Anna Maria Alessandra Petrelli
MAI SOLA romanzo
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Titolo | MAI SOLA Autore| ©Anna Maria Alessandra Petrelli Coordinamento editoriale | Pasquale Ignazio Viscanti Redazione | Vitantonio Petrelli Progetto grafico | Antonio De Masi
Casa editrice via Altamura, 28 - 70029 Santeramo in Colle (BA) Tel./fax +39 080 3036602 www.ottimilibri.it | info@ottimilibri.it ISBN 978-88-97038-05-4
Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso scritto dell’Editore
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A te, che giochi con la mia anima dondolando nella periferia delle tue emozioni, in un luogo lontano dal cuore dove l’amore abita le sue paure. A.M.A.
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… Irenè aprì emozionata il libro appena comprato che raccontava la storia di quella donna … Con la schiena china e il corpo accoccolato, su quella panca di legno, nella sua stanza piccola ma accogliente, lei, ansiosa e incuriosita, si strinse silenziosa, tra i capelli color miele raccolti nella fascia colorata e gli occhi traghettanti il suo mondo incuriosito in quel racconto, iniziò a leggere … Aveva la sua tenera età, quella donna, quando iniziò ad inghiottire il dolore, pasto preferito di quelle ferite d’amore che lei si portava dentro, avendole ingerite come pietanze, ignara di quello che avrebbero potuto procurare al suo essere. 5
Tredici anni vissuti in campagna tra ingenue ricreazioni di giochi vissuti all’aria aperta, quando il sole tiepido, di un’estate finita, riscaldava le ultime ore dei pomeriggi avvizziti e tristi, prima di tornare sui banchi di scuola e nascondersi timidamente tra le chiome più alte di compagne fedeli. Davanzali di ricordi riempivano la mente di questa ragazzina di periferia, già carica di arcobaleni sfumati alle grida di dolore che, come vento, portavano via il sole della fanciullezza racchiuso in sé, creando un vuoto che ingrigiva l’animo. Amanda, così nel libro si chiamava la ragazzina dalla riccia chioma castana, minuta, con gli occhi spauriti e dolci da far fiorire i peschi a novembre e col sorriso timido e presago dei giorni a venire. Desiderio di amore inciso nel cuore fragile, come tatuaggio indelebile delle sue paure, era il marchio che la segnava intensamente e inconsapevolmente. Amanda dormiva racchiusa nei sogni dei suoi tredici anni, nel letto rosa antico in ferro battuto dai decori astratti, romantico come le fantasie della piccola anima sua orlata di pizzi. 6
“Amanda sbrigati o faremo tardi a scuola!”, il richiamo della voce ricoperta di barba di un padre entusiasta, pronto a intraprendere un nuovo giorno, contento di incontrare la polvere di gesso e le premure degli alunni che amava rassicurare con il fare paterno di un “preside buono”; così lo chiamavano tutti. Amanda, intanto, nella sua stanza, combatteva con i dispetti della sorella Luce, una bimbetta vispa e curiosa, dagli occhi neri neri e i capelli lisci come l’olio. “Luce, non toccare le mie cose … dai esci, così chiudo la porta.” Intanto Irenè era tutta presa dal suo libro, mentre la fantasia la faceva viaggiare su binari ancora inesplorati di situazioni inattese. Il clima fuori era mite e il sole filtrava attraverso i vetri di quella piccola stanza dalle pareti rosa ciclamino. Il respiro di Irenè riempiva il silenzio della stanza vuota di altre anime, in giro a vagar per altre stanze. Era ora di pranzo. Irenè era troppo concentrata a leggere le vicende di Amanda per staccare e gustare il piatto con quel profumino invitante,
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che sua madre aveva preparato come tutti i giovedì. Situazioni più grandi di lei avevano allontanato Amanda dai giochi di bambina scaraventandola in un baratro pieno di paure e angosce che cercava di risalire aggrappandosi alla voce del cuore. Continuava a vivere i giorni, innamorata dell’amore, cercando di esprimere l’etereo anelito d’immenso che avvolgeva il suo animo fragile come Icaro nell’istante del volo. Dalla finestra entrava l’odore dell’asfalto cotto dal sole, Amanda incontrò per la prima volta il suo dolore e da quell’istante decise di celarlo nei retaggi che la abitavano. “Mamma, sto Male! ...” Erano trascorsi mesi da quel giorno in cui ebbe inizio il silenzio, il silenzio assordante che voleva rompere la prigione nella quale era stato confinato … il silenzio del bisogno: “Mamma, Sto Male! …” “Mamma …” Il silenzio aveva urlato. L’odore misto di alcool e disinfettante al cloruro accompagnava il cigolio stridente della lettiga. 8
“L’emoglobina continua a scendere!” “Preparate la sala operatoria! Forza!!” Le voci confuse tuonavano nel corpicino spoglio di Amanda. La paura correva veloce come i pensieri che stordivano la sua mente. Una figura vestita di verde, con il cappellino e la mascherina si avvicinò: “Andrà tutto bene, vedrai.” Poi, la quiete. Distesa sul letto della stanza, Amanda spinse fuori lo sguardo a incontrare la luce fredda al neon del lampione in strada. Un turbinio di emozioni affollarono quell’istante. Quella luce, come tante. Scavava nei pensieri e il respiro si faceva affannoso. Il ricordo tremendo pervase la stanza. Quella luce come quelle luci. Quegli occhi grandi che illuminavano imponenti la sala rianimazione. Quei fari come occhi l’avevano vista ferma, spoglia, inerme come la vittima sacrificale che attende il suo carnefice. “Piano, Amanda”, ripeteva a se stessa. “Non ti preoccupare, è tutto finito”, si girò dall’altra parte per scacciare quei pensieri e vide la sua immagine ritratta allo specchio. 9
“Chi sei?!”, si domandò. “Sono te”, rispose la figura riflessa. “È impossibile, non ti conosco.” Amanda voleva fuggire, ma qualcosa la tratteneva. Riconosceva la sua anima allo specchio, nei suoi occhi, ma tutto il resto era diverso; tutto. “Ecco, ora lo sai. L’hai sempre saputo”, la interruppe la figura riflessa. Un istante interminabile attraversò Amanda e la sua figura riflessa allo specchio, un istante arricchito solo dal respiro profondo e inquieto della ragazza smarrita. “No! Basta!” e continuò a pensare. Voleva correre via, fuori; voleva evadere. Voleva evadere dal suo corpo, ma non lo ammetteva. Non era il suo corpo; era diverso. “È tuo, guarda … è tuo.” “Non è il mio. Quel corpo è segnato! E lo sarà per sempre!” “Si, è vero, ma non importa. Guarda cosa contiene … ci sei tu!” “Amanda ce la farai”, la voce del nonno a cercarla in un sogno e la sua speranza aggrappata ad un filo.
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Passarono i giorni, passarono gli anni e Amanda, con le sembianze di una donna, si prendeva ancora cura della bambina sofferente che era in lei. Anni addietro, i dottori avevano detto alla madre di Amanda che sua figlia probabilmente, non sarebbe sopravvissuta a quel male che l’aveva colpita in tenera età e lei, mamma giovane e donna così elegante e semplice, silenziosa e smarrita, aveva ingoiato quel dolore, dando vita alla speranza di rivedere sua figlia Amanda camminare con le proprie gambe, non più scheletrica e con la chioma riccia, svolazzante e ribelle a rincorrere farfalle. Amanda ci aveva messo tempo a superare il trauma di quelle luci al neon che intravedeva di sera dalle finestre degli appartamenti quando le persiane non erano ancora state chiuse e le si fiondavano nella testa tanto da procurarle dolore fino a farla piangere per l’angoscia. L’impatto con questa nuova realtà non fu facile da superare per Amanda, che urlò e pianse per molto tempo, prima di rassegnarsi a quel nuovo corpo estraneo su di sé. A scuola, Amanda era sempre timorosa di dover mostrare le sue debolezze ai compagni, ragazzini quattordicenni incapaci di capire. 11
Il tempo in quell’aula passava lentamente e Amanda sentiva addosso l’imbarazzo e l’angoscia di quel suo corpo diverso, in cui la sua anima si ritrovava a vivere smarrita e spaesata. Tornata a casa, doveva imbattersi in quel piatto così insipido e ripetitivo, tanto diverso dalle pietanze elaborate e succulenti, pronte ad essere divorate dai suoi fratelli e lei, costretta a dover mangiare sempre gli stessi cibi cotti a vapore, non ne poteva più di quel boccone arido di sapori e asciutto come pietre arse al sole. Intanto Irené, immersa nella sua lettura, non aveva sentito che sua madre l’aveva invitata ad accomodarsi a tavola già quattro volte, ma a lei, intenerita dalla triste vicenda della sua coetanea, costretta a mangiare cibi cotti al vapore, era passata la voglia di gustarsi quel piatto fumante di pennette ai funghi imbionditi con quel pan grattato dorato nell’olio e appassito, assieme ai pomodorini freschi dell’orto, che ancora sapevano di terra. Gegè, il gatto di Luce, con le sue zampette grigio fumo, aveva imbrattato la stanza di Amanda che, distrattamente, aveva lasciato la porta aperta prima di andare a scuola. “Luce, questo gatto dispettoso, portalo via”. 12
E Luce rideva soddisfatta mentre Amanda si disperava. Il loro rapporto era così, di dispetti e affetto perché Luce, che era più piccola, sapeva che senza Amanda, sorella più grande, non avrebbe potuto vivere. Nell’altra stanza Giò, che studiava per l’interrogazione del giorno dopo, aveva saputo che la buona riuscita di quella interrogazione gli avrebbe fruttato un nove in pagella! Giò era il fratello grande, già al terzo anno di liceo e con le idee abbastanza chiare. Statura media, occhiali senza montatura, corporatura normale e l’animo buono e simpatico, amava la compagnia dei suoi amici con i quali si divertiva a suonare in un piccolo locale affittato nel centro storico del paese. Amava leggere e la sera dedicava il suo tempo alla lettura prima di addormentarsi. Ma la cosa più bella erano le doti delle sue mani snelle quando le appoggiava sui tasti bianchi e neri del pianoforte. Alle 19.00, prima che la famiglia si riunisse a cena, la musica del pianoforte di Giò, allietava gli animi dei componenti, indaffarati ognuno nelle proprie faccende.
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Ma spesso si riuniva nel grande salone, per ascoltare le note squillanti e rasserenanti di quel pianoforte inglese dell’800, con le corde decise e acute come le urla di un neonato in fasce. “Giò, dai suona Poster, che noi cantiamo”, “mamma mia, come siete stonate”, “dai Giò, non ti fermare”, “mamma, mamma”, “che c’è, Luce?” “Checco sta piangendo”, “che è successo?”, “Non lo so, vieni” . Checco era il più piccolo dei quattro figli, bimbo di due anni dai capelli ondulati e lunghi, coccolato da tutti per la sua tenera età, arrivato dopo parecchi anni di distanza dagli altri figli. “Beh, ragazzi venite a tavola, è pronto” . La mamma di Amanda doveva sempre sgolarsi prima che tutti fossero a tavola, in casa si creava un gran baccano tra urla e musica. “Mamma che c’è per cena stasera?” Chiese Giò affamato. “Ho preparato la pizza di patate”. “La mia preferita” disse Giò e in coro Luce e Checco esclamarono “buona” … Amanda intanto pensava quanto avrebbe desiderato mangiarne un pezzo anche lei, ma per lei c’era il solito petto di pollo cotto a vapore.
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“Sono stufa di questa dieta, anche io voglio la pizza di patate!” La mamma di Amanda sapeva che se ne avesse dato un pezzo anche a lei, le avrebbe fatto male, ma allo stesso tempo era dispiaciuta nel dover vedere la figlia accontentarsi del solito petto di pollo al vapore. “Dai Amanda, ancora un po’ di sacrifici e poi anche tu potrai mangiare ciò che mangiamo noi … e poi questa pizza di patate non è un granché”. Queste le parole del padre per rincuorare la figlia. A tavola si parlava del più e del meno con Checco che non faceva mai finire un discorso per le sue richieste continue di attenzione. Intanto in tv il Tg faceva da sottofondo con le solite notizie di tutti i giorni. La sera si apprestava a finire dando spazio al buio fitto della notte che ormai calava tra gli alberi di pino inumiditi dalla frescura di periferia, lontana dalle luci dei lampioni del paese. Amanda divideva la stanza con Luce, che adorava addormentarsi con la voce calma del padre, che raccontava storielle fantasiose e divertenti, per far addormentare la figlia più piccola, ma anche Amanda ascoltava incuriosita e divertita 15
le storielle di personaggi buffi e ironici che il padre inventava. Era notte ormai e il silenzio faceva eco nelle stanze buie di questa casa di campagna animata dalla ricchezza della diversità di chi la abitava, ognuno con la sua personalità e con una caratteristica che rendeva l’atmosfera diversa. Irenè aveva pranzato in fretta per tornare nella sua stanza a leggere il suo libro, sapeva che avrebbe avuto poco tempo da dedicare alla lettura perché il giovedì pomeriggio aveva appuntamento con la danza che lei amava. “Irenè sei pronta? Vuoi un passaggio?” La voce di Asia, sua sorella maggiore rimbombava lungo il corridoio mentre Irenè raccoglieva le sue cose per approfittare del passaggio. “Si, Asia, aspettami, arrivo” Nei lunghi viali del paesino di provincia, i grandi alberi iniziavano a perdere le foglie ingiallite e indebolite dal primo vento autunnale e i tronchi, lisciati dal sole di un’estate, sembravano essersi scoloriti e rinsecchiti. Tornata a casa Irenè aveva cenato, e ora, rinchiusa nella sua stanza, sotto le lenzuola fresche che sapevano di bucato, riprendeva a leggere quel libro che tanto le stava dipingendo l’anima 16
di immagini forti e vive da coinvolgerla emotivamente. Amanda amava passare il suo tempo con le sue amiche piÚ strette che le facevano compagnia nei viali alberati della sua casa, col profumo di resina fresca che scendeva dai pini circostanti la casa. Loro si raccontavano le storie dei primi amori, quelli vissuti tra i banchi di scuola, a volte frutto delle loro immaginazioni, per desiderio di sentire il loro cuore in compagnia nei momenti piÚ malinconici. Ridevano, scherzavano, parlavano tanto, mentre ascoltavano la musica dei loro cantanti preferiti. Le giornate trascorrevano velocemente quando le ragazzine potevano riunirsi, ormai risucchiate dai primi impegni scolastici, che iniziavano a non dar piÚ molta tregua. Per raggiungere la scuola Amanda prendeva il treno dalla stazione del suo paese, che la portava in quello in cui si trovava la scuola che frequentava. Dieci minuti di baldoria con gli amici e le amiche, di scopiazzamenti di versioni di greco e latino prima di raggiungere quell’aula austera di quella vecchia scuola dalle grandi scalinate in marmo, con i busti di personaggi storici impo17
nenti, come le statue raffigurate sui libri ingialliti dal tempo. “Amanda ma che materia abbiamo alla prima ora?”, la voce confusa del suo amico e compagno di classe ancora assonnato e svogliato di sedersi in quell’ultima fila di quell’aula al terzo piano. “Abbiamo chimica, Igor”... “Io entro alla seconda ora, non mi va di seguire le lamentele di quel prof. noioso”, “Allora io non ti ho visto!”, “Brava!”; questi erano i ritornelli che si ripetevano molte mattine della settimana, quando i ragazzi, arrivati nei pressi della loro scuola, iniziavano a fare i conti col sonno e con la voglia di bighellonare per il paese, prima di sostenere cinque ore di lezione. Il sole filtrava caldo attraverso i vetri sottili di quelle vecchie finestre e la spiegazione della prof. faceva da placebo a quella sonnolenza mattutina che di solito arrivava dopo la ricreazione. Amanda tornava a casa stanca, pranzava e si intratteneva nella sua stanza con Luce a raccontarsi delle loro mattinate a scuola. Qualche volta Giò le seguiva a raccontar di sé e dei suoi amici ed erano risate a crepapelle poiché Giò era molto spiritoso nel raccontare le vicende di ragazzi poco più che adolescenti alle prese con la voglia 18
di sentirsi grandi che sfidavano i professori innervositi dall’euforia di questi diciassettenni in contrasto con i loro anni segnati da impegni più grandi a cui badare. Alle 15.00 i tre fratelli dovevano iniziare i loro compiti, così aveva stabilito il padre, che concedeva un po’ di svago ai tre ragazzi, prima di iniziare a studiare. Desiderava che quell’ora abbondante che avevano a disposizione, la sfruttassero stando all’aria aperta, ma i tre fratelli non sempre lo facevano. Amanda spesso si isolava, inghiottita dalle sue paure, da quella consapevolezza di essere diversa, da quando quel male l’aveva invasa. L’introspezione le insegnò a dar voce alla sua anima e lei, all’improvviso, sentì un forte bisogno di esternare quello che aveva dentro. “Un foglio, mi serve un foglio, no, forse un quaderno ... il mio diario ... la penna, dov’è la penna ad inchiostro? Devo scrivere, sì, devo scrivere quello che mi sta accadendo, quello che sto vivendo, il mio dolore, sì il mio dolore, devo metterlo fuori”; è stato così che Amanda iniziò a scrivere, la prima poesia, poi un’altra e un’altra ancora. Ora Amanda, rintanata nella sua stanza, aveva trovato qualcosa che la faceva sentire meglio: scrivere di sé per liberarsi. 19
Nessuno sapeva della sua nuova passione, delle sue poesie che lei serbava imbarazzata e lì, in quel cassetto di quello scrittoio antico con i pomelli di ottone e non più lucidi, nascondeva gelosamente il suo diario. Era terapeutico per lei rileggere quello che aveva scritto, la aiutava a capirsi, a capire i suoi stati d’animo.
Allo specchio Eccomi, la mia immagine intrappolata nello specchio, dissolta tra i colori della vita, di questa stanza a luci soffuse che ha l’odore dell’anima, la forma del cuore, il calore del tuo respiro … 20