude Kothanek, compagna di Wolfgang Kraus.
[10] Parigi, 25 settembre 1980 Caro Signor Kraus, Detesto a tal punto Parigi da ritrovarmi sempre più spesso a Dieppe, non tanto per la città, quanto per i dintorni, che sono
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Sarò contento di rivederla a febbraio. La prego di scrivermi in tempo, per conoscere la data precisa del suo arrivo. Peccato che qui all’Istituto non sia stato nominato uno scrittore. Cordiali saluti e i migliori auguri per il nuovo anno da entrambi Suo Cioran
molto belli. Il clima non è adatto alla mia artrite (una malattia di famiglia), ma non si può avere tutto. Nichilismo è una parola che nasconde contenuti inconciliabili. In Russia, erroneamente, erano considerati nichilisti i radicali di sinistra e i terroristi del secolo scorso. L’appellativo era sbagliato, poiché erano tutti dei combattenti e credevano nella possibilità di un miglioramento, in un’utopica fase finale della storia, tramite la rivoluzione. L’autentico nichilista dovrebbe essere un puro rivoluzionario, che non si accontenta di capovolgere qualcosa, un distruttore passivo. Nel tardo buddhismo c’è una scuola filosofica, il Madhyamika, che corrisponde molto bene a un nichilismo rigoroso, anche se la frantumazione di tutti i concetti e categorie ha una finalità pratica: la liberazione. Un nichilismo assoluto, purtroppo, è impossibile. La diversità d’intendere il nichilismo è talmente vasta che non è possibile dare una seria definizione a tutto. Il nichilismo politico e quello metafisico, oppure quello teologico, hanno in comune solo il termine. Non ho l’onore di essere nichilista – tuttavia, nella mia vita, sovente ho conosciuto degli accessi o, per meglio dire, delle esplosioni di nichilismo. Invidio le sue giornate sul lago di Garda, mi piacerebbe tanto rivedere l’Italia, ma temo d’intraprendere un viaggio così lungo, a causa della mia dieta assurda. Attendo il suo libro e spero che avrà successo. Il traduttore dei miei libri sarà probabilmente Felix Ingold da St. Gallo, un romenista e slavista. Finalmente Simone è libera per sempre dalla scuola e le manda, come me, tanti cari saluti. E. M. Cioran
P.S. Un mese fa mi hanno chiesto di raccomandarle, per la borsa di studio a Berlino, lo scrittore romeno Ştefan Bănulescu (non conosco la sua opera, ma dicono sia valido). Pensa che abbia delle possibilità? Eliade1 lo appoggia, mentre io sono incapace di leggere romanzi, anche quando sono eccellenti. 1. Eliade conobbe Cioran nel 1932, di ritorno da un soggiorno in India. Figure di spicco della «Giovane generazione», entrambi si avvicinarono alla «Legione dell’Arcangelo Michele». Nominato addetto culturale da Antonescu, durante la guerra Eliade fu nella Lisbona di Salazar (cfr. Mircea Eliade, Salazar e la rivoluzione in Portogallo [1942], a cura di Horia Corneliu Cicortaș, Edizioni Bietti, Milano 2013), spostandosi in seguito a Parigi, dove venne ricevuto da Cioran, che qualche anno dopo gli fece da testimone di nozze. Nel 1957 si trasferì a Chicago, dove fu docente, fino alla fine dei suoi giorni. Nonostante qualche ambivalenza, i due rimasero amici sino alla morte di Eliade. Nel 1977, Cioran partecipò al Cahier de L’Herne dedicato allo storico delle religioni (tr. it. Mircea Eliade, in Esercizi di ammirazione, cit., pp. 129-142). Sul rapporto tra i due cfr. anche Mircea Eliade, Giornale, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 23, 27, 47, 173, 287, 307, 371, 382 ss.
[12] Parigi, 11 gennaio 1987 Caro Signor Kraus, Molte grazie per la sua gentile lettera, che contiene tante cose positive. Lei fa progetti, io non ne faccio più. Temporaneamente – in linea di principio per sempre – ho rinunciato a scrivere altri libri. Il mio, speriamo sia l’ultimo, è appena stato pubblicato1. Non ho veramente più alcuna voglia d’attaccare Dio, il mondo e… me stesso. Leggo molto – come sempre, in fondo – e ciò mi stupisce. La curiosità è un segno di vitalità. Il mio stato di salute non è particolarmente brillante. La memoria funziona male (questa è la vecchiaia) e lo stomaco non mi soccorre. La morte di Eliade naturalmente mi ha colpito molto, ma meno di quanto pensassi. Avevamo sempre meno cose in comune. Era diventato una “personalità”. La Romania sta superando l’inferno. Questo è senz’altro un successo. In un certo senso, non è un caso che io provenga da quel popolo. Invidio lei e Trude che potete vivere a contatto diretto con l’Ungheria2. Ho sempre ammirato quel Paese per il suo fascino. – I mass media sono sicuramente una catastrofe per l’Occidente, ma la causa reale è più profonda e incurabile. Non c’è salvezza per una civilizzazione che non crede più in se stessa. Posso azzardare una profezia? Tra cinquant’anni Notre Dame sarà una moschea. Sarò molto contento di rivedervi prima dell’estate. Cari saluti a lei e Trude anche da Simone Suo Cioran
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Dieppe, 9 dicembre 1980 Caro Signor Kraus, Anch’io ho il mio M.A.E., anche senza andare in ufficio, solo che le visite di persone poco interessanti sono forse peggiori (per fortuna ce ne sono altre piacevoli, come risarcimento). Sono contento che alla fine si sia, almeno in parte, liberato dai vincoli della carica di funzionario. E il suo libro? I colleghi al Ministero devono aver fatto una faccia irritata. Per il resto, come è stato accolto il libro? Spero abbia avuto recensioni buone e libere da pregiudizi. L’atteggiamento degli intellettuali (Baudrillard e altri) era prevedibile. Tutta questa gente, ad esempio, era a favore della Cina durante la Rivoluzione Culturale, ovvero durante il terrore organizzato. Da quando il regime cinese si è ammorbidito ed è diventato pro-occidentale, questi ammiratori professionali della violenza in nome dell’utopia sono rimasti completamente delusi. Per loro Stalin era un semi-Dio, o addirittura un Dio, solo perché era un boia con pretese ideologiche. Il fanatismo e l’intolleranza hanno un fascino irresistibile sui discendenti dei giacobini. Posso ben capire che a vent’anni ci si possa entusiasmare per certi estremismi, ma che vecchi intellettuali (Sartre, Althusser, ecc.) si ergano ad avvocati del totalitarismo, mi pare quasi inconcepibile. Giorni fa ho avuto una conversazione intima con Sperber e consorte su ogni sorta di problema, tra l’altro sulle ragioni organiche e psichiche della mia tetra visione della vita. Entrambi mi hanno rivolto tutte le domande possibili, cui ho risposto francamente. È stata una specie di gradevole confessione.
1. Confessioni e anatemi, pubblicato l’anno prima per i tipi di Gallimard. 2. Dal 1986 al 1994, Gertrude Kothanek diresse l’Istituto Austriaco di Cultura di Budapest.
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L’India e l’Occidente di Mircea Eliade
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losi. Al contrario, non abbiamo forse motivi per ritenere l’India superiore all’Occidente? Ai tempi in cui l’Europa brancolava ancora nella semioscurità dei concetti, in India Panini scriveva una formidabile Grammatica, monumento geniale, forse la più alta produzione dello spirito umano (Stcherbatsky). Dobbiamo capire, però, che vi sono differenze insormontabili, fondamentali e strutturali, tra India ed Europa. Certo, è rischioso generalizzare schematicamente i tratti dello spirito asiatico. Eccezioni, oscillamenti, salti e sterzate verso assi estranei – avvengono anche in India. Ma le dobbiamo osservare con molta attenzione, per non confonderle con le analoghe esperienze europee. Valga come esempio il problema del materialismo filosofico indiano. Dai semplici e superficiali Nastika (i quali dicono “no” dinanzi a qualsiasi affermazione che non sia basata sui sensi) alla dialettica Samkhya e al buddhismo: quante differenze, quante sfumature, quanti retroscena! I materialisti indiani (Lokayata o Carvaka), presenti già dal periodo epico, hanno sempre costituito un’evidente minoranza. “Materialisti”, nel senso europeo della cultura, quasi non ce ne sono. Perfino coloro che negano un’anima avente un sostrato animico, come i buddhisti, accettano e praticano tutta una serie di dottrine ed esperienze che non sono materialiste (il problema è discusso nel mio studio Linee di orientamento nel materialismo asiatico, in cui sono raccolte e tradotte fonti indiane, persiane e cinesi2).
li echi delle polemiche e delle discussioni su Oriente e Occidente sono appena stati ridotti al silenzio. Si parlava di un’influenza fatale dello spirito asiatico – in particolare di India e Cina – sullo spirito occidentale. S’intentava, addirittura, una difesa dell’Occidente1. Il problema è mal posto. Un’influenza “diretta” dell’Asia sulla massa intellettuale europea è infatti impossibile. Quel che circola nei salotti e nei giornali con insegne orientali è soltanto un gradevole miscuglio di origine teosofica. L’Asia è inaccessibile alla maggioranza degli intellettuali europei. Tutte le nostre interpretazioni delle religioni e delle filosofie orientali sono dubbie. Perfino i più consacrati indologi incappano talvolta in grossolani errori di comprensione. I casi recenti del professor Louis de la Vallée Poussin – che suddivide la storia del buddhismo secondo uno schema utilizzato per la Chiesa Romano-Cattolica – e del professor Arthur B. Keith, che ritiene il buddhismo primitivo una credenza e una pratica magica – quando in realtà è tutt’altro – sono piuttosto eloquenti. L’orientalizzazione di una certa classe d’intellettuali europei non è che improvvisazione e adattamento. Perfino gli “Amici dell’Oriente” – di Parigi o di chissà dove – si nutrono di traduzioni ed estratti manipolati. È difficile conoscere l’Asia. Essere influenzati dallo spirito asiatico puro è quasi impossibile, per un motivo molto semplice: lo spirito asiatico consiste in alcune esperienze fondamentali, non in dottrine. Queste ultime sono solo l’espressione condensata di lunghe pratiche spirituali, che pochissimi europei possono realizzare. Parlare di un’India “barbara”, di un’Asia “socializzata”, di una Cina “primitiva” – vuol dire ripetere l’errore dei turisti fretto-
Esiste una spiritualità occidentale. Ma essa appartiene solo ai ceti dell’élite. Ed è solo una visione concettuale dell’Universo e dell’Uomo. Raramente gli europei sperimentano quotidianamente ciò che affermano per iscritto o nelle proprie conversazioni. Un’esperienza spirituale propriamente detta è rinvenibile
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proprio per i suoi lati negativi. L’operazione è tuttavia rischiosa, perché vi s’incontra quell’enigmatico istinto dell’India che risponde al nome di Nirvana. È a questo concetto che si deve la maggior parte delle pseudo-interpretazioni e dei travisamenti europei. Il primato dello spirituale è reale e universale. Lo spirituale si sperimenta, non si discute. In un certo senso, il problema dell’anima è intimo, personale. Qui l’individuo si salva con i propri mezzi e sforzi. Il maestro gli mostra la via, attraverso fatti concreti e la rivelazione delle verità nascoste. Ma la liberazione è generata da sforzi continui, rigorosamente disciplinati, che durano decine d’anni. A un europeo istruito questa “liberazione” potrà sembrare una chimera. L’India è però ossessionata da una libertà dell’anima nell’assoluto, un’auto-contemplazione che trascende spazio e tempo. Del resto, in Europa come in Asia, è quando la coscienza ravvisa l’illusione amara del tempo che la sete di assoluto diventa violenta. Tutto per l’anima. Da qui un disprezzo per quell’attività che non è subordinata alla sua liberazione. Tutti conoscono i testi classici della Bhagavad-gita. Per gli indiani, l’anima è d’altronde al di sopra delle possibilità d’agire. La mente (buddhi) agisce per suo mezzo. Dice Shankaracarya: «Per i folli l’anima sembra attiva, mentre in realtà solo i sensi sono attivi; esattamente come la luna sembra muoversi, mentre sono le nuvole a passare» (Atma Buddha Prakasika, I, 19). Davies paragona la concezione dell’anima in India (riferendosi al Samkhya) a quella del monarca orientale, invisibile e tuttavia servito da tutti. La vita è offerta all’anima: non certo, però, per parlarne o scriverne. Tale è l’India; e non abbiamo motivi per collocarla al di sotto o al di sopra dell’Europa, bensì accanto a essa. Altri gli istinti, altre le nostalgie, altro il ruolo delle masse. Per questo reputo gratuiti l’entusiasmo e la propaganda di una “vita spirituale” indiana. Pochissimi europei avrebbero il coraggio di sperimentarla nella sua purezza. Per gli assetati di spiritualità, anche in Europa si trovano parecchie sorgenti. Calcutta, 82 Ripon Street, 6 febbraio 1929
solo tra i cosiddetti “mistici” europei: tutti coloro che praticano e predicano una “realizzazione”, una sperimentazione nel corpo – vale a dire nell’esistenza concreta e non nel gioco della mente – della “verità”, sono classificati come mistici. L’Europa è caratterizzata da una doppia personalità: quella del pensatore e quella dell’uomo d’azione. Il primo scrive libri, tiene corsi universitari, è parte della cosiddetta “atmosfera culturale” della sua città o del suo Paese; l’altro è un comune mortale, con miserie e invidie ordinarie. Il professore di filosofia, quando seppellisce uno dei propri figli, dimentica di essere materialista o idealista; piange, si agita, va in chiesa – come qualsiasi individuo anonimo. In India è tutt’altra cosa. Qui non c’è iato tra dottrina e vita. Questa osservazione è già stata fatta, ma è impressionante ed emozionante constatarla personalmente. La vita spirituale ricopre qui un ruolo di grande peso. E non è solo quel che si usa chiamare “vita contemplativa”; è anzi una fatica dura, arida e senza fine, che comprende pratiche fisiologiche, dialettica, meditazione e Yoga. Tutti i sistemi e le mistiche indiane – a eccezione dell’ortodossia Mimamsa e del materialismo (Carvaka) – contengono una parte di Yoga. Si può dire dunque che tutte le filosofie indiane contengano un elemento mistico fondamentale. Sennonché, sul significato del termine “mistico” in India dobbiamo essere molto prudenti. In Europa, misticismo vuol dire amore e conoscenza sperimentale di Dio. In India significa anche questo, ma include parimenti qualsiasi attività sovrarazionale. Esistono anche mistiche senza Dio, come il buddhismo. Non so quale potrebbe essere lo scopo della vita per gli europei; di soluzioni ne sono state date, e in gran numero. In India, invece, predomina indubbiamente un unico fine: la liberazione. Siano essi monisti (come i vedantici) o dualisti (come il Samkhya), teisti (Yoga) o atei (buddhismo), tutti riconoscono di avere come fine della propria esistenza la liberazione spirituale dall’esistenza. Ciò può sembrare paradossale. In India è naturale, però, l’uso del male contro il male. La materia, il non io, è per i vedantici illusione; lo scopo è l’elevazione dell’anima e la sua fusione nel Brahman. Se è vero che su questo Brahman molto ci sarebbe da dire, tutti riconoscono che esso trascende l’esistenza fenomenica. La Materia (Natura, prakriti) è altrettanto reale dell’anima, nella concezione della filosofia Samkhya; scopo della vita è il distacco completo dell’anima dalla materia, tramite la conoscenza. Gli esempi possono essere moltiplicati. La vita è sofferenza. Si capisce come questa verità non possa raggiungere una condivisione universale e incontestata, tranne che in un Paese in cui la problematica dell’anima e le sue leggi sono predominanti. Pessimismo? Non credo possano chiamarsi pessimiste quelle dottrine che affermano e predicano i mezzi di salvezza, ammettendo una “felicità” finale. Su questa “felicità” suprema si possono inoltre fare molte osservazioni interessanti,
“ Per gli assetati di spiritualità, anche in Europa si trovano parecchie sorgenti ”
1. Riferimento al libro di Henri Massis Défense de l’Occident, dato alle stampe due anni prima e recensito da Eliade su «Cuvântul» del 2 ottobre 1927 (N. d. T.). 2. Lo studio menzionato da Eliade nel saggio non venne mai dato alle stampe (N. d. T.). [India și Occidentul, in «Cuvântul», 8 marzo 1929, ora in Mircea Eliade, Erotica mistică în Bengal, a cura di Mircea Handoca, Ed. Jurnalul Literar, Bucarest 1994, pp. 22-26]
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Ioan Petru Culianu: un’amicizia e alcuni non-incontri di Andrei Pleșu
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avevano palesemente il segno del fenomenale. Lavorava con rapidità e intensità, con una capacità di concentrazione che si poteva mantenere alta, senza interruzione, per giorni e notti. Per un certo periodo, mi capitò di alloggiare nella sua stanza in via Turda a Bucarest, la quale era di una completa precarietà: priva di riscaldamento in pieno inverno, con un solo letto occupato totalmente da libri (sicché dormivamo per terra) e senza le comodità fondamentali di una casa minimamente governata. Néné aveva l’aria di non mangiare mai; talvolta, lo potevi sorprendere a bere un po’ di latte e miele. Una notte, lo vidi seduto nella posizione del “loto” davanti alla macchina da scrivere, per ultimare la sua tesi di laurea: un testo su Giordano Bruno, scritto di getto, direttamente in italiano, a tempo di record. Ciononostante, era molto ospitale. Io e la mia fidanzata dell’epoca ci sentivamo protetti dalle sue cure come da quelle di un fratello maggiore, anche se in realtà gli “anziani” eravamo noi. La sua partenza definitiva mi ha toccato, ma non sorpreso. Ho sempre sentito che apparteneva a un altro contesto, che doveva evolvere su una scala più ampia. Mi dispiacque però l’arresto improvviso di un dialogo che non aveva avuto il tempo necessario per svilupparsi ed esaurire le proprie potenzialità. Il nostro incontro era stato estremamente vivo, ma restava affrettato, incompiuto. Ne è dimostrazione l’interruzione di ogni comunicazione fino al maggio del 1977 quando, da borsista Humboldt a Bonn, ricevetti da Culianu la prima di tre lettere, nella quale, con tono vagamente nostalgico, auspicava la possibilità di un incontro: avrebbe potuto tentare una breve visita, sulla strada verso “casa” (ovvero Milano). La lettera di giugno, più interessante, spiegava però l’impossibilità dell’incontro annunciato a maggio. Tra Groningen e Milano, non aveva più modo di passare da Bonn. Seguì un altro silenzio, durato sei anni. La terza lettera mi trovò a Heidelberg, invitatovi dalla
oan Petru Culianu (Iași, 1950-Chicago 1991), storico delle religioni, pensatore e scrittore romeno, dopo una laurea sul Rinascimento italiano conseguita all’Università di Bucarest, nel 1972 ottiene una borsa di studio in Italia, dove gli viene concesso l’asilo politico a causa della dittatura di N. Ceaușescu. Si stabilisce a Milano, dove si specializza in Storia delle religioni con Ugo Bianchi. Dal 1976 è docente di Romenistica presso l’Università di Groningen, in Olanda. Nel 1986 viene chiamato all’Università di Chicago, dove insegnerà fino alla fatidica data del 21 maggio 1991, quando verrà brutalmente assassinato per motivi e da esecutori tuttora ignoti. Discepolo e collaboratore di Mircea Eliade, Culianu si distinse per l’audacia delle teorie e il non-conformismo accademico, nonché per il suo costante interesse per la magia. Tra i suoi saggi: Iter in silvis. Saggi scelti sulla gnosi e altri studi (Messina, 1981), Esperienze dell’estasi dall’ellenismo al Medioevo (Roma-Bari, 1989), Eros e magia nel Rinascimento (Torino, 2006) e I viaggi dell’anima: sogni, visioni, estasi (Milano, 1994). Horia Corneliu Cicortaș
*** Quando ci conoscemmo, Néné Culianu era al penultimo anno di università e io al primo dopo la laurea. Come mi fu chiaro sin dal principio, il mio giovane amico era più maturo di me: a contraddistinguerlo erano una formazione solida, una disciplina interiore incorruttibile e una vocazione ormai salda. Allo stesso tempo sembrava timido, quasi schivo. Ci univano alcune domande “assolute” (cioè poste in modo definitivo, à la russe) sull’Assoluto. Come dire, brancolavamo nello stesso mistero… Quanto a me, ero stupito dalle sue letture e da certe sue doti che
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causa del mio (dis)orientamento, non era più un interlocutore. Dopo il 1983 ricademmo nel mutismo, fino alla sua inammissibile fine, essa stessa così “eliadiana”, in fin dei conti… Quanto alla corrispondenza, mi scrisse ancora una volta, nel 1989, ma, per via della mia situazione in quel momento4, la lettera non giunse a destinazione. La lessi più tardi, pubblicata postuma nel volume Il peccato contro lo spirito5, e fui molto toccato dalla solidarietà fraterna che Néné scelse di esprimermi in quel momento difficile della mia vita. Ricordo un altro episodio della nostra giovinezza bucarestina, che coinvolse anche George Bălan6. A ridosso degli anni Sessanta e Settanta, il musicologo riempiva sempre le sale all’Ateneo Romeno, con conferenze molto apprezzate, soprattutto per una certa piccante sovversione mistica. Bălan possedeva una buona (e, per quel periodo, rara) biblioteca nella sua casa a Sinaia. Mossi dal desiderio acuto per quei libri, io e Néné andavamo, di tanto in tanto, a studiare lì, col permesso del maestro che, in cambio, ci chiedeva di tradurre in romeno per i suoi discepoli alcuni testi di Rudolf Steiner. Néné affrontava, con la sua straordinaria abilità, venti o trenta pagine ogni mattina – il che mi faceva vergognare. Non condividevamo le opinioni del padrone di casa e talvolta nascevano polemiche. Un giorno, la tensione tra Bălan e Néné si spinse sino al parossismo. «Fermiamoci!» disse Néné. «Fermiamoci prima di provocare gli spiriti della casa!». Un istante dopo, una delle lampadine della stanza in cui ci trovavamo scoppiò. Era inevitabile che George Bălan finisse nel mirino della Securitate. In circostanze che non ricordo bene, si pose il problema di un’azione comune in suo sostegno. Néné vi meditò a lungo e, durante una passeggiata nel parco Cișmigiu, mi disse: «Non m’immischio. Non è la mia guerra!». Successivamente, mi colpì, nella sua lettera del giugno 1977, la ricomparsa del tema della guerra: Néné si sentiva «alla vigilia di chissà quale battaglia». Mi chiedo ancora oggi quale fosse questa sua guerra. Non ho una risposta certa. Ma è chiaro che il mio amico era impegnato in una crociata tragica, la cui posta in gioco mi sfugge, e nel cui vortice avrebbe trascinato la sua stessa vita.
stessa fondazione Humboldt, in un momento in cui, in patria, ero diventato disoccupato, come conseguenza della confusa storia della “meditazione trascendentale”1. Le autorità romene mi avevano fornito un passaporto col chiaro suggerimento di commutare la borsa di studio in esilio permanente. Néné, con tono pragmatico e cordiale, predispose un incontro in Germania che, questa volta, ebbe finalmente luogo. Venne a Heidelberg da dove, insieme a Gabriel Liiceanu, partimmo verso Parigi, dove avrei conosciuto i coniugi Ierunca2, ai quali Néné aveva preannunciato telefonicamente il nostro arrivo: «Je vous apporte des primeurs»3. In quell’occasione trascorremmo molto tempo assieme, spesso trattenendoci in lunghe conversazioni. Stranamente, sebbene ci trovassimo finalmente faccia a faccia, come desideravamo da tanto, “l’incontro” non si era realmente verificato: il contatto, anziché rinnovarsi e arricchirsi, era sprofondato. Nel 1977, pur non potendo vederci, eravamo ancora “uniti”: Néné sembrava insicuro, sospeso fra due mondi dalle cui “determinazioni” contraddittorie non era riuscito, sino ad allora, a sfuggire. Io, a mia volta, oscillavo tra il destino del ritorno e un eventuale esilio, privo di qualsiasi chiarezza sul piano professionale, nell’attesa febbrile di una sorpresa redentrice. In breve, eravamo entrambi infelici: avevamo di che parlare… Ricordo che, durante una conversazione telefonica, Néné mi disse, improvvisamente, qualcosa in sanscrito. Non capii nulla. Infatti, dopo un inizio comune nel campo degli studi orientali a Bucarest (conservo ancora la grammatica di Simenschi, che Néné mi aveva regalato), a differenza sua, io non avevo fatto progressi sul piano filologico. Mi resi conto che il mio vecchio amico mi aveva messo alla prova e che io avevo perso. Eppure, anche così, eravamo sempre noi, quelli prima della separazione: condividevamo riferimenti comuni e un certo piacere del gioco dialettico, con tutte le sue regole. Nel 1983, le cose erano cambiate. Néné si era “normalizzato”, si era integrato. Quando cercavo di riprendere i nostri dibattiti sull’“Assoluto” dal punto in cui li avevamo lasciati, mi rispondeva, sorridente, che non aveva più tempo per questo genere di domande. Si offriva, invece, di consigliarmi metodi sicuri per un inserimento negli ambienti accademici occidentali, nell’eventualità – auspicabile, dal suo punto di vista – in cui avessi desiderato non tornare più in Romania. L’interiorizzazione schiva di prima era diventata, ormai, una serenità stabile. Néné si presentava bene, à l’aise, aveva un simpatico e discreto accenno di pancia. Non vorrei si pensasse che stia spianando il terreno per un contrasto romantico tra lo studioso “arrivato”, sistemato e, sottinteso, coi piedi per terra da un lato, e lo “spirito” ancora giovane del ricercatore tenebroso della provincia danubiana dall’altro. Di pancia, grazie a Dio, ne avevo un po’ anch’io. Ma io avevo fatto meno progressi, lui di più – io in una direzione, lui in un’altra. In poche parole, non brancolavamo più nello stesso mistero. Néné stava ripercorrendo – o almeno così mi sembrava – i passi del suo maestro Mircea Eliade: aveva ceduto a un certo conformismo universitario dopo aver debuttato, come lui, nel nome di una folgorante autenticità. Ebbene, io avevo creduto che Néné avesse avuto la grande opportunità di incominciare là dove Eliade si era fermato e che, proprio per questo motivo, a lui fosse destinato un “decollo” più ampio e alto. Allo stesso tempo, percepivo nella costruzione intellettuale del mio amico una dimensione ormai tutta sua, proveniente dall’apertura, per me enigmatica, alle ultime novità tecnologiche (come gli spazi virtuali, internet, ecc.). Le sue ricerche assumevano, nella mia lettura, un’insolita sfumatura fantascientifica. Ancora una volta, Néné mi stupiva, conservando la sua “fenomenalità” ma, probabilmente a
1. Nel 1982, a seguito di una sorta di “mini-rivoluzione culturale”, centinaia d’intellettuali furono licenziati e perseguitati, con la scusante che il movimento della meditazione trascendentale, incentrato sulle tecniche di rilassamento rese celebri dal maestro Maharish Mahesh Yogi (e introdotte in Romania da un ingegnere emigrato in Francia), avesse obiettivi sovversivi. In realtà, non era che un pretesto sfruttato dai vertici del regime politico di Ceausescu per mettere a tacere personalità potenzialmente scomode. 2. Virgil Ierunca e sua moglie, Monica Lovinescu, grandi personalità dell’esilio romeno, fecero parte, con altri, della redazione di Radio Europa Libera. 3. «Vi porterò delle primizie». 4. Alla fine degli anni Ottanta, l’autore manifestò la propria solidarietà al poeta dissidente Mircea Dinescu, mentre questi si trovava agli arresti domiciliari. 5. I. P. Culianu, Păcatul împotriva spiritului: scrieri politice, Nemira, Bucarest 1999 (pubblicata successivamente, come tutti i titoli di Culianu, da Polirom). 6. Il musicologo George Bălan (1929) fu un’importante figura culturale nella Bucarest postbellica. Dal 1977 si stabilì in Germania, dove fondò la scuola di Musicosophia, che si diffuse in tutta Europa. [Ioan Petru Culianu: o prietenie și cîteva neîntîlniri, in Ioan Petru Culianu. Omul și opera, a cura di S. Antohi, Polirom, Iași 2003, pp. 88-91]
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Dossier Papini-Eliade /1
Mircea Eliade e Giovanni Papini, una “corrispondenza” spirituale di Liviu Bordaş
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Un altro aspetto poco conosciuto che accomunò i due fu l’attenzione giovanile per lo spiritualismo, l’occultismo e l’esoterismo. Il maestro del giovane Eliade cercò, a un certo punto della sua vita, «la verità attraverso la via mistica e occulta», praticando la magia e l’ascetismo, oppure assistendo a sedute spiritiche. Come accadde con Hasdeu, allorché il suo interesse per l’occultismo divenne più raffinato, Eliade prese le distanze da questo aspetto biografico di Papini. Più avanti parlerà di «una breve crisi di misticismo, contraddistinta da un teosofismo eclettico congiunto a un occultismo frettolosamente assorbito, tipico dei neofiti»2. In queste parole troviamo svariati riferimenti biografici, come d’altra parte in molte altre delle pagine dedicate a Papini. L’aspetto che più influenzò lo studioso romeno fu il “pragmatismo magico” papiniano. La sua ammirazione per la volontà, la virilità e l’eroismo trovò infatti un modello nello scrittore italiano. Per il giovane Eliade, il fatto di esercitare la propria volontà giocò un ruolo più che virile, potremmo dire, tantrico – anticipando quelli che in seguito sarebbero stati i suoi interessi – e ascetico. Nel suo romanzo Gaudeamus affermò come unica verità il fatto che «se si possiede una volontà temprata, è possibile permettersi ogni esperienza, ogni vizio, voluttà e smarrimento… dopo essersi tuttavia realizzati interiormente, cioè dopo aver illuminato la propria coscienza virile»3. L’eroismo, la volontà, il “pragmatismo magico” papiniano, Rudolf Steiner, l’occultismo e lo yoga – tutti questi elementi verranno inseriti nelle sue Memorie sotto la stessa insegna4. È a partire dall’autunno del 1926, allorché Eliade divenne redattore della rivista «Cuvântul», che appare sempre più nei suoi scritti l’opposizione tra razionalismo e intellettualismo da un lato e spiritualità e mistica dall’altro – con una netta preferenza per le ultime due. Tale dicotomia non si presenta solo nella definizione delle caratteristiche dell’esperienza religiosa e cristiana – oppure quando si tratta di definire i rapporti tra Oriente e Occidente o fra le religioni della salvezza personale e le religioni di Stato – ma anche nei ritratti eliadiani di Papini e Buonaiuti, nonché nell’analisi di taluni personaggi letterari come Jérôme Coignard, l’eroe di Anatole France.
’ammirazione e l’interesse di Mircea Eliade nei confronti di Giovanni Papini sono ben noti, a partire da quando, da giovane, volle attribuirsi l’epiteto di “papiniano” – molto più legittimo di quello “gidiano”, conferitogli più tardi. Le pagine che consacrò allo studioso fiorentino (dai saggi alle traduzioni, dalle rassegne letterarie alle interviste e memorie) potrebbero costituire un libro piuttosto interessante, al quale andrebbero poi aggiunte le rispettive lettere e dediche. Per comprendere al meglio i rapporti tra i due, occorre inserire il loro dibattito nel contesto di quello che fu il “papinismo” della Romania interbellica, corrente che ebbe altri rappresentanti (tra cui George Călinescu ed Eugène Ionesco), il cui interesse fu tuttavia di breve durata. Eliade non fu il primo né l’ultimo tra i romeni ad aver preso contatto con il maestro fiorentino, come attestato dall’abbondante corrispondenza contenuta nel suo archivio. La traduzione del libro autobiografico Un uomo finito, approntata da Călinescu nel 1923, rappresentò l’inizio del papinismo in Romania. La lettura di questo testo, scrisse Eliade, «cadde [su di me] come un fulmine»: il giovane romeno lo lesse più volte di seguito, dall’inizio alla fine, durante gli ultimi anni del liceo. Se Papini gli rivelò la propria anima, al contempo lo spinse a differenziarsi da lui. Non si tratta di un paradosso: sebbene Eliade avesse preso le distanze dall’intellettuale italiano, per non diventarne una mera copia, nondimeno Papini restò per lui un maestro, le cui opere cercava e divorava freneticamente. Pur scegliendo di non essere come Papini, insomma, Eliade lo seguì attentamente, per tentare quei voli che il «pilota cieco» non osò spiccare – sebbene avesse avuto la possibilità di farlo. Papini giocò un ruolo importante nel destino di Eliade, non solo per aver incarnato un vero e proprio modello agli occhi del futuro intellettuale, ma anche per avergli dischiuso gli orizzonti della cultura italiana: Eliade imparò l’italiano per leggere le opere del maestro. Fu così che scoprì due di quelle che diventarono in seguito passioni durature: la filosofia del Rinascimento e la storia delle religioni1. Ma non si deve nemmeno sottovalutare l’influenza, forse meno nota, che ebbe Dante sui suoi scritti letterari del secondo dopoguerra.
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(e non è un caso che gli eroi del romanzo Maitreyi discutano di «virilità, Walt Whitman, Papini e gli altri»11). Verso la fine dell’anno, nel kutir di Svarga Ashram, tra i maestri himalayani, ordinò dall’Italia il Sant’Agostino del suo maestro fiorentino, da poco pubblicato12. Dopo il ritorno da Rishikesh, Eliade iniziò un romanzo, Vittorie, palesemente influenzato da Un uomo finito. I due eroi principali, David Dragu (che rivela tratti evidenti dell’autore) e Pavel Anicet (che cela chiaramente la figura del suo amico Haig Acterian, che gli fece scoprire Papini), altro non sono che la trasfigurazione letteraria di Papini e Prezzolini. Un buon numero di pagine del romanzo, il cui progetto fu abbandonato, venne ripreso in Ritorno al paradiso (1934), nel quale – come certa critica ha giustamente sottolineato – permangono echi papiniani. Sulla strada verso la Romania, nel dicembre del 1931, Eliade fece tappa a Venezia, dove acquistò gli ultimi libri di Papini, ricollegandosi così al proprio passato. Subito dopo esser tornato a Bucarest, scrisse un articolo su Gog. Successivamente, fino al 1940, dedicò a Papini uno o due articoli all’anno. Nel 1934, confessò di aver letto almeno tre volte i trenta volumi della sua opera, oltre a numerose biografie. Sebbene lo studioso romeno, ammiratore del “primo Papini”, si sentisse da lui diviso da «idee, temperamento e princìpi religiosi o morali»13, resta pur vero che continuò ad amarlo per tutto ciò che rappresentava. Ma fu un amore silente, poiché non gli scrisse più e nemmeno gli mandò quanto stava scrivendo su di lui. Durante la guerra, Eliade non si occupò di Papini: iniziò a leggere nuovamente i suoi libri solo a partire dal 1947. Soltanto più tardi riallacciò i contatti epistolari. Dapprima gli scrisse una lettera “ufficiale” per invitarlo a diventare socio onorario del parigino Centre Roumain de Recherches, senza tuttavia – a quanto pare – ricevere risposta. Un anno dopo, Papini rispose positivamente all’invito a collaborare alla «Revue de culture européenne», pubblicata a Parigi da Ștefan Racoceanu (alias Sten Melry), un amico di Eliade cui questi aveva suggerito di invitare lo studioso fiorentino. Ben presto gli scrisse di nuovo, questa volta da Roma, per chiedergli un incontro e un’intervista. Nella sua risposta, Papini si rivolse a lui con queste parole: «Lei è, oggi, ciò che Frazer è stato per la generazione più vecchia». Si trattò di un grande riconoscimento per lo studioso romeno, che a sua volta considerava il suo corrispondente come un maestro della propria adolescenza. Eppure, la lettera esprimeva un complesso di accettazione-repulsione, esattamente come era avvenuto col giovane Eliade nei confronti di Papini. Leggendo la lettera dello scrittore fiorentino contenente il riferimento a Frazer, Eliade dovette ricordarsi – dopo le svariate letture di Un uomo finito – di come il suo interlocutore avesse meditato di scrivere una storia religiosa dell’umanità a guisa di commentario anti-frazeriano della Bibbia. L’incontro ebbe luogo il 17 maggio 195214. Pubblicata sulle colonne de «Les Nouvelles littéraires», l’intervista verteva su argomenti religiosi. Probabilmente non si trattava di una riproduzione esatta della conversazione, quanto piuttosto di una sua rielaborazione, giacchè Papini gli scrisse ch’essa «svolge alcuni temi che abbiamo soltanto toccati nel nostro colloquio». Uno degli argomenti trattati era la virtù posseduta dal cristianesimo di modificare la storia e la natura umana. Parlando del progetto dell’opus magnum papiniano, il Giudizio universale, Eliade notò come il suo «senso nascosto» risiedesse nella buona novella dell’apocatastasi, l’assoluzione finale degli uomini – anche se
Le prime tre lettere indirizzate a Papini, spedite agli inizi del 1927, testimoniano in maniera piuttosto eloquente l’ammirazione per il maestro italiano, nonché l’attesa febbrile di conoscerlo personalmente. Il loro incontro, avvenuto a Firenze il 24 aprile 1929, ruotò attorno al concetto di misticismo. Eliade confessò a Papini di sperare di vedere pubblicato il più rapidamente possibile il suo Uomo rinato (scritto nel 1923 ma apparso solo dopo la sua morte con il titolo de La seconda nascita), opera che considerava come «la soluzione a un problema che le élites avrebbero dovuto porsi, vale a dire la misura in cui l’esperienza mistica sia necessaria alla coscienza contemporanea». A questo proposito, vale la pena riprodurre la discussione in cui Papini gli chiese in che termini intendesse questa funzione dello spirito: «– Cosa intende per misticismo? – Una vita interiore ricca e una sua organizzazione al di fuori delle categorie delle facoltà razionali. – Non è sufficiente. Anche Kant ebbe una vita interiore complessa e intensa, ma non per questo fu un mistico. Persino i teosofi e gli antropologi, che non sono dei mistici allo stato puro, sono dotati di una vita interiore organizzata al di fuori delle facoltà razionali. – L’unione con la divinità, allora… – Sì, è proprio questo. L’esperienza mistica è la trasformazione dell’uomo in Dio»5. È in questo periodo che l’interesse di Eliade per magia e occultismo cede il passo a quello per la mistica. L’ultimo dei quattro articoli su Papini – che Eliade allegò alla sua prima lettera – insiste visibilmente sulla conversione e sul misticismo del maestro fiorentino6. Nella seconda missiva, Eliade si dichiara «un sincero mistico», addirittura «molto più mistico di Gian Falco» (pseudonimo giovanile utilizzato dal suo corrispondente). Tornato nel proprio Paese, Eliade gli scrisse ancora, in merito alla costituzione di un’«associazione di studi religiosi e mistici» a opera di un gruppo di studenti dell’Università di Bucarest. Meditò di scrivere una storia comparata della mistica7 e annunciò, nella serie di articoli Itinerario spirituale, il completamento di un Preludio a un’estetica mistica, pronto per essere pubblicato8. Eppure, contrariamente al suo maestro, Eliade non si lasciò coinvolgere drammaticamente dalla magia né dalla mistica. Si limitò a utilizzare le loro modalità di azione spirituale, integrandole all’interno del processo di costruzione della propria personalità. Uno dei testi più significativi per comprendere la sua “ideologia” del tempo è Apologia della virilità (1928), del quale una delle fonti principali è lo scritto papiniano Maschilità, datato 1915. Prendendo le mosse dalla sintesi di dionisismo e cristianesimo, Eliade propone un nuovo tipo di virilità legato alla vita spirituale quale principale tratto di un’umanità rinnovata. L’idea di questo nuovo umanismo è basata sulla “personalità”, intesa alla stregua di un organismo spirituale costituito tramite la concreta esperienza interiore, che trascende e sopravvive all’elemento fisiologico. Non deve pertanto sorprenderci che l’interesse di Eliade per Papini continuò durante il suo soggiorno in India, a partire dalla fine del 1928. Fu lì che il giovane scoprì come la sua idea di “virilità” avesse un equivalente nel concetto di vajra proprio al buddhismo Mahâyâna, il quale indica una coscienza pura ma anche l’organo riproduttivo maschile9. Nel corso dei tre anni passati in India Eliade non dedicò alcun articolo a Papini. Tuttavia nel 1930 – quando conduceva una vita apparentemente tradizionale a casa del professor Dasgupta – inviò una fotografia a sua sorella, a Bucarest, firmandosi come «un papiniano»10
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pini scritte tra il 1960 e il 1968, è probabilmente perché tali annotazioni registrano la delusione provata nel rileggerne i libri, ripresi in mano anzitutto per tornare alla propria adolescenza e giovinezza. Le annotazioni diaristiche insistono spesso sulla “sepoltura in vita” di Papini. Da ciò si può forse dedurre come, mentre il suo stesso corpo diventava una bara, Eliade si stesse riavvicinando al maestro della sua giovinezza per imparare ancora una lezione: quella dell’ultimo volo.
entrambi i dialoganti evitarono di riferirsi direttamente a Origene. Nella sua ultima lettera, composta dopo aver letto Il diavolo, Eliade confessò al fiorentino: «Lei lo sa, io sono origeniano per la mia tradizione (segreta!) ortodossa». Sebbene, malauguratamente, non avesse scritto il progettato articolo su Papini e il diavolo – che avrebbe dovuto sviluppare le impressioni scaturite dalla lettura del libro papiniano – un decennio dopo, in merito allo stesso volume, dichiarò: «Il Diavolo reintroduce nella problematica della teologia contemporanea l’idea della riconciliazione universale, dell’apokatastasis elaborata dal geniale Origene (appena da poco scoperto dai teologi cattolici, ma discusso da Nae Ionescu nei suoi corsi di metafisica fin dal 1926)»15. Dopo questo incontro, fu Papini a inviare un gran numero di lettere: sette in tutto, rispetto alle quattro scritte dal suo confratello romeno (due delle quali non rinvenute nell’archivio del corrispondente16). Tuttavia, per Eliade il senso di questo nuovo incontro fu rivelatore più del passato che del presente, come annotò nel suo Diario il 7 settembre 1959: «Mi rendo conto che per me Papini rappresenta anche qualcos’altro: la mia adolescenza, gli anni giovanili trascorsi in Italia, la vita nel mio Paese, il lavoro, la biblioteca lasciata laggiù. Ogni contatto con l’opera di Papini agita le acque sotterranee che mi legano al passato – e al mio Paese»17. Le ultime parole indirizzate da Eliade al suo maestro di gioventù esprimono la gioia di aver scoperto come il fiorentino avesse «superato la prova iniziatica», provando, ancora una volta, come il primato andasse allo spirituale: «In ogni circostanza, lo Spirito non disarma». Due anni più tardi, precisamente l’8 giugno del 1956, l’uomo che avrebbe voluto diventare dio si spense, ormai cieco, muto e paralizzato. Nel settembre dello stesso anno, Eliade approdò nel Nuovo Mondo, dove trascorse il resto della vita. Quell’uomo che, fra le due guerre, aveva alimentato lo spirito di rivolta del capo della nuova generazione di Bucarest non ebbe modo di vedere l’emulazione suscitata a sua volta dal capo di dipartimento dell’Università di Chicago nelle nuove generazioni di ribelli dello spirito. L’anno successivo, di ritorno a Firenze, Eliade trovò la città ancora più invecchiata, poiché priva del vecchio «uomo selvatico»18. Due anni dopo, sempre a Firenze, rilasciò un’intervista nella quale parlò anzitutto di Papini19. Accostò i dettagli della sua terribile fine alle prove di quegli yogin che si rinchiudono in bare di pietra: «Quest’agonia iniziatica è forse la parte più bella, più autentica e più esemplare della vita di Papini»20. Che Eliade sia rimasto un papiniano è dimostrato tanto dagli articoli scritti sul maestro fiorentino quanto dalle lettere indirizzategli. Benché il loro scambio epistolare non si sia tradotto in un dibattito intellettuale diretto, nondimeno Eliade fu molto legato a lui. Parlando della propria abbondante corrispondenza, sia quella rimasta in Romania sia quella del dopoguerra, esordì sempre menzionando Papini21. D’altronde, col passare degli anni, Papini divenne per Eliade una figura sempre più connessa al proprio passato. L’ultima volta che pubblica qualcosa su di lui è nel 1965, in un capitolo delle sue Memorie22, non prima di essersi riferito a quei «pochi papiniani che ancora sussistono, sparsi per il mondo»23. Le note diaristiche continuano, ma si tratta perlopiù di ricordi della sua “storia” con il fiorentino. Dopo il 1968, diventano sempre più rare e scarne. Se, pubblicando il primo volume dei Fragments d’un journal (1973), tralascia molte delle note riguardanti Pa-
1. Cfr. M. Eliade, Amintiri despre Giovanni Papini, in «Perspective creştine» [Barcellona], a. II, n. 1, settembre 1956, p. 10. 2. M. Eliade, Giovanni Papini. Preludii, in «Cuvântul» [Bucarest], a. II, n. 640, 18 dicembre 1926, pp. 1-2. 3. M. Eliade, Romanul adolescentului miop, Minerva, Bucarest 1989, p. 323. Traduzione nostra. 4. Cfr. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio. Memorie 1 1907-1937, a cura di R. Scagno, Jaca Book, Milano 1995, pp. 120-121. 5. M. Eliade, De vorbă cu Giovanni Papini, in «Universul literar» [Bucarest], a. III, n. 19, 7 maggio 1927, pp. 291-292. 6. M. Eliade, Mistica lui Papini, in «Cuvântul» [Bucarest], a. III, n. 661, 16 gennaio 1927, pp. 1-2. 7. Cfr. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 143. 8. Cfr. M. Eliade, Itinerariu spiritual, VII. Insuficienţa literaturii, in «Cuvântul» [Bucarest], a. III, n. 889, 8 ottobre 1927, pp. 1-2. 9. Cfr. M. Eliade, Le promesse dell’equinozio, cit., p. 146. 10. La fotografia è riprodotta in M. Eliade, Opere, vol. I, Minerva, Bucarest 1994. 11. M. Eliade, Maitreyi. Incontro Bengalese, Jaca Book, Milano 1989, p. 71. 12. Lettera a Vittorio Macchioro del 25 novembre 1930, ora in M. Eliade, Europa, Asia, America… Corespondenţă, vol. II, Humanitas, Bucarest 2004, p. 167. 13. M. Eliade, Una nuova biografia di Gianfalco, in L’isola di Euthanasius, Jaca Book, Milano 2000, pp. 300-303 (301). 14. Eliade parla di questo incontro in un suo appunto diaristico datato 9 giugno 1952. Cfr. M. Eliade, Giornale, Bollati Boringhieri, Torino 1976, pp. 131-133. 15. M. Eliade, Papini visto da un romeno, in Mircea Eliade e l’Italia, a cura di M. Mincu e R. Scagno, Jaca Book, Milano 1986, p. 377. L’articolo venne scritto nel 1964. 16. Le risposte di Eliade alle lettere 10 e 11. 17. M. Eliade, Giornale, cit., p. 222. La traduzione è stata corretta in base all’originale romeno. 18. Lettera dell’8 settembre 1957 a Vintilă Horia, ora in M. Eliade, Europa, Asia, America…, cit., p. 478. 19. Imparò l’italiano per leggere Papini, in «La Nazione» [Firenze], 3 settembre 1959. 20. M. Eliade, Giornale, cit., p. 258. 21. Cfr. M. Eliade, Europa, Asia, America…, cit., vol. II, p. 296; vol. III, p. 399 (lettere del 15 giugno 1972 e dell’8 dicembre 1975). Anche nel suo diario inedito è menzionato più volte, a partire dal 1961. 22. Italia lui Papini, Buonaiuti, Macchioro, in «Cuvântul în exil» [Freising], a. III, n. 37-39, giugno-agosto 1965, p. 2. L’ultimo testo in assoluto è un resoconto delle opere complete di Papini pubblicate (in «The Journal of Religion», a. 46, n. 2, aprile 1966, pp. 333-334; continuazione del n. 3, luglio 1962, pp. 238-239), ma – come attesta il diario inedito – venne scritto nel marzo del 1964. 23. M. Eliade, Papini visto da un romeno, cit., p. 379.
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Dossier Papini-Eliade /2 Mircea Eliade, Giovanni Papini: lettere e dediche a cura di Liviu Bordaş
Non ho ancora Memorie d’Iddio2, Vita di nessuno3, Polemiche4, Paga [del sabato]5. Saranno ripubblicati? Voglio conoscere tutto di Papini. Il suo selvaggio ammiratore, Mircea Eliade
1. Carteggio (1927-1954)
L
e lettere di Eliade a Papini (n. 1, 3-6, 9, 16) sono conservate nel Fondo Giovanni Papini, XXXI C.1024, presso il Centro di documentazione e ricerche sulle avanguardie storiche della Fondazione Primo Conti di Fiesole. Esse sono state pubblicate in traduzione italiana da Roberto Scagno (Mircea Eliade e l’Italia, a cura di M. Mincu e R. Scagno, Jaca Book, Milano 1987, pp. 225-232) e nell’originale francese da Liviu Bordaş (Mircea Eliade – lettres à Giovanni Papini. 1927-1954, in «Origins. Journal of Cultural Studies», Zalău, n. 3-4, 2003, pp. 67-73; in seguito ripubblicate, accompagnate dalla traduzione romena, in M. Eliade, Europa, Asia, America... Corespondenţă, vol. II, a cura di M. Handoca, Humanitas, Bucarest 2004, pp. 426-442). Le lettere di Papini a Eliade sono conservate nell’archivio personale di M. Handoca (n. 2) e in Mircea Eliade Papers (87.3, 90.3, 103.1), presso lo Special Collections Research Center della Biblioteca dell’Università di Chicago (n. 7-8, 10-15). Le prime tre sono scritte in francese, le ultime sei in italiano. Esse sono state pubblicate più volte, in originale e in traduzione francese (A. Paruit), italiana (R. Scagno) e romena (M. Handoca), ma mai integralmente. L’edizione più completa, sebbene non priva di errori, si trova in Mircea Eliade şi corespondenţii săi, vol. III, a cura di M. Handoca, F.N.S.A., Bucarest 2003, pp. 246-252. La lettera n. 11, da noi scoperta, è inedita. Inoltre, le lettere n. 10 e 15 appaiono per la prima volta a partire dall’originale italiano (sono state pubblicate in traduzione francese in Mircea Eliade, «Cahiers de l’Herne», Parigi 1978, pp. 285-286 – riprese poi in Mircea Eliade şi corespondenţii săi, cit. – e ritradotte in italiano da R. Scagno, in Mircea Eliade e l’Italia, cit., pp. 232-235). Le sette lettere di Eliade e le prime tre di Papini (n. 2, 7-8) appaiono qui nella traduzione di Roberto Scagno, da noi confrontata col manoscritto francese. Le ultime sei missive di Papini (n. 10-15) sono pubblicate a partire dall’originale manoscritto. Si ringraziano Anna Paszkowski e Sorin Alexandrescu per aver concesso l’autorizzazione alla pubblicazione di questi materiali.
Indirizzo: Str. Melodiei 1, Bucarest, Romania 1. Dopo una prima nota, non firmata, sulla rivista del liceo (Idei şi fapte, in «Vlăstarul» [Bucarest], a. I, n. 5, 15 maggio 1924, p. 10), Eliade aveva dedicato a Papini quattro articoli: Giovanni Papini, in «Foaia tinerimii» [Bucarest], a. IX, n. 8, 15 aprile 1925, pp. 118-120; Giovanni Papini. Preludii, in «Cuvântul» [Bucarest], a. III, n. 640, 18 dicembre 1926, pp. 1-2; Giovanni Papini. Douăzeci şi trei de cărţi, in ibidem, n. 643, 22 dicembre 1926, pp. 1-2; Mistica lui Papini, in ibidem, n. 661, 16 gennaio 1927, pp. 1-2. Aveva inoltre tradotto alcuni racconti papiniani, accompagnati da note biografiche: 453 lettere d’amore, in «Ştiu tot» [Bucarest], a. I, n. 12, ottobre 1925, pp. 9-10 (ripubblicato senza firma in «Adevărul literar şi artistic» [Bucarest], a. VII, n. 310, 14 novembre 1926, p. 4), Il giorno non restituito, in «Adevărul literar şi artistic» [Bucarest], a. VII, n. 291, 4 luglio 1926, p. 4, entrambi tratti dal volume Il tragico quotidiano e Il pilota cieco (Libreria della Voce, Firenze 1913); L’Uomo che ha perduto se stesso, in «Gazeta de Duminică» [Bucarest], a. II, n. 23, 11 aprile 1926, p. 6, tratto dal volume Parole e sangue. Quattordici racconti tragici, Perrella, Napoli 1912 (II ed.: Vallecchi, Firenze 1919). Le ultime due traduzioni, insieme ad altre del 1927, finora sconosciute, sono state quindi escluse dalla bibliografia eliadiana. 2. G. Papini, Memorie d’Iddio, Casa Editrice Italiana, Firenze 1911; una nuova edizione, comprendente anche La vita di nessuno, è uscita per i tipi della Libreria della Voce (Firenze 1918). 3. G. Papini, La vita di nessuno, Baldoni, Firenze 1912, ripubblicato nel 1918. Si veda la nota 2. 4. G. Papini, Polemiche religiose. 1908-1914, R. Carabba, Lanciano 1917. 5. G. Papini, La paga del sabato. Agosto 1914-1915, Studio Editoriale Lombardo, Milano 1915.
[2]
Liviu Bordaş
3, Via Vico – Firenze (21) 8 marzo 1927
[1]
Caro amico sconosciuto, non è necessario conoscere il romeno per indovinare il suo entusiasmo. Uno dei suoi compatrioti1, sul quale contavo, è scomparso, ma non voglio ritardare ancora i miei ringraziamenti. Lei è proprio sicuro che ci sia qualcosa di effettivamente mirabile nei miei libri? Lei è giovane, lei è studente (ahimè!) ed ha scelto la più deludente delle scienze immaginarie. Queste sono
[Bucarest, febbraio 1927]
Caro Papini, Un giovane studente (in filosofia!) le manda alcuni articoli scritti sulla sua opera1. È tutto qui. Ma la prega di leggerli – in traduzione. Senza dubbio, esiste un conoscitore della lingua romena a Firenze. Attendo una parola – perché i miei articoli sono eccellenti e sinceri.
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tutte ragioni per diffidarla dalle sue ammirazioni. Voglia essere sicuro, nell’attesa, che non ho espresso se non la centesima parte di quello che ho sognato e voluto. L’ammirazione dei giovani è un rimprovero terribile – e se io gliela perdono lei crederà che questo sia orgoglio mascherato. Raramente penso ai miei libri di un tempo. Vivo con l’opera nuova alla quale penso da vent’anni, e alla quale sto lavorando in questi giorni. È la confessione generale degli uomini a Dio. È un quadro spaventoso e doloroso della vita – di tutta la vita. Creda alla riconoscenza del suo devotissimo,
tazzoni, Levasti, Lazzarini, Moscardelli, ecc. Con alcuni sono pure in corrispondenza6. Attendo con viva impazienza Adamo e Rapporto sugli uomini7. Preparo adesso uno studio sui tre libri mistici – Storia, Dizionario8, Pane e vino9 – e un articolo su Memorie d’Iddio. Tra qualche giorno sarò partito per l’Italia. Passerò il 23 e 24 aprile da Firenze. La prego ardentemente di non rifiutare di perdere qualche minuto con me. Non so parlare né l’italiano, né il francese né alcuna delle lingue che leggo. Ma spero di ottenere alcune spiegazioni e precisazioni preziose. La prego, Gran Maestro sconosciuto, di non lasciar crollare le speranze di un’anima giovane e consumata. Ho promesso anche, in Romania, una conversazione con lei. Ho fissato alcune domande: la necessità religiosa di una coscienza moderna, il movimento mistico in Italia, alcune rivelazioni sulle nuove opere. La prego ancora una volta… Nell’attesa di incontrarla, resto l’entusiasta ammiratore e il giovane papiniano, Mircea Eliade
Giovanni Papini I libri di cui mi parla non saranno ristampati. Ma le Polemiche religiose sono ancora in libreria. 1. Alexandru Marcu (1894-1955), borsista del Reale Istituto di Studi Superiori di Firenze (1920-1922) e della Scuola Romena di Roma (19221924), dal 1926 fu professore associato di Lingua e letteratura italiana all’Università di Bucarest.
1. Uscirà soltanto in due numeri, pubblicati nel gennaio e nell’aprile del 1927. 2. Ne verranno pubblicati solo nove capitoli, in diverse riviste letterarie, tra il dicembre del 1925 e il marzo del 1928 (nel frattempo sarà ribattezzato Il romanzo dell’adolescente miope, cui farà seguito un secondo volume, Gaudeamus). Rifiutato dagli editori, verrà pubblicato solo nel 1988 (il primo volume) e nel 1989 (entrambi i volumi), diventando uno dei romanzi di Eliade più popolari in Romania [ed. it.: Il romanzo dell’adolescente miope, Jaca Book, Milano 1992; Gaudeamus, Jaca Book, Milano 2012]. 3. Verrà pubblicato più tardi in un’importante rivista: Papini, eu şi lumea (Fragment din Romanul adolescentului miop), in «Viaţa literară» [Bucarest], n. 65, 10 dicembre 1927, pp. 1-2. 4. Vallecchi, Firenze 1921. 5. D. Giuliotti, L’ora di Barabba, Vallecchi, Firenze 1920. 6. Con Raffaele Pettazzoni, Vittorio Macchioro ed Ernesto Buonaiuti. 7. Sono due titoli dello stesso volume, pubblicato postumo: Rapporto sugli uomini, Rusconi, Milano 1977. 8. Dizionario dell’omo salvatico, redatto da D. Giuliotti e G. Papini, Vallecchi, Firenze 1923. 9. G. Papini, Pane e vino, con un soliloquio sulla poesia, Vallecchi, Firenze 1926.
[3] [Bucarest, aprile 1927]
Caro Papini, La sua lettera mi ha reso felice per più giorni. La ringrazio. La ringrazio con l’entusiasmo, il calore e la sincerità dei giovani – possano essere pure studenti di filosofia. Lei ha ragione: l’ammirazione di uno studente della più immaginaria delle scienze – la filosofia – non conta. Ma io non sono un fervente filosofo. I problemi metafisici mi preoccupano pochissimo. Amo l’arte, l’azione cosciente e coraggiosa e, al di sopra di tutto, l’esperienza religiosa. Sono un sincero mistico; e le confesso ciò con tutti i rischi dell’espressione. Se padroneggiassi decentemente una delle quattro lingue internazionali, le comunicherei qui anche alcuni dettagli della mia attività e delle mie possibilità di creazione. E avrei belle cose da farle conoscere. Parecchie delle mie caratteristiche spirituali rassomigliano a ciò che si chiama comunemente Giovanni Papini. Sono stato pure accusato di papinismo. Abbiamo pubblicato una rivista – Est-West1 – un poco Leonardo. Ma, personalmente, sono molto più mistico che Gian Falco o Prezzolini. Rimpiango di non potermi soffermare su questi fatti spirituali, così interessanti, per lei e per i suoi compagni di lotta, di sofferenza e vittoria. Ho pure scritto il mio Uomo finito. Ma con grandi differenziazioni. Il romanzo dell’adolescenza romena contemporanea – maschia, vigorosa, testarda, consumata in crudeli lotte interiori, turbata da molteplici necessità spirituali, con una coscienza meravigliosamente ricca – si chiama: Romanul unui om sucit [Il romanzo di un uomo balzano]2. C’è un capitolo: «Papini, Io e il Mondo» – che descrive l’influenza, la fecondazione, l’impulso vitale, l’orientamento, l’intensificazione delle forze realizzate dalla lettura esaltata di Un uomo finito. Questo capitolo si pubblicherà nel numero di maggio della nostra Est-West3. Non dimenticherò di farglielo recapitare. Mi interesso molto al movimento mistico della nuova Italia. Ho letto i libri di fede e i libri di storia religiosa. Conosco Buonaiuti, Macchioro, Giuliotti, Bonavia (che cosa dice lei delle sue negazioni de la Storia di Cristo4 e de l’Ora di Barabba5?), Pet-
[4] Bucarest, 12 giugno [1927] Caro Maestro, Ecco, in ritardo, alcune impressioni e sprazzi che ho pubblicato a ricordo della mia rapida visita a Firenze e a Papini1. Non si tratta di un’intervista propriamente detta. Vi si trovano solamente alcune delle sue idee sull’Italia contemporanea e alcune delle sue confessioni. La ringrazio ancora una volta per la sua bontà e la sua resistenza uditiva (il mio disgraziato toscano...). Poiché lei mi ha assicurato il suo aiuto – prendo il coraggio di chiederle una cosa. Un importante gruppo di studenti universitari ha costituito un’associazione di studi religiosi e mistici. Lottiamo adesso per formare una biblioteca. Spero che lei – che è così ricco di conoscenze – ci aiuterà. Conosco la collezione «Il pensiero cristiano»2 e quella dei santi. Possiamo sperare in alcuni libri, che saranno per noi dei veri calici di vita, di verità e d’entusiasmo?
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Roma, 12 maggio 1952
Amiamo molto i santi cattolici. Ma la nostra biblioteca non possiede fino ad oggi che I mistici di Levasti3, e S. Francesco. Ringraziandola a nome di tutti i miei amici e suoi ammiratori, resto «il romeno» Mircea Eliade Str. Melodiei 1 (Bucarest) (Associazione Universitaria, Biblioteca)
Caro Maestro, Sono molto lieto di apprendere che lei non mi ha dimenticato. L’ho vista e lei mi ha parlato un quarto di secolo fa. Lei ebbe la bontà di ricevere allora un giovanissimo studente romeno. È un uomo che avvicina alla cinquantina, che ha molto visto, molto sofferto, molto lavorato che le chiede oggi un colloquio. Lei sa forse che ho passato quattro anni in India1: sono diventato orientalista e storico delle religioni, pur restando scrittore. Lei non sa che ho mantenuto l’ammirazione e l’interesse della mia giovinezza per lei e per la sua opera. Ad ogni nuovo viaggio in Italia cercavo e leggevo i suoi ultimi libri2. Sfortunatamente, non avevo quasi mai l’occasione di fermarmi a Firenze. Marcel Brion mi dava sue notizie e, per iscritto, Vintilă Horia3. Da parecchi anni mi sono stabilito a Parigi, ed ho pure pubblicato alcuni libri. G. Tucci e R. Pettazzoni mi invitano sovente a tenere delle conferenze a Roma. Desidero talmente incontrala e sentirla parlare! Il 28 maggio ho una conferenza a Parigi, nel ciclo «L’oeuvre du XX siècle»4. In questa occasione, voglio parlare di lei. Spero in ugual modo di pubblicare, ne Le Figaro Littéraire, una «Rencontre avec Papini». Sarò a Firenze questo venerdì, 16 maggio. Sabato, mi permetterei di farle visita. Sarei felicissimo se lei potesse ricevermi! Accetti, Caro Maestro, l’assicurazione della mia profonda ammirazione e simpatia. Mircea Eliade
1. De vorbă cu Giovanni Papini, in «Universul literar» [Bucarest], n. 19, 7 maggio 1927, pp. 291-292 [ed. it.: Dialogo con Giovanni Papini, in Mircea Eliade e l’Italia, cit., pp. 35-39]. Una pagina del manoscritto dell’intervista è andata perduta nella redazione della rivista. 2. Collana diretta da Giovanni Minozzi, a partire dal 1923, presso la casa editrice milanese Vita e pensiero. 3. A. Levasti, I mistici, 1. Greco-orientali, latini, medievali, italiani, Bemporad, Firenze 1925.
[5] Centre Roumain de Recherches sous l’égide de l’Académie de Paris Secrétariat: 16, Av. Général Leclerc - Paris 14e Siège social: 28 rue Serpente - Paris 6 Sociétés Savantes Parigi, 23 maggio 1951 Signor Giovanni Papini Firenze Signore e caro Maestro, I membri del Centro Romeno di Ricerche sarebbero particolarmente felici se lei avesse la benevolenza di accettare di essere membro d’onore del nostro Centro, avendo tutti seguito con grande passione e angoscia le tappe del cammino della Sua vita, che è stata anche la nostra, e della quale le Sue opere sono state la testimonianza più viva1. Parimenti, siamo persuasi che, con la Sua presenza tra di noi, i legami tradizionali tra le nostre culture saranno rinforzati e manifesteranno brillante il comune destino spirituale europeo. Per meglio renderle conto dell’attività del nostro Centro, ci siamo permessi di inviarle il primo numero del Bollettino del nostro Centro. La preghiamo di gradire, Signore, l’assicurazione della nostra più alta considerazione. Il presidente Mircea Eliade
1. In realtà tre anni: dal dicembre 1928 al novembre 1931. 2. Il diario inedito menziona solo tre libri: nel 1947, Lettere agli uomini di papa Celestino VI, per la prima volta tradotte e pubblicate (Vallecchi, Firenze 1946), nel 1948, Passato remoto. 1885-1914 (L’Arco, Firenze 1948) e, nel 1951, Le pazzie del poeta. Fantasie, capricci, ritratti e moralità (Vallecchi, Firenze 1950). Mentre sul primo non viene espresso alcun giudizio, gli altri due delusero Eliade. 3. Il grande scrittore romeno Vintilă Horia (1915-1992), esiliato dopo la guerra, dopo un paio d’anni a Firenze e a Milano, dal 1948 viveva a Buenos Aires. Amico di Eliade e Papini, fu autore di una monografia dedicata allo scrittore fiorentino, data alle stampe nel 1963 e, in edizione italiana, per i tipi di Volpe nel 1972, intitolata proprio Giovanni Papini. 4. Festival internazionale (di musica, arti visive e dibattiti intellettuali) organizzato dal Congress for Cultural Freedom (divenuto nel 1967 International Association for Cultural Freedom), con sede a Parigi, la cui missione era quella di opporsi all’influsso del comunismo nel mondo intellettuale.
1. I membri fondatori del Centro Romeno di Ricerche di Parigi – creato il 4 agosto del 1949 a continuazione della vecchia École Roumaine en France, chiusa dal governo comunista di Bucarest – furono il principe Nicola di Romania, Emil Cioran, Leontin Constantinescu, Paul CostinDeleanu, Mircea Eliade, Nicolae Hodoş, Leon Negruzzi, Horia Stamatu, Octavian Vuia e altri, insieme ai francesi Edmond Jaloux e Marcel Brion da parte dell’Accademia di Francia.
[7] 13 maggio 1952 Mio caro Eliade, non l’ho mai dimenticata. Io non dimentico i «portatori del fuoco» (anche se si tratta del fuoco infernale). Ho seguito la sua carriera. Nel mio studio, tra i libri di prima qualità, tengo a portata di mano il suo mirabile Traité d’histoire des religions1 e aspetto con impazienza il suo Mythe de l’éternel retour2. Ho ordinato al mio libraio il suo libro sullo sciamanismo3. Lei è, oggi, ciò che Frazer è stato per la generazione più vec-
[6] Pensione Paisiello Parioli Via Paisiello, 47 - Roma Telef. 848.076 - 864.531 - 865.094 Indirizzo telegrafico: Paisiellopens - Roma
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chia. Ed ho approfittato della mia corrispondenza con il Signor Melry4 per chiedergli il suo indirizzo. Sfortunatamente sono diventato quasi cieco e scrivo pochissime lettere (non amo dettare quelle destinate agli amici). Sono felice di saperla in Italia. Sono impaziente di rivederla. Appena arrivato a Firenze, venerdì, mi telefoni (50.248), per fissare un appuntamento. Possiamo pranzare insieme sabato o, se lei preferisce, discorreremo da me nel pomeriggio (il mattino è consacrato al lavoro). A presto, dunque, caro e grande amico. L’attendo!
[9] Casa Gabriella, Ascona 5 giugno 1952
Caro Maestro, Sono confuso! Le faccio tutte le mie scuse! Volevo scriverle dopo avere redatto la «Rencontre avec Giovanni Papini», ma una serie di casi sfortunati hanno impedito fino al momento presente il mio piano di lavoro. Per questo ho dovuto rinunciare al mio intervento nei dibattiti al Congrès pour la Liberté de la Culture («L’oeuvre du XX siècle»). Pensavo di inviarle almeno un testo: se non quello del mio intervento, almeno la mia «intervista». Ma lei conosce i capricci dell’«ispirazione». Malato (soffro di ciò che i medici pedanti chiamano la vagotonia, il che, in fin dei conti, non vuol dire nulla!...), malato, tutto è stato rimandato ad una data ulteriore. Fortunatamente, ero invitato a passare il mese di giugno sulle rive del Lago Maggiore, ad Ascona, dove mi trovo da qualche giorno – e già meglio. Prima della mia partenza le ho inviato un pacco con Le mythe de l’éternel retour e due piccoli libri di «letteratura»1. Volevo passare da Payot per firmare un esemplare dello Chamanisme, ma non ne ho più avuto il tempo. Sto per scrivergli, da qui, perchè lo spedisca a lei direttamente. Quanto a Uerzelia, ha bisogno in questo mese di riferimenti precisi? Come le dicevo, essi si trovano in uno dei miei libri romeni: potrei scrivere a Parigi per farmelo spedire qui, e mi sarebbe facile ricopiare per lei tutti i riferimenti. Ma, se non è urgente, preferisco trasmetterle i riferimenti all’inizio di luglio, da Parigi. Dispongo di un solo esemplare di Mitul reintegrării2, esemplare annotato e tanto più prezioso in quanto non posso più procurarmene un altro dalla Romania. Ma tutto ciò, mio Caro Maestro, non può in alcun modo scusare il mio silenzio! La prego di perdonarmi. Attendevo il Kairos per scriverle una bella lettera. Questa terribile vanità letteraria! Mi presento con le mani vuote davanti a lei. Sono stato punito. Invano avevo lasciato passare i giorni, attendendo l’«ispirazione» – invece di scriverle immediatamente e di dirle, in tutta semplicità, quanto sia stato felice di incontrarla e quanto sia stato importante questo incontro dopo un quarto di secolo. Mia moglie è stata più che felice nel ricevere il magnifico volume con dedica3. Le trasmette i suoi ringraziamenti e attende con impazienza la nostra discesa a Firenze. Come le dicevo sopra, volevo inviarle il testo del mio articolo. Devo rinunciare a farlo adesso. Dopo averlo redatto, lo spedirò al mio amico francese che si farà carico delle correzioni necessarie. Ancora una volta, mi perdoni Caro Maestro! E mi creda, il suo fedelissimo e devoto ammiratore,
Suo, Giovanni Papini 1. Payot, Parigi 1949 [ed. it.: Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino 1954]. 2. M. Eliade, Le mythe de l’éternel retour. Archétypes et répétition, Gallimard, Parigi 1949 [ed. it.: Il mito dell’eterno ritorno: archetipi e ripetizioni, Borla, Torino 1968]. 3. M. Eliade, Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase, Payot, Parigi 1951 [ed. it.: Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Bocca, Roma 1954]. 4. Sten Melry, pseudonimo di Ştefan Racoceanu, medico romeno stabilitosi a Parigi, militante anticomunista. Fondatore, caporedattore e, sembra, direttore (sotto lo pseudonimo F. Mélat) della trimestrale «Revue de culture européenne» (1951-1954). La rivista diventò celebre grazie alla collaborazione di personalità come Papini, Karl Jaspers, Ernst Jünger, Raffaele Pettazzoni, Salvador de Madariaga, Henri Corbin e altri, per il tramite di Eliade. In seguito fu direttore del mensile «L’Indépendance roumaine. Tribune franco-roumaine pour la liberté» (1954), presidente dell’Associazione dei Romeni Liberi in Francia e, a partire dagli anni Settanta, professore alla Mt. Sinai School of Medicine di New York.
[8] 10, Via Guerrazzi Firenze 2 giugno 1952 Mio caro Eliade, il 17 maggio lei mi ha fatto l’onore ed il piacere di venire a trovarmi. Lei mi ha detto, uscendo, che era in procinto di rientrare a Parigi. Lei mi ha promesso di inviarmi il suo ultimo libro1 e una notizia su Huerzeria2, la donna diavolo. Sono passati quindici giorni e non arriva nulla – neppure una parola! Comincio ad essere tormentato dal dubbio. Forse le mie opinioni l’hanno offesa? Ho mancato a qualche legge dell’amicizia? Ciò mi sembra impossibile, incredibile. Ero così felice di rivederla, di ascoltarla parlare, di sentire ancora così vicino il suo affetto! Riassicuri dunque con due righe il suo fedele affezionato
Mircea Eliade 1. Probabilmente è un riferimento a La nuit bengali (Maitreyi), tr. di Alain Guillermou, Gallimard, Parigi 1950 [ed. it.: Maitreyi, incontro bengalese, Jaca Book, Milano 1989], e ad Andronic und die Schlange. Erzählung, tr. di Günther Spaltmann, Nymphenburger Verlagshandlung, München 1949 [nuova ed.: Stiasny, Graz-Vienna-Monaco 1951; ed. it.: Andronico e il serpente, Jaca Book, Milano 1982]. 2. Vremea, Bucarest 1942 [ed. it.: Il mito della reintegrazione, Jaca Book, Milano 1989]. 3. Si veda la dedica n. 1.
Giovanni Papini 1. Se non si tratta di Le chamanisme, dovrebbe essere Images et symboles. Essais sur le symbolisme magico-religieux, Gallimard, Parigi 1952, che uscirà soltanto a novembre [ed. it.: Immagini e simboli: saggi sul simbolismo magico-religioso, Jaca Book, Milano 1980]. 2. Correttamente: Uerzelia (cfr. lettera 9).
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[12] Via Guerrazzi 7 giugno 1952 Firenze
Via Guerrazzi, 10 Firenze 21 febbraio 1953
Caro Eliade, non ho risposto prima alla sua lettera perché aspettavo sempre di vedere l’intervista delle Nouvelles Littéraires ma, a quanto pare vi sono misteriosi ostacoli perché neppure nell’ultimo numero (del 19 febbraio) ho trovato il suo scritto. Io non tengo molto alla pubblicità editoriale, ma tengo moltissimo alla testimonianza della sua antica amicizia e mi dispiace di dover aspettare tanto tempo. Sto leggendo la sua opera sullo Sciamanismo e vi ho trovato, come nelle altre opere sue, ricchezza nuova di informazione e soprattutto originalità e profondità nell’interpretazione. Posso sperare che lei tornerà in Italia nella primavera prossima, visto e considerato che non ha mantenuto la promessa di venire in autunno? Sarei veramente felice di rivederla e di parlare ancora con lei del passato remoto e del futuro prossimo. Non ho più avuto notizie del Signor Sten Melry e non ho più ricevuto nessun fascicolo della Revue de Culture Européenne dopo quello che conteneva i miei pensieri sul Rinascimento1. Affettuosi saluti dal suo Giovanni Papini
Caro Eliade, sono molto rattristato di ciò che mi dice della sua salute. La credevo a Parigi in piena attività e anzi avevo suggerito il suo nome al sindaco di Firenze per un incontro internazionale sulla civiltà cristiana che sarà tenuto alla fine del mese1. Spero che la pace di Ascona e l’aria del lago le renderanno presto le forze per riprendere il lavoro. Ho avuto i libri. Comincio subito a leggerli. Non si preoccupi per Huerzeria – aspetterò, non è cosa urgente. Ho letto il capitolo sul «Centro» nella R[evue] de C[ulture] E[uropéenne] – eccellente2. Affettuosi auguri dal suo Giovanni Papini Saluti alla Signora. Vi aspetto in settembre od ottobre. 1. Il primo Convegno internazionale per la pace e la civiltà cristiana, sul tema “Civiltà e pace” (23-28 giugno 1952), che si tenne ogni anno, fino al 1956, su argomenti sempre diversi. Si trattava di un’iniziativa del nuovamente eletto sindaco di Firenze, Giorgio La Pira. La Romania (in esilio) non fu fra le trentaquattro nazioni partecipanti. 2. M. Eliade, Le symbolisme du “centre”, in «Revue de culture européenne» [Parigi], a. II, n. 3, maggio 1952, pp. 227-239. Una versione con meno riferimenti dell’articolo è stata pubblicata con il titolo Psychologie et histoire des religions: à propos du symbolisme du “centre”, in «EranosJahrbuch» [Ascona-Zurigo], a. XIX, 1951, pp. 247-282. Successivamente, venne ripresa come primo capitolo di Immagini e simboli.
1. G. Papini, La Renaissance et la civilisation européenne, in «Revue de culture européenne» [Parigi], a. II, n. 3, maggio 1952.
[13] Via Guerrazzi, 10 Firenze 10 marzo 1953
Caro Eliade, ho ricevuto finalmente il numero delle Nouvelles Littéraires con la sua intervista1. Questa è molto più importante di quello che io non prevedessi e svolge alcuni temi che abbiamo soltanto toccati nel nostro colloquio. Lei ha fatto bene a parlare dell’influenza che lo spirito orientale potrebbe avere sulla civiltà dell’Occidente e ne ha parlato come uno che conosce profondamente questi due grandi aspetti del mondo spirituale. La ringrazio anche di avere parlato delle mie teorie sul Rinascimento perché il mio libro, che è stato molto letto in Italia e in Germania, è quasi sconosciuto in Francia ed io sarei veramente felice se Melry lo traducesse e se Brion trovasse l’editore. Vorrei scriverle a lungo per dirle tutta la mia riconoscenza per questa grande prova di amicizia che ha voluto darmi, ma purtroppo non sto ancora molto bene in salute e i medici mi raccomandano di ridurre più che sia possibile l’applicazione. Spero, però, di poterla rivedere presto, insieme alla sua signora, e allora potremo parlare ancora a lungo degli argomenti che ci stanno a cuore e [potrò] manifestarle in modo più vivo il mio affetto. Creda sempre, caro Eliade, alla sincera e calda amicizia del suo Giovanni Papini
[11] Via Guerrazzi, 10 Firenze 9 dicembre 1952
Caro Eliade, mi è dispiaciuto moltissimo di non averla riveduta qui, come speravo. Mi consolo leggendo il libro sul Simbolismo1, ricco di vedute nuove che accrescono e approfondiscono la nostra conoscenza del mondo mitico e religioso, cioè dell’anima umana. Ogni volta che ricevo le Nouvelles Littéraires, spero di trovarci la sua «rencontre», ma forse la rousse2 è anche rosse? Lei conosce certo quel Signor Melry, che si occupa della Revue de Culture Européenne. Alcuni mesi fa mi scrisse che avrebbe voluto tradurre i miei saggi sul Rinascimento (L’Imitazione del Padre)3. Gli mandai il volume e l’autorizzazione. Potrebbe chiedergli se ha trovato l’editore? Non sto ancora bene e mi riesce difficile scrivere. Scusi la brevità. Affettuosi auguri dal suo, Giovanni Papini 1. M. Eliade, Immagini e simboli, cit. 2. Probabile riferimento ironico alla casa editrice Larousse, che pubblicava la rivista. 3. G. Papini, L’imitazione del padre. Saggi sul Rinascimento, Le Monnier, Firenze 1942.
1. M. Eliade, À Florence, chez Giovanni Papini, in «Les nouvelles littéraires» [Parigi], a. XXXII, n. 1331, 5 marzo 1953; poi in Briser le toit de la maison. La créativité et ses symboles, Gallimard, Parigi 1986, pp. 57-66 [ed. it.: A Firenze, da Giovanni Papini, in Spezzare il tetto della casa, Jaca Book, Milano 1988, pp. 41-47].
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[16] Via Guerrazzi, 10 Firenze 13 Marzo 1953
62 bis rue de la Tour, Paris 16o 27 gennaio 1954
Caro Eliade, ho il piacere di presentarle il mio giovane amico, dottor Vittorio Abrami, che abita a Parigi e che desidera conoscere costà i rappresentanti dell’alta cultura. Il dottor Abrami si è laureato in filosofia e si è particolarmente occupato dei filosofi francesi dell’800 e del 900, conosce anche la storia delle religioni ed ha notizia delle opere sue. Spero che lei potrà riceverlo ed essergli in qualche modo utile per i suoi studi. Affettuosi ringraziamenti e saluti dal suo
Caro Maestro, Comincio con il chiederle tutte le mie scuse per il ritardo con il quale rispondo alla sua lettera e all’invio dell’ultimo (e appassionante!) libro. Mi sono assentato da Parigi per quasi due mesi e, come al solito, la corrispondenza non mi ha seguito. Ho letto con grande emozione la sua lettera: sapevo che lei era ammalato, ma non potevo credere che la mano che aveva annerito migliaia di pagine indimenticabili (tutti quei libri che hanno nutrito la mia adolescenza e hanno formato la mia giovinezza!), non potevo credere che quella mano infaticabile riposi adesso attendendo la volontà di Dio... Ho pianto leggendo la sua lettera, leggendo il piccolo annuncio dell’editore e gli articoli che la stampa francese (soprattutto le riviste e i periodici) le hanno recentemente consacrato. Ma la mia fede in lei, nel suo genio e nel suo coraggio, resta intatta. Continuo ad attendere i capolavori dei quali lei mi ha già parlato. Soprattutto dopo la lettura del Diavolo, li attendo con un’impazienza a malapena controllata. Perchè lei ha ancora una volta dimostrato, con uno scoppio papiniano, la forza del suo pensiero, l’audacia della sua fede, la grandezza della sua visione spirituale. Quanto sono felice nell’apprendere le vicende di questo libro, la sua risonanza, il suo «successo»! Non so se lei riceva la stampa francese. Si è parlato enormemente di lei. (Se lo desidera posso pregare il Signor Melry di inviarle taluni ritagli di stampa.) Ho appena appreso in questo istante che il libro non sarà messo all’Indice. Tanto meglio – e mi rallegro di tutto cuore. Sarebbe troppo lungo parlarle, come mi sarebbe piaciuto fare, di questo libro. Esso prolunga e completa talune sue idee – annuncia il Giudizio Universale1 (poiché, «salvare il Diavolo» non significa forse dire tutto sul mistero del Giudizio Ultimo?). Lei lo sa, io sono origeniano per la mia tradizione (segreta!) ortodossa. E, su tutto un altro piano (quello che non coinvolge in alcun modo la fede), mi interesso al problema dei «contrari». Devo dirle l’interesse appassionato con il quale ho letto il suo libro. Esso abbonda di intuizioni geniali. La «missione fallita» di Adamo, quella di ricondurre Satana a Dio, mi sembra, tra tante altre, un’idea di straordinaria fertilità. Ma spero di scrivere prossimamente un articolo: «Papini et le Diable», dove avrei l’occasione di discutere alcune di queste idee. (Non voglio abbordare il problema teologico propriamente detto; credo che si possano dire molte cose senza toccarlo…). Caro Maestro, lei ha provato che, in ogni circostanza, lo Spirito non disarma. Lo sapevo – ma sono felice ugualmente, perché lei ha «attraversato la prova iniziatica» (come si dice nel nostro gergo), e me ne rallegro. Attendo adesso il seguito dei suoi capolavori: la Historiologie, il Jugement Dernier. So che lei li scrive, ma sono impaziente!... Mi creda il suo sincerissimo e totale ammiratore
Giovanni Papini P. S. Il dottor Abrami è in buona relazione con M. Sabatier, direttore letterario dell’Éditions Albin Michel e potrebbe occuparsi presso di lui dell’edizione francese dell’Imitazione del Padre. Nel caso che questa edizione francese si facesse, avverta Signor Melry perché io gli manderei due nuovi capitoli: uno sulle relazioni tra Leonardo e Savonarola e l’altro sulle cause della caduta di Girolamo Savonarola1. 1. La missiva gli fu portata personalmente da Vittorio Abrami, come lettera di raccomandazione da parte di Papini. Eliade annotò la visita nel suo diario in data 7 aprile 1953 (M. Eliade, Giornale, Bollati Boringhieri, Torino 1976, p. 154).
[15] Via Guerrazzi, 10 Firenze 24 Dicembre 1953
Caro Eliade, da molto tempo non so nulla di lei ma sono sicuro che non mi ha dimenticato. Neppure io dimentico la cara amicizia che mi ha dimostrato più di una volta in maniera tanto aperta e cordiale. Le ho fatto mandare il mio ultimo libro perché spero che possa interessarla anche per l’argomento1. Io non sono uno storico delle religioni, ma ho cercato di conoscere meglio che ho potuto il problema di Satana e dei suoi fratelli, soprattutto nel cristianesimo, e mi sembra di aver portato qualche lume nuovo. Ma il mio libro è soprattutto una grande dichiarazione di amore cristiano portata fino all’estremo e perciò è tutt’altro che conformista. Il libro suscita già, in Italia, molte discussioni e presto sarà pubblicato anche in altri Paesi. Avrei piacere che lei lo leggesse e mi dicesse le sue impressioni. Quando tornerà in Italia e si fermerà a Firenze? Affettuosi auguri dal suo Giovanni Papini (che per un dolore sopravvenuto al braccio destro non può firmare di suo pugno)
Mircea Eliade
1. G. Papini, Il diavolo. Appunti per una futura diabologia, Vallecchi, Firenze 1953.
1. Pubblicato postumo per i tipi di Vallecchi (Firenze 1957).
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2. Dediche di Giovanni Papini a Christinel e Mircea Eliade La prima dedica autografa – inedita – si conserva unitamente al libro nel Fondo Mircea Eliade della Biblioteca Metropolitana di Bucarest (che raccoglie buona parte della biblioteca parigina di Eliade). Le successive quattro sono state pubblicate, in anastatica (a partire da fotocopie fatte a Parigi) e in traduzione romena, da Mircea Handoca: Autografe: Giovanni Papini, I-IV, in «Panoramic» [Bucarest], a. I, n. 26, 2-8 luglio 1990; n. 27, 9-15 luglio 1990; n. 28, 16-22 luglio 1990; n. 29, 23-29 luglio 1990. I libri in questione non si trovano nel Fondo Mircea Eliade. [1] Firenze. Fiore del mondo, di Papini, Soffici, Bargellini, Spadolini, L’Arco, Firenze 1950. Alla Signora Cristina Eliade, con la speranza che questo libro rafforzerà il suo desiderio di conoscere Firenze e (anche) Giovanni Papini, 17 maggio 1952 [2] Giovanni Papini, L’Imitazione del Padre. Saggi sul Rinascimento, terza edizione accresciuta, Le Monier, Firenze 1947.
[3] Giovanni Papini, La corona d’argento, V edizione, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1949.
A Mircea Eliade, nel giorno che ho avuto la gioia di rivederlo, dopo un quarto di secolo. Il suo, Giovanni Papini, Firenze, 17 maggio 1952
All’amico Mircea Eliade, che non ha dimenticato, nonostante i suoi dotti studi, né l’arte, né la poesia, affettuosamente, Giovanni Papini Firenze, 17 maggio 1952 [4] Giovanni Papini, Il libro nero. Nuovo diario di Gog, [II edizione], Vallecchi Editore, Firenze 1952. A Mircea Eliade, per la sua nostalgia del paradiso, questo libro infernale, con l’affetto del suo, Giovanni Papini Firenze, maggio 1952 [5] Giovanni Papini, Santi e poeti, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1948. All’amico Mircea Eliade, con la riconoscenza affettuosa di Giovanni Papini Firenze, 3 Novembre 1952
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Il gioco dei dadi di Ioan Petru Culianu
È
to dal carattere premonitore pubblicato circa un mese prima del suo assassinio da una rivista d’avanguardia americana dal nome curioso, «Exquisite Corpse» (cadavere squisito), e da lui letto solo pochi giorni prima al Dharma Buns Café di Chicago. Ad ogni modo, in quasi tutti i suoi racconti è l’io narrante a trasporre questi temi nel codice narrativo mediante l’uso dell’immaginazione, una facoltà di cui Culianu ben conosceva la natura (e lo statuto spirituale), avendola sviscerata con le indagini sulla memoria, l’eros e la magia nel Rinascimento (si veda in merito il suo Eros e magia nel Rinascimento, Bollati Boringhieri, Torino 2006). Ne Il rotolo diafano (la cui prima edizione italiana, uscita per i tipi di Jaca Book nel 1989, era intitolata La collezione di smeraldi), descrive degli episodi in cui si verifica uno stato alterato della coscienza di cui egli è soggetto e, allo stesso tempo, osservatore. Dai suoi studi, così come dai racconti, emerge un dato fondamentale: gli stati di coscienza sono associati a diversi livelli di realtà esterna, essendo quest’ultima intrecciata a quella interna ed essendo indefinibili i confini che separano il mondo esterno da quello interno. A riguardo, possiamo trovare molti esempi ne I viaggi dell’anima (Mondadori, Milano 1991), l’ultimo suo libro, dato alle stampe poco dopo il suo assassinio, avvenuto a Chicago il 21 maggio 1991. Tali argomenti hanno messo lo studioso di fronte a quesiti sulla natura della mente umana, il
possibile leggere l’opera narrativa di Ioan Petru Culianu attraverso due principali registri estetici: il primo è la libera fruizione del racconto senza conoscere né l’autore né la sua produzione saggistica; il secondo è la sperimentazione dell’opera avendo presente sia l’autore (e la sua biografia) sia gli argomenti da lui trattati in veste di studioso. Se in entrambi i casi è comunque il lettore a completare l’opera mediante il proprio personale filtro interpretativo, è tuttavia probabile che, a seconda del registro scelto, il risultato sia molto diverso. Ciò dipende dal fatto che l’opera narrativa di Culianu è, per molti versi, complementare alla sua ricerca scientifica e legata anche alla sua vicenda personale. È necessario spiegare brevemente tale argomento (rimando, per maggiori approfondimenti, al mio Ioan P. Culianu e il valore conoscitivo dell’immaginazione letteraria, postfazione a Il rotolo diafano e gli ultimi racconti, Elliot, Roma 2010). Ioan Petru Culianu ha incanalato nella propria produzione narrativa temi attinenti ai suoi interessi scientifici, non solo in ambito storico-religioso e di fenomenologia del sacro, ma anche i risultati delle sue ricerche sugli stati alterati della coscienza, sui processi cognitivi, sulla quarta dimensione, nonché le questioni inerenti alla politica romena e alle proprie vicende personali, con presagi spesso sconcertanti della propria morte prematura. Valga come esempio Sul linguaggio della creazione («Viator», Anno VII, n. 3003, pp. 19-40), raccon-
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come la luce del giorno – e la luce del giorno è oscura. Forse, è proprio per questo che non spiegherò mai fino in fondo quel che voglio, genererebbe troppa confusione (ma in fondo, che importanza ha?). Tornando a me, nonostante una vecchia professione di fede per cui Dio si trova nei dettagli (in questa forma, l’affermazione appartiene a un filosofo di cui mi sfugge il nome e mi è stata comunicata da A. S., il mio più grande amico), non oso rievocare ora certi particolari custoditi nelle «grotte della memoria». Sarebbe un Male troppo grande, benché mi spingerebbe verso l’alto. «Grande è questo potere della memoria, troppo grande, Dio mio, un santuario vasto, infinito. Chi giunse mai al suo confine?» dice Agostino (Confessioni, 10, 8, 15). Egli ha certamente ragione, poiché il vero ricordo è contraddistinto dall’intensità dell’esperienza vissuta. Spero di non annoiare troppo con queste distinzioni (ma anche questo, in fin dei conti, è privo d’importanza). Kierkegaard è stato il primo a parlare in questi termini del ricordo. I brahmani lo sapevano già da molto tempo, ritenendo che il vissuto ricordato appartenesse al Manas superiore. Prima mi sono paragonato a una città: al compimento del mio tredicesimo anno nulla ricordavo di come fosse il mio luogo natale quando ne avevo sette, otto o dieci, tanto era cambiato. È vero, conservavo certi particolari confusi, legati non alla memoria bensì al vissuto: l’ingresso in un cinema, il controllore che grida precipitandosi dietro di me (il che mi aiuta a ricordare la stessa pellicola, con complicazioni ancora più puerili della mia tenera età di allora), l’impressione di un parco e di un ospedale (una mattinata di attesa), poi un apparecchio che misura la capacità polmonare, indicando un valore assurdamente alto per le mie dimensioni. Ma è l’impressione del parco a prevalere: vi cammino anche adesso, calzando sandali morbidi, lungo un vialetto con lastre tra le quali è cresciuta l’erba, passando sopra a casette che sembrano di vetro. Dunque, cosa devo fare? Supererò anche questo mio potere chiamato memoria, passerò oltre per innalzarmi verso di te, o dolce luce?
cui tempo e spazio sembrano differire dalla realtà esterna. Qui vediamo all’opera una sovrapposizione tra lo stato di coscienza ordinario e quello alterato: quando i due livelli s’incrociano, ne emerge un terzo, quello dell’osservatore distaccato, una sorta di testimone esterno che descrive il proprio stato al di là della convenzione del mondo. L’osservatore è colui che è cosciente di aver perso ogni identità, reciso ogni illusione di un io immortale e dissolto la propria personalità. Eppure, in tale condizione di testimone impassibile, egli continua a partecipare al “gioco” della vita così come fosse un “gioco di dadi”, fino a che – e questo è un tema che ricorre spesso nella sua narrativa – diviene l’artefice stesso della propria realtà. Se da una parte Culianu ha approfittato della libertà offerta dall’espediente narrativo per aprire i confini della conoscenza oltre gli schemi convenzionali, dall’altra ha mantenuto, come nel Raja Yoga, lo stato dell’osservatore nei confronti del modo di operare della propria mente nei processi creativi ed esplorativi dei livelli di coscienza. Roberta Moretti
*** «Chi è tutt’uno con la perdita ottiene ciò che ha perso» (Tao-te-ching, I, XXIII)
Ieri sera, parlando col mio amico C., improvvisamente mi sono accorto che io, qual ero, sono morto; e anche che questo me stesso, che è morto, era pazzo. Le frasi in corsivo fanno parte di un mio vecchio studio. Poiché le ho scritte, e averlo fatto è diventato sin da allora una mia ossessione (piacevole e inquietante), è normale che io me ne serva per esprimere il mio passaggio da uno stato all’altro. Io, qual ero, sono morto. Questo me stesso, che è morto, era pazzo. Innanzitutto, sarebbe necessaria una lunga spiegazione per potermi ricordare di quel me stesso che non sono più. Il che è difficile, quasi impossibile. Quel che credo di essere stato potrebbe essere paragonato, ad esempio, a una città ricostruita dalle fondamenta. Il corpo fisico, dicono i brahmani, cambia fino all’ultima particella in intervalli di dieci anni. Ma il corpo mentale non muta. Sono convinto che questo fatto non sia del tutto vero oppure che la mia comunicazione col Manas superiore – il corpo mentale – non sia ancora stabile. Invece, per quanto riguarda quei «campi, rifugi, grotte incalcolabili della mia memoria», come li chiama Sant’Agostino (Confessioni, 10, 17, 26), sono d’accordo ch’essi portino alla luce dettagli sorprendenti, nuove e brillanti verità, fossero anche solo strisce di fumo sporco. Secondo gli indiani, questo è il Manas inferiore, una forza che va oltrepassata. È troppo complicato spiegare subito perché io abbia definito la memoria – unitamente allo Specchio e all’Arte –, nel linguaggio che mi è più familiare, Male puro. Stavo progettando, infatti, di scrivere un libro intitolato Adversus Litteras, che avrebbe dovuto essere un’“ontologia della Figura in senso pascaliano” (Littera enim occidit…, Paulus, II Ad Cor., 3, 6), in cui si sarebbe parlato di memoria, specchio e arte. Se mai dovessi scriverlo, questo semplice ragionamento logico sarà più limpido di quanto non lo sia ora. Altrimenti, resterà un enigma, proprio perché palese
Innanzitutto, devo annotare un altro particolare, molto importante. In una lettera dell’agosto 196…, un amico, infallibile nel trovare un nome alle mie esperienze vissute, mi scriveva (poco dopo esserci conosciuti): «Sei l’unico uomo che riesca a intristirmi, a mettermi in uno stato di disponibilità, io che mi ritenevo congelato da molto tempo e incapace di provare un sentimento simile». A questa persona ponevo domande senza risposta (dall’importanza incalcolabile). Io stesso ero la somma di questi quesiti. I miei sentimenti sono molto più facili da ricordare, ma non esauriscono la verità della definizione di cui sopra. Mi trovo da solo in un parco, seduto a un tavolo, alla ricerca di una donna. Ma questa esperienza (che gli indiani e i teosofi chiamano astrale) è essa stessa una domanda senza risposta. Segue un periodo che qualche demone della conservazione interiore rifiuta di lasciar riaffiorare nella mia mente (la freudiana amnesia volontaria). Le parole e le immagini di quel periodo scorrono, come spinte da tanti altri ricordi: spavento, clausura, amore, rinuncia a sé per un idolo malato, per una passione fisica. E, planando felice (e grigiastro) sopra tutto questo tempo condensato, emerge il pensiero della salvezza della morte, di una salvezza ancor più leggera della mia
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alla volta, capii di avere davanti a me avversari umani, i quali, a loro volta, desideravano, con tutto il cuore, vincere. La comprensione – graduale, all’inizio solo un presentimento – di questo fatto fu una vera rivelazione: gli altri si trovano davanti a me e desiderano, come me, vincere a un misero gioco di carte o di dadi. Mi resi conto che spesso, bestemmiando contro la sorte, questi giocatori dicevano la verità. A me non è mai capitata una cosa del genere: anche se l’avessi fatto con convinzione, oltraggiare la sorte mi sarebbe sembrato un’ironia. Il gioco era implacabile con me, potevo innervosirmi se gli altri mi distanziavano, ma non riuscivo a prenderli sul serio. Il tentativo di razionalizzare o rivivere questi eventi potrebbe essere così riassunto: nonostante gli esiti del gioco, la mia persona resta intera, il che vuol dire che la perdita e il guadagno reali non esistono se non al di fuori di questo gioco. Gli altri giocatori manifestavano tuttavia una personalità diversa dalla mia, priva di fratture. Vivevano questo gioco e restavano fino alla fine desiderosi di vincerlo. Se la posta in gioco fosse stata importante, il perdente avrebbe potuto realmente sparire, per esempio sciogliersi nella terra o dissolversi nell’aria, e nessuno se ne sarebbe stupito. La mia posizione nei loro confronti era incompleta: mi sentivo inferiore. Avevo la certezza che non fosse il gioco a essere importante, bensì ciò che stava al di fuori della sua sfera ma, allo stesso tempo, anch’io come loro volevo vincere; nonostante questa mia consapevolezza, restavo troppo coinvolto nel gioco. Rimasi per molto tempo nello stato di vergogna confusa tipico di ogni irrealizzato, fino a che due vie comparvero chiaramente innanzi a me: dovevo desiderare (e quindi essere: l’uomo diventa ciò che desidera) vincere in modo assoluto, dunque partecipare al gioco, oppure diventarvi completamente indifferente, di modo che la vincita o la perdita non rappresentassero più uno scopo. La prima via significava, in altre parole, diventare una personalità. Mi vennero in mente, a questo proposito, tutt’una serie di condottieri sanguinari, poi Michelangelo, Leon Battista Alberti, Machiavelli e Federico II. Giocai per un certo periodo a un gioco complicato, nel quale contavano molto i rapporti che s’instauravano con gli avversari (questo è il nome corretto dei compagni di gioco). Mi divertii applicando i principi di Machiavelli e vinsi ripetutamente, o mantenni comunque uno dei primi posti. Ripeto, mi divertivo, dimentican-
perdita: chiodi, funi, sonniferi, coltelli, lame, vasche d’acqua, il mare. Qualsiasi oggetto è fatto per uccidere, basta che si voglia la morte. Non mi sono potuto perdere, sacrificavo il mio spirito a un dio-femmina penoso (imperfetto). Nel primo libro del Tao-te-ching, un passo (XXIII) recita: «Chi è tutt’uno con la perdita ottiene ciò che ha perso». Mi sono concentrato tante volte su questo frammento e l’ho interpretato così: possiedi tutto se rinunci a tutto, possiedi qualcosa se rinunci a quel qualcosa. Volevo avere me stesso, ma mi offese la trivialità del dileguarsi in un essere imperfetto. Spesso mi sono detto che ciò non ha alcuna importanza; quanto più l’essere al quale ci si vota è decaduto, tanto più la perdita è autentica – e, dunque, anche il guadagno. Ho sempre capito i personaggi dei romanzi che offrono il proprio amore e loro stessi a una prostituta, nonostante la donna resti ciò che era, senza cambiare in meglio. Il mio caso era molto più impuro: mi ero offerto a una creatura buona sotto il profilo delle intenzioni. Le ho arrecato distruzione, ma che importanza ha questo, ora? Ho rinunciato per sempre a darmi a qualcuno. La mia perdita andava compiuta in solitudine.
“ Tra i dadi, gli oggetti e gli uomini non esiste differenza. Abbandonando il desiderio di vincere, ho ottenuto il potere di ordinare tutto secondo i miei pensieri ”
Sono trascorsi tre giorni da queste righe; rileggendole, mi rendo conto che possiedono le virtù e i vizi di ogni tentativo troppo affrettato di spiegazione: sono vere, parziali, confuse. Io stesso sono così. Esse hanno però in più quella mancanza di concentrazione che aveva quell’essere morto (che io sono stato): sono complicate, ingarbugliate. Voglio liberarmi da quest’errore, io, il-nuovo-e-intero; voglio diventare semplice e fermo come un sasso, poiché un sasso, malgrado la sua complicata apparenza, ha un’essenza semplice e ferma (e fredda). E vorrei un’altra cosa ancora: che queste pagine fossero più di quanto io sia, che incarnassero una mia possibilità, priva di timore (un’altra qualità del sasso). Se sono impuro, che queste pagine siano pure, che mi possano aiutare a trasformarmi, a diventare anch’io un puro, per il quale tutte le cose sono pure. La mia trasformazione passò per uno stato di torpore e abulia. Mi abbandonai a certe attività che odiavo, incominciando per esempio a giocare a carte e a dadi. Ciò è di un’importanza capitale. Non conosco nessun uomo incapace quanto me di giocare, di accettare nuove convenzioni. Aver iniziato a farlo rappresentava una rinuncia, che non posso definire piacevole; m’innervosiva soprattutto il desiderio di vincere. Un po’
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d’uscita. Avevo convenuto sul fatto che contro la mia miseria passata non potessi nulla, mentre dovevo lottare contro il futuro. Purificai i miei pensieri, i desideri e gli impulsi. Progressivamente, si andava formando innanzi a me l’immagine dell’uomo perfetto. L’errore di quella tappa fu di credere che diventare un uomo perfetto fosse innanzitutto necessario per me stesso. Mi resi invece conto che avrei potuto identificarmi con quell’uomo soltanto rinunciando al desiderio dell’identità. Ciò che farò, mi dissi, non deve essere compiuto in vista di uno scopo, ma deve essere buono in sé: il più difficile degli ostacoli, che dovetti affrontare aspettando. Dormivo molto, giravo per le strade di notte, evitando gli uomini, mi assaliva il terrore che avrei potuto fare del male agli animali o alle cose. A dadi giocavo sempre più di rado, con un’indifferenza crescente, commettendo talvolta un errore di cui mi liberai faticosamente: il desiderio di perdere. La prima volta che mantenni un atteggiamento pienamente indifferente durante il gioco successe quasi per caso. Non sapevo nulla di quel gioco. L’avevo affrontato correttamente, sebbene quasi assonnato, senza noia, senza dolore. Ero affrancato contemplando dall’esterno il mio corpo ritto, la mano che agitava i dadi nel bicchiere, i cubi bianchi con i punti che si disperdevano sul tavolo. Comunicavo meccanicamente i risultati, non so nemmeno se perdetti o vinsi, tuttora non so nulla di quel gioco. Il giorno seguente incontrai un amico e una donna. Ebbi nei loro confronti lo stesso comportamento automatico: ne distinguevo la statura, il volto, la pettinatura e il modo di parlare, ma la mia memoria era quieta, come un lago trasparente e calmo situato in un territorio al riparo dai venti. Avevo nutrito odio nei confronti del mio amico? Avevo desiderato la donna? Tutto questo poteva essere vero, così come avrebbe potuto esserlo qualsiasi altra cosa, ma adesso volevo bene a tutti e due e anche alla mosca che si era posata, stanca, sulla mia fronte, piena del sudore estivo. Uomini, cani e oggetti, tutti si perdevano in un’unica sostanza, immateriale. Nel pomeriggio partecipai a un gioco più semplice, con solo due dadi. In realtà, l’inizio fu diverso: giocavo senza sapere di farlo, i miei occhi non incontravano all’esterno che notte e silenzio. Quella notte, mentre scuotevo insensibilmente i dadi (senza avere di mira qualcosa nel gioco, come la vincita o la perdita, la morte o l’oblio), lampeggiarono dei numeri: cinque-due. I dadi caddero, indicando cinque-due. Con la stessa indifferenza mi accorsi che i numeri obbedivano al mio desiderio: tre-quattro, sei-due, tre-tre. E così via, all’infinito, secondo ogni combinazione immaginabile. Tra i dadi, gli oggetti e gli uomini non esiste differenza alcuna. Abbandonando il desiderio di vincere, ho ottenuto il potere illimitato di ordinare tutto secondo i miei pensieri. Quel che non so con certezza è se questi pensieri siano arbitrari e di supporto alla formazione delle combinazioni del mondo oppure se siano soltanto una forma di profezia di ciò che avverrà. Per esempio, posso chiamare a me un uomo e lui verrà immediatamente – eppure, non so se lui non stesse già progettando di venire, cosa che il mio pensiero ha solo intravisto. Non saprò mai la verità, perché sono consapevole che perderò subito questa proprietà non appena cercherò di applicarla al servizio mio o di un’idea qualsiasi. Il che può comunque ancora accadere: sono tuttora un uomo, quindi corruttibile.
do che il gioco è convenzione, e col tempo la mia personalità mi sembrava sempre più una stupidaggine. Se avessi avuto anche solo il minimo dubbio – il gioco può essere convenzione, ma può anche non esserlo – la vincita sarebbe divenuta uno scopo onorevole. Ma giocare seriamente per un guadagno convenzionale era l’apice della stupidità. Avevo letto (molto tempo prima) una frase di un Nikaya, un libro indiano dal nome complicato: il primo legame che dev’essere reciso, diceva, è l’illusione di credere in una Personalità, in un Io immortale. Grazie alle mie conoscenze basilari di logica buddhista, so che l’“Io immortale” rappresenta in realtà il ricordo che i posteri conservano di certi atti (gli scritti, ecc.) di una personalità, per esempio di Michelangelo o del condottiero Sigismondo Malatesta. Mi sono deciso, cioè ho scelto d’intraprendere l’altra via: continuare a giocare diventando man mano, attraverso sforzi difficili, indifferente al gioco, attento soltanto alla mia indifferenza, per percorrere poi la tappa finale: essere indifferente nei confronti della mia stessa indifferenza. Trascorsero tre mesi di umiliazioni; all’inizio dovetti recitare, mimare, controllare i muscoli, i nervi e le reazioni. Senza quella tappa non sarei potuto andare avanti ma, siccome non c’è nulla che io odi di più del mestiere dell’attore, tante volte ero pronto a mollare tutto. All’inizio le prove erano, di fatto, degli inganni. Decisi che avrei pensato, mentre giocavo, a un’altra cosa, assumendo una posa impassibile, stendendo sul volto e sui movimenti una maschera silenziosa. A quel tempo giocavo a togo, un gioco con sei dadi. La mano mi tremava, facevo i conti, comunicavo il punteggio con voce metallica. Nel mentre, cercavo di pensare a un albero, a un podere dopo il raccolto e al suo odore di terra fresca, a una donna dai lunghi capelli che avevo amato. Anche i ricordi erano convenzionali, non mi allontanavano dal gioco, aiutandomi tuttavia a mantenere lo stesso un contegno da automa, gli stessi occhi di vetro con lo sguardo rivolto all’interno. Perdevo regolarmente, avendo del resto la certezza che avrei perso. E, se in precedenza non avevo mai partecipato pienamente al gioco, dando tuttavia l’impressione di farlo, ora invece, volendo spazzare via questa impressione, sentivo che ciascuna perdita mi spezzava i nervi, mi procurava dolore. Sono poi passato alla non-attenzione, facendo in modo che non si notasse. Mi è stato più facile. Ricostruivo dalla memoria interi scenari, mi ricordavo di tutte le miserie di cui ero stato capace e mi rattristavo così profondamente che il gioco perdeva davvero d’importanza. Gli altri si accorgevano che la mia mente era altrove e dovetti porre rimedio a quell’errore perfezionando il sistema delle maschere, imprimendo ad esse voci e sorrisi. Mi sentivo come un animaletto tormentato, pronto a essere afferrato dai razziatori, pur non avendo alcuna colpa. Superata anche questa fase, ricomposi il volto indifferente e gli occhi di vetro; pensando sempre alle cose passate, insieme all’indifferenza per il gioco ottenni anche un altro risultato, completamente diverso, di tipo interiore: la repulsione per la mia miseria, un caos di momenti (particolari) terrificanti che mi colpivano uno a uno, come un’abbondante grandinata. Quello stato durò a lungo, sapevo che non ne sarei mai uscito da solo. Una mattina mi risvegliai convalescente, scorgendo una via per andare avanti, vedendola davvero, anche se in modo parziale e confuso. L’indifferenza nei confronti del gioco stava facendo progressi, ora ero concentrato sulla via
[Jocul de zaruri, ora in Arta fugii, Polirom, Iaşi 2011 (ebook)]
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Il mistero di Mircea Eliade
È
3/1987, pp. 83-86) e datato 1925, il racconto Taina è stato incluso nell’addenda del volume di novellistica Maddalena, a cura di Mircea Handoca e Nicolae Florescu (Ed. Jurnalul Literar, Bucarest 1996, pp. 249-253).
risaputo – anche, ma non solo, grazie al Romanzo dell’adolescente miope (di cui esistono diverse redazioni tra il 1921 e il 1925) e al successivo Gaudeamus (terminato nel 1928), entrambi pubblicati in edizione italiana da Jaca Book – che Mircea Eliade ha amato scrivere fin dalla prima adolescenza. I due libri in chiave “autenticistica”, seguiti dai grandi romanzi realistici pubblicati nella prima parte degli anni Trenta e da altri cicli narrativi che si muovono sempre più verso una dimensione mitica, magica e, finalmente, cripticofantastica dell’esistenza, furono preceduti da racconti scritti in tenera età, che rivelano un talento narrativo certo e una fervida immaginazione artistica. Passeranno diversi anni prima che Eliade conosca, grazie al romanzo Maitreyi (1933), quel “rischioso successo” che lo renderà, almeno in Romania, un narratore consacrato. Molti di questi racconti, spesso fantastici, furono pubblicati dal “liceale miope” sulla stampa del tempo, ma tanti altri rimasero inediti fino agli anni Settanta e Ottanta del XX secolo. Fu in quel periodo che alcuni di essi apparvero su riviste culturali romene – ad esempio, «Manuscriptum» – meno subordinate alla censura politica e a quei divieti che, a ondate alterne, colpivano non solo le opere teoriche ma anche quelle letterarie dell’esule Eliade. Anche il breve racconto che presentiamo ai lettori di «Antarès» fa parte di questa consistente produzione novellistica risalente all’adolescenza e alla prima giovinezza (1921-1928), in Italia ancora poco discussa e tradotta. Pubblicato a cura di Mircea Handoca sulla rivista «Manuscriptum» (a. XVIII, n.
Horia Corneliu Cicortaş
*** Ecco una strana vicenda, che devo annotare su questo quaderno. Mi è stata raccontata dal mio collega, il dottor Bentu. Il dottore è anziano quanto me ed è una persona molto sgradevole. Parla pochissimo, in modo sguaiato, guarda tutti con sospetto e si mostra sempre afflitto. Era già così quando lo conobbi, in Facoltà. È basso, nervoso, brutto – e porta occhiali con stanghette di nichel. Per le donne mostra un disprezzo totale, unito al disgusto. Afferma che tale antipatia nasce da una concezione personale e si fonda su uno studio prolungato della psicofisiologia del gentil sesso. I colleghi, invece, mormorano una storia diversa. Da giovane, il dottore si sarebbe innamorato di una farmacista, che mai lo considerò. Anzi, sposò poi – per amore – un luogotenente. Da allora il dottore avrebbe iniziato a odiare le donne. Questo è quello che dicono i colleghi. Qualche giorno fa il dottore è venuto da me – sapendo che sono uno specialista – e mi ha raccontato quanto segue. Una sera, stava tornando dall’ospedale. Nonostante avesse fatto
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quando sentì quella parola, la donna gli posò la testa sul petto e si mise a piangere. Il tormento interiore del dottore divenne acuto quando mi raccontò di come aveva tenuto tra le sue braccia il corpo della bella signora, e come quel corpo fosse completamente suo. Soffriva per l’iniquità dell’azione compiuta, sapeva di aver peccato contro la legge e contro i propri principi, calpestando la dignità di una donna e disonorandone il nome. Ma soffriva ancora di più perché non riusciva a spiegarsi il cambiamento avvenuto nel suo animo; non riusciva a trovare le cause di quella destrezza dimostrata nel pronunciare le parole; non arrivava a spiegarsi l’audacia e la sicurezza di quella sera; e, soprattutto, era incapace di comprendere la conclusione misteriosa della vicenda. Infatti, la mattina dopo si svegliò in una stanza lussuosa, accanto a lei. Era talmente stupito da non sapere quale decisione prendere. Dopo ripetuti sforzi riuscì a trovare i propri occhiali, che erano scivolati in una delle scarpe della signora, scese dal letto e si affrettò a vestirsi. Aveva il volto pallido e la barba in disordine. Si sentiva stanco e arrabbiato con la donna, che continuava a dormire, nuda, tra i cuscini. Mentre stava finendo di vestirsi, la sua compagna aprì gli occhi e lo guardò amorevolmente. Aspettava che le parlasse, che le rivolgesse una delle frasi meravigliose e ardenti della sera precedente. Attendeva una sua parola. Per il dottore fu una terribile prova. Guardando fisso negli occhi della signora, sentì spalancarsi un vuoto sconfinato, che s’insediò rapidamente nel suo cuore e, dopo un po’, anche nella sua mente. Il dottore rimase a guardare a lungo. Egli crede che la donna si sia sforzata di capire, senza però riuscirci, la trasformazione. La differenza tra l’uomo che l’aveva spinta a fare un passo talmente folle e quello che ora la osservava perplesso era abissale. Reclinò la testa sul cuscino, chiudendo gli occhi. Ma non dormiva. Il dottore lo sapeva ed era triste, non trovando il coraggio di abbandonare la stanza. Ma ecco che in quel momento qualcuno bussò alla porta, lui aprì e scese, senza più tornare. Quando arrivò a casa, la sua domestica non osò chiedergli nulla, tanto era abbattuto. Quel giorno non andò all’ospedale. Non concluse nemmeno le correzioni dello studio per il Bollettino. Cercò la spiegazione di quella strana vicenda ma non riuscì a trovarla, nonostante avesse raccolto sulla scrivania tutti i libri di psichiatria della sua biblioteca. Il dottore era talmente angustiato che ruppe – me lo ha detto con rimpianto – un vaso colorato e, per la prima volta, si arrabbiò con la sua domestica. Poi venne da me, perché gli chiarissi la vicenda. Ma io non ho potuto chiarirgli nulla. Capisco troppo poco di questa storia, nonostante la psicoanalisi che pratico da undici anni. E quel che capisco io può capirlo chiunque. Io non posso sapere perché il dottore quella sera abbia parlato in modo così incantevole, né perché si sia dimostrato tanto audace e abile nelle questioni amorose, per poi svegliarsi, la mattina successiva, uguale a com’era prima. È per questo che ho annotato in questo quaderno tutto quello che mi ha raccontato, poiché qui scrivo solo ciò che non sono in grado di spiegare. In altri quaderni raccolgo i fatti le cui cause sono riuscito a scoprire; e quegli appunti non hanno per me alcun tipo di valore, li uso solo per i contributi che mando al Bollettino… Ma questo non lo sa nessuno e io faccio tutto il possibile affinché nessuno venga a saperlo, mai.
tardi, non prese la carrozza ma preferì andare verso casa a piedi. Si sentiva stanco e annoiato. Camminava rasente ai muri a testa china, pensando alle correzioni dell’ultimo studio per il Bollettino che non era riuscito a terminare per mezzogiorno. Era, come al solito, vestito miseramente, con barba e baffi in disordine e le scarpe sporche di fango. All’angolo di una viuzza, vicino alla sua abitazione, c’è l’elegante salone di un parrucchiere, nel quale il dottore non era né – pensava – sarebbe mai entrato. Non ricordava di essersi mai fermato nemmeno davanti alla vetrina, per guardare le boccette colorate e le parrucche sistemate sui manichini di legno. E, invece, quella sera si fermò. A tormentarlo era il desiderio vivo e incomprensibile di entrare nel salone – desiderio cui, poco dopo, dovette cedere. Non cercò di pensare – mentre il parrucchiere gli pettinava i baffi e la barba – al motivo per cui stava facendo tutto ciò. Avvertiva solo uno strano piacere sapendosi più bello e curato, piacere al quale si abbandonò totalmente. Quando ritornò sulla via, il suo primo pensiero, come ricorda lui stesso, fu di farsi pulire le scarpe. Il dottore era meravigliato nel raccontarmi questo insolito desiderio di eleganza, che mai aveva provato nella sua vita e per il quale aveva mostrato fino a quel momento un insolente disprezzo. Ammetteva che sapere di avere scarpe pulite e abiti lindi lo aveva trasformato del tutto. Il suo cuore sembrava quello di un giovane; lo sguardo non era più basso e l’allegria delle passanti non lo infastidiva più come prima. Aveva iniziato a sorridere, dimenticandosi completamente dell’ospedale, della sala delle dissezioni e delle correzioni per il Bollettino. Avrebbe voluto incontrare amici e fare le ore piccole, come i giovani spensierati. Il dottore non sa dire quando siano avvenuti tutti questi cambiamenti. Ma il fatto strano accadde più tardi: tornando dalla passeggiata, incontrò una sconosciuta che, secondo lui, stava cercando una carrozza. Per anni aveva incontrato migliaia di sconosciute, eppure mai il suo sguardo si era fermato su alcuna. Quella sera avvenne però qualcosa di assolutamente nuovo. Il dottore si avvicinò alla donna, capì che era bella e indossava abiti raffinati e, senza alcuna difficoltà, le parlò. Pronunciò deliziosamente le parole che gli giungevano, incantevoli, alle labbra, trasfigurandolo. Sorrise con astuzia, roteò gli occhi e distese la fronte: la sconosciuta rise di gusto e dimenticò il disappunto iniziale. Già, perché all’inizio – rammenta il dottore – la passante si era mostrata maliziosa. Non lo aveva guardato, allungando il passo. Tuttavia, le parole del dottore la sottomisero rapidamente. Lo ascoltò benevolmente, gli sorrise e – appreso il suo nome – accettò addirittura di essere presa a braccetto. Il dottore non è in grado di riportare nessuna delle parole pronunciate quella sera. Le ha dimenticate. Ciò che ricorda è che si trattava di scherzi e parole amorose. Parole amorose, soprattutto. Egli riconosce come la sconosciuta si trovasse completamente avvinta da quelle parole affascinanti che le sussurrava incessantemente. Così, venne presto a sapere come fosse la moglie di un alto funzionario dello Stato, che amava follemente. La sconosciuta gli fece anche delle confessioni che si affidano solo a un vecchio e fidato amico. Il dottore ritiene sia stata in parte frastornata dal fascino che lui emanava, dalle parole audaci che aveva iniziato a pronunciare, che le sfioravano il viso, nonché dal braccio con cui le cingeva abilmente la vita. In meno di un’ora, era completamente in balìa del dottore. Fermò allora la carrozza più bella e scandì un nome che non aveva mai sentito fino a quel momento. Si ricorda un dettaglio:
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Heimo Schwilk “Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo” di Andrea Scarabelli in quest’arretratezza dell’uomo rispetto al proprio contesto: affidandosi a un linguaggio la cui bancarotta è sempre più palese, egli misconosce l’hic et nunc. Da qui, quell’invito alla responsabilità che è marca fondamentale del pensiero jüngeriano, ma anche la presa di distanza da opere quali Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque e Il fuoco di Henri Barbusse, il cui pacifismo assoluto si rifiuta di comprendere come la guerra sia il dato primario della storia, come scrisse Spengler. Siamo forse di fronte a un atteggiamento meramente “guerrafondaio”? Null’affatto, e per tre ragioni: anzitutto, questo giudizio prescinde da una qualsiasi valutazione morale; in secondo luogo, vedere nella guerra un semplice errore da epurare non consente di differenziare varie tipologie di guerra e, con queste, lo stile della civiltà che le compie; infine, se Jünger rifletté sempre sulla Grande Guerra, fu perché in essa vide all’opera nuove forze, in procinto di estendersi anche al mondo civile. Sui quei campi di battaglia si tenettero, infatti, le prove generali della “mobilitazione totale”, destinata a mutare il rapporto tra l’uomo e il suo mondo anche i tempi di pace: si affacciò la pervasività di una tecnica che non accetta freni o limitazioni, tendendo a inaugurare uno spazio totale. E proprio dalle fucine della Grande Guerra emergerà, in tutto il suo cupo splendore, l’operaio, titano destinato a non soccombere al regno della tecnica trionfante ma a farsene signore planetario (aspetto che emergerà in modo più dettagliato nella continuazione del Der Arbeiter, anch’esso di recente pubblicazione italiana per i tipi di Guanda, Maxima Minima): qui risiede il trait d’union di tutta la sua biografia, dal realismo eroico del giovane combattente a quello fantastico delle pagine de Il cuore avventuroso, dal motto del ribelle – hic et nunc – a quello dell’Anarca della cittadina di Eumeswil, capitale trasfigurata di un Occidente trasfigurato. Le pagine di Schwilk giungono poi al “secondo Jünger”, il quale, presa visione di un’Europa incendiata da quell’elementare tanto invocato nelle pagine de Il lavoratore, si muove in cerca di regioni sottratte alla distruzione. Dapprima cerca rifugio nelle Wildnis di Oltre la linea, poi passa al bosco: non è una fuga romantica, ma l’adozione di un punto di vista differente sulla realtà stessa. Perché il bosco si trova anche nella metropoli, occorre solo saperlo individuare. Infine, decide di rimanere in agguato, come Anarca, accanto al potente, in attesa che questi cada, mantenendo un’apolitìa quintessenziata da forti ascendenze metafisiche. È il sogno dell’Anarca, individuato da Heimo Schwilk: non si comprende il proprio tempo se non attraverso la sua trasfigurazione – non meramente letteraria, come vorrebbe certa critica, ma anzitutto metafisica. Una trasfigurazione della cui necessità la biografia di Jünger è indice e segnale. Heimo Schwilk, Ernst Jünger. Una vita lunga un secolo, traduzione di Domenico Carosso, Effatà, Cantalupa 2013, pp. 718, € 22,00.
Negli ultimi tempi, la critica italiana ha mostrato particolare attenzione a quella singolare figura che fu Ernst Jünger, con la pubblicazione sia d’inediti in lingua italiana sia di studi relativi al suo pensiero. Da La questione degli ostaggi (Parma 2012) a Guerra e guerrieri (Milano 2012), contenente anche testi di Friedrich Georg Jünger; dall’ottimo studio di Luca Caddeo L’operaio di Ernst Jünger. Una visione metafisica della tecnica (Milano 2012) alla collettanea La mobilitazione totale. Tecnica, violenza e libertà in Ernst Jünger (Milano 2012) curata da Maurizio Guerri. Nuove generazioni hanno iniziato ad approcciare in maniera scientifica una delle figure più significative del Novecento. Tassello fondamentale di questa promozione è la monumentale biografia – una delle tre disponibili in tedesco – firmata da Heimo Schwilk, amico dello scrittore e attento esegeta del suo pensiero. Premio Goethe nel 1980, amico di Heisenberg, Borges e Heidegger, Jünger si è distinto come sismografo – secondo la definizione di Ernst Niekisch – del secolo breve, abile diagnosta di tutte le sue fasi e maschere. Schwilk ne ripercorre l’itinerario storico ed esistenziale, dalle battaglie di materiali della Prima Guerra Mondiale sino alle “irradiazioni” della Seconda, dalla vicinanza alla Rivoluzione Conservatrice (scrisse su molte delle riviste del tempo, tra cui «Die Standarte» e «Widerstand») fino alle attività del secondo dopoguerra, costellate di dialoghi a distanza con grandi protagonisti del Novecento, tra cui Martin Heidegger (Oltre la linea) e Carl Schmitt (Il nodo di Gordio). Una vita lunga un secolo si concentra in particolare sulla prima fase della sua vita, contrassegnata da una gioventù ribelle e anticonformista che lo condusse all’esperienza nella Legione Straniera (narrata nel romanzo Ludi africani) e a frequentare i Wandervogel, gruppi di studenti che alla piattezza della vita borghese e all’acosmia delle metropoli preferirono le avventure nelle foreste, anticipando notevolmente quei “ritorni alla natura” che spopoleranno negli anni Sessanta. Lo scenario muta radicalmente, giungendo alla “guerra totale”, preda dell’irruzione dell’elementare all’interno della cittadella costruita dai sistematismi dell’Ottocento. Proprio tra quelle macerie fumanti, simili agli spettrali crateri lunari, il Grande Solitario vide rinascere una nuova umanità, provata da una guerra sempre più tecnica e sovraumana. «L’Iliade sarebbe stata possibile con la polvere da sparo?» si domandava Marx nel 1859. Attraverso opere come Feuer und Blut, Il tenente Sturm, Boschetto 125 e Der Kampf als inneres Erlebnis, Jünger elaborò un’epica della nuova forma assunta dal conflitto. E, di conseguenza, dal mondo moderno. Nella sua diaristica della Grande Guerra si avverte già quanto caratterizzerà tutta la sua produzione a venire: l’elaborazione di uno stile all’altezza del nostro tempo. Se esso è certamente preda di un nichilismo senza pari, quest’ultimo consiste in quello scarto che condanna l’uomo a essere antiquato, come scrisse Günter Anders. La fenomenologia del Nulla si articola
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Un baccanale privato in poesia
Sulla narrativa di Gianfranco de Turris
di Guido Giorgio
di Gianpiero Mattanza
Le Muse si sono ritirate sulle vette ultramondane, abbandonando noi mortali all’implacabile stridor di denti della mediocre quotidianità. Permangono tuttavia alcuni interpreti moderni di quel canto lontano e sorgivo al cui potere mitopoietico la fantasia dei nostri antenati si è a lungo abbeverata. Fra di essi, un posto di riguardo spetta a Giuseppe Aziz Spadaro, poliedrico studioso e soprattutto artista di valore. Un contemporaneo, con una postura intimamente greca e rinascimentale: ellenica, in virtù della comprensione del ruolo sacrale e teurgico dell’operazione poetica, percepita come mania di platonica memoria, follia divina che pervade il poeta conducendolo in stati ontologici e conoscitivi superiori; rinascimentale, – come ben evidenziato dal critico d’arte Marco Bussagli – in base alla convinzione della natura universale delle arti e alla perfetta padronanza tanto del genere artistico poetico quanto di quello pittorico. Entrambe le qualità, per così dire animiche, dell’autore si rivelano pienamente nella sua più recente fatica, Baccanale privato, armonioso ensemble di componimenti poetici e riproduzioni a colori di opere pittoriche figurative. Un vero e proprio atanor, in cui l’alchimia delle parole giunge a piena maturazione seguendo un itinerario d’impronta spirituale e iniziatica, diretto a rivelare un’apertura di senso abissale e insieme a modificare la percezione esistenziale del lettore, nell’auspicio di un’autentica e sincera metanoia. La trascendenza immanente che anima le movenze poetiche di Spadaro si manifesta in figure esemplari, simboli e miti, talora presenti in modo evidente, altrove in umbratile velatezza. Obiettivo dell’immaginario costruito dall’autore risulta costantemente l’“altro”, la dimensione ulteriore dell’indicibile a cui solo la poesia – perlomeno nell’interpretazione di numerose fonti tradizionali e di svariati pensatori novecenteschi – può alludere senza ingabbiare e reificare. Emergono allora diverse figure, iconicamente dipinte secondo le tinte di una pervasiva nostalgia dell’Origine, per quella fonte nascosta che si diffonde a tratti in folgorazioni di luce: l’Ulivo, albero sacro e incarnazione dell’axis mundi, recante i segni «d’una millenaria sapienza/che arde perennemente/ nella patriarcale/luce d’una lucerna» (p. 15); il Saltimbanco, schiavo moderno della borghesia, dimentico del suo antico ruolo regale e sapienziale; il Tramonto, di cui l’Occidente è spenglerianamente terra destinale; il Re spodestato, figura sacrale cui porsi messianicamente in attesa; il Padre, simbolo dell’unità cosmica pre-storica infranta dalla genesi del molteplice; infine Chronos, il tempo che tutto divora e consuma, «dalla culla alla bara egli ci assilla/ci lèsina l’attimo» (p. 60). È in questa tensione mistica rivolta al kairos divino che si comprendono le parole della poesia Dolore, freddo marmo: «Dolore, freddo marmo,/la mia accusa è senza rancore,/la mia preghiera senza un oggetto,/e non ho altro da chiedere a Dio/che la mia vita mi basti ad acquistare/una certezza d’infinito/e che guarisca di questa malattia/che si chiama morte...» (p. 40). Un lamento drammatico, un urlo al cielo che sfiora le lande del nichilismo per perdersi nell’immaginazione, nell’emanazione fantastica e onirica delle tele che lo stesso Spadaro colma di simboli archetipali. È il medesimo afflato delle composizioni poetiche, in cui «viandanti si perdono/lungo le vie dell’infinito» (p. 16). Giuseppe Aziz Spadaro, Baccanale privato, presentazione di Noemi ed Emerico Giachery, consuntivo di Marco Bussagli, Edizione Studio Tesi, Roma 2013, pp. 110, € 18,00.
Profondo conoscitore del pensiero tradizionale, giornalista, saggista, scrittore, attento studioso e promotore del fantastico, il nome di Gianfranco de Turris non abbisogna di presentazioni per chi si occupa di questi argomenti. Forse non tutti sanno, però, che si è distinto anche come autore di narrativa. Due case editrici ripropongono ora due suoi lavori, a testimonianza di queste sue attività: stiamo parlando de Il vecchio che camminava lungo il mare e la crestomazia di racconti fantascientifici raccolti nel volume Futuro anteriore. Italian sci-fi graffiti. Due libri molto diversi per struttura e contesto narrativo, ma accomunati da un approccio sempre genuino nei confronti del fantastico. È un de Turris giovanissimo a interessarsi alla cosiddetta “fantascienza”: felice neologismo, questo, coniato nel 1952 da Giorgio Monicelli per indicare un nuovo genere letterario, volto all’immaginifica descrizione di mondi lontani e possibili futuri. Una (relativamente) nuova espressione artistica con la quale l’autore s’impratichisce nel giro di poco: sono degli anni Sessanta le prime prove narrative relative all’infinito (esiste forse un limite all’immaginabile?) mondo del fantastico. Da allora, il giornalista romano non ha mai smesso di scrivere racconti. Edito per la prima volta nel 1990, Il vecchio che camminava lungo il mare narra con stile agile e conciso l’incontro di un uomo – l’autore stesso? – con un personaggio stravagante la cui assiduità lo porta a frequentare per decenni una spiaggia della provincia romana, lungo cui il protagonista ha vissuto la propria personale parabola di bambino, ragazzo, uomo. Il vecchio sembra impegnato in un’interminabile raccolta di piccoli cocci di vetro trovati nella sabbia, lungo il bagnasciuga. Come mosso da una necessità interiore, da una curiosità irrefrenabile che è sintomo di vivacità intellettuale e spirituale, il narratore/protagonista/autore intende saperne di più. Si recherà quindi nella solitaria baracca in cui il vecchio conduce un’esistenza da eremita: l’incontro svelerà profondi misteri, relativi alla formazione, al passaggio dalla giovinezza all’età adulta… ma ne genererà allo stesso tempo altri, forse ancor più insondabili. Sulla stessa scia si muove la seconda pubblicazione, fresca di stampa per i tipi di Psiche e Aurora. Notevole antologia di brani provenienti da diverse epoche e edizioni, Futuro anteriore. Italian sci-fi graffiti condensa in modo efficace il messaggio che de Turris vuole consegnare al lettore: esiste un Altrove (nello spazio o nel tempo, poco importa) e la letteratura può essere una chiave per raggiungerlo. Se non fisicamente, almeno con l’immaginazione. Scorrendo i racconti che formano l’ossatura della pubblicazione si nota, non senza una certa inquietudine (vista l’attualità di determinate tematiche), l’onnipresenza del tema bellico, dello scontro titanico tra superpotenze. Aliene o terrestri. Anche nelle prove letterarie cronologicamente più vicine (si pensi, ad esempio, al recente La torre dell’eclissi, pubblicato in Cronache del neocarbonifero, antologia da lui curata per i tipi di Bietti), l’autore sembra non dimenticare l’oscura minaccia che incombe sull’uomo, se privato di quella libertà di pensiero e di coscienza in grado di portarlo oltre lo squallore tecnocratico del presente. Verso un Altrove reale, o anche solo immaginato. Gianfranco de Turris, Futuro anteriore. Italian sci-fi graffiti, prefazione di Luigi De Pascalis, Psiche e Aurora, San Donato Val di Comino 2013, pp. 245, € 12,00; Il vecchio che camminava lungo il mare, postfazione di Andrea Scarabelli, Tabula Fati, Chieti 2013, pp. 61, € 7,00.
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Lisbona, Salazar, Eliade
Julius Evola: storia di un’equazione personale
di Andrea Scarabelli
di Luca Siniscalco
Le nozze mistiche tra filosofia e politica sono sempre complicate, scrisse Franco Volpi: se molti furono, durante i primi decenni del Novecento, quegli intellettuali che scelsero di scommettere su talune realtà politiche, provando a orientarle in senso metastorico e “spirituale”, d’altro canto spesso e volentieri furono ignorati – se non addirittura emarginati – da quelle stesse realtà politiche nelle quali ebbero a credere. Monadi spirituali mai allineate, perennemente eterodosse, quintessenziate da un eterno dissenso che le escluse prima dai “libri paga” dei regimi e poi dagli scranni della cultura “alta” – derubricarli, come spesso è stato fatto, ad alfieri di quei politici da parte dei quali subirono diffide, scomuniche, finanche perquisizioni e più o meno tacite “messe al bando” è nella migliore delle ipotesi miopia storiografica, nella peggiore – spesso più frequente – banale malafede. La loro testimonianza esistenziale è invece il segno di una libertà intellettuale irrinunciabile e tantomeno ipotecabile dal Leviatano di turno, sia esso “dittatoriale” oppure “democratico”. È in un simile orizzonte che possiamo collocare il libro Salazar şi revoluţia în Portugalia di Mircea Eliade. Corredato da due saggi, firmati da Sorin Alexandrescu e Horia Corneliu Cicortaş, il libro vede per la prima volta la luce in edizione italiana, per i tipi di Bietti. Questo studio, leggiamo nell’introduzione, è nato da una domanda: «È possibile una rivoluzione spirituale, che abbia come protagonisti uomini che credono, anzitutto, nel primato dello spirituale? Il Portogallo di Salazar è forse l’unico Paese al mondo ad aver tentato di rispondere a simili domande». In realtà, Eliade si era già trovato di fronte ad altre convergenze di politica e spiritualità: la disobbedienza civile di Gandhi, dalle sfumature ascetiche, talune realtà cristiano-evangeliche anglosassoni e la Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu – casi abbastanza trasversali, che dovrebbero prevenire giudizi affrettati. Nella narrazione di Eliade, Salazar ha come obiettivo la «reintegrazione della nazione portoghese nel proprio destino storico», la quale sottende «la necessità di conservare la fede cristiana, latina ed europea», attraverso l’educazione delle nuove generazioni tramite «una concezione maschile, militare e romana dell’esistenza: la passione calma di fare il proprio dovere, vivere verticalmente, accettare con serenità il proprio destino». Eppure, pochi mesi dopo la pubblicazione, ecco la presa di distanza: «A pochi libri ho lavorato con un senso di disgusto come quello che mi domina e mi sfinisce da quando ho iniziato Salazar e la controrivoluzione in Portogallo» (questo il titolo originariamente ipotizzato). Perché allora scriverlo? «Per servire il più possibile al mio Paese, per avere almeno l’illusione di stare compiendo il mio dovere in tempo di guerra». La notte del 29 maggio 1942, alle quattro e mezza del mattino, lo storico delle religioni conclude, stremato, lo studio, che consegna ad alcuni «Romeni di Rio», in partenza da Cais do Sodré: «Non riesco a credere che, finalmente, sono libero», annota. Verrà dato alle stampe a Bucarest e uscirà in autunno. L’autunno di un anno ma anche di una stagione storica. «Un ciclo si chiude», scrive entusiasta Mircea Eliade. I macelli della Seconda Guerra Mondiale insanguineranno ogni profezia e vaticinio. Mircea Eliade, Salazar e la rivoluzione in Portogallo, a cura di Horia Corneliu Cicortaş, postfazione di Sorin Alexandrescu, Edizioni Bietti, Milano 2013, pp. 314, € 24,00.
È da poco in libreria la nuova edizione di un libro che manca all’appello da più di quattro decenni, la cui precedente pubblicazione risale al 1972. Si tratta dell’autobiografia spirituale di Julius Evola, Il cammino del cinabro, in una nuova edizione dotata di un corposo apparato di note esplicative – in tutto più di cinquecento –, bibliografie per i singoli capitoli, una gran quantità di documenti inediti, una bibliografia completa di tutte le opere evoliane, includente le edizioni straniere, nonché un apparato di fotografie provenienti dagli archivi della Fondazione Julius Evola. A spiegarci la struttura di questo volume è Gianfranco de Turris, segretario della Fondazione dedicata al filosofo romano: «Il libro venne pensato da Evola come una guida postuma alle sue opere. Fu il suo editore, Vanni Scheiwiller, a chiedergli di pubblicarlo in vita, per chiarire numerosi equivoci nati da Cavalcare la tigre». Alla prima edizione del 1963 ne seguì una accresciuta, nove anni dopo: la terza «utilizza molti dei materiali emersi negli ultimi quarant’anni, per completare quanto detto nella biografia e colmare le lacune del libro, dovute a dimenticanze – o ad altri motivi, che non conosciamo». Si tratta, continua de Turris, di un libro che in qualche modo ricapitola le varie attività del filosofo romano: «Trattandosi di domini molto vari, che vanno dalla tradizione ermetica alla metafisica del sesso, dalla critica – quanto mai attuale – al neospiritualismo alla riflessione politica, dalla filosofia alle dottrine orientali, ognuno può scegliere di quale occuparsi, secondo la propria, come la chiamò Evola stesso, equazione personale». Da qui la sua collocazione nella storica collana “Opere di Julius Evola”, all’interno della quale Il cammino del cinabro occupa una posizione molto particolare: «Ho pensato a questo libro come a un’opera propedeutica, che andrebbe letta prima degli altri libri, di modo da avere una panoramica generale dei suoi studi. Un libro per i nuovi lettori, dunque, ma anche per i veterani, che troveranno in queste pagine molti materiali completamente sconosciuti, provenienti dagli Archivi Generali dello Stato, da fondi privati e dalla Fondazione J. Evola». Quali i nuovi progetti della collana in questione, che compie vent’anni? Anzitutto, continua de Turris, «una nuova edizione de L’individuo e il divenire del mondo ricca di documenti e di apparati, poi la riedizione di Ricognizioni». Infine, un’ultima chicca: «Vorrei approntare un libro per ricapitolare le attività del filosofo romano, dell’Evola artista, comprendente tutto: pittura, poesia, saggistica e via dicendo». Quale, gli chiediamo a conclusione di questa breve conversazione, l’attualità della riflessione evoliana? «Il suo messaggio è la necessità di un processo di ricostruzione interiore in un mondo che ha perso qualsiasi riferimento valoriale. La catastrofe della politica, del vivere comune, della morale e la disgregazione di quelli che sembravano punti di riferimento immodificabili sono lì a dimostrarlo». Una sapienza assai preziosa per affrontare la crisi che stiamo vivendo, dunque, di cui le pagine evoliane de Il cammino del cinabro sono importante e imprescindibile breviario. Julius Evola, Il cammino del cinabro, terza edizione corretta e aumentata, saggio introduttivo di Geminello Alvi, revisione, bibliografie, documenti e note a cura di Gianfranco de Turris, Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa, Edizioni Mediterranee, Roma 2014, pp. 439, € 32,50.
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Hanno collaborato a questo numero Claudio Bartolini, codirettore della collana di cinema Bietti Heterotopia, è critico e redattore del settimanale «Film Tv» e collabora con il mensile «Nocturno Cinema». Ha pubblicato monografie sul thriller italiano e sulla “settima arte” di Pupi Avati, David Cronenberg e Armando Crispino. Mario Bernardi Guardi, scrittore e giornalista, ha ideato rubriche per quotidiani e periodici, diretto associazioni e sodalizi, promosso iniziative, collaborato con la RAI, animato spazi di dibattito come la Versiliana, in veste di conduttore e coordinatore. Autore di centinaia di articoli e saggi, collabora con varie testate, come «Libero», «Il Tempo», «il Corriere della Sera-Corriere Fiorentino». Luca Bistolfi, traduttore e studioso di questioni euro-orientali, vive e lavora tra l’Italia e la Romania. Collabora con testate giornalistiche nazionali, tra cui la rivista di studi geopolitici «Eurasia». Ha tradotto e curato La fine dei Ceausescu (Aliberti, 2012). Appassionato di musica classica, ha pubblicato un’indagine sulla Morte di Wagner (Effepi, 2011). Liviu Bordaş ha studiato filosofia e indologia in diverse università europee e indiane. Oggi ricercatore a Bucarest, è stato borsista e visiting fellow presso diversi istituti e università in Europa, India e Stati Uniti. Autore di due libri, ne ha curati altri due e ha collaborato a diverse collettanee internazionali. È membro della Società Italiana di Storia delle Religioni. Massimo Carloni, studioso di Scienze politiche presso l’Università di Urbino, ha pubblicato diversi studi su Cioran in riviste internazionali e in volumi collettanei. Ha curato F. Thoma, Per nulla al mondo. Un amore di Cioran (l’orecchio di Van Gogh, 2010); E. M. Cioran, L’agonia dell’Occidente (Bietti, 2014) e, con H. C. Cicortaș, E. M. Cioran, ineffabile nostalgia. Lettere al fratello (di prossima pubblicazione per Archinto). Horia Corneliu Cicortaș ha studiato filosofia all’Orientale di Napoli, dove ha conseguito il dottorato di ricerca. Insegna Religioni dell’India presso il CSSR-FBK di Trento. Ha curato Salazar e la rivoluzione in Portogallo di M. Eliade (Bietti, 2013). È presidente del Forum degli intellettuali romeni d’Italia e membro della Società Italiana di Storia delle Religioni. Emanuela Costantini è ricercatrice in Storia contemporanea presso l’Università di Perugia. Il suo principale settore di ricerca riguarda la costruzione dello stato nazionale nell’area balcanica. Tra le sue principali pubblicazioni, Nae Ionescu, Mircea Eliade, Emil Cioran. L’antiliberalismo nazionalista alla periferia d’Europa (Morlacchi, 2005). Valentina Elia ha conseguito all’Università di Bari la laurea triennale in Lingue e Letterature straniere e quella magistrale in Lingue per la Cooperazione internazionale. Ha approfondito il romeno in un soggiorno di sei mesi a Iași. Insegna italiano per stranieri, scrive e traduce articoli di attualità culturale e sociale. Giorgio Guido ha frequentato con successo studi filosofici, scoprendosi versato alla vita accademica. Tuttavia, appurata la scomparsa dell’Accademia platonica, si è dedicato alla scalata dell’unico ateneo rimasto: quello della vita. Studioso di esoterismo, antimodernismo ed estetica, collabora a svariate iniziative culturali. Purché ciniche, anticonformiste e invise ai più. Gianpiero Mattanza, dopo una breve esperienza al Conservatorio di Musica “Luca Marenzio”, consegue la laurea triennale in Lettere Moder-
ne all’Università Statale di Milano, dove è studente magistrale. Giornalista pubblicista, collaboratore del «Giornale di Brescia», svolge la mansione di addetto stampa per eventi di vario genere. È redattore della rivista «Antarès». Roberta Moretti si è laureata con una tesi in estetica su Ioan Petru Culianu. Ha svolto ricerche, pubblicate in riviste specializzate, in Italia e all’estero, presso il Center for the Study of World Religions (CSWR) dell’Università di Harvard, l’Università di Iași e l’Università KwaZuluNatal di Durban. Ha curato Il Rotolo diafano di I. P. Culianu (Elliot, Roma 2010). Adolfo Morganti, cittadino sammarinese, è Console Onorario della Repubblica di Romania. Fondatore del Movimento Paneuropeo Sammarinese, è attualmente il terzo presidente dell’Associazione Culturale Internazionale Identità Europea (www.identitaeuropea.it). Radu Motoca, nato in Romania nel 1969, ha conseguito il dottorato in Filosofia presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma, dove vive. È segretario in carica del Forum degli intellettuali romeni d’Italia e direttore di ricerche presso il Dignitatis Humanae Institut. Andrei Pleșu, personalità di spicco nella cultura romena contemporanea, scrittore, pensatore e storico dell’arte, fondatore di istituzioni culturali, in Romania è stato ministro della Cultura (1990-1991) e degli Affari Esteri (1997-1999). È rettore del New Europe College di Bucarest. Il suo Minima moralia: elementi per un’etica dell’intervallo è di prossima pubblicazione in lingua italiana. Draga Rocchi è dottore di ricerca in filosofia alla Sapienza di Roma, dove collabora con la cattedra di Estetica. È vicepresidente dell’Associazione Euroikìa. Tra le sue pubblicazioni: Luoghi del movimento nel pensiero di Martin Heidegger (Lithos, 2013); La silenziosa forza del possibile. Note a margine di Essere e tempo (Lithos, 2011). Si occupa di metafisica e fenomenologia. Giovanni Rotiroti, psicanalista di formazione, insegna romenistica all’Università Orientale di Napoli. La sua critica è animata dall’interesse per la traduzione e la psicanalisi in rapporto all’opera letteraria e filosofica prima e dopo la cesura di Auschwitz. Ha scritto saggi su Urmuz, Ionesco, Cioran, Eliade, Noica, Dan Botta, N. Stănescu, I. L. Caragiale, Tristan Tzara, B. Fondane, Gherasim Luca e Paul Celan. Lara Sanjakdar ha conseguito il titolo di dottore in Filosofia presso L’Università Ca’ Foscari di Venezia con una tesi sui concetti di tempo ed eternità in Mircea Eliade. Ha pubblicato in Italia e in Romania vari articoli sulla mitologia europea e, recentemente, il volume Mircea Eliade e la Tradizione. Tempo, mito, cicli cosmici (Il Cerchio, 2013). Andrea Scarabelli collabora con la cattedra di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano, la Scuola Romana di Filosofia Politica e la Fondazione Julius Evola. Per le Edizioni Bietti, oltre alla rivista «Antarès», dirige la collana “l’Archeometro”. Suoi contributi, articoli e recensioni sono apparsi su varie testate, cartacee e online, e in diversi volumi collettanei. Luca Siniscalco, studente di Scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano, è redattore di «Antarès», caporedattore della sezione Cultura di «Luuk Magazine» e collaboratore di «Barbadillo». Suoi articoli e saggi sono apparsi su riviste, quotidiani e in diverse antologie. La sua tesi triennale sul dadaismo evoliano è stata pubblicata sul sito della Fondazione Julius Evola.
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DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE: Andrew MacDonald La Seconda Guerra Civile Americana Angel Crespo La vita plurale di Fernando Pessoa Ray Bradbury Interviste (1949-2008)
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ARRETRATI
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N. 00/2011 H.P. LOVECRAFT
N. 01/2011 IL PENSIERO IN CAMMINO
N. 02/2012 UN’ALTRA MODERNITÀ
N. 04/2012 L'ALTRA FACCIA DELLA MONETA
N. 05/2013 MODERNITÀ OCCULTA
N. 06/2014 AMERICA! AMERICA?
N. 03/2012 J.R.R. TOLKIEN
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IN QUESTO NUMERO CIORAN E LA POESIA DEL FALLIMENTO Una trasfigurazione mancata all’ombra dei Carpazi COSTANTIN NOICA: IL DIVENIRE ENTRO L’ESSERE Una testimonianza filosofica della Romania contemporanea IL GIOVANE ELIADE DALL’ITALIA ALL’INDIA La «tentazione orientale» del grande storico delle religioni EUGÈNE IONESCO E LA «COSA BALCANICA» Lo spaesamento intellettuale di una generazione in esilio GHERASIM LUCA: «COME USCIRNE SENZA USCIRE» I versi visionari di un poeta in terra straniera EMIL CIORAN: UN ABISSO DI VITALITÀ «Un amore di Cioran»: Friedgard Thoma NAE IONESCU E LA «GIOVANE GENERAZIONE» Il magistero silenzioso di un Socrate moderno SERGIU AL-GEORGE, L’INDIA E MIRCEA ELIADE La nascita dell’indologia nella Romania novecentesca IL FALSO MITO DI DRACULA Il principe Vlad III oltre i cliché letterari IL GRANDE (DITTATORE) RIMOSSO Ceausescu: il tabù della cinematografia rumena CARTEGGI Emil Cioran, Mircea Eliade, Giovanni Papini INEDITI Emil Cioran, Mircea Eliade, Ioan Petru Culianu, Andrei Pleşu
NEL PROSSIMO NUMERO Il sogno del Piccolo Principe: Saint-Exupéry e il suo tempo