Frammenti di mare

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ad Attilio Cerruti e Carmelo Maggio


Le immagini sono di proprietà di CNR/IAMC - Istituto per l’Ambiente Marino Costiero Sezione Talassografico “Attilio Cerruti” Taranto Direzione editoriale Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli onlus Comitato editoriale Fabio Caffio, Carmela Caroppo, Rosa Anna Cavallo, Fernando Rubino Gestione del materiale iconografico Gianfranco Bartolacci Progetto grafica e impaginazione Pasquale Bondanese Stampa Stampasud S.p.A. Edizione 2009


a cura di Ester Cecere e Salvatore Mellea

Frammenti di mare Taranto e l’antica molluschicultura

Fotografie d’epoca di Attilio Cerruti

contributi di Giovanni Acquaviva, Giorgio Alabiso, Benito Antonelli, Fabio Caffio, Carmela Caroppo, Rosa Anna Cavallo, Piero Massafra Lucia D’Ippolito, Giovanni Fanelli, Michele Pastore Aldo Perrone, Giuseppe Portacci, Fernando Rubino, Massimo Vaglio

Fondazione Michelagnoli CNR - IAMC - Taranto


Prefazione Frammenti di mare di Salvatore Mellea

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Attilio Cerruti, uno scienziato rigoroso e un fotografo appassionato di Ester Cecere

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Carmelo Maggio e la cultura del mare di Fabrizio Martello

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Taranto e l’antica molluschicultura L’oltraggio sofferto Sintesi della sintesi degli ultimi centocinquant’anni di Piero Massafra

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Molluschicoltura a Taranto ai primi del novecento La regolamentazione: dalle origini ad oggi 36 di Fabio Caffio • L’origine della molluschicoltura a Taranto: lo sviluppo produttivo delle antiche tecniche • Regime giuridico di pesca nei Mari di Taranto • Il libro rosso: un codice ante litteram sulla pesca responsabile 70 La lunga storia dei diritti della molluschicoltura nei mari di Taranto di Michele Pastore • Premessa • I prodotti della molluschicoltura • Concessioni, Cooperative, Aziende Demaniali, Centro Ittico Tarantino-Campano nella storia gestionale della molluschicoltura tarantina • Conclusioni e prospettive La mitilicoltura a Taranto di Giorgio Alabiso e Giuseppe Portacci • L’allevamento “in sospensione” su pali • L’evoluzione dell’allevamento in sospensione: dai pali ai galleggianti

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Tecniche e durata del ciclo di allevamento dei mitili Imbarcazione ed attrezzi usati in mitilicoltura

L’ostricoltura tarantina: ieri, oggi e domani di Giovanni Fanelli e Giuseppe Portacci • La storia dell’ostricoltura tarantina • Le tecniche di allevamento • Il declino dell’ostricoltura • L’ostricoltura riparte....dalla ricerca • L’ostricoltura tarantina...domani

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Ammiragli e ostriche, variazioni sul tema di Giovanni Acquaviva

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L’allevamento sperimentale della cozza pinna di Rosa Anna Cavallo e Carmela Caroppo

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L’industria del bisso marino a Taranto nel XX secolo: miraggio oppure occasione mancata? di Lucia D’Ippolito • Un mito da sfatare • La lavorazione del bisso marino a Taranto: da quando? • La lavorazione del bisso marino a Taranto: dalla tradizione all’industria?

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La cozza e gli altri molluschi tarantini...in cucina di Massimo Vaglio

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Il Premio Taranto. Il più bel premio d’Italia di Aldo Perrone Colophon

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Gli autori

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La Bibliografia

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La Fondazione Michelagnoli CNR/IAMC Sezione Talassografico “Attilio Cerruti” - Taranto

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Finestre di approfondimento Il Mar Piccolo di Taranto

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di Carmela Caroppo I Citri del Mar Piccolo

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di Fabio Caffio L’antica gestione del mare: le piscarie

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di Michele Pastore La professione del mitilicoltore a Taranto. Intervista

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di Giuseppe Portacci e Fernando Rubino Sulle due specie di mitili che è facile trovare in vendita a Taranto

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di Fernando Rubino Le imbarcazioni tipiche dei mitilicoltori tarantini

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di Benito Antonelli L’antica arte dei maestri d’ascia. Intervista

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di Ester Cecere e Giuseppe Portacci L’ostrica tarantina e ... l’invasore giapponese

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di Giovanni Fanelli e Giuseppe Portacci “‘A Parɘcèddɘ”

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di Carmela Caroppo e Rosa Anna Cavallo Verità e pregiudizi sulle cozze

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di Massimo Vaglio La cozza istruzioni per l’uso

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di Massimo Vaglio Le ricette della tradizione

di Massimo Vaglio

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Frammenti di mare

Sulle rive dello Jonio, dove il mare penetra profondamente nel cuore della Puglia, Taranto, superata la “Grande Guerra” e il primo sorgere dei moti fascisti, è una città quieta e dolce che gravita intorno all’Arsenale e che in buona parte si crogiola nel benessere che la Marina direttamente o indirettamente dispensa. Tanti però vivono di pesca e allevamento di mitili in un mare, il Mar Piccolo, che continua a consumare e segnare di rughe, oggi come allora, la pelle dei pescatori insieme al legno delle “lànzɘ” e ai cordami delle “zóchɘ”. Coltivare il mare non è solo valorizzare una risorsa economica ma è anche, per pochi ma non pochissimi, scienza e passione. L’Istituto Talassografico muove i suoi primi passi e Mar Piccolo è un immenso campo sperimentale dove Attilio Cerruti, fondatore dell’Istituto, svolge le sue ricerche applicative con un atteggiamento estetico che lo porta costantemente a fotografare il suo ambiente. Le sue fotografie hanno il pregio di evidenziare e fissare una realtà che vive di vita propria e che non si collega al momento vissuto ma diventa una straordinaria occasione per ricostruire un passato che non c’è più. Il libro prende spunto proprio da questa preziosa e ampia collezione di fotografie, sapientemente raccolta e conservata dal Talassografico. Sono immagini che raccontano il mondo del Mar Piccolo, ai primi del Novecento, attraverso scene di vita e lavoro quotidiano legato al mare e alla coltivazione di mitili, scorci di una città che oggi è cambiata, ritratti di uomini dell’epoca, pescatori, mitilicoltori, ostricari e borghesi. Lo “sguardo fotografico” di Cerruti ci riporta uno scenario umano e ambientale di rara bellezza. La mite attitudine di “còzzarulɘ” e ostricari, la dignità e la compostezza del loro atteggiamento, la particolare espressione del viso anche a causa dell’uso delle lastre che rendevano indispensabili fotografie in posa, rappresentano non solo un particolare ma l’intera realtà conoscibile che caratterizzava socialmente e culturalmente la città. Se per Cerruti quelle fotografie facevano parte della sua quotidianità, per noi oggi rappresentano un prezioso documento del passato, carico delle suggestioni che la memoria del passato evoca, e una sorta di ritratto della Taranto autenticamente legata al mare.

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Insieme ai Ricercatori del Talassografico abbiamo recuperato con cura le numerose lastre fotografiche in vetro, le abbiamo amorevolmente pulite dalla crosta del tempo, cercando di non alterare lo strato di emulsione e, usando una macchina digitale ad elevata definizione, abbiamo fotografato i negativi impressi sulle lastre. Il materiale fotografico riprodotto in formato digitale ha consentito di evitare una manipolazione eccessiva delle lastre fotografiche oltre alla possibilità di visionare, catalogare e riprodurre le immagini in tempo reale. Abbiamo così raccolto questi frammenti di mare e di vita sul mare, immortalati da Cerruti, fotogrammi di una sorta di film Luce che ci ha immerso nell’atmosfera culturale del tempo legata al mare di Taranto. Queste immagini affascinanti e magiche ci hanno suggerito alcune riflessioni sul patrimonio ambientale e culturale della città, sugli aspetti socio-economici della Taranto del Novecento e sugli usi del mare e delle sue risorse, con particolare riferimento alla molluschicoltura. E ci inducono a considerare con particolare attenzione la necessità di tutelare il nostro mare e di “promuovere una cultura che saldi nelle coscienze il valore del mare”, come era solito dire Carmelo Maggio, ideatore della Fondazione Michelagnoli e straordinario esempio di dedizione a un ideale perseguito con passione e impegno, la cultura del mare. Ad entrambi, Attilio Cerruti e Carmelo Maggio, dedichiamo questa pubblicazione. Salvatore Mellea*

(*) Salvatore Mellea, è il Direttore Generale della Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli onlus.

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Attilio Cerruti, uno scienziato rigoroso e un fotografo appassionato

Attilio Cerruti (1879-1956), dopo aver lavorato a Napoli dove si era laureato in Scienze Naturali ad appena ventidue anni, fu scelto da un’autorevole commissione come direttore del Laboratorio Demaniale di Biologia Marina annesso all’Istituto Tecnico per la Molluschicoltura, istituito a Taranto. A quel tempo, infatti, la molluschicoltura non versava in buone condizioni (corsi e ricorsi della storia!); pertanto, si ritenne necessaria un’istituzione locale per condurre studi e ricerche finalizzati al rilancio di questa attività. E Cerruti si trasferì a Taranto, che divenne poi la sua città adottiva, dove iniziò la sua attività nel 1914. Al fine di migliorare la produzione dei molluschi eduli, egli iniziò lo studio della loro biologia per migliorarne le condizioni di allevamento; studiò la biologia e sperimentò le tecniche di allevamento anche del bivalve Pinna nobilis (in tarantino, “parɘcèddɘ”), il cui bisso veniva tradizionalmente usato per la produzione di un particolare e prezioso tessuto, per evitare che la raccolta del gran numero di individui necessari per la produzione di quel tessuto, potesse causare il depauperamento dei banchi naturali. Ma Cerruti studiò attentamente e da diversi punti di vista anche i mari di Taranto, il Mar Piccolo ed il Mar Grande, quei mari nei quali da secoli venivano allevati i mitili e le ostriche che avevano reso famosa la nostra città. Infatti, al fine di migliorare le condizioni di allevamento dei pregiati molluschi, era necessario conoscere la produttività di quei mari; pertanto, Cerruti studiò le caratteristiche chimiche e fisiche delle acque e il plancton effettuando mensilmente, in numerose stazioni e per diversi anni consecutivi, misurazioni che ora costituiscono serie storiche di dati di grande importanza in quanto permettono di rilevare gli eventuali cambiamenti verificatisi in tempi recenti. Le ricerche di Cerruti rappresentano ancora oggi un punto di partenza di fondamentale importanza per tutti i ricercatori che, con qualunque scopo, si accingono allo studio dell’ecosistema dei mari di Taranto. L’uomo Attilio Cerruti amava il suo lavoro. Tanta precisione, tanta accuratezza, tanto rigore non erano dettati solo dall’applicazione del metodo scientifico ma dall’amore per quello che faceva e dalla ferma convinzione dell’utilità di quello che faceva. Questo traspare chiaramente, a più di

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mezzo secolo dalla sua morte (avvenuta a Taranto), dopo che il tempo ha definitivamente spento le inevitabili critiche dei contemporanei, dalle oltre 1000 lastre fotografiche che ci sono pervenute. Cerruti documentava ciascuna fase di ogni suo esperimento con una precisione ed una scrupolosità che fanno invidia a noi ricercatori altamente tecnologici. Le sue foto, anche quelle scattate al microscopio che hanno come soggetto, ad esempio, le larve dei molluschi, mettono in risalto il particolare di interesse scientifico con tanta abilità tecnica che lo stesso particolare salta all’occhio anche del profano. La copiosa documentazione fotografica di ogni esperimento ne permette la comprensione quasi senza la lettura del testo che lo descrive. Ha amato tanto il suo lavoro, Attilio Cerruti, da mettere a disposizione di appassionati che, come lui, avevano nel DNA, potremmo dire, il “gene della ricerca”, sia i laboratori dell’istituto che il suo stesso tempo. Delle tante lastre fotografiche che ci ha lasciato, infatti, molte riguardano le alghe dei mari di Taranto, raccolte e studiate dalla professoressa Irma Pierpaoli (Roma, 1891 Senigallia, 1967), che in quegli anni insegnava all’Istituto Tecnico “Pitagora”. Irma Pierpaoli, che ci ha lasciato un ricchissimo erbario, raccoglieva le alghe durante le sue passeggiate sulle rive dei due mari e le portava ad Attilio Cerruti, il quale ne fotografava al microscopio i particolari importanti, probabilmente su indicazione della stessa Pierpaoli. Ha amato moltissimo anche il “suo” istituto, Attilio Cerruti. Quell’istituto che fu chiamato a dirigere e che oggi porta il suo nome, la cui sede ha tanto caparbiamente e fortemente voluto. Così grande, così funzionale ed attrezzato (soprattutto per l’epoca) eppure così bello, in cui ogni particolare architettonico parla del mare. E ne ha documentato tutte le fasi della costruzione, a partire dallo scavo delle fondamenta e dalla posa della prima pietra, con la tenerezza di un padre che vede crescere la propria creatura. E poi con orgoglio e soddisfazione, ha fotografato, da varie angolazioni, la costruzione ultimata (nel 1934), tutti gli ambienti con i loro arredi: i diversi laboratori, la camera oscura, la sala degli acquari, la sala delle conferenze, la preziosa biblioteca e, persino, il deposito degli apparecchi oceanografici. Infine, con una punta di umana vanità, si è concesso egli stesso all’obiettivo di uno sconosciuto fotografo: nel suo studio, intento a scrivere a macchina, in laboratorio, al microscopio, e mentre fa da cicerone ad ospiti illustri. Ma sicuramente amava anche il mare, Attilio Cerruti, quel mare di Taranto che egli, nato in provincia di Potenza (a Picerno), aveva adottato. Lo dicono, lo gridano, quasi, ancora dopo tanti anni, le sue fotografie. Quel mare fotografato, anche se per documentare le attività di ricerca, al pag. 12


tramonto controluce, punteggiato di barche cariche di fascine, decorato dalle “zoche di cozze” poste a “sciorinare”, calmo o che ribolle sopra i “citri”; quel mare ritratto con l’attenzione di chi vuole cogliere anche la bellezza, la dolcezza, la poesia di un paesaggio tanto caratteristico e tanto caro. Con quell’occhio particolare che ha solo chi fotografa con amore un soggetto che ama. E amava anche i suoi collaboratori, Attilio Cerruti. Li ha fotografati intenti a confezionare le ceste per l’allevamento delle ostriche, mentre preparano i “pali delle cozze”, quando attraccano in prossimità dei caratteristici capanni, mentre mostrano gli strumenti scientifici e i reperti biologici, mentre effettuano misurazioni dalle imbarcazioni dell’istituto. Ma li ha ritratti anche, tra un’operazione e l’altra, in posa, sorridenti, come faremmo noi con degli amici, quasi a voler immortalare il lato umano di quegli uomini, che effettuavano un lavoro umile e faticoso, con indosso, come allora si usava, giacca e gilet. Li ha ritratti durante una pausa di lavoro, mentre accarezzano dei gattini, come a voler mostrare la tenerezza di quegli uomini dal viso segnato dal sole e dal mare ma solo apparentemente rudi. Quella tenerezza con cui egli stesso guardava, attraverso l’obiettivo della sua macchina fotografica, i bambini che giocavano in riva al mare. Il valore di quello che Cerruti ci ha lasciato va ben oltre, quindi, l’importanza della sua eredità scientifica. Egli ci ha insegnato che è importante amare quello che si fa, che è necessario volere per ottenere, che vale sempre la pena di seminare…..anche se chi raccoglie sono coloro che ci succedono! E noi lo ringraziamo per quello che ci ha lasciato e ci ha insegnato, come ricercatore e come uomo. Ester Cecere*

(*) Ester Cecere, è primo ricercatore presso il CNR/IAMC Talassografico “A.Cerruti” di Taranto.

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Carmelo Maggio e la cultura del mare

Il 27 dicembre 2004 è una data che è rimasta scolpita nella mia memoria. Quel giorno trascorsi più di mezz’ora al telefono con Carmelo, in una delle tante telefonate che ci scambiavamo per coordinarci a distanza, io Presidente a Roma e lui Direttore Generale a Taranto, per condurre in modo condiviso la Fondazione. Non fu una delle tante ma l’ultima telefonata, perché dopo pochi giorni mi giunse la brutta notizia che si era sentito male. Rifiutai da principio l’idea di irrimediabilità e mi attaccai per giorni, settimane alla illusione che tutto sarebbe tornato come prima; finché compresi, attraverso le notizie che mano a mano mi venivano date, che non ci sarebbe stato nulla da fare. Carmelo Maggio. Uomo di mare, uomo di cultura, uomo di visione. Ma soprattutto, in particolare in questo contesto, l’uomo della Fondazione Michelagnoli, da lui fortemente voluta con entusiasmo e tenacia incredibili subito dopo essersi ritirato dal servizio attivo svolto in Marina. Tutto nacque da una sua felice intuizione, sicuramente collegata alla sua sensibilità di marinaio, sul vuoto che esisteva in campo nazionale riguardo ad enti che fossero alfieri di quell’anima marittima così intrinseca al nostro Paese, vista trasversalmente ai vari segmenti culturali, quindi sotto l’aspetto della storia, dell’arte, della religiosità, dello sviluppo sociale, della flora e fauna, della sicurezza, insomma di tutte le possibili discipline che da tale anima erano attraversate. Il 1989 è l’anno in cui la Fondazione, intitolata al nome di un grande uomo di mare della Marina Militare Italiana, iniziò ad operare ufficialmente e ad ottenere il consenso, il supporto, le adesioni e le collaborazioni di istituzioni ed organismi diversi; a riconoscimento della serietà di intenti e del rigore scientifico che caratterizzava il suo operato. Più tardi, nel 1992, la Fondazione riceverà il giusto riconoscimento giuridico, a coronamento dell’impegno senza tregua di Carmelo Maggio. Da allora, fino alla sua scomparsa nell’Aprile del 2005, è stato il Direttore Generale della Fondazione, della quale mi onoro di essere il Presidente dal 1998, per cui posso ben testimoniare quanto grandi e determinanti siano stati il suo valore ed il suo merito nel consentire alla istituzione di diventare, come lo è oggi, punto di riferimento nazionale della cultura del mare intesa in senso interdisciplinare. Il ricordo delle lunghe telefonate con lui, che si inserivano a viva forza nella mia pesante realtà di lavoro del periodo, ha il sapore della fuga dalla aridità quotidiana verso un mondo pieno di umanità pag. 14


e di cultura che ruotavano intorno al mare. Era difficile non farsi contagiare dalla sua passione, dal suo entusiasmo e ancora sento il dispiacere che provavo quando talvolta buttavo un po’ di cautela e di riflessione critica sul suo lanciare il cuore oltre l’ostacolo; ma nel momento stesso in cui lo facevo, e un po’ me ne mortificavo, lo stesso Carmelo mi ringraziava, da un lato risollevandomi e dall’altro dimostrandomi quanto fosse elevata la sua integrità intellettuale, che gli consentiva di accettare qualsiasi dialettica su quelle stesse idee che stava entusiasticamente propugnando, avendo come unico obiettivo il successo della Fondazione. Le sue idee, i suoi progetti erano sempre audaci, alimentati da una inesauribile voglia di promuovere la cultura del mare, di quel mare che amava tanto e che aveva permeato la sua vita, sia durante il suo servizio in Marina sia dopo averlo lasciato. Questa sua voglia era rivolta in particolare verso i giovani, verso i quali le sue iniziative di divulgazione erano spesso dedicate, quasi a voler creare un ponte certo verso quel futuro che troppo presto si è interrotto per lui. Non erano per niente trascurabili la sua sensibilità e la sua cultura artistica, che costituivano un supporto prezioso alle iniziative della Fondazione, contribuendo a rendere Carmelo un riferimento autorevole, piacevole e credibile a tutti i livelli istituzionali ed accademici e nobilitando le attività che la Fondazione intraprendeva sotto la sua sicura guida operativa. Provo un grande rimpianto per il fatto che Carmelo non sia qui a dare il suo ineguagliabile contributo ad una pubblicazione che, ne sono sicuro, avrebbe amato particolarmente; in essa vengono accostati in una sintesi pressoché unica un antico ed umile mestiere di Taranto, la molluschicoltura, con una serie di finestre e di scorci su un variegato contesto culturale, storico e sociale, economico e letterario, biologico e scientifico, tradizionale ed evoluto. E non era proprio nel DNA di Carmelo la coesistenza tra ambizione ed umiltà, tra semplicità e cultura, tra sogno e pragmatismo? Provo rimpianto, sì; ma provo anche una grande felicità nel vedere pubblicata questa opera. Essa significa che Carmelo è tuttora con noi, che siamo stati capaci di valorizzare quello che ci ha lasciato, che siamo riusciti a percorrere la strada che ci ha indicato; la “sua” Fondazione c’è, è viva e prosegue inesorabilmente ad esistere nel segno dei suoi orientamenti. Fabrizio Martello*

(*) Fabrizio Martello, è il Presidente della Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli onlus.

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

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Taranto e l’antica molluschicultura

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Frammenti di mare

Taranto e l’antica molluschicultura

L’oltraggio sofferto Sintesi della sintesi degli ultimi centocinquant’anni di Piero Massafra

Ai tarantini che se ne accorsero, gli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia Gli “alberi” di Taranto galleggiano e come frutti pendono reti, cime e vele. Il mare dei piccoli naviganti: l’unica “impresa” tota nostra. Un suggestivo scorcio del molo S. Eligio con a sinistra la fontana che dà il nome alla piazza.

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dovettero apparire poco dissimili dai giorni esaltanti della creazione. Fu come se dal nulla secolare emergesse un presente insperato ed inimmaginabile. I quasi trentamila serrati e chiusi nella città vecchia furono “liberati”, liberi di andare oltre il “fosso” e dunque verso una nuova storia che marciava sui sentieri antichi e sulle larghe “platee” del passato: ma di ciò erano consapevoli in pochi, e soprattutto forestieri. Insomma la città si preparava ad espandersi e quel pó di classe dirigente che si riuscì a raccogliere in quei giorni pensò ad un piano urbanistico (Conversano) che pur ridotto, trasformato, banalizzato, e soprattutto alterato, continua a sopportare i passi dei tarantini ancora oggi. Dunque, sorsero le nuove case e il dilagare edilizio s’indirizzò soprattutto verso oriente, come per un richiamo occulto del dna storico forse memore del fatto che lì si era manifestato lo splendore di Taras. La città tentò di mostrarsi degna dell’investimento che l’intera nazione faceva su di essa e volle presentarsi nelle sue opere edilizie con una composta solennità, riecheggiando nei primi isolati patrizi gli stili più celebri dell’architettura italiana, spesso anche elegantemente variando sul tema, e sempre proponendo un equilibrio di forme e una misura tali da far ben sperare. Per questa esigenza di presentarsi al paese, alla storia e soprattutto a se stessi quali portatori di gusto, equilibrio e consapevolezza culturale, i “nostri” di quel fine ‘800 appaiono rispetto ai pronipoti di ben altro spessore e serietà! La città dei pescatori si fa dunque industriale ed artigiana senza ancora rinnegare o vilipendere i precedenti millenni di pesca e… nulla più.


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Taranto e l’antica molluschicultura

Piazza Castello all’imboccatura del vecchio ponte girevole sul Canale: una posta di pɘrdónɘ bambini durante i riti della Settimana Santa tarantina.

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In questa voglia di nuovo e di solenne forse qualcosa si smarrì e certo Conversano non poteva essere l’“architetto” della provvidenza, in grado di leggere negli spazi ad occidente ed oriente dell’isola, anche i graffiti che la storia vi aveva artigliato. Bisognava essere moderni e geometrici! e così il complesso di S. Pasquale, il Carmine, il Ss Crocifisso e altre cose dei secoli passati furono incamiciate e corredate di bottegucce assolutamente inopportune, che continuiamo ad onorare e che dovremmo abbattere con furia iconoclasta, per far fiorire il Borgo e liberare tutte le potenzialità monumentali che lo stesso Piano Conversano lasciava immaginare. Dunque Taranto da “isola” si fa città e le classi vi si accomodano per come possono e possono spendere: ancora oggi, nonostante le feroci alterazioni del secondo dopoguerra, rifinite recentemente da cimiteriali vezzi in anticorodal, è possibile leggere il farsi di questa struttura urbana che sa alternare isolati e strade dal linguaggio decisamente forbito con isolati, palazzi e strade dove riecheggia un sermo familiaris che sembra riproporre materiali, forme e “gusto” delle cose senza volto e senza faccia del passato isolano. Tale febbrile attività, sostenuta naturalmente dai massicci stanziamenti governativi per dar vita a quel cantiere di stato che sappiamo, del tutto involontariamente, e distrattamente, scopriva e spolverava parte del passato classico sotterraneo e sotterrato, e i cittadini si stupirono nel vedersi “corteggiati” dai più importanti nomi dell’archeologia e della ricerca storica dell’Europa d’allora, che non potevano più ignorare quel lembo di terra, fino a qualche decennio prima apparso ad altrettanti numi della storia assolutamente privo di memoria e monumenti. Un’occasione da non perdere per la città ma furono in pochissimi ad approfittarne seriamente: Carlo Cacace trafficò in cose antiche con grandi “riscontri”. E sorse persino una qualche micro-imprenditoria della… storia come nel caso di quel Vito Panzera “archeologicamente” descritto da C.G.Viola in “Pater”, che piantò il suo atelier all’affaccio del nostro “coliseo”, all’anfiteatro cioè (poi piazza coperta e poi parcheggio, ma solo momentaneamente…): vendeva cose vecchie, nuove e antiche ma lo faceva con tanto di lapide in marmo, con tanto di simbolo civico e apertamente (che allora si poteva). Lapide scovata, come spesso accade da noi, in situ da una foto di Nicola Caputo. Lapide restaurata e in attesa di ricollocazione al momento del restauro dell’immobile che la sopportava.


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Taranto e l’antica molluschicultura

Ponte, Canale, Castello: la nuova cartolina di Taranto, affrancata addirittura dal Re d’Italia.

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C’erano però anche altri venditori-compratori e di cose più preziose: i musei dell’Europa sono testimoni del bel traffico e per questo meriterebbero almeno una morale condanna di… favoreggiamento. Ma l’archeologia, che pure allora non capiamo fino in fondo, ci fa però belli e siamo ben disposti ad offrirne ricordi e ricordini gratuitamente, come alla squadra navale inglese che dopo un incruento “safari archeologico” si porterà a ceste in Inghilterra per ornamento di palazzi, musei, case e casini un pó della nostra Taras che appunto affiorava ovunque, a ceste. Momento euforico: si dà aria alla vecchia città, si tracciano strade larghe come a Torino, si scoprono tesori, nascono palazzi veri e case con “sala e camere”, si organizzano le prime collezioni che saranno poi il fulcro del Museo Nazionale, sul canale (non più fosso) che meraviglia i tarantini viene lanciato il ponte che meraviglia l’Italia intera, un gioiello in ferro che non si “leva” ma s’apre cortese ad accogliere le navi nel porto interno, anch’esso nuovo, e si fa l’Arsenale. Dunque, dopo un primo momento di sbandamento di quelle piccole anime fino ad allora tutte pesca, casa e chiesa, la fantasia dei tarantini fu naturalmente suscitata al futuro e alla misura delle cose nove. Il buon Emilio Consiglio, che aveva guardato scettico e sornione il farsi continentale di un popolo di mare, informandone i… “cefali” che non avrebbero più rischiato la fiera incannata … ché tutti i marini sen vanno agli ulivi… non può fare a meno poi di raccontare in maternissima lingua: “Quanne mai tanta bene a stu paise? / Quanne maie le Ministre a trete a trete”, per non parlare dei re, delle regine e dei primi ministri che si scomodano per venire ad inaugurare tutto l’inaugurabile, accolti da musiche e serenate, organizzate anche da quel finto napoletano di Mario Costa che ricordò in musica all’Italia intera che a Taranto ci stanno due mari, uno piccirille e l’ate granne… E partì l’istruzione! Sarebbe lunghissimo tratteggiare anche solo per sommi capi il procedere di questo autentico rilevatore del progresso cittadino e dunque converrà ricordarci quasi epigraficamente almeno che dal 1875 prende il suo secolare viaggio l’Archita, certo “madre” di ogni emancipazione culturale di Taranto moderna.


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Taranto e l’antica molluschicultura Le imbarcazioni tipiche dei mitilicoltori tarantini

Barche con giovani còzzarulɘ in un giorno di festa. E’ evidente a poppa della barca ‘u tramuànnɘ, attrezzo utilizzato per la raccolta dei mitili caduti sul fondo del mare durante la lavorazione.

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Per gli addetti ai lavori nelle sciájɘ, i parchi destinati all’allevamento delle ostriche e cozze, il tragitto dalla terraferma alle coltivazioni avviene tramite una comune imbarcazione. Una volta giunti nei pressi delle singole acque territoriali dei parchi, gli operatori trasbordano su idonee imbarcazioni atte a facilitare la loro attività lavorativa all’interno dei “quadri”. Una di queste imbarcazioni particolari nel dialetto tarantino è chiamata da tempi remoti la “lánzɘ dɘ’ lɘ còzzarulɘ” (la lancia dei mitilicoltori) ed ha come caratteristica principale di essere edificata a “fondo piatto” (poco pescaggio - immersione), il che la rende particolarmente adatta ad operare nella ragnatela dei libani. Altra imbarcazione in uso dai pescatori locali è lo šchivarìddɘ tarandínɘ, lo “schifo tarantino”. Questa piccola imbarcazione, tra l’altro, è il mezzo impiegato ogni anno dalle circoscrizioni cittadine per gareggiare nel noto “Palio di Taranto” in onore del Santo patrono, San Cataldo. Uno dei metodi di costruzione navale della lancia tarantina è quello detto a “scheletro portante” o detto anche “di San Giuseppe”, Santo patrono e protettore dei carpentieri. Prevede un sistema di costolature a similitudine del “torso umano”. Le singole coste si ricavano dal legno da intagliare con l’ausilio di una sagoma o mezza costa, “garbo”, chiamata in vernacolo tarantino sadaredda. La sagoma serve per disegnare sul legno da sbozzare tutte le ordinate o costole della barca simmetricamente tanto a dritta quanto a sinistra. Impostata la linea di chiglia, fissata su di un appoggio stabile ed a livello (falsa chiglia), si montano il dritto di prora e poppa che sono i prolungamenti ricurvi della chiglia. Il costruttore poi prende due costole e le fissa trasversalmente (a 90°) sulla trave di chiglia. Questi componenti delimiteranno la parte

più larga dell’imbarcazione, la “sezione maestra” posizionata all’incirca a centro barca. L’impostazione appena descritta si chiama in vernacolo tarantino “curvlecchiɘ”. Successivamente si aggiungono altre costolature (o coste), meno ampie delle precedenti, ottenendo un abbozzo di scheletro composto di quattro costole. Impostate le quattro costole, si prende un listello di legno lungo come tutta la lunghezza dell’imbarcazione, e lo si inchioda ad una ventina di centimetri dal bordo superiore congiungendo le quattro costole da entrambe le fiancate fino alle estremità prora poppa. Si delinea così la forma della barca. Identica operazione si compie all’interno delle costole con un altro listello, chiamato “corrente longitudinale interno o serretta”. Tutte le altre costole saranno fissate equidistanti l’una dall’altra 16,5 centimetri circa. Le costole non sono altro che delle ordinate maestre che verso prora e verso poppa presentano un restringimento predisposto dal “maestro d’ascia”. La barca sarà completata col montaggio delle tavole del fasciame. Le dimensioni della lancia dei mitilicoltori tarantini rispecchia la formula catalana la cui origine risale al XV secolo, epoca delle caravelle di Cristoforo Colombo che si esprimeva nel corollario spagnolo “tres, dos y as”, la larghezza della barca prevedeva la misura del doppio della sua altezza e a sua volta era 1/3 della sua lunghezza (es. altezza scafo interno 1, per la larghezza max 2, e lunghezza f.t. 6). Le caravelle di Colombo avevano una larghezza massima di 8 metri e una lunghezza di 24 metri esatti. Naturalmente il costruttore navale si avvale della facoltà di poter stravolgere le dimensioni della sua barca in costruzione pur rimanendo nel rapporto tres, dos y as.


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Frammenti di mare

Taranto e l’antica molluschicultura

Còzzarulɘ in barca sul Mar Piccolo in posa per Cerruti. Sullo sfondo i Cantieri Tosi.

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nonostante la stazza ridotta, di avere una spinta notevole e, quindi, di poter imbarcare carichi rilevanti. La sua carena, quasi piatta, permette, inoltre, di spostarsi tra le “ventie” e sulle “ventie”. La sua altezza nella parte centrale è di circa 82 centimetri. Il piano di calpestio, detto pagliolo, che si regge sulle ordinate, consente di far coincidere l’orlo superiore della murata, detto “carraro”, con la parte inferiore del bacino di una persona di media altezza. A poppa il pagliolo, di forma triangolare, è più alto di circa 15 centimetri e prende il nome di “pedatella”. Un operatore che stia sulla “pedatella”, piegandosi sul busto e facendo leva sulle ginocchia poggiate alla murata interna, può arrivare con le mani in acqua. Verso poppa, quasi ai 2/3 della lunghezza della barca, è sistemato trasversalmente un pianale di carico, detto “sanola”, di grande importanza funzionale, i cui bordi rialzati, verso poppa e verso prua, sono detti “frontili”. La sua superficie arcuata al centro e degradante verso i bordi, detta a “bolzone”, consente all’acqua di defluire spontaneamente attraverso degli ombrinali (fori di deflusso), presenti nelle murate. La “sanola” è un vero e proprio banco da lavoro alla giusta altezza, sia per il mitilicoltore a prua sia per quello a poppa sulla “pedatella”, poiché su di esso vengono poggiati i mitili da “reinnestare”, “sciorinare” e trasportare. La “sanola”, inoltre, permette al mitilicoltore, che vi sta in piedi, di stendere agevolmente i “pergolari” sulla “spina” del “fusolo”. Ai lati del pagliolo, adiacenti alla murata e tra un’ordinata e l’altra, sono posizionate delle tavole, dette “marciapiedi”, che consentono di appoggiare il piede durante la voga e quando si sale sulla “sanola”. Le diverse componenti strutturali di una barca per la mitilicoltura sono realizzate con diverse specie di legno sulla base delle funzioni che devono svolgere e delle sollecitazioni a cui devono essere sottoposte; in particolare: • il fasciame dell’opera viva, l’ossatura e la chiglia sono in quercia, che assorbe poca acqua e assicura robustezza; • il fasciame dell’opera morta è in pino, che assorbendo molta acqua, evita allo stesso fasciame, a secco per lunghi periodi, di aprirsi;


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Taranto e l’antica molluschicultura

La motobarca “Galeso” dell’Istituto Talassografico, ormeggiata al pontile della “zona sperimentale” nel Primo Seno del Mar Piccolo. Costruita alla fine del 1930 dal Cantiere Picchiotti, era lunga 10 m, larga 2,5 m e provvista di una cabina di poppa lunga 2 m.

• le parti superiori del “carraro”, per preservarle dall’usura provocata dallo sfregamento delle “ventie” e dei “pergolari”, sono realizzate con specie molto dure quali l’olmo, il frassino o il faggio. L’attrezzo detto ‘u fuèrcɘ è sia un mezzo marinaio sia un remo. Esso è costituito da un’asta, lunga circa 2,30 metri, ad un’estremità della quale è montata una tavoletta trasversale corta e leggermente inclinata, larga circa 7 cm e lunga 35 cm. L’asta, rastremata verso l’impugnatura, è costruita in legno di castagno o faggio, a volte anche di pino. L’inclinazione, o “cartabuono”, della tavoletta rispetto all’asta consente dal lato dell’angolo acuto di agganciare sia una “ventia” sia un palo e dal lato dell’angolo ottuso di allontanare l’imbarcazione dai pali puntellandosi contro di essi. Inoltre, esso permette ad un operatore di media altezza, in piedi sulla barca, di sollevare agevolmente anche le “ventie” più profonde, in genere più cariche di “pergolari”. Allorché “u fuèrc” è utilizzato come remo, la tavoletta trasversale, con un’area di 245 cm2, offre una discreta superficie di spinta. La tecnica di voga è perfettamente adattata all’attività da svolgere: il mitilicoltore, che in genere opera da solo, sta in piedi ed è rivolto verso prua per cui può meglio dirigere la barca; egli, inoltre, impugna il remo con entrambe le mani e ciò gli consente di non stancarsi eccessivamente. A testimonianza dell’antico connubio tra i metodi di utilizzo a fini produttivi del mare e delle terre coltivate, esiste un attrezzo del tutto identico a quello utilizzato in agricoltura, la falce (‘a fuèčɘ). Con esso i mitilicoltori possono tagliare “ventie” e “pergolari” sfruttando la robustezza e l’ampiezza della lama di tale attrezzo. Ringraziamenti Gli Autori ringraziano sentitamente il Sig. Cataldo Portacci per le preziose informazioni e i chiarimenti forniti.

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Taranto e l’antica molluschicultura L’antica arte dei maestri d’ascia Intervista a Cataldo Portacci, uno degli ultimi maestri d’ascia di Taranto

Ostricoltori sorreggono e mostrano con orgoglio un “pergolaro” su cui sono insediate ostriche di piccola taglia.

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Chi è il maestro d’ascia? Il maestro d’ascia è un artigiano capace di trasformare il legno in una barca. Nei secoli passati ha avuto un ruolo molto importante in quanto ha contribuito all’evoluzione delle popolazioni rivierasche permettendone le attività sul mare: la pesca, il commercio, le esplorazioni e, purtroppo, anche le guerre. A Taranto ha consentito per secoli a generazioni di pescatori e molluschicoltori di disporre del loro indispensabile strumento di lavoro, la barca. Attualmente, nella nostra città è una figura professionale analoga a quelle degli artigiani che esercitano il loro mestiere in piccole botteghe ora quasi del tutto scomparse. Come si diventa maestro d’ascia? Quando io ero giovane, per diventare maestro d’ascia era necessario lavorare, in media per 7-10 anni, come apprendista nei cantieri navali; il lavoro in apprendistato consentiva di acquisire una conoscenza completa delle caratteristiche delle varie specie di legno per meglio utilizzarle nella costruzione delle diverse parti dei natanti; più recentemente, tale apprendistato consentiva anche la padronanza dell’uso delle macchine utensili elettriche. Il piano di costruzione delle imbarcazioni tradizionali veniva trasmesso dagli anziani maestri ai giovani apprendisti. In passato si usava l’ascia a due mani con il manico lungo, detta “ascia a piede”, e quella piccola “a una mano”. Ancora oggi ci sono parti dello scafo che non possono essere costruite con le macchine utensili e per le quali è necessario l’uso dell’ascia. Ed è proprio da questo antico attrezzo che deriva il termine di “maestro d’ascia”. Attualmente, per essere abilitati ad esercitare la professione di maestro d’ascia, si deve essere iscritti nell’albo del personale tecnico addetto alle costruzioni navali, con la qualifica di maestro d’ascia; a tal fine, è necessario avere la licenza di scuola media inferiore, l’attestato di frequenza di un cantiere navale e l’idoneità tecnica conseguita sostenendo un esame con una specifica commissione nominata dalla Capitaneria di Porto. Quanto contano la passione e la famiglia per questo mestiere? Per esercitare il mestiere di “maestro d’ascia”, oltre alle necessarie competenze, occorrono soprattutto la passione

per la lavorazione del legno e una grande capacità di immaginazione per “vedere” il legno trasformato nel prodotto finito prima ancora di avere cominciato a lavorarlo. La mia esperienza è stata particolare in quanto ho imparato il mestiere da mio padre Angelo e ho lavorato in tutti i cantieri navali di Porta Napoli. Quali erano i rapporti tra costruttori e committenti? Come sono cambiati? Sino agli inizi degli anni ’60 del secolo scorso, anche i diportisti, oltre ai pescatori e ai mitilicoltori, commissionavano al maestro d’ascia la costruzione della loro imbarcazione che era, pertanto, unica, realizzata secondo i desideri del committente e basata sul riconoscimento delle competenze del maestro d’ascia e sul rispetto della sua professionalità. La produzione di piccole imbarcazioni in serie ha di fatto determinato la scomparsa del rapporto diretto tra committente e costruttore. Quanti sono i maestri d’ascia oggigiorno? A Taranto, gli iscritti nell’albo del personale tecnico addetto alle costruzioni navali, con la qualifica di maestro d’ascia, sono circa una decina, per lo più anziani. Solo tre o quattro dei maestri abilitati continuano a lavorare attivamente, per la manutenzione delle barche da pesca, vale a dire dei pescherecci in legno e delle barche dei mitilicoltori e, solo occasionalmente, costruiscono nuove imbarcazioni. Quali sono le prospettive per questo antico mestiere? Le barche in legno sono utilizzate soprattutto dai pescatori e, in particolare, dai mitilicoltori e il mercato della produzione in serie non offre una barca che abbia le stesse caratteristiche. Ritengo che per un tempo relativamente breve e con un’attività ridotta, sarà ancora possibile esercitare questa antica arte. Non conosco giovani che desiderano intraprendere questo mestiere poiché i cantieri navali ancora presenti a Taranto non sono frequentati da apprendisti, né gli attuali programmi scolastici degli istituti tecnici o i corsi di formazione professionale consentono ai giovani di conoscere l’esistenza di questa antica attività artigianale alla quale, eventualmente, avviarsi. Giuseppe Portacci e Fernando Rubino


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Taranto e l’antica molluschicultura

L’ostricoltura tarantina: ieri, oggi e domani di Giovanni Fanelli e Giuseppe Portacci

L’ostrica ha da sempre attirato l’interesse dell’uomo per la bontà delle sue carni, per

Le fascine di lentisco venivano usate come collettori per la raccolta del “seme” delle ostriche. I rami secchi di lentisco venivano scrollati per essere privati delle foglie e poi raggruppati in fascine.

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non parlare del valore economico legato alle perle prodotte da molte specie tropicali. Nelle zone caratterizzate da elevate escursioni di marea, era facilissimo raccogliere le ostriche che crescevano attaccate alle rocce e, come testimoniato dai cumuli di conchiglie trovate dagli archeologi nella Bretagna, questi molluschi costituivano una componente importante della dieta delle popolazioni locali. Per altri popoli la raccolta delle ostriche non era così semplice e il “costo” della raccolta, unitamente al pregio delle sue carni, ha contribuito a fare di questo mollusco un prodotto del mare particolarmente ricercato, un lusso riservato a pochi, anzi, solo ai ricchi. Portando all’eccesso questo discorso potremmo perfino trovare adeguate spiegazioni al leggendario potere “afrodisiaco” delle ostriche e al potere “sensuale” legato alla morfologia dell’ostrica aperta … Lo storico interesse per questi molluschi ha portato l’uomo a passare dalla semplice raccolta delle ostriche al loro allevamento, sviluppando tecniche diverse adatte alle specifiche condizioni ambientali e alle specie allevate. Fino alla metà dello scorso secolo Taranto rappresentava un importante polo per la produzione dell’ostrica piatta (Ostrea edulis). Poi, per varie ragioni che cercheremo di descrivere in seguito, tale produzione è letteralmente scomparsa. Oggi le ostriche che possono essere acquistate a Taranto provengono prevalentemente dalla Francia e sono di una specie differente, l’ostrica concava (Crassostrea gigas). Ma questi aspetti sono noti a pochi: la maggior parte dei consumatori non sa che le ostriche che acquista non sono locali e, addirittura, appartengono ad un’altra specie con origini giapponesi! Ed è forse questa la migliore testimonianza della scomparsa di un pezzo della tradizione tarantina: col passare del tempo si è persa una tipica attività produttiva, con essa stanno per estinguersi completamente le competenze sviluppate in diverse generazioni e … non riusciamo più a riconoscere le “nostre” ostriche.


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Taranto e l’antica molluschicultura

Ostricoltori trasportano fascine di lentisco in Mar Grande dove saranno immerse per dare inizio al ciclo di allevamento delle ostriche.

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La storia dell’ostricoltura tarantina Le testimonianze storiche e i testi arrivati fino ai giorni nostri riportano che, per gli Antichi Romani, Taranto era famosa soprattutto per i murici (Haustellum brandaris), molluschi gasteropodi utilizzati per produrre la porpora, per il bisso raccolto dalla “cozza pinna” (Pinna nobilis) ed utilizzato per tessere preziosi tessuti ed, infine, per i “pecten” (Pecten jacobaeus), molluschi di cui ci parla persino Orazio: “ … la molle Taranto, che vanta “pectenes” grandi come zuppiere”. Secondo Varrone le migliori ostriche erano quelle di Taranto, mentre molti Autori romani indicano Brindisi come il principale sito di produzione di ostriche. Queste erano trasferite attraversando gli Appennini fino al Lago di Lucrino per un periodo d’ingrasso e affinamento prima di essere portate a Roma. Sono numerose le testimonianze che parlano di questo lago costiero della Campania, nella zona dei Campi Flegrei, come del principale sito per l’allevamento delle ostriche e del pesce; tali attività erano state sviluppate dal Senatore Sergio Orata e gli fruttarono una fortuna (tanto che il nome Lucrino risale forse dal termine latino lucrum ossia profitto, guadagno) (AA.VV., 2009a). Già a quell’epoca, siamo intorno al 90 a.C., si può parlare di una vera e propria attività di ostricoltura, con impianti (“ostriaria”) adatti allo svolgimento di tutte le fasi della produzione: dalla captazione delle larve, mediante tegole e cocci di vaso, all’ingrasso delle ostrichine utilizzando cime tese tra pali di legno infissi nel fondo. E l’ostricoltura di Taranto? Come suggerito anche da Alemanno (1925), probabilmente quest’attività fu introdotta “per imitazione della vicina Brindisi nel cui porto fin dai tempi dei Romani si allevavano ostriche”. L’ipotesi che anche a Taranto gli antichi Romani avessero avviato l’allevamento delle ostriche non è, purtroppo, sostenuta da adeguati reperti archeologici o documenti. Sulla base delle testimonianze storiche, invece, l’introduzione dell’ostricoltura a Taranto risalirebbe alla seconda metà del XVIII secolo (Parenzan, 1981) o al XV secolo (Pastore, 1993) e, sfruttando le favorevoli condizioni offerte dal Mar Piccolo e dal Mar Grande, si andò affermando sempre più. Nel 1800 la molluschicoltura era talmente sviluppata da costituire la principale attività produttiva della città. Su una popolazione di circa 29.000 abitanti, gli operatori della pesca e della molluschicoltura erano oltre 19.000.


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Taranto e l’antica molluschicultura

All’epoca il Mar Piccolo era la principale area di produzione: 2/3 dei vivai erano dedicati alla produzione di mitili ed 1/3 a quella delle ostriche (Pastore, 1993). In particolare, gli impianti con le ostriche erano nel Primo Seno, lungo il tratto di costa detto appunto “Le sciájɘ a mare”, area attualmente occupata dall’idrovora dell’ILVA e dal mercato ittico galleggiante. Altrettanto importanti erano le zone sabbiose del Mar Grande e della costa occidentale, da Taranto al fiume Lato: su questi fondali erano immerse le “macchie” di lentisco utilizzate per la raccolta degli stadi giovanili delle ostriche (Alemanno, 1925). Le fascine di lentisco vengono immerse e zavorrate con un peso (‘a màzzɘrɘ). Dopo alcuni mesi dall’immersione in Mar Grande, le fascine con le giovani ostriche insediate venivano trasferite nelle sciájɘ del Mar Piccolo per il completamento del ciclo di allevamento. Il loro trasferimento doveva avvenire prima del sorgere del sole affinché le ostrichine, che durante il trasporto venivano bagnate continuamente, non morissero a causa del caldo eccessivo.

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Le tecniche di allevamento A Taranto l’ostricoltura si è sviluppata di pari passo con la mitilicoltura e, pertanto, le tecniche e gli impianti erano praticamente gli stessi, anche se con “sfumature” leggermente differenti. Ad esempio, gli impianti fissi utilizzati per la mitilicoltura erano denominati “quadri” mentre, allorché ospitavano le ostriche, prendevano il nome di “sciájɘ”. Secondo le descrizioni riportate da Parenzan (1981), Alemanno (1925) e Pastore (1993), nel periodo di massima espansione dell’ostricoltura a Taranto il tipico impianto era costituito da 4-6 camere (vedi il capitolo sulla mitilicoltura). Così come per i mitili anche per l’ostricoltura le tecniche di allevamento sono frutto dell’ingegno, dell’attenta capacità di osservazione dei fenomeni naturali e dell’esperienza maturata in diversi decenni, se non secoli, dai molluschicultori. L’inizio del ciclo d’allevamento avveniva attraverso la raccolta delle larve che si insediavano su dei collettori costituiti da fasci di lentisco (Pistacia lentiscus), un arbusto tipico della nostra macchia mediterranea. Questi arbusti erano seccati, defogliati e legati insieme a fascine, sino a formare un groviglio notevolmente ramificato detto “macchia”. Più “macchie” legate insieme formavano la “stesa” che, una volta zavorrata, veniva sistemata in prossimità del fondo. La principale area per la raccolta del “seme” era il Mar Grande: gran parte delle “stese” erano posizionate nella zona antistante la costa che attualmente ospita il Lungomare e il Porto Mercantile. Le altre aree utilizzate erano le spiagge ad ovest di Taranto, da Punta Rondinella alla Foce del Fiume Lato. Il periodo migliore per la raccolta delle ostrichine era tra maggio e giugno: la tradizione vuole che le stese fossero calate proprio il 10 maggio, Festa di San Cataldo, Santo Patrono


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Taranto e l’antica molluschicultura

Due sciajarúlɘ (ostricoltori) che sorreggono fascine di lentisco, su cui sono visibili ostriche di piccola taglia.

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di Taranto. Dopo due-tre mesi le stese erano salpate e portate nelle sciájɘ nel Mar Piccolo dove erano sospese nelle zone maggiormente interessate dalle correnti. Successivamente, quando la conchiglia delle giovani ostriche si era irrobustita, le “macchie” erano dapprima scomposte e poi tagliate in pezzi, detti zìpprɘ, su ognuno dei quali era insediato un congruo numero di ostriche. La fase successiva consisteva nell’innesto dei rami con le piccole ostriche: ogni “zéppare” era infilato tra i trefoli della cima di libano. Si formavano in tal modo degli originali pergolari dall’architettura simile a quella di una scala a chiocciola. Dopo circa 5 mesi, i “pergolari” erano salpati e ripuliti. Le ostriche che durante la lavorazione si staccavano erano recuperate e sospese all’interno di ceste. Un’altra tecnica ingegnosa del recupero delle piccole ostriche staccate era quella di mescolarle al seme dei mitili: erano riposte in una cesta bassa e piatta con l’apertura valvare rivolta verso il fondo. Su tale strato di ostriche ne era disteso uno di giovani mitili. Queste ceste erano successivamente riposte in mare per almeno 8 giorni, periodo durante il quale i mitili si legavano alle ostriche sottostanti attraverso il bisso. Le “chioppe” di mitili e ostriche erano, quindi, innestate all’interno dei pergolari dove gli stessi mitili, legandosi ad essi, sostenevano anche le ostriche (Alemanno, 1925). Le ostriche più grandi, invece, erano cementate a coppia in corrispondenza dei loro umboni (cosiddetto cúlɘ ‘a cúlɘ) e, una volta asciugato ed indurito il cemento, le coppie di ostriche erano legate ad intervalli regolari ad una cima dotata di occhielli. Anche i “pergolari” di ostriche erano sottoposti alle procedure di “sciorinatura” per la riduzione del “fouling”. Le prime ostriche idonee alla vendita potevano essere disponibili dopo 18 mesi, quando avevano raggiunto una taglia di circa 5-6 cm di diametro. Ma per ottenere una maggiore taglia era indispensabile allevarle per almeno 24 – 36 mesi. I periodi in cui le ostriche erano adatte alla vendita per via della maggiore consistenza delle polpa era quello tardo autunnale e tardo invernale. In tal senso, dato che il periodo di vendita dei mitili è quello tardo primaverile–estivo l’integrazione delle due colture permetteva una continuità commerciale alle imprese, evitando la pericolosa stagionalità della monocoltura.


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Taranto e l’antica molluschicultura

‘U zìpper: rametto di lentisco con giovani ostriche insediate.

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Il declino dell’ostricoltura Parenzan (1981) riporta che secondo Issel (1882) la produzione del Mar Piccolo di Taranto già a fine ‘800 era dell’ordine di 6 milioni di ostriche all’anno ma all’inizio del ‘900 i valori di produzione avevano superato i 10 milioni (Alemanno, 1925). Tuttavia in meno di 50 anni quest’attività si è progressivamente ridotta fino a scomparire del tutto. Circa i fattori che hanno determinato il declino e la successiva scomparsa dell’ostricoltura tarantina sono state avanzate diverse spiegazioni (Carazzi, 1894; Alemanno, 1925; Sebastio, 1971; Parenzan, 1981; Pastore, 1993). Nel cercare di sintetizzare le varie informazioni, si possono avanzare delle ipotesi che, però, difficilmente potranno essere scientificamente valutate in quanto i dati necessari non sono disponibili. In primo luogo è necessario rimarcare i notevoli cambiamenti cui sono stati sottoposti gli habitat in cui si svolgevano le varie fasi dell’ostricoltura. Le caratteristiche ecologiche ed oceanografiche originarie dei mari di Taranto, infatti, nell’ultimo secolo hanno subito notevoli sconvolgimenti dovuti allo sviluppo prima dell’industria bellica e cantieristica e poi dell’industrializzazione siderurgica. La costruzione dell’Arsenale Marittimo Militare (1883-1889) richiese “lo sbancamento di alcune collinette costiere e la colmata di 45 ha di mare” (Pastore, 1993) e causò la perdita di una prima zona ricca di sciájɘ. Già Carazzi (1892) evidenziò che la progressiva riduzione delle aree da dedicare all’ostricoltura, unite allo stato di inquinamento dei relativi fondali, poneva il settore molluschicolo in uno stato di crisi. A seguire, altri tratti costieri del Mar Piccolo furono sottratti all’ostricoltura per la realizzazione di ulteriori strutture militari quali la Polveriera di Buffoluto, l’Idroscalo “L. Bologna” e la Scuola dei Lancia-Siluri (Alemanno 1925), che si aggiunsero ai Cantieri Navali “Tosi”. Con la costruzione del IV Centro Siderurgico dell’Italsider, anche il Mar Piccolo, come tutto il resto del territorio tarantino, pagò il suo tributo con la costruzione dell’Idrovora nel lato settentrionale del Primo Seno. L’acqua prelevata dal Mar Piccolo (112.000 mc/ ora, con punte di 200.000 mc/ora) è utilizzata per il raffreddamento degli impianti ed è poi scaricata all’esterno della rada del Mar Grande. In linea teorica, tale prelievo d’acqua potrebbe svuotare completamente il Mar Piccolo in circa un mese (Fanelli, 2001)! È


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Taranto e l’antica molluschicultura

Rami di lentisco, appesi a funi orizzontali, colonizzati da giovani ostriche. Sulla superficie dell’acqua si riflettono i “pergolari” dei mitili posti a sciorinare sul “fusolo” soprastante.

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evidente quindi la profonda influenza dell’idrovora sulla circolazione in tutto il bacino, così come dimostrato anche dagli studi modellistici (Casulli e Notarnicola, 1988; Capasso et al., 1989; De Serio et al., 2007). Queste fasi storiche del progressivo “sviluppo” industriale di Taranto hanno profondamente segnato anche l’andamento demografico della città passata dai 31mila abitanti del 1881 ai 244mila del 1981: l’aumento della popolazione e la conseguente antropizzazione del territorio rispecchiano i vari momenti di “sviluppo” della città. Tale aumento della popolazione non fu accompagnato, tuttavia, da alcuno sviluppo del sistema di trattamento e smaltimento dei reflui urbani. Pertanto, il Mar Piccolo e il Mar Grande continuarono a ricevere gli scarichi di una popolazione che in un secolo si era quasi decuplicata. Tutti questi cambiamenti dell’habitat del Mar Piccolo hanno sicuramente contribuito ad una progressiva riduzione della produttività dell’ostricoltura. Il peggioramento ecologico dei siti d’allevamento evidentemente colpì maggiormente l’ostricoltura rispetto alla mitilicoltura in quanto i mitili sono molto più resistenti. Infatti, i dati di produzione disponibili presentano due evoluzioni contrapposte: l’aumento dei mitili prodotti è contemporaneo alla riduzione delle ostriche allevate. Il reperimento del seme fu molto probabilmente una delle prime fasi dell’ostricoltura ad essere profondamente influenzata da questi cambiamenti. Infatti, Sebastio (1971) riporta che “la riproduzione libera e naturale dell’ostrica non avviene sistematicamente e con adeguata intensità, ma con molte variazioni stagionali”. Ma si possono ipotizzare anche altre cause che hanno concorso a tale situazione, come lo sviluppo della pesca a strascico che negli anni ’60, con la diffusione del motore sulle barche da pesca, veniva praticata nelle zone costiere danneggiando le “stese” per la raccolta del seme di ostrica (D’Andria, comunicazione personale). Comunque, il declino della molluschicoltura nel Mar Piccolo era già iniziato con l’avvio dell’annosa questione dei “Diritti esclusivi” chiesti ai mitilicoltori dal “Centro Ittico Tarantino Campano SpA” che nel frattempo si era costituita quale società per la gestione di tutte le attività di molluschicoltura nel Mar Piccolo. Molti operatori, “non accettando di riconoscere i diritti esclusivi di una Società del tutto estranea”, avevano preferito trasferire gli impianti produttivi nel Mar Grande (Della Ricca,


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Taranto e l’antica molluschicultura

In alto, a sinistra: Foto al microscopio di una larva di ostrica; al centro: Ramo di lentisco con giovani ostriche insediate; a destra: Una “zoca” con ramoscelli di lentisco “insertati”. In basso, a sinistra: Particolare ingrandito della “zoca” in cui sono ben visibili le ostriche; a destra: Misurazione di valve di Ostrea edulis.

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1993). Il trasferimento si completò dopo il 1973 quando, a seguito dei casi di colera in Puglia, vennero distrutti tutti i vivai di cozze e ostriche del Mar Piccolo. Da quel momento in poi a Taranto non vennero più impiantati allevamenti di ostriche. L’industrializzazione del territorio, attraverso il grande numero di personale assunto, determinò anche un cambiamento della struttura economico-sociale di Taranto e dell’intera provincia. Anche l’”industria del mare” subì questa trasformazione in quanto un grande numero di molluschicoltori fu attratto dall’idea del “posto fisso” e preferì abbandonare le produzioni marine. Questo esodo iniziò nei primi anni ’60 favorito dalla progressiva riduzione delle rese (che all’epoca fu attribuita alla costruzione e alla messa in opera dell’idrovora dell’ITALSIDER) e si completò nel 1970 con la apposita Convenzione che sanciva la ricollocazione del personale del Centro Ittico presso l’acciaieria dell’ITALSIDER (Pastore, 1993). Per quasi 30 anni in Mar Piccolo “ufficialmente” non vi furono impianti molluschicoli. A seguito delle indagini microbiologiche (Cavallo et al,1995) stabilite dalla L.192/77, quasi tutte le acque del Mar Piccolo risultarono “precluse”. Con la successiva classificazione del 1999 (relativa alla D.Lgs. 530/92) i mitili allevati nelle acque del Mar Piccolo risultarono essere di “Zona B”, ovvero da sottoporre a trattamento di depurazione prima della commercializzazione. Tuttavia, il settore era ancora privo di una specifica regolamentazione per il rilascio delle concessioni demaniali e quindi tutti gli impianti presenti erano abusivi. I “quadri” di mitili erano progressivamente stati reintrodotti a partire da metà degli anni ’80. Il successo produttivo (sia in termini di quantità di mitili che di qualità degli stessi) avuto dai primi mitilicoltori ritornati a produrre in Mar Piccolo accelerò l’occupazione degli specchi acquei del Primo e del Secondo Seno da parte di tutti i produttori (Della Ricca, 1993). Le elevate rese della mitilicoltura con la condizione di “abusivismo” probabilmente spiegano perché non ripartì anche l’ostricoltura. Questa, infatti, a differenza della mitilicoltura richiede un ciclo di lavorazione più lungo e, quindi, si può ipotizzare che il pericolo di perdere la produzione di ostriche a causa di un sequestro legale possa aver costituito un forte disincentivo alla produzione di ostriche.


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Taranto e l’antica molluschicultura

Il confezionamento dei cestini per l’allevamento delle ostriche. Le ceste, basse e piatte, riempite di giovani ostriche disposte in strati, venivano successivamente poste in mare.

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Analogo ragionamento può essere fatto per motivi d’ordine pubblico: i furti di interi impianti di produzione costituiscono un problema reale e molto sentito dai produttori di Taranto che, evidentemente, preferiscono rischiare di perdere “solo” i 18 mesi di lavoro necessari per i mitili, piuttosto che i 24-36 mesi di duro lavoro necessari per produrre le ostriche. Un altro fattore che ha contribuito in modo importante ad invogliare gli operatori alla conversione verso la mitilicoltura è stato il maggiore costo di lavorazione richiesto dall’ostricoltura. Come per l’allevamento dei mitili, anche le ostriche richiedono frequenti trattamenti per limitare lo sviluppo del fouling. Questo termine inglese letteralmente si traduce con “sporcizia” ed indica l’insieme degli animali e delle alghe che “incrostano” le conchiglie dei molluschi allevati, così come in generale tutte le superfici libere immerse in mare. Basta guardare la parte immersa di una banchina del porto, oppure la carena di una barca o, ancora, una bottiglia rimasta in mare qualche tempo, per comprendere l’importanza di questo fenomeno. Ma per avere idea di quanto costa al mitilicoltore il controllo del fouling è necessario descrivere tutto il lavoro svolto per tenere puliti i mitili: i pergolari (che all’inizio pesano 7 kg ma che alla fine arrivano a pesare 35-40 kg ciascuno!) vengono issati a bordo delle barche con la sola forza delle braccia e della schiena; quindi sono trasferiti presso gli stenditoi (o “fusoli”) per far essiccare animali e alghe incrostanti sui mitili e ricollocati in mare dopo 24 ore. Queste attività devono essere ripetute ogni 40-50 giorni; per le ostriche, il cui ciclo d’allevamento dura, come abbiamo detto, quasi il doppio rispetto a quello della mitilicoltura, il controllo del fouling inciderebbe notevolmente sul costo di produzione, rendendo quest’attività poco remunerativa. Tutti questi fattori sono certamente coinvolti nella scomparsa dell’ostricoltura tarantina. Tuttavia, la richiesta di ostriche da parte del mercato è sempre rimasta molto alta anzi, i dati ufficiali a livello nazionale, indicano che la domanda di ostriche di qualità è in costante aumento (AA.VV., 2007). A parte una piccola quota soddisfatta con ostriche piatte (Ostrea edulis) provenienti dalla raccolta sui banchi naturali residui o dai pochi allevamenti (Prioli, 2001), la stragrande maggioranza di ostriche consumate in Italia proviene dalla Francia. Ma in questo caso non si tratta d’ostriche piatte ma dell’ostrica


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Taranto e l’antica molluschicultura

Un bell’esemplare di Pinna nobilis di grandi dimensioni esibito come un trofeo. Accanto, si documenta l’esperimento di accrescimento di Pinna nobilis iniziato il 21 marzo del 1938 e terminato il 10 gennaio del 1939; la crescita misurata a fine esperimento era di circa 7 cm.

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sono state documentate da storici e da archeologi, non altrettanto può dirsi del bisso marino, come sopra si è detto. La prima testimonianza certa relativa all’uso del bisso marino a Taranto risale al sec. XVI: in una visita pastorale di mons. Brancaccio alla cappella del Ss. Sacramento, nella cattedrale, si parla di due tappeti di “pelle d’oro” (altro termine per indicare il bisso) che ne ornavano le pareti. Le testimonianze diventano sempre più numerose nei secoli seguenti, quando molti viaggiatori stranieri, durante i loro tour nell’Italia meridionale, giunti a Taranto, ebbero la possibilità di assistere ad alcune fasi della lavorazione della lanapinna o di vedere manufatti confezionati già realizzati e ne lasciarono testimonianza scritta nei loro diari, poi pubblicati (Pacichelli, Saint-Non, Lenormant, Palustre de Montifaut ed altri). Le monache dei monasteri di S. Chiara e S. Giovanni Battista sapevano eseguire pregevoli lavori in bisso, ma tale lavorazione è attestata anche a livello di industria manifatturiera domestica: guanti, cravatte, scialli, calze furono confezionati per una committenza benestante o ecclesiastica. Probabilmente anche allo scopo di migliorare le condizioni economiche di quelle famiglie che si dedicavano a questa attività, mons. Capecelatro, arcivescovo di Taranto, sin dal suo arrivo nella città nel 1778, commissionò molti manufatti in bisso marino per donarli a illustri personaggi di mezza Europa e far conoscere così la bellezza di quei lavori in lanapinna, al fine di promuoverne la richiesta da parte di una clientela facoltosa che era la sola a potersi permettere simili acquisti. A partire dalla seconda metà del XIX secolo, lavori tarantini in bisso furono presentati a mostre ed esposizioni nazionali ed internazionali, ove suscitarono sempre l’attenzione e la meraviglia dei visitatori, oltre ad essere premiati con medaglie e diplomi. Questa arte, però, non uscì mai dall’ambito domestico (a Taranto erano famose per la loro bravura le sorelle Marasco) ed il termine “industria” spesso adoperato per designare la lavorazione del bisso è da considerarsi improprio. Si trattò, invece, di una lavorazione a livello artigianale, su scala ristretta, cioè essa non raggiunse mai proporzioni tali da poter essere definita ‘industria’, nel senso che noi oggi comunemente attribuiamo a questo termine. Probabilmente le donne di alcune famiglie dedite a questa attività si


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tramandavano le tecniche di lavorazione di madre in figlia, per cui essa non uscì mai dall’ambito domestico.

Bisso di esemplari di Pinna nobilis oggetto di allevamento sperimentale. Si osservino i numerosi gusci di diverse specie di molluschi che vi aderiscono.

La lavorazione del bisso marino a Taranto: dalla tradizione all’industria? Ci fu, però, chi credé nelle possibilità di sviluppo su scala più ampia di questa lavorazione, per la quale occorreva una grande disponibilità di materia prima. Infatti i bioccoli del bisso, durante il procedimento di trasformazione in filato, subivano una notevole riduzione di peso: è stato calcolato che 300 grammi di ciuffi fornivano alla fine solo 70 grammi di filo. Così si cominciò a far strada l’idea dell’impianto di una “pinnicoltura”, al pari dell’ostricoltura e della mitilicoltura, indispensabile per l’approvvigionamento della materia prima, cioè i filamenti della Pinna e nel 1906 Eduardo De Vincentiis in occasione della partecipazione di Taranto all’Esposizione industriale di Milano scriveva in un opuscolo che “creando una vera pinnicoltura nello intento di avere grandi quantità di bisso grezzo […] si farebbe opera savia se s’iniziassero degli esperimenti al riguardo”. L’argomento ritornò di attualità grazie all’impegno didattico di Filomena Martellotta e poi agli studi di Beniamino Mastrocinque. La professoressa Filomena Martellotta, fondatrice e direttrice della Scuola professionale femminile di Taranto, sulla scorta di antiche tradizioni locali e dei ricordi dei vecchi pescatori era riuscita a recuperare il procedimento attraverso il quale dai ciuffi prelevati dalla Pinna nobilis si giungeva al filato di bisso marino. Nel 1937, Cesira Martellotta, sorella di Filomena deceduta improvvisamente nel 1934, scriveva al Provveditorato agli studi di Taranto e al Ministero dell’educazione nazionale a Roma, perché fosse riconosciuto ufficialmente alla sorella il merito di aver inserito tra i principi posti a fondamento dello statuto della scuola la rinascita dell’industria del bisso marino a Taranto, operando per prima al raggiungimento di tale obiettivo25.

25. Purtroppo la scuola, che oggi ha cambiato la sua denominazione in Istituto tecnico di Stato per le attività sociali “Principessa Maria Pia”, non conserva più alcun documento relativo a questa attività svolta in passato (ad eccezione di un pannello ricamato con filo di bisso marino e ad alcune fotografie).

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Un ciuffo di bisso di Pinna nobilis essiccato, pulito, lavato, cardato e filato.

Dopo la morte di Filomena Martellotta, la sua opera fu continuata da Filomena Pavone, almeno fin all’arrivo in quella stessa scuola di Rita Del Bene, sul cui lavoro torneremo più avanti. Nel ricostruire la storia dell’industria del bisso a Taranto, non può essere tralasciato il ruolo di Beniamino Mastrocinque il quale, adottando l’antico procedimento rintracciato da lui stesso presso la famiglia di Saverio Pavone, aveva condotto alcuni esperimenti alla fine dei quali26, pubblicando i risultati della ricerca, rilanciava con forza l’idea della possibilità di un impianto nei mari di Taranto di una pinnicoltura razionale che potesse garantire un apporto costante di materia prima. Con il risultato di avviare, se pure per breve tempo nei primi mesi del 1928, un dibattito sulla stampa locale e nazionale (Voce del Popolo, Corriere della Sera, Resto del Carlino) circa le possibilità concrete di dare avvio ad una lavorazione su ampia scala dei filati di bisso marino, insomma a quella che alcuni definivano “industria della lavorazione del bisso”. Negli anni seguenti, mentre le ricerche sulla biologia della Pinna nobilis proseguivano presso il laboratorio biologico dell’Ispettorato tecnico demaniale per la molluschicoltura diretto dal prof. Cerruti, nella Scuola professionale femminile, fondata da Filomena Martellotta, veniva creato un laboratorio artistico ove una molteplice ed intensa attività veniva dispiegata nel campo della lavorazione di oggetti in cuoio, metallo sbalzato, pittura su tessuti e lavorazione del bisso marino. Tale attività ricevette un maggiore impulso quando fu nominato presidente del Consiglio di amministrazione Pasquale Melissari, vice intendente di finanza a Taranto, attivo e colto funzionario, che si adoperò non solo perché il metodo di lavorazione del bisso fosse perfezionato al fine di ottenere tessuti atti alla confezione di abiti, ma anche che presso la stessa scuola professionale fosse istituita una cattedra per l’insegnamento della lavorazione del bisso in quanto, oltre alla grande disponibilità di materia prima, per il funzionamento di un’industria, occorreva creare le maestranze specializzate. 26. Mastrocinque sintetizzò in tre tempi distinti questo procedimento: 1° tempo o di purificazione, durante il quale i fiocchi di lanapenna, dopo essere stati in ammollo per tre giorni, onde facilitare il distacco della parte carnosa, vengono lavati dapprima in acqua saponata (2 gg.) e poi in acqua fresca (altri 2 gg.), indi asciugati all’ombra in ambiente ventilato e pettinati; 2° tempo o di colorazione, quando i ciuffi di bisso vengono immersi per 24 ore in succo di limone (o acido citrico al 15% per 15 minuti o, ancora, in acqua ed ammoniaca), poi asciugati e pettinati nuovamente; dopo questa fase essi assumono, secondo Mastrocinque, “un aspetto ultra serico” e un colore aureo 3° tempo o della cardatura e filatura: la cardatura veniva eseguita per mezzo di uno scardasso con ferri dalla punta arrotondata, la filatura con piccoli fusi.

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Composizioni realizzate con bisso di Pinna nobilis. Pregevoli manufatti in bisso marino venivano realizzati a Taranto per una clientela facoltosa.

Questa cattedra, negli intenti di Melissari, poteva essere affidata a Rita Del Bene, una insegnante di lavori femminili, igiene e governo della casa - nonché attiva rappresentante dei Fasci femminili della provincia jonica - che da diversi anni, prima presso la Scuola complementare di avviamento al lavoro “C. Colombo” (dove Mastrocinque era preside), poi presso la Scuola professionale femminile, si dedicava alla messa a punto di un procedimento per la fabbricazione di tessuti mediante l’utilizzo dei filamenti della Pinna nobilis. Utilizzando gli studi e le sperimentazioni di chi l’aveva preceduta, la Del Bene approfondì il metodo per trasformare il bisso in tessuto, sia con telai comuni che con telai meccanici. Per il suo metodo di lavorazione del bisso marino, il 7 ottobre 1936 Rita Del Bene ottenne il brevetto, registrato con il n.343624, relativo al «Procedimento per la fabbricazione di tessuti mediante la utilizzazione dei filamenti fibrosi della Pinna Nobilis»27. La fase più importante e più originale sembra essere quella relativa alla tessitura, anche se resta forte il dubbio che la Del Bene abbia attinto molto dall’esperienza di Filomena Martellotta. Melissari, anche a seguito di tali risultati, nel 1936 inviò una relazione all’Ispettorato per la pesca (in seno al Ministero dell’agricoltura e foreste), esponendo i vantaggi e le ricadute che sull’economia locale potevano derivare dall’impianto di una pinnicoltura razionale nei mari di Taranto. Interpellato sulla questione, Cerruti nel 1937 inviò all’Ispettorato una relazione, assai interessante in quanto rappresenta una sintesi dei risultati ottenuti fino a quel momento con le sue sperimentazioni ed osservazioni sullo sviluppo delle larve di Pinna nobilis. Secondo Cerruti, le notizie possedute fino a quel momento sulla biologia della Pinna e delle larve erano molto scarse ed insufficienti per cercare di impiantare su larga scala un allevamento artificiale delle stesse, come si faceva per le cozze e le ostriche e come Melissari suggeriva. Dopo aver ottenuto un contributo finanziario dal Consiglio Nazionale delle Ricerche (C.N.R.) per poter continuare i suoi esperimenti sulla Pinna nobilis, nel corso del 1938 e del 1939 Cerruti raccolse non pochi dati relativi alla biologia della pinna provando 27. Sostanzialmente il suo brevetto consisteva in : A) un procedimento d’isolamento dei fili serici per ottenere la lanapinna in otto tempi (rammollimento, lavatura, asciugatura, stropicciatura, pettinatura, cardatura, filatura e torcitura, ammatassamento), ciascuno dei quali venne da lei accuratamente descritto; B) tessitura con telaio comune e con telaio meccanico ; C) colorazione naturale e coloritura

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Le cassette con i giovani individui di Pinna nobilis, allevati nella “zona sperimentale”, sono state recuperate.

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come, mediante una tecnica relativamente semplice – estrazione delle pinne dal fondo, “tosatura” del ciuffo di filamenti e reimpianto delle pinne sul fondo marino- era possibile effettuare 2-3 raccolte l’anno di bisso, senza sacrificare il mollusco. La pinnicoltura, esercitata in questo modo, doveva servire principalmente per incrementare la produzione di bisso marino. Rita Del Bene, nel contempo, con grande tenacia e profondo convincimento sulle possibilità di portare la lavorazione del bisso ad un livello industriale, si era mossa autonomamente per ottenere dal C.N.R. un contributo onde continuare le sue sperimentazioni nel campo tessile con i filamenti della Pinna nobilis. Alla richiesta, del 1938, era allegata una dettagliata relazione intitolata «L’autarchia nazionale nel settore dei tessuti» in cui l’autrice, dopo aver descritto il procedimento da lei brevettato per ottenere un filato, ricavato dal bisso marino, resistente alla trazione e quindi utile alla tessitura con telai meccanici, magnificava le qualità della fibra che si poteva ottenere, paragonabile alle più ricercate e pregiate stoffe estere. Il costo elevato del tessuto, comunque inferiore a quello delle stoffe estere, poteva essere notevolmente ridotto con l’estensione della produzione di bisso, mediante una razionale pinnicoltura, possibile dopo gli studi condotti da Cerruti sulla possibilità di allevare la Pinna nobilis. Secondo la Del Bene, si poteva, perseguendo questa strada, riuscire ad affrancarsi dall’importazione di fibre tessili straniere e raggiungere l’autarchia auspicata dal fascismo anche in questo campo. Con un linguaggio reboante, tipico del periodo fascista, la Del Bene sottolineava come industrializzando i brevetti nazionali, come il suo, si potevano vincere i brevetti esteri, i quali, se accolti, producevano «un effetto morale disastroso, privando dell’incentivo il genio e l’ingegno dei nostri […]. Devesi all’azione autarchica del Fascismo se nel settore dei tessuti si è raggiunta la possibilità di eliminare lo snob del vestire colle costose stoffe inglesi […].Fascismo nel campo dell’economia corporativa è sinonimo di autarchia, e noi italiani che dobbiam avere la mistica dell’autarchia voluta dall’Onnisapiente Capo [sic!], saremo orgogliosi non solo di bastare a noi stessi, ma anche di imporre alle altre nazioni i nostri prodotti; così come vuole il Genio della Stirpe, così come esige la gloria pluri-millenaria di questa nostra Italia, maestra delle genti in tutti i campi dello scibile e del lavoro».


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Al termine della visita agli impianti di molluschicoltura, Cerruti si intrattiene in conversazione con il Presidente della Regia Azienda Demaniale del Mar Piccolo.

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Non c’erano altri giornali locali di tradizione; erano nascenti alcune iniziative, una delle quali porterà al quotidiano cittadino. Antonio Rizzo era stato in guerra, guardiamarina, e s’era miracolosamente salvato dall’affondamento del sommergibile Uarsciek, nel dicembre del 1942. Due anni di prigionia in Palestina, poi direttamente sbarcato a Taranto. Tornato alla vita civile, lasciate da parte le ambizioni di docenza universitaria a Roma, dov’era stato tra i migliori allievi in fisica nucleare di Levi-Civita e di Enrico Fermi, si accollò la esistenza del “giornale di famiglia”, che si trovava in forti difficoltà, e in brevissimo tempo lo condusse ad una ripresa strepitosa. La figura di Antonio Rizzo, per la sua statura intellettuale e morale, è fondamentale per comprendere gli avvenimenti che narreremo. Si riparla di cultura a Taranto. I giovani, compreso Rizzo, riescono a far svolgere nel circolo cittadino, attraverso la “Dante”, alcune conferenze con prestigiosi protagonisti (negli eventi la mano di Rizzo è evidente, e in quel momento anche il sostengo di Giacinto Spagnoletti, poi affermatosi come letterato italiano di prima qualità). Viene nientemeno che il poeta Giuseppe Ungaretti: la conferenza, Ragioni di una poesia, elettrizza la gioventù. Questi giovani cercano di organizzarsi all’interno dell’associazione “Dante Alighieri”, ma trovano difficoltà. Allora decidono di fondare una nuova istituzione, il “Circolo di Cultura”, che opererà sempre in sinergia con la “Voce” Ecco allora con il Circolo di Cultura un nuovo fondamentale appuntamento: è con la splendida Gianna Manzini. La scrittrice è al vertice e non solo fra le donne, dei romanzieri della importante Italia del Novecento. A tu per tu con le donne, fu un grande successo e precedette di poco il ritorno a Taranto di Ungaretti: Petrarca, poeta del ricordo. Ancora un successo, di pubblico e di critica. Ed il Circolo di Cultura continua con Carlo Bo, La situazione della cultura in Italia e con l’autrice di Una donna, Sibilla Aleramo, la femminista per antonomasia, e grande scrittrice, che verrà a parlare della poesia altrui e della propria. Fu una serie di successi, di pubblico e d’interesse, che incoraggiarono. Senza indugi il Circolo di Cultura decide di fare un salto di qualità e nel giugno 1947 bandisce il premio


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Parata di pagliette e cappelli alla cloche. Foto di gruppo nel piazzale della Regia Stazione Torpediniere.

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letterario Città di Taranto: per racconti inediti che avessero per “argomento o clima o sfondo” il mare. Per sostenere il premio la Voce del Popolo (sponsorizzatrice) apre una sottoscrizione, che raggiungerà lo scopo, sia pure tra qualche polemica. Il Comune, per esempio, aderirà con i classici “quattro soldi”. In quel momento l’amministrazione è socialcomunista, e forse il taglio libero del giornale e l’impegno nel partito liberale di qualche componente del Circolo di Cultura produce risposte non adeguate. Adeguata sarà invece l’adesione della Marina Militare, che sentì subito il dovere di sostenere l’iniziativa e che arriverà ad organizzare ogni anno un ballo di gala. Non credo ci sia stato un premio di cultura in Italia conclusosi con un ballo di gala, affollato di letterati, artisti, giornalisti, scrittori e poeti prestigiosi, oltre che di tanti uomini di mare. Vedere (le fotografie) per credere. Altrettanto adeguata sarà, lo vedremo in seguito, l’adesione dell’importante istituzione cittadina, l’Istituto Talassografico. La sottoscrizione per il Premio Taranto di letteratura andrà bene. Si parte. Come si sa in un Premio di cultura l’architrave è l’altezza e serietà della giuria. Fu questa la carta vincente, che darà l’avvio alla più straordinaria delle avventure culturali italiane del dopoguerra. La giuria della prima edizione è presieduta da Giuseppe Ungaretti, e composta dalla scrittrice Gianna Manzini, dal grande critico letterario Enrico Falqui, dall’ammiraglio Giuseppe Fioravanzo e da Antonio Rizzo (segretario, in rappresentanza del Circolo di Cultura organizzatore). Eccoli a Taranto, al lavoro. Per un insieme di circostanze si decise di organizzare la manifestazione puntando sul sei gennaio come data fissa. Il tentativo di creare una tradizione. Il bando girò per la stampa italiana, il Circolo di Cultura (e la Voce del Popolo) si impegnarono operativamente. Primo risultato: centinaia di racconti, tra i quali non pochi di scrittori anche affermati, attirati sicuramente dal premio per il vincitore, ch’era di una certa consistenza, duecentomila lire (cinque-sei mesi di stipendio d’un buon impiegato). I racconti giungevano anonimi e consegnati ad un assai vigile notaio; ciononostante dei buoni lettori potevano talvolta intuire la mano dell’autore. Ma il racconto che vinse il primo anno aveva una singolarità tale che non poteva che essere d’un esordiente: vinse


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Ai primi del secolo scorso, le attività di molluschicoltura a Taranto richiamavano numerosi visitatori sulle rive del Mar Piccolo. Un gruppo di ospiti in posa all’ombra di una “freschiera” (frischérɘ), il cui tetto era realizzato con i “libani” non più utilizzabili per l’allevamento dei mitili.

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infatti, con Il grande mare, Raffaello Brignetti, giovane scrittore e giornalista elbano. Fra i concorrenti che ambivano al premio c’era Enrico Pea, molto amico di Ungaretti e suo favorito. Ma tutti - anche Ungaretti - dovettero arrendersi al racconto di Brignetti che “parlava mare”. Si rivelerà una scelta giustissima. I fogli dattiloscritti erano tenuti insieme da un amo “da marinaio”, al quale i giurati si punsero. Brignetti, ha venticinque anni, è nato su uno scoglio sormontato da un faro, l’Isola del Giglio, è figlio del guardiano di quel faro e si è laureato con una tesi su Vittorio G. Rossi, noto scrittore italiano dedito a narrazioni di viaggio e di mare, densi di situazioni avventurose. Da bambino Brignetti non andava a scuola a piedi o in bici, o in auto o in tram; ci andava con la sua barca, e spesso da solo. Con quell’amo agganciò il Premio Taranto. La città dei due mari ha scoperto un grande talento, il più grande scrittore di mare italiano, il nostro Conrad. “Il grande mare” si confermerà fra più bei racconti della letteratura del Novecento, che pure sarà generosa in questo genere letterario. Gli scrittori segnalati furono Orsola Nemi, Piero Operti, Pier Francesco Paolini e Carlo Scarfoglio; premio a latere, Giacinto Spagnoletti. Fu tale il successo che il Circolo di Cultura si decise ad un’impresa ancora più ambiziosa. Aggiungere al premio di letteratura un secondo, di pittura. Lasciano immutata l’impostazione tematica, “per opere che abbiano il mare come protagonista, o clima, o sfondo” e portano la somma per il vincitore alla considerevole cifra di mezzo milione di lire! Il Premio di pittura avrà una sua mostra. Sarà sempre inaugurata il sei gennaio (il tradizionale giorno dell’Epifania) e avrà la possibilità di godere della prestigiosissima sede dell’Istituto Talassografico, affacciato allora come ora sul Mar Piccolo. L’Istituto ebbe sempre un legame importante con il Circolo di Cultura. Ha così inizio la splendida avventura che darà al Sud un grande evento artistico e a Taranto un posto di tutto riguardo nel panorama culturale italiano, in quegli anni. La giuria della sezione letteraria, nel secondo anno, resterà la medesima. Quella della sezione pittura sarà presieduta da Carlo Scarfoglio e segretario sarà Onofrio Martinelli (un grande artista, e vero “recupero” per le Puglie). Quindi Virgilio Guzzi, Alfredo Petrucci ed Alberto Savinio: sì, vedremo il grande Savinio a Taranto sistemare direttamente i quadri


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Gli Autori Giovanni Acquaviva Giornalista e scrittore, studioso delle tradizioni tarantine e co-fondatore del quotidiano “Corriere del Giorno” è scomparso il 24 novembre del 2008. Giorgio Alabiso Ricercatore presso il CNR/IAMC Talassografico “A.Cerruti” di Taranto. A sera, la processione delle barche degli “ostricari” lascia il posto all’incantevole tramonto tarantino.

Benito Antonelli Maresciallo di Marina, subacqueo e sommergibilista, è studioso appassionato indipendente di archeologia navale. Fabio Caffio Contrammiraglio, saggista ed esperto di diritto del mare. Carmela Caroppo Ricercatore presso il CNR/IAMC Talassografico “A.Cerruti” di Taranto. Rosa Anna Cavallo Ricercatore presso il CNR/IAMC Talassografico “A.Cerruti” di Taranto. Ester Cecere Primo ricercatore presso il CNR/IAMC Talassografico “A.Cerruti” di Taranto. Lucia D’Ippolito Funzionario del Ministero “Beni e Attività culturali” all’Archivio di Stato di Brindisi. Giovanni Fanelli Ricercatore presso il CNR/IAMC Talassografico “A.Cerruti” di Taranto.

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Fabrizio Martello Presidente della Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli onlus. Piero Massafra Pubblicista editore e storico, ha scritto libri e saggi di storia e tradizioni a Taranto. Salvatore Mellea Direttore Generale della Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli onlus. Michele Pastore Primo ricercatore presso il CNR/IAMC Talassografico “A.Cerruti” di Taranto. Aldo Perrone Preside, ha scritto saggi, romanzi, poesie. Gli sono stati assegnati importanti riconoscimenti. Giseppe Portacci Tecnico a contratto presso il CNR/IAMC Talassografico “A.Cerruti” di Taranto. Fernando Rubino Ricercatore presso il CNR/IAMC Talassografico “A.Cerruti” di Taranto. Massimo Vaglio Naturalista, scrittore, enogastronomo, esperto in produzioni agroalimentari meridionali.

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La Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli Onlus

La Fondazione è un organismo Onlus costituito nel 1989, con il patrocinio della Marina Militare Italiana, da Comune e Provincia di Taranto, Banca Popolare di Puglia e Basilicata, SELEX Sistemi Integrati Spa, CISDEG Consorzio Italiano Sistemi DEG, allo scopo di promuovere la cultura del mare. Compiti principali e statutari della Fondazione sono • favorire e divulgare la cultura e la conoscenza del mondo marino, marittimo e navale; • mettere in risalto l’evoluzione delle soluzioni tecnologiche applicate; • promuovere attività educative, formative, sociali, economiche e culturali; • coltivare l’interesse per i problemi del mare e per la scienza, la tecnica e l’arte navale; • concorrere alla creazione di una vasta cultura ambientale, promuovendo progetti finalizzati alla ricerca scientifica di particolare interesse sociale, alla tutela e valorizzazione della natura e dell’ambiente con particolare riferimento a quello marino, alla tutela e valorizzazione delle cose d’interesse artistico e storico. I settori di attività sono relativi alla formazione in campo ambientale, in particolare sull’ambiente marino e costiero oltre che su portualità e sicurezza marittima; alla ricerca e divulgazione, alla ideazione e progettazione di ausili didattici multimediali, alla educazione ambientale marina, alla produzione editoriale di libri, opuscoli, poster, video e filmati nel settore di interesse. La Fondazione dispone di aula didattica e laboratorio informatico multimediale, oltre che di uffici per studi, analisi e ricerche. Iscritta all’Anagrafe Nazionale Ricerche n.52897EAS è accreditata presso la Regione Puglia quale Ente di Alta Formazione (Boll. Uff.Reg.Puglia n.138 del 9.11.05). Sostenuta da tre Ministeri (il Ministero Ambiente e Tutela del Territorio, il Ministero Istruzione pag. 248


Università e Ricerca e il Ministero Infrastrutture e Trasporti) che ne esercitano il controllo, collabora con alcune importanti realtà della ricerca universitaria quali il CoNISMa – Consorzio Interuniversitario di Scienze del Mare ed il IAMC/CNR – Istituto Ambiente Marino Costiero, Talassografico di Taranto.

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CNR/IAMC - Istituto per l’Ambiente Marino Costiero Sezione Talassografico “A. Cerruti” - Taranto

L’Istituto Sperimentale Talassografico di Taranto iniziò la sua attività nel 1914 come “Laboratorio Demaniale di Biologia Marina” per la ricerca applicata alla molluschicoltura. Il primo Direttore fu Attilio Cerruti che incrementò l’attività scientifica legata principalmente allo studio dei mari tarantini ed all’approfondimento della conoscenza finalizzata al loro sfruttamento attraverso ricerche riguardanti la biologia di alcuni molluschi, le malattie delle ostriche e dei mitili, ed i sistemi più pratici da utilizzare per la molluschicoltura. Il Laboratorio, nato come struttura del Demanio Marittimo nell’ambito del Ministero delle Finanze e già componente del Regio Comitato Talassografico, nel 1946 passò temporaneamente al C.N.R. Subito dopo, assumendo la denominazione di “Istituto Sperimentale Talassografico”, fu affidato al Ministero Agricoltura e Foreste cui appartenne fino al 1977 allorché rientrò definitivamente al C.N.R. Attualmente, l’Istituto Talassografico, intitolato al suo fondatore per i meriti acquisiti in campo scientifico, è una delle cinque Unità Organizzative di Supporto dell’Istituto per l’Ambiente Marino Costiero (IAMC) del Consiglio Nazionale delle Ricerche, con sede amministrativa a Napoli. Esso è strutturato in Laboratori, ciascuno dei quali è dotato di strumentazione adeguata a svolgere attività di ricerca nei campi dell’Algologia, del Benthos, del Plancton, dell’Ecologia, della Microbiologia, dell’Oceanografia e della Chimica Ambientale. L’Istituto è dotato di una biblioteca che, oltre ai periodici attinenti i settori di competenza, conserva alcuni libri molto rari, nonché edizioni particolari, limitate o, addirittura, prime edizioni e quattro pregiatissimi volumi “in folio” risalenti al 1700. Possiede, inoltre, due mezzi nautici: il battello oceanografico “A. Cerruti”, della lunghezza di 14, 5 m, ed il gommone oceanografico “Aristocle”, entrambi attrezzati per rilevamenti oceanografici, immersioni e campionamenti di benthos, plancton e sedimenti.

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L’Istituto svolge attualmente una qualificata attività di ricerca a livello nazionale ed internazionale nei settori della biologia ed ecologia degli organismi marini, rivolgendo particolari attenzioni ai problemi dell’inquinamento delle acque della fascia costiera, della conservazione della biodiversità e del monitoraggio degli ecosistemi marini costieri. L’IAMC-U.O.S. “A. Cerruti” di Taranto collabora con numerose università e istituzioni scientifiche italiane ed estere nonché con gli Enti Locali e diverse aziende e società operanti sul territorio per i quali rimane sempre un punto di riferimento per quanto attiene ai problemi ed alle istanze locali.

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Frammenti di mare Taranto e l’antica molluschicultura Copyright Fondazione Marittima Ammiraglio Michelagnoli onlus (Organizzazione non lucrativa di utilità sociale) Sede legale: Corso Umberto I, 147 - 74123 Taranto. Aula didattica e Laboratorio Informatico: Via Nitti, 7 – 74123 Taranto. Tel 0994526095; e-mail: fond-michelagnoli@libero.it web: www.fondazionemichelagnoli.it CNR/IAMC - Istituto per l’Ambiente Marino Costiero Sezione Talassografico “Attilio Cerruti” Taranto 3, Via Roma - 74123 Taranto Tel 099 4542111; e-mail: dirta@iamc.cnr.it pag. 252




Ăˆ vietata la riproduzione, anche parziale e con qualunque mezzo, delle immagini.

Finito di stampare nel mese di novembre 2009 presso gli stabilimenti di Stampa Sud S.p.A. - Mottola (Taranto) pag. 253





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