Fare il PD

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FARE IL PD Il prossimo Congresso dovrà anzitutto rispondere alla domanda se e in che modo il progetto del Partito Democratico possa ancora essere utile all’Italia. Noi siamo convinti che dalla scelta di fare il PD non si possa tornare indietro e che anzi il compito di fare davvero il PD e di esprimerne tutte le potenzialità sia ancora davanti a noi. Nei sei anni trascorsi dalla sua nascita, il PD si è radicato nel Paese, ha consolidato responsabilità rilevanti nel governo degli enti locali e oggi, anche se a seguito di un esito elettorale e un percorso post-voto diversi da quelli auspicati, esprime con un proprio esponente la guida del governo nazionale. Pur nel pieno di una convulsa trasformazione della struttura politica del Paese e della più grave crisi economica dal dopoguerra, siamo giunti a essere la prima forza politica del Paese e quella con le maggiori responsabilità di governo a livello nazionale e locale. Tuttavia è indubbio che il processo di crescita e assestamento del partito non sia arrivato a un esito compiuto. Il Congresso dovrà riflettere a fondo sul cammino fin qui percorso e sulle rilevanti novità dello scenario post-elettorale. La nostra convinzione è che quanto avvenuto renda ancora più necessario rilanciare un grande soggetto politico di ispirazione popolare e riformista, che investa con ancora maggiore decisione e spirito innovativo sulla sintesi delle sue culture politiche fondative, orgoglioso della sua originalità ma saldamente ancorato alla famiglia dei progressisti europei. Un partito che alle sempre più forti spinte di cambiamento, semplificazione e di partecipazione diretta dei cittadini sappia offrire una risposta alternativa al populismo qualunquista e alla personalizzazione esasperata. Fare il PD per ricostruire la democrazia italiana nel cuore del processo di formazione dell’Europa federale: questa è l’altezza della sfida storica a cui collocare la nostra riflessione e la nostra iniziativa con il Congresso. Le note che seguono vogliono essere un primo contributo in questa direzione, sulla base della convinzione che il confronto sui contenuti politici debba essere prioritario rispetto a quello sulle candidature. Il testo, che in quanto prima traccia di discussione è privo di ogni pretesa di esaustività e si propone anzi di stimolare altri contributi anche su temi qui non affrontati, si articola attorno a quattro nuclei tematici: l’analisi del voto di febbraio in una prospettiva europea, la riforma dello Stato e delle istituzioni, la proposta economica e il radicamento sociale del partito, il rilancio del PD come soggetto politico collettivo fondato sulla partecipazione consapevole e non sulla delega plebiscitaria. 1. Il voto italiano nel contesto europeo: ricongiungere moneta e sovranità democratica. Non si riesce a individuare neppure lontanamente l’epicentro del terremoto elettorale italiano del 24-25 febbraio 2013 se non lo si inquadra nel contesto della crisi dell’euro e dei suoi poderosi effetti politici. Una crisi che in Europa ha potentemente acuito quel processo di svuotamento delle democrazie nazionali verificatosi nell’intero Occidente lungo il trentennio della globalizzazione neo-liberale e del gigantesco riassetto economico e geopolitico tuttora in corso. L’esplosione di consensi per il M5S e la rottura dello schema bipolare difficilmente possono essere spiegati in una chiave angustamente domestica, come è finora prevalentemente avvenuto nel dibattito pubblico e anche nella nostra discussione interna. Ciò non significa affatto cancellare il peso delle scelte e anche degli errori politici che sono stati compiuti, e neppure sottovalutare una condizione già esistente di sofferenza dell’economia e della società italiana. La pesante perdita di competitività del sistema produttivo e la mancanza di dinamismo sociale avevano già precise cause interne: i mancati investimenti in ricerca e tecnologia, il collasso del sistema formativo, le liberalizzazioni frenate, il ritardo nel campo dei diritto individuali, l’inefficienza burocratica, il più


alto tasso di corruzione e di evasione fiscale in Europa dopo la Grecia, la presenza pervasiva della criminalità mafiosa. Lo sconvolgimento del panorama politico a cui abbiamo assistito è dovuto all’intreccio di questa situazione interna con la circostanza che l’Italia, nel pieno della crisi economica globale, si sia trovata intrappolata dentro i micidiali difetti di costruzione dell’architettura dell’euro. Un dispositivo economico e istituzionale che, se non corretto, è inevitabilmente destinato a portare il sistema democratico-rappresentativo, non solo in Italia, alla paralisi e al definitivo discredito. Il nostro principale errore è stato forse proprio quello di non essere stati del tutto conseguenti rispetto a questo punto cruciale. La critica delle politiche europee di austerità ha caratterizzato le posizioni del PD a partire già dallo scoppio della crisi dei debiti sovrani dell’eurozona, in una fase in cui Berlusconi e Tremonti cercavano di contrastare la vertiginosa crescita dello spread, accelerata dalla totale perdita di credibilità del loro governo, accettando vincoli di bilancio palesemente insostenibili. La decisione di appoggiare la nascita del governo Monti, in qualche misura obbligata di fronte alla prospettiva di un imminente default finanziario del Paese, ha tuttavia portato a indebolire questa consapevolezza – l’ineluttabilità di un processo di impoverimento e di crescita della disoccupazione all’interno dell’attuale assetto della moneta unica – nell’elaborazione della linea politica e del messaggio di fondo da trasmettere ai cittadini. Non aver fatto di questo il punto assolutamente centrale nel rapporto con l’elettorato durante la fase di sostegno al governo Monti e poi durante la campagna elettorale ha favorito la parziale ripresa del populismo berlusconiano, nel frattempo disinvoltamente riposizionatosi su una linea anti-austerità e anti-tedesca, e l’esplosione del voto anti-sistema di Grillo. A suo modo, una larga maggioranza degli elettori, al di là delle sue precedenti appartenenze, ha espresso la convinzione che dentro gli attuali meccanismi dell’eurozona nessuna proposta di cambiamento avrebbe avuto la forza di affermarsi e di arrestare la tendenza alla contrazione dell’economia italiana. In questo quadro, il sostanziale blocco delle misure di riforme della politica ha concorso a irrobustire il vento della contestazione alla politica e ai suoi costi. Questa contestazione ha raggiunto livelli tali da far perdere di vista, anche al PD, la distinzione tra la causa e l’effetto. La cosiddetta antipolitica è stata fortemente alimentata dall’emergere di vergognose ruberie ed episodi di corruzione, ma ha tratto origine anzitutto dalla percezione dell’impotenza dei partiti, del Parlamento e del governo. Una percezione, peraltro, non allucinata ma reale: quella di una politica che sempre di meno è il potere di fare le cose, di trasformare la realtà, di decidere dell’allocazione delle risorse e della risoluzione dei conflitti (tutte attività sempre meno possibili per effetto della perdita di sovranità monetaria e della progressiva espropriazione della sovranità di bilancio, man mano che la crisi dei debiti pubblici si acuisce), e sempre di più si riduce a pura rappresentazione mediatica. In un quadro in cui l’unica funzione percepibile dei politici diventa quella di andare in televisione a parlare di cose che non sono riusciti a fare o che non si possono fare, e in cui settori crescenti della società italiana subiscono processi di impoverimento impensabili fino a qualche anno fa, il rifiuto dei costi di un’attività avvertita come inutile perché ininfluente diventa un tema di massa e la domanda di cambiamento viene declinata in forme sempre più rabbiose e radicali. Il PD ha provato a reagire investendo sull’apertura civica e sulla partecipazione con la sfida delle primarie per la premiership e per i parlamentari. Si è trattato di una scelta coraggiosa, che è riuscita tuttavia a dare una risposta solo ‘soggettiva’ e ‘sovrastrutturale’ a una richiesta ben più sostanziale di decisioni e riforme reali rivolta all’intero sistema politico. Le primarie hanno prodotto un effetto positivo nell’immediato, ma tutto è cambiato nella stretta finale, quando il PD, per la doppia ragione di aver sostenuto fino alla fine con lealtà il governo Monti e di presentarsi favorito alle elezioni su una linea di responsabilità e di un cambiamento rispettoso delle ‘compatibilità’ europee, è apparso come il soggetto più governativo e istituzionale. Il coraggio e la credibilità personale di Bersani


hanno arginato l’impatto di un voto di sfiducia e scontento, ma complessivamente l’europeismo responsabile del PD non è apparso una risposta adeguata alla radicalità della richiesta di cambiamento. Si tratta adesso non certo di rincorrere Grillo e Berlusconi sul populismo anti-tedesco, ma di affermare una linea di serietà e di verità, a partire da un dato che l’esito delle consultazioni elettorali e le rilevazioni dei sondaggi stanno confermando in tutti i paesi della periferia meridionale dell’eurozona (una periferia che peraltro sempre di più tende a inglobare al proprio interno la Francia). L’unico europeismo democratico sostenibile è oggi quello che afferma con chiarezza l’insostenibilità dello status quo e mette la Germania di fronte alla vera scelta che essa dovrà compiere dopo le elezioni di settembre: un superamento delle politiche di austerità e di rigore monetario in cambio di un poderoso salto in avanti nella costruzione di un governo federale dell’eurozona. Le posizioni recenti di Hollande e Moscovici indicano che anche la Francia, il Paese culturalmente e storicamente più restio a ragionare di trasferimenti di sovranità, si sta predisponendo ad affrontare questo tema, di fronte alle ricadute sempre più pesanti dell’attuale assetto dell’euro anche sull’economia francese. È tempo di superare discorsi astratti e proiettati in un futuro indefinito sulla trasformazione dell’UE a 27 membri negli Stati Uniti d’Europa (in una situazione in cui nel Regno Unito si ricomincia a parlare seriamente di fuoriuscita da questa Europa a bassa intensità…) e di accelerare invece con decisione nel dotare l’area dell’euro (quella per cui davvero, e non solo retoricamente, oggi l’Europa rappresenta una ‘comunità di destino’) delle istituzioni rappresentative e di governo economico in grado di fungere da embrione di una democrazia federale. Per un Paese nelle condizioni dell’Italia, ricongiungere moneta e sovranità democratica è oggi un imperativo sia economico che politico: è l’unica via per rimanere nell’euro evitando che i livelli di benessere raggiunti nei decenni scorsi vengano progressivamente erosi dall’intreccio perverso fra gli effetti della crisi e i vincoli insostenibili del Fiscal Compact, ma è anche l’unica strada per restituire potere decisionale e prestigio al processo democratico. Rendere centrale questo tema nel dibattito pubblico italiano, affermarne la cruciale complessità di fronte alle scorciatoie populiste significa ricostruire la funzione di un gruppo dirigente che si legittimi in forza della sua visione storica e della sua autonomia culturale, evitando di rincorrere in modo subalterno la desolante povertà e la nevrosi quotidiana di un dibattito mediatico in cui la politica rischia di certificare solo la sua definitiva superfluità e irrilevanza. Se il punto è questo, se davvero il destino della democrazia e dell’economia italiana è affidato al superamento delle politiche di sola austerità e all’evoluzione in senso federale dell’eurozona, bisogna fare di ciò il punto di partenza della nostra iniziativa politica di fronte al Paese e della spiegazione dell’impegno di governo assieme ai nostri avversari politici della destra. Prima del voto, abbiamo lavorato per mettere definitivamente all’angolo il berlusconismo e per costruire le condizioni di una collaborazione con il centro di Monti, con l’idea che esso avrebbe sottratto al PDL la rappresentanza in Italia del popolarismo europeo e avrebbe consentito la nascita della coalizione europeista possibile nelle specifica situazione italiana. Questo disegno, anche per la debolezza del progetto politico di Monti, non è riuscito, e, dopo la convulsa fase post-elettorale ci siamo trovati nella necessità di formare la groβe Koalition nella sua versione più indigesta, con una destra berlusconiana di nuovo in campo e rilegittimatasi agli occhi del popolarismo europeo in forza di una riconquistata influenza politica. A un po’ di distanza, si inizia a comprendere meglio (il risultato delle ultime elezioni amministrative dice anche questo) che aver perseguito con determinazione l’obiettivo del governo del cambiamento attribuisce al PD presso un’opinione pubblica larga, nonostante la pessima prova data durante l’elezione del Presidente della Repubblica, una riserva di credibilità ben maggiore di quanto appaia nelle rappresentazioni mediatiche correnti o anche nella nostra discussione interna. L’empasse e la possibile disarticolazione interna di fronte


alla quale oggi il movimento di Grillo si trova conferma che una parte significativa dell’elettorato si è sentito tradito rispetto a una richiesta di cambiamento, che deve per noi in ogni caso rimanere l’orizzonte strategico al quale tendere. Oggi, nelle condizioni date, la riserva di credibilità che abbiamo preservato su questo fronte è una risorsa decisiva per spiegare al Paese il senso del nostro convinto sostegno alla missione del ‘governo di servizio’ guidato da Enrico Letta. Tocca al PD caratterizzare la funzione storica di questo esecutivo nella fase cruciale che si aprirà dopo le elezioni tedesche. Si tratterà, da un lato, di contrastare, nella coscienza di vasti strati popolari, l’avventurismo isolazionista e anti-europeo del M5S e, dall’altro, di convogliare la posizione anti-austerità della destra su un terreno costruttivo. Il governo Letta è chiamato a divincolare il nostro Paese dalla morsa dell’austerità non certo lisciando il pelo a suggestioni antieuropee, ma facendo dell’Italia un protagonista centrale della nascita del nocciolo federale dell’eurozona. 2. L’impotenza della democrazia e la sfida del populismo: riconnettere partecipazione e decisione. L’altro compito decisivo a cui è chiamata la legislatura che si è aperta è la riforma delle istituzioni. Su questo il gruppo dirigente del PD è chiamato a parlare al Paese con forza e chiarezza. La riforma della seconda parte della Costituzione non è il prezzo che dobbiamo pagare all’accordo di governo con la destra, ma è una necessità storica ineludibile per rivitalizzare le istituzioni democratiche, nel momento in cui l’Italia è chiamata a reggere la sfida di un salto qualitativo nell’integrazione europea. Il superamento del bicameralismo e l’istituzione del Senato delle Autonomie, la riduzione del numero dei parlamentari, il connesso ammodernamento dei regolamenti parlamentari, la correzione del Titolo V della Costituzione in direzione di un corretto equilibrio tra competenze statali e regionali, la necessità di una regolamentazione organica dei partiti e delle loro forme di finanziamento e, last but not least, la scelta coerente di una forma di governo e di una relativa legge elettorale sono esigenze su cui da anni si discute, senza essere mai riusciti a individuare le condizioni politiche per passare dalle parole ai fatti. I nostri avversari della destra hanno dimostrato in più occasioni di saper galleggiare nel discredito della politica e delle istituzioni; per una forza come il PD, invece, reggere il peso delle larghe intese senza riuscire a corrispondere con i fatti a una richiesta di riforma della politica rischia di essere un colpo letale. L’inadeguatezza dell’attuale assetto istituzionale viene ormai percepita in un’opinione pubblica larga, non più solo tra gli esperti, come uno dei segni più evidenti di paralisi e inconcludenza del sistema politico. Dobbiamo sapere che, in una situazione storicamente peculiare come quella italiana, un’ulteriore stasi del processo riformatore non è certo destinata a rafforzare il consenso attorno all’impianto costituzionale, ma rischia di alimentare spinte di radicale semplificazione in senso populista e plebiscitario. È evidente che, sulla base della tradizione politico-costituzionale del nostro Paese, la via maestra consisterebbe in un ammodernamento del sistema di governo parlamentare e in una conferma della funzione di garanzia del Presidente della Repubblica. E tuttavia l’esperienza ci insegna che solo un vasto consenso attorno a un disegno coerente è in grado di garantire il successo di un tentativo riformatore e la certezza dei suoi tempi. Su un tema del genere non si può pertanto trascurare l’esigenza di una ragionevole mediazione. Se allora è vero che oggi il contenuto sociale e partecipativo della prima parte della Costituzione può essere salvaguardato solo se si accetta la sfida di un deciso ammodernamento della sua seconda parte, a priori non si può rifiutare di discutere nemmeno l’ipotesi di spingersi oltre le colonne d’Ercole del suo impianto parlamentare. La ragione di ciò non risiede semplicemente nel fatto che il modello semi-presidenziale alla francese è la forma di governo che consentirebbe di raggiungere un


compromesso con la destra su una legge elettorale fondata sul doppio turno di collegio. Il punto è piuttosto ragionare su un nuovo equilibrio dei poteri, che consenta di dare uno sbocco democratico e costituzionale a una spinta alla personalizzazione e a un’istanza di decisione diretta da parte dei cittadini che, se non riconosciuta e canalizzata entro forme regolate, rischia di accentuare le deformazioni plebiscitarie del ventennio berlusconiano e di travolgere ogni presidio istituzionale. È peraltro da dimostrare che il rischio di un’uscita di tipo ‘sudamericano’ dalla crisi democratica sia maggiore con un sistema semi-presidenziale accompagnato da un forte ruolo di un’assemblea legislativa composta da parlamentari scelti dai cittadini in un’elezione distinta, da una rinnovata funzione dei partiti sulla base di una legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione e da una seria normativa su anti-trust e conflitto di interessi, piuttosto che con forme di ‘premierato forte’ non sufficientemente bilanciato, in cui il capo del governo disponga del potere di scioglimento delle Camere e magari anche, per effetto di una legge elettorale come l’attuale, del potere di nomina di una buona parte dei parlamentari. Ciò a cui occorre tendere è, in ogni caso, un sistema equilibrato, che sia dotato di forza decisionale e insieme degli indispensabili contrappesi istituzionali. L’obiettivo deve essere quello di ricostruire un nesso tra partecipazione e decisione democratica, ridefinendo la funzione dei partiti e del Parlamento in un quadro in cui le trasformazioni sociali e culturali producono una forte istanza di protagonismo diretto dei cittadini. In questo senso, il nostro avversario non è il semipresidenzialismo in sé, ma qualsiasi curvatura in senso populista sia del presidenzialismo che del premierato. 3. Per una nuova creazione di valore oltre la crisi: uguaglianza, lavoro, diritti, impresa. L’Italia giusta è stato lo slogan centrale della campagna elettorale del PD. Si è discusso della sua efficacia comunicativa, ma certo la scelta è stata coerente con il tentativo compiuto durante gli anni della segreteria Bersani di fare dei temi del lavoro e dell’eguaglianza il baricentro dell’identità del partito dopo la lezione della crisi economica globale. La vittoria elettorale dimezzata di febbraio è stata interpretata da alcuni come il segno che questo baricentro identitario vada rimesso in discussione. Il problema è forse più complicato e dovrebbe indurre a maggior cautela rispetto a sia pur legittimi desideri di rivincita nel confronto interno al PD. In primo luogo, l’argomento che il profilo politico-programmatico del partito fosse non sufficientemente aperto alle istanze liberali è stato adoperato ben prima del voto, soprattutto a partire dalla nascita del governo Monti e dalla celebrazione della sua famosa ‘agenda’. Per mesi è vissuta nella nostra discussione interna l’idea che l’adesione a questa agenda sarebbe dovuta divenire il tratto centrale della nostra proposta al Paese, in quanto in grado di catalizzare un consenso trasversale e maggioritario. L’esito elettorale della lista Monti, lontanissimo dalle aspettative non solo dei suoi protagonisti ma anche di quanti nel PD sostenevano questa posizione, dimostra che il problema di andare oltre il recinto del tradizionale radicamento sociale della sinistra italiana è decisamente più complesso. Questo problema certamente esiste, al di là della dimensione numerica insoddisfacente del risultato del PD. Tutte le principali analisi qualitative del voto del 24-25 febbraio 2013 segnalano che il centrosinistra ha tenuto decisamente meglio le posizioni tra i lavoratori del pubblico impiego, i pensionati e gli elettori con elevato livello di istruzione, mentre ha visto accentuarsi le sue difficoltà tra lavoratori autonomi, lavoratori dipendenti del settore privato, piccoli e medi imprenditori, precari e disoccupati. È stato acutamente osservato che l’accentuazione di questo dato nel voto di febbraio ha segnato l’affermazione di una sorta di bipolarismo sociale in luogo di un declinante bipolarismo politico. L’obiettivo di rompere la gabbia di questo bipolarismo sociale deve certamente essere uno dei temi centrali del prossimo congresso. Dovremo riflettere non


sull’accantonamento, ma su una nuova e più coinvolgente declinazione dei temi del lavoro e dell’uguaglianza, in grado di parlare a coloro che sono ai margini dell’attuale sistema di welfare e che tuttavia non appartengono a quella ristretta area di fasce sociali privilegiate uscite ancora più ricche dalla crisi. È una frontiera difficile, ma irrinunciabile se non si vuole rinchiudere il PD in una condizione di minorità rispetto alla struttura reale della società italiana e a un futuro in cui l’area del pubblico impiego e di coloro che beneficiano più direttamente della spesa pubblica sarà destinata a restringersi. Il cuore pulsante dell’economia italiana è ancora il tessuto di piccole e medie imprese a carattere familiare, che affrontano le difficoltà della crisi e della globalizzazione. Esse rappresentano un giacimento straordinario di competenze e passioni, oltre che un veicolo di mobilità sociale. Ma per parlare ad artigiani, commercianti, microimprenditori, precari e piccoli professionisti con partita IVA non bastano certo ricette un po’ politiciste come lo spostamento al centro o l’assunzione di un profilo più ‘moderato’. Si tratta peraltro di ceti ormai che hanno subito drastici processi di impoverimento, piuttosto radicalizzati nel loro atteggiamento nei confronti della politica e a cui semmai bisogna offrire messaggi forti. La valorizzazione del lavoro e la lotta a sperequazioni ormai insostenibili nella distribuzione del reddito non sono di per sé posizioni ostili o indifferenti a questi mondi, che non vanno vezzeggiati lisciando il pelo ai loro risentimenti, ma aiutati a superare gli ormai evidenti elementi di arretratezza del ‘microcapitalismo italiano’. La sfida è quella di trovare un linguaggio e soluzioni concrete su temi come un nuovo patto fiscale fondato sull’alleggerimento della tassazione su imprese e lavoro, la riforma del welfare, la semplificazione burocratica, il recupero del gap infrastrutturale, la difesa efficace contro le infiltrazioni e i condizionamenti criminali in aree sempre più vaste del Paese. In fondo, a ben vedere, si tratta di figure sociali essenziali per sviluppare nuove forme di creazione del valore e di intrapresa economica dopo la crisi del capitalismo finanziario e della rendita. Su questo si giocherà una decisiva sfida di innovazione, da cui non dipende solo la competitività elettorale del centrosinistra, ma la possibilità di costruire un’alleanza sociale per il cambiamento delle forze del lavoro, dell’inventiva produttiva e commerciale, del sapere. Si tratterà anche di ridefinire un ruolo economico dello Stato nel suo rapporto con le forze del mercato e dell’impresa, oltre le ingannevoli suggestioni neoliberali dello ‘Stato minimo’ e oltre l’idea altrettanto irrealistica di un’economia trainata solo dal settore pubblico. Si pensi, ad esempio, a quanto un approccio di questo tipo sia necessario per tornare ad affrontare, dopo la grande rimozione dell’ultimo decennio, la grande questione del Mezzogiorno, che appare, oggi più che mai, come il segno più macroscopico e drammatico dell’inadeguatezza della forma-Stato e dell’economia italiana rispetto alla sfida dell’integrazione europea. O a come questa innovazione culturale sia necessaria per ripensare il nostro welfare con il concorso attivo di forze che da anni ormai agiscono tra il mercato e la Stato, come l’impresa sociale e il mondo del Terzo settore. Una moderna politica industriale, degli investimenti e della ricerca disegna il profilo di uno Stato che, con un uso accorto della spesa pubblica e con alcuni presidi economici fondamentali, aiuta la società a riorganizzarsi, a fare rete e cooperazione, a valorizzare le energie della produzione, a mettere in circolazione i saperi, a contrastare illegalità e corruzione. È un grande campo di riflessione e di innovazione, aperto nei partiti progressisti in diversi Paesi del mondo e su cui anche il pensiero ispirato alla dottrina sociale della Chiesa sta offrendo contributi di prim’ordine. Anche in Italia il centrosinistra può oltrepassare i suoi confini non rinculando su posizioni rese anacronistiche dalla crisi economica, ma guardando ai nuovi bisogni e alle nuove potenzialità che la grande trasformazione in atto dischiude alle forze della produzione, del sociale, del sapere. Su questa nuova frontiera si colloca anche il tema di un allargamento e di una tutela più efficace della sfera dei diritti individuali, in cui la dimensione sociale si intreccia con quella della libertà individuale. Di qui passa


un altro sentiero decisivo per il cambiamento della struttura economico-sociale del Paese e il superamento delle sue strozzature e arretratezze. 4. Controcorrente: per un soggetto politico collettivo. La riflessione sul partito deve essere condotta senza ipocrisie e toccare i punti di fondo, se vogliamo capire cosa non ha funzionato fin qui e soprattutto quale idea di partecipazione democratica abbiamo in testa. In questi anni è enormemente aumentato il sovraccarico di richieste insoddisfatte che gravano sul sistema democratico. Ne è derivata una spinta ancora più forte alla semplificazione del linguaggio e dei tempi della politica. Questa spinta, non trovando alcuno sbocco in una riforma delle istituzioni e dei partiti, si è tradotta in un ulteriore scivolamento verso il modello dell’uomo solo al comando, il primato della comunicazione e la riduzione della partecipazione a delega plebiscitaria al leader. Un modello di cui Berlusconi è stato il principale interprete e che –lo abbiamo visto- porta consenso ma non soluzioni. Noi siamo convinti che fare davvero il PD significhi essere alternativi e non arrendersi a questo tipo di logica. Questa è una discriminante di fondo che comporta delle conseguenze strutturali nel modo di intendere il partito. Per ristabilire un nesso tra partecipazione e decisione è indispensabile che chi aderisce al PD sia consapevole di rimettere una parte della sua soggettività decisionale a un confronto e a una deliberazione di tipo collettivo. Senza questo elementare principio d’ordine un partito non è un soggetto collettivo e non è in grado di assicurare quel grado di unità e affidabilità senza il quale esso diventa inutile per i suoi membri e per la società intera. Solo così una ricchezza di partecipazione sociale può pervenire a esiti di decisione. Agli albori della democrazia di massa i partiti sono stati inventati proprio perché il singolo individuo, senza associarsi con quanti condividevano i suoi interessi, non avrebbe contato nulla nel processo decisionale. Oggi la società contemporanea ha frammentato appartenenze e convinzioni, ma quel punto di fondo permane, in una situazione in cui è enormemente più difficile aggregare ‘parti politiche’sulla base di interessi omogenei e in cui le nuove tecnologie dell’informazione, accanto alle straordinarie opportunità informative che offrono, rischiano di attutire la percezione del singolo di non avere alcune incidenza sulle decisioni che contano. Il populismo leaderistico appare in sintonia con lo spirito dei tempi anche perché ha un’affinità elettiva, forse neanche troppo segreta, con questa ‘logica atomizzante’ di un certo uso della rete: al singolo viene consentito di sfogarsi, lisciando il pelo alla sua rabbia e ai suoi legittimi risentimenti, ma in realtà non gli si sta dando un potere reale, ma gli si sta togliendo il potere faticosamente costruito con la democrazia costituzionale dei partiti: quello di concorrere con le persone a lui affini per interessi e convinzioni a trovare le soluzioni collettive ai problemi. O il Partito Democratico si pone l’obiettivo di ricostruire un rapporto tra l’espressione della soggettività individuale e il vincolo che la ricerca di decisioni collettive comporta, dando uno sbocco costruttivo anche alle nuove spinte partecipative che emergono dalla rete, oppure si consegna definitivamente alla logica del suo avversario e a un terreno, quello della semplificazione populista, su cui è difficile che possa mai vincere. L'alternativa che ha di fronte il PD è quella di continuare a essere - al di là dei richiami retorici e statutari - un semplice ‘spazio politico’ variamente frequentato nel periodo di tempo che intercorre tra un'elezione primaria e un'altra, oppure diventare un soggetto politico che ricostruisce un nesso tra partecipazione e decisione, facendo in modo che iscritti ed elettori possano davvero contribuire, attraverso una consultazione e un confronto di tipo deliberativo, alla discussione di programmi e scelte politiche, oltre che alla selezione di gruppi dirigenti e candidature. Se nel recente passato abbiamo perduto molto, forse troppo tempo, in una sterile discussione tra i fautori del ‘partito liquido’e quelli del ‘partito pesante’, oggi si deve evitare il rischio di ripetere


l'errore di dividersi inutilmente e strumentalmente sul tema ‘primarie sì’ – ‘primarie no’. L'applicazione per la prima volta in Italia e in Europa di uno strumento di selezione delle candidature politiche pensato e attuato in un contesto culturale e politico così differente dal nostro come quello degli Stati Uniti rappresenta un incontestabile tratto innovativo del PD. Non si tratta, dunque, di negare il valore positivo e inclusivo dello strumento delle primarie, ma proprio per valorizzarlo ulteriormente è necessario avviare una riflessione critica, alla luce dell'esperienza (con luci e inevitabili ombre) vissuta in questi anni. Ad esempio, c'è da interrogarsi non tanto sulla giustezza di usare le primarie per il segretario nazionale quand'anche si modificasse la norma statutaria che unifica leadership di partito e candidatura alla premiership, ma se non sia stata una forzatura usare questo strumento per l'elezione dei segretari regionali e non sia meglio, invece, privilegiare una visione organizzativa e politica che affidi agli iscritti la selezione degli organismi territoriali di partito. Ciò non deve implicare una chiusura all’interno delle strutture di partito, ma anzi la ricerca di forme nuove per coinvolgere in ruoli di elaborazione e direzione politica, oltre alla ‘militanza’ tradizionale, la ‘vicinanza’ di un civismo socialmente impegnato, di competenze e di saperi, che l’applicazione del metodo delle primarie alla vita interna di partito non sempre è riuscita a valorizzare. Dal canto suo, l'albo dei partecipanti alle primarie - così faticosamente costruito nell'autunno scorso - non può continuare a essere una sorta di miniera di informazioni inesplorata e inutilizzata. Bisogna rilanciare in termini credibili l’idea del PD come partito di elettori e di iscritti, in cui siano garantite ai primi forme di coinvolgimento che non si limitino al giorno delle primarie e ai secondi un ruolo decisionale effettivo non solo nella scelta degli organi dirigenti, ma anzitutto su grandi e dirimenti questioni politiche, attivando finalmente lo strumento del referendum interno. Il prossimo Congresso nazionale del PD, inoltre, dovrà avviare un ripensamento sul modello organizzativo, dando attuazione a una riforma in senso federale del partito, sia per quanto attiene al delicato tema della ripartizione delle risorse economiche, sia in merito una revisione dei criteri di composizione degli organi nazionali (assemblea e direzione), per i quali è necessario prevedere l’elezione di una quota non inferiore alla metà direttamente da parte delle organizzazioni territoriali e una più forte valorizzazione del ruolo degli amministratori locali. Anche da un’innovazione del genere passa l’ormai indispensabile ridimensionamento del correntismo come forma primaria di selezione degli assetti dirigenti del partito. Rafforzare l’interazione fra centro, organizzazioni territoriali e amministratori locali è la via per fare in modo che le diverse aree assumano non una configurazione correntizia verticale (che rende subalterna la vita politica dei territori alle dinamiche interne del centro del partito), ma una fisionomia politico-culturale. Differenti matrici e prospettive per affrontare gli stessi problemi, non il modo per guardare a problemi e obiettivi diversi, come rischia di avvenire nel caso di una cristallizzazione correntizia. Da questo punto di vista, bisognerebbe prendere in considerazione l’idea di dotare il partito di una propria autonoma struttura dedicata all’analisi sociale e all’elaborazione culturale, anche per fare in modo che la pluralità oggi esistente di associazioni, centri studi e fondazioni riconducibili alle diverse aree e personalità del PD non si traduca in dispersione e incomunicabilità dei risultati, ma possa essere messa in rete e condotta a esiti di sintesi che rendano realmente fecondo il pluralismo di radici culturali del partito. I rischi di trasformazione del partito in una giungla di comitati elettorali, perfettamente oliati e funzionanti in occasioni di congressi e primarie e praticamente assenti nella vita quotidiana di circoli e organi territoriali di direzione politica, sono sotto gli occhi di tutti. Far finta di non vedere la realtà in nome di un’acritica difesa del feticcio delle primarie non contribuisce certo a trovare soluzioni capaci di combattere gli effetti disgregativi del correntismo e delle affiliazioni puramente personali. Senza contare, inoltre, che la riduzione del partito a una mera confederazione di correnti e comitati elettorali, impegnati ciascuno in un’autonoma raccolta di risorse e finanziamenti e in


una competizione sregolata tra loro, acuisce il rischio di fenomeni degenerativi sul piano della trasparenza e del rigore dei comportamenti. Contrastare la china involutiva del correntismo è anche la condizione per riproporre in termini non puramente declamatori la questione morale come tratto qualificante dell’azione del PD e della selezione dei suoi gruppi dirigenti e dei suoi candidati a tutti i livelli. I processi sociali di frammentazione e individualizzazione hanno messo in crisi i partiti di massa in tutta Europa. Da nessuna parte però è avvenuta, come da noi, una delegittimazione dei partiti tale da contestare la loro stessa funzione democratica. Solo da noi -caso unico tra tutte le democrazie continentali- il principio del finanziamento pubblico dei partiti, pur se ridimensionato e soggetto a una regolamentazione rigorosa, viene contestato alla radice. A cosa ha condotto però la contrapposizione con la società civile e il radicamento di una pervasiva ideologia anti-partito a livello popolare e di classi dirigenti? A un’incapacità di mediazione e di sintesi unificanti, a una maggiore disarticolazione territoriale e sociale, a una perdita di orizzonte nazionale di molti interessi settoriali che, ancor di più in una fase di crisi economica come quella attuale, hanno rafforzato il loro carattere corporativo. Per contrastare tali fenomeni abbiamo bisogno di un partito che, da un lato, riaffermi l’autonomia e l’essenzialità della politica, dall’altro, ne riconosca i limiti. Un partito che unisca orgoglio e umiltà, che sappia riconoscere i confini della sua azione e si ponga perciò l’obiettivo di un rapporto strutturalmente aperto con la società, un rapporto di affiancamento e collaborazione con movimenti democratici e civici, che pretendono politicità senza per questo pretendere di sostituirsi alla politica. La prospettiva di un grande partito popolare e riformista costituisce l’unica speranza per l’Italia. I recenti avvenimenti ci dicono che, se vogliamo realizzare questa speranza, dobbiamo lavorare ancora molto sul piano politico-culturale e su quello organizzativo,ma che il progetto del PD, in quanto legato a una necessità storica del Paese, rimane più forte delle sue debolezze.


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