Tommaso Labranca
Andy Warhol Era Un Coatto Vivere e capire il trash
Pubblicato originariamente da Castelvecchi nel 1994 Edizione elettronica ridigitata e reimpaginata nella primavera del 2004 Diffusa gratuitamente tramite il sito www.labranca.co.uk. L’edizione elettronica differisce da quella cartacea nei seguenti punti: 1. Manca l’introduzione di Emanuele Bevilacqua, di cui non ho i diritti. 2. Manca l’Interessante Indice degli Argomenti, che era comunque inutile. 3. Sono state tolte alcune immagini volute in origine dall’Editore e non necessarie ai fini della scrittura. Grazie a Luca “Quack” Gargioni. © 1994 - 2004 by Tommaso Labranca Questa è la versione 1.0 dell’edizione elettronica. In caso riscontraste errori, comunicateli a: andywarhol@labranca.co.uk Se ne terrà conto per l’eventuale versione 2.0 4
PARTE PRIMA GIOVANI SALMONI DEL TRASH
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0. Capitolo Zero
Quando i casi della vita mi pongono di fronte a una cartuccia stereo 8 di Fausto Papetti, mi guardo intorno cercando negli altri uno sguardo di complicità. Ma il mio entusiasmo per l’importante rinvenimento di un reperto trash è puntualmente raffreddato poiché trovo sempre il nulla, la meraviglia, l’ignoranza e l’inesattezza. Spesso trovo anche una domanda: «Che cos’è il trash?». Ogni volta che mi pongono questa domanda sono preso dal panico. Per me, che recepisco gli eventi trash non attraverso la mediazione culturale ma lungo i canali di una misteriosa telepatia, non è stato facile arrivare a dare una forma il più possibile razionale a questo universo in cui la materia più diffusa è l’irrazionalità. Temevo soprattutto che, descrivendo il trash, sarei dovuto ricorrere proprio a quelle mediazioni che, alla fine, l’avrebbero ucciso. Di solito gli osservatori credono di raggiungere precisione e imparzialità ponendosi in orbita geostatica sull’oggetto del loro studio, avvertendo nel frattempo della loro totale non-appartenenza all’ambiente che analizzano. lo invece non mi trovo sopra, ma dentro al trash. Lo osservo e lo difendo attivamente dagli attacchi dei suoi molti nemici.
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1. Come nasce un Giovane Salmone
Secondo il credo dei mediocri che governano la nostra estetica tutte le cose che ci circondano non possono che ricadere necessariamente in uno dei due settori contrapposti: o brutto o bello, o alto o basso, o culturale o sottoculturale, o/o. All’origine di questo desiderio di ripartizione non c’è alcuna colpa: è naturale scegliere e catalogare le cose secondo la propria sensibilità. Il torto nasce quando la sensibilità personale viene sostituita dall’imposizione del pregiudizio estetico. Chi accetta e pratica questo comportamento manicheista rinuncia a giudicare un evento in base alla rispondenza con il proprio gusto e si dedica totalmente al pregiudicarlo in base alla sua consonanza con un canone imposto. Nel 99 per cento dei casi quel canone è chiamato «valore culturale». Insomma, chi accetta il pregiudizio delega a terzi la formazione del proprio gusto. Il pregiudizio estetico possiede una forza che a volte può far perdere le speranze a chi voglia combatterlo: di fronte a una persona che lo applica, la ragione non riuscirà mai a spuntarla. Se uno di questi personaggi è determinato a non voler vedere un certo film solo perché Maurizio Porro ne ha parlato male sul Corriere della Sera, nulla riuscirà mai a fargli cambiare idea. Il pregiudizio estetico è come un torrente impetuoso, inarrestabile, che con la sua forza cerca di convogliare a valle il consenso di ogni essere pensante. Ed ecco che sulle rive di quel fiume avviene la nostra trasformazione. Siamo ritti sulla sponda e osserviamo il flusso dell’acqua. Possiamo restare lì e continuare a chiamarci osservatori, ascetici e al di fuori di ogni corrente. Possiamo gettarci in quel turbinio e farci comodamente trasportare nell’esaltazione del consenso collettivo. O infine, ed è ciò che vi invito a fare, possiamo sì gettarci in acqua ma, trasformati in Giovani Salmoni del Trash, dobbiamo essere pronti a risalire questo fiume ribollente di boria e ignoranza, dobbiamo raggiungerne le fonti e renderle aride. 8
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2. Come agisce un Giovane Salmone
I Giovani Salmoni, nonostante il loro ruolo di osservatori consci e difensori del trash, sono perfettamente uguali ai trashisti, ossia a quei milioni di persone che applicano, cercano, usano e sfruttano il trash senza però rendersene assolutamente conto. Ai Giovani Salmoni piacciono le cose brutte, basse e sottoculturali che brutte, basse e sottoculturali però non sono realmente, ma tali vengono ritenute dai misoneisti, soprattutto da quelli che vedono costantemente intaccato il proprio ruolo dominante. Per esempio, ai Giovani Salmoni piace guardare la televisione, non solo per fare un dispetto alla scrittrice Susanna Tamaro e ai suoi lugubri conniventi, ma proprio perché a loro piace. Ai Giovani Salmoni del Trash piace il King Bacon di Burghy: affrontare la cedevolezza del pane intriso di salsa, attraversare le foglie di insalata, il bacon che scrocchia e finalmente, a metà della polpetta di carne, far incontrare l’arcata dentaria superiore con quella inferiore e in quel momento pensare a Gualtiero Marchesi e a tutti i detrattori del fast food. Ai Giovani Salmoni del Trash piace guardare gli edifici IACP dalle cimase vagamente postmodern stagliate contro l’azzurro del cielo, meglio se con gli con gli occhiali da sole che fanno da polarizzatori, e fissando le loro forme e i loro colori inusuali richiamare alla memoria i testi degli architetti aggrappati al razionalismo più di quanto facciano certe signore con i loro fustini di detersivo. Insomma, ai Giovani Salmoni piace fare tante cose che le menti eccelse dell’estetica established, se conoscessero il vero senso dell’espressione, definirebbero trash. Ma a loro piacciono senza condizioni né limiti e, quello che più conta, piacciono spontaneamente. Non è mai affettazione di un gusto degenerato. Se un Giovane Salmone dice che gli piace ascoltare technorave, la drum che pompa, le urla campionate, i giri tanto banali da cadere nel campo gravitazionale del pianeta Pace-Panzeri-Pilat, lo dice perché è vero che gli piace.
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3. I cinque pilastri del trash
Dunque, proprio come fa un trashista, anche il Giovane Salmone si esprime liberamente nelle proprie scelte estetiche. Questa libertà di espressione del proprio gusto è uno dei cinque pilastri del trash ed è un atteggiamento condiviso da milioni di persone anti-intellettuali. Si potrà osservare che questa è una libertà condizionata, poiché, dicono, le masse sono controllate, il loro gusto è gestito dall’alto e i loro rappresentanti non posseggono alcuna facoltà di discernimento. Ma questo non è quasi mai vero. Anzi, è vero il contrario. Sono gli intellettuali a essere rigorosamente controllati e gestiti da se stessi e dall’immagine che si sono autocostruiti. Sono gli intellettuali, vero popolo bue, a non avere alcuna facoltà di discernimento, ad accettare tutto ciò che viene porto loro con lo sviante timbro di “evento culturale” e a rifiutare platealmente il resto. Troppo spesso si dimentica che la massa è fatta di singoli. Certo, qualcuno tenta di guidare il gusto, ci riesce benissimo e molti cadono in questa trappola, ma alla fine nessuno segue esclusivamente la strada indicata. Fate un giro per i mercati rionali, stazionale davanti alle discoteche periferiche o alle scuole pubbliche, prendete l’autobus invece del taxi e vedrete come i diversi gusti imposti vengono mescolati, alterati, personalizzati fino a essere resi irriconoscibili. La contaminazione è un altro pilastro del trash. E se nella maggior parte dei casi le commistioni sono eseguite in maniera sconcertante o in base a giustificazioni sommarie è perché si risponde, inconsciamente, ai dettami di due ulteriori pilastri: l’incongruità e il massimalismo, ossia il rifarsi a un modello senza preoccuparsi di imitarlo perfettamente. Un’analisi più attenta del semplice giudizio sbrigativo e quasi infastidito espresso dagli intellettuali sulle tendenze di massa dimostrerebbe come quella libertà più che condizionata è guidata. Dietro quella libertà si nasconde un’azione che costituisce la vera molla principale di tutto il comportamento trash: il copiare qualcuno. Se il fine di questi costanti tentativi di emulazione fosse il semplice emulare per la necessità di emulare, se il risultato di questo inarrestabile imitare fosse un esercito di cloni perfetti come i replicanti di Grace Jones nel video di Demolition Mani,
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allora ci dovremmo prostrare al suolo davanti a chi tuona che siamo un branco di pecoroni. Invece questo non avviene: si imita non per il gusto sterile di imitare e confondersi con mille altri, ma per poter spiccare all’interno del proprio gruppo. Inoltre il risultato di questa emulazione non è mai simile al modello. Si tratta dunque di una emulazione fallita. Nel noto programma di vendite a domicilio Domenica con Semeraro, trasmesso da varie Tv locali un po’ in tutta Italia, il presentatore Walter Carbone cerca di emulare Pippo Baudo, ma non potendo invitare Madonna e dovendo ripiegare su Mario Tessuto, il suo risultato è trash. Nei suoi libri e film Alberto Bevilacqua cerca di emulare certi artisti aulici, ma innestando l’estetismo decadente sulla crapulaggine parmense, il suo risultato è trash. Durante il TG4 Emilio Fede cerca di imitare la CNN, ma circondato da collaboratori surgelati come il tristemente celebre Paolo Brosio dal Palazzo di Giustizia dì Milario, íl suo risultato è trash. Quest’ultimo pilastro, l’emulazione fallita, è dunque importantissimo e basta da solo a soddisfare ogni tentativo di spiegazione poiché, enunciandolo, è già venuta a galla la formula matematica del trash: INTENZIONE - RISULTATO RAGGIUNTO = TRASH Per chi ama la precisazione ecco l’emulazione fallita trasformata in una formula matematica ancor più formalizzata, ma di facile applicazione: kS – R = T dove: k = una costante (intenzione, povertà di mezzi, incapacità, contaminazione, incongruità, massimalismo, ritardo ecc.) che altera lo scopo S = scopo, cioè l’emulazione di un modello R = risultato, ciò che si ottiene T = trash! Di fronte a un evento estetico si provi ad applicare questa formula. Se T è diverso da 0, si è di fronte al trash. Semplice, tanto che non pare necessaria nessuna spiegazione ulteriore. E invece non è così, per colpa di quella k. Se non ci fosse quella costante d’alterazione tutte le emulazioni sarebbero riuscite e noi ci troveremmo a vivere (meschini!) in un mondo senza trash, davvero noioso e per nulla interessante. Invece la k c’è, assume forme infinite e la sua individuazione rende appassionante lo studio dei fenomeni trash.
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4. Primus inter pares
Nonostante la verità della formula che abbiano visto nel capìtolo precedente accompagní da sempre l’umanìtà nelle sue espressioni estetiche, pochi sono coloro che vi hanno dedicato un’attenzione che sia andata al di là della semplice presa in giro, lasciata cadere da una posizione forzatamente elevata. L’unico sviluppo interessante di quella formula presente in tutta la letteratura italiana del Novecento è offerto dalle canzoni-saggio Tu vuò fa’ l’americano e Tonero di Renato Carosone. I testi dei due brani hanno parecchie similitudini, tanto da far presupporre che il protagonista sia lo stesso in entrambi i casi. Assumiamo anche noi questa tesi. Ricorderete tutte le situazioni narrate nei testi. Siamo negli anni Cinquanta: all’indomani della caduta del Fascismo, riacquistata la libertà espressiva, un giovanotto napoletano si appassiona ai miti hollywoodiani e tenta di emularli col solo fine di spiccare quando passeggia per via Toledo. Allora inizia a travestirsi da americano, porta i jeans, cappellini con visiera da giocatore di baseball oppure si fa crescere basette sudamericane e indossa sombreri (splendido esempio di massimalismo: i toreri sono spagnoli, parlano dunque spagnolo. Lo spagnolo si parla anche nei Paesi dell’America Latina, dai quali venivano i balli allora più in voga. Dunque i toreri, per il semplice fatti di parlare spagnolo, devono portare il sombrero messicano e le loro basette sono sudamericane). Ma il giovanotto parenopeo è disperatamente votato al trash: non solo dopo aver bevuto whisky e soda si sente male, ma quando va a ballare vestito come Tyrone Power in Sangue e Arena, mescola il bolero con in cha cha cha (contaminazione, incongruenza e massimalismo!). Come vedete i pilastri del trash ci sono tutti. La grandezza di Carosone, però, non sta tanto nell’averli individuati perfettamente, quanto nel modo che egli usa per sottolineare il fallimento del giovane illuso, ponendosi non al di sopra degli eventi, ma dichiarandosi primus inter pares. Carosone è meritevole prima di tutto perché decide di compiere la sua osservazione, e poi perché non la lascia cadere da una cattedra inesistente, ma usa gli stessi mezzi cui ricorre il criticato. Per prendere in
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giro il fanatico del rock’n’roll, il musicista ripete ritmi che si richiamano a quello stile. Per colpire chi ascolta bolero e cha cha cha usa proprio un cha cha cha. Questa è la strada più difficile. Come sarebbe stato facile dire: «tu, napoletano, ti perdi dietro a certi ritmi d’oltreoceano invece che ascoltare le canzoni della tua città», adagiando le parole su tappeti tarmati di violini e mandolini. Carosone è dunque un vero Giovane Salmone del Trash, perché pur avendo compreso quanto ridicolo si celi dietro certe scelte emulative non le evita, ma vi ricorre anch’egli. Se non diventa ridicolo a sua volta è perché fa certe scelte senza mai prendersi troppo sul serio, facendoci intendere che in fondo anche a lui potrebbero essere imputate quelle accuse di emulazione fallita che egli muove al protagonista delle due canzoni. Carosone annulla dunque l’alto e il basso, il ruolo docente e quello discente e unisce nel suo Prodotto critica e autocritica.
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5. Territorial Pissing
Ma casi come quello di Carosone sono rari. All’apparire del trash, infatti, scattano in certi individui componenti di inaccettabile e ingiustificata superiorità. La delegittimazione di questi comportamenti deve costituire uno degli impegni di ogni Giovane Salmone. Il fallimento del tentativo di emulazione e il paragone di questo con il modello originario spingono molti a ridere del trash altrui, tacendo del proprio. Tutti ridiamo del trash e tutti sbagliamo, poiché non siamo mai motivati nella presa in giro. Nascono così i sorrisini di compassione che il presunto superiore fa quando tratta la materia del presunto inferiore. Un esempio di questo atteggiamento è rappresentato dalle trasmissioni della serie televisiva Mai dire TV, condotta dal trio Gialappa’s Band, che più recentemente si è prodotto anche in un commento in diretta delle partite del mondiale di calcio USA ‘94. Nelle loro performance i tre conduttori sono invisibili e questo rendersi invisibili, questo distaccarsi dalla realtà, dalla tangibilità non è solo un atto di vigliaccheria, ma è anche il più tipico comportamento anti-trash: lancia il sasso e nasconditi, prima di diventare tu stesso bersaglio di altri sassi. Ben celati, per esempio, i tre passano in rassegna brani tratti dai palinsesti di piccole emittenti locali. La scella è ottima: la televisione locale è uno dei più alti esempi di emulazione fallita. Purtroppo, invece di proseguire in un’osservazione imparziale e al limite della scientificità della trashitudine di quelle emittenti, i conduttori di Mai Dire TV si esibiscono in una serie di battute e prese in giro assolutamerite gratuite, poiché trasmesse da una rete (Italia 1) che nell’era post-Freccero è precipitata nelle regioni della più desolante mediocrità, fatta di filmetti californiaini e show da ripristino della pena capitale e per la quale raggiungere i livelli del trash sarebbe già un successo di originalità. Questo comportamento è originato da un atto territorial pissing intellettuale. Il territorial pissing è praticato in natura da altri animali ed è stato mantenuto dai cani anche dopo il loro addomesticamento. Ho scelto l’esempio dei cani da guardia per due motivi: perché ha alla sua base un fenomeno di addomesticamento (tanto simi-
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le a quelli di urbanizzazione e colonializzazione che determinano il trash, come si vedrà più avanti) e perché meglio incarna coloro che, tra gli umani, si credono i padroni, ma sono tenuti ben saldi al guinzaglio da qualcun’altro. I cani, per segnare i limiti del territorio di cui si sentono padroni, orinano lungo i confini e lungo le caricellate delle ville cui sono messi a guardia. Poveri cani: ignorano che i veri padroni di quello spazio non sono loro, ma quelle persone che preparano loro le ciotole e li portano a spasso con il guinzaglio. Questo è il territorial pissing canino. L’uomo, per segnare i limiti del territorio estetico o sociale in cui si sente dominante, non orina, ma fa di peggio: ride, compassiona o distrugge con la critica, creando così una barricata virtuale (a volte, però, addirittura fisica, come nel caso della già vista invisibilità della Gialappa’s Band) dietro la quale crede di essere al sicuro dalle contaminazioni del ridicolo. Ecco dunque compiuta una prima, sommaria descrizione dei trashisti e dei loro rivali. A illustrare lo squallore di questi ultimi rispetto alla ricchezza (anche umana) dei primi, bastano i diagrammi a flusso dei loro processi mentali: Trashisti (Carosone) Emulazione Incongruità Massimalismo Contaminazione Fallimento dell’emulazione Trash Antitrashisti (Gialappa’s Band) Trash Sottolineatura del ridicolo altri (territorial pissing)
Inutile specificare, a questo punto, da che parte vuol strare un Giovane Salmone. Ma attenzione: lo scenario non è così semplice. Le due fazioni si suddividono con diverse sfumature, che affronteremo più avanti. 15
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6. Trans & trash
A rendere più complessi lo scenario e l’intera classificazione del trash entra in gioco il fatto che lo stesso trash supera il concetto normalmente diffuso di classificazione. A proposito di questa difficile inquadrabilità della materia di cui ci occupiamo esiste un parallelo illuminante tra due parole legate da un destino che va oltre quello fonetico. Entrambe indicano due terre di nessuno, due mondi che, seppure generati dalle categorie usuali, non riescono a essere classificati in nessuna di queste. Le parole sono Trans e Trash. Qualsiasi tentativo di classificare un transessuale si rivela subito insufficiente. Il transex è indefinibile fisicamente: benché presenti caratteri di entrambi i sessi non è né uomo né donna. E anche psicologicamente viene a mancare la sicurezza di una definizione: il trans non è eterosessuale, né omosessuale. È, appunto, trans-sessuale, ossia ha superato qualsiasi sessualità. Racchiudendole tutte e negandole allo stesso tempo. Dunque l’unica cosa da fare è creare una nuova categoria in cui poter porre il Transsein, superando la morale e le convenzioni arbitrariamente prestabilite. Ma le affinità non finiscono qui: nessuna categoria è più parallela al trash di quella trans. Dimenticate da subito i trans di lusso, quelli tirati a lucido tipo Ru Paul, in cui ogni paillette pare sistemata da un architetto. Il trans-trash è quello degli autoscatto sfocati della rivista Stranafemmina: l’insospettabile commercialista che si fotografa allo specchio, con sullo sfondo una disordinata camera da letto Aiazzone. Altro che piume e lustrini. Nella mia lunga frequentazione dell’universo trash ho visto annunci in cui i trans più ruspanti indossavano colorati prendisole con uno sbalorditivo effetto Sora Giulia. Il trans-trash ci offre un’immagine femminile davvero massimalista (basta un reggicalze a fare una donna?), incongrua (l’ombra bluastra di una barba contro cui si dichiara sconfitto qualunque fondotinta), povera (cotone provvisorio nel reggiseno invece di siliconature permanenti). Massimalismo, povertà, incongruenza… nel trans-trash, di notte, si incarna la formula presentata precedentemente. Ed è ben presente anche la variabile k, quella che causa il fallimento dell’emulazione. Anzi, mai come in questo caso essa è concreta e toccabile con mano, visto che tra l’intenzione di apparire donna e il risultato finale frustrato vi sono alcuni centimetri di carne, più o meno pulsante.
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7. Trash, Camp & Kitsch
Quando ci si accorge del Favoloso Universo del trash è ormai troppo tardi per poterne fare ancora parte. Quando si è trash non si sa mai di esserlo. Non appena, però, nasce un primo fugace bagliore di rivelazione, quando ci si comincia a porre domande sulla struttura degli eventi estetici che costellano la nostra vita, ecco che si abbandona all’istante la Rutilante Galassia del trash. È normale: una volta scoperto di aver fino ad allora condotto una B-life, si farà di tutto per rinnovarsi in una A1life. Una volta usciti dal tunnel del trash si può entrare a far parte di uno dei due possibili universi paralleli eppure divergenti: quello del camp e quello del kitsch. La destinazione finale dipende dall’atteggiamento che si assume una volta venuti a conoscenza della propria trashitudine. Se la si accetta si diventa camp, si espone senza vergogna il trash, stando attenti a sottolineare che «io, però, non sono veramente così!». Se si fa di tutto per rifiutarla si diventa kitsch, si nasconde il trash e quando ne traspare anche un lembo si è pronti a precisare che «io non sono assolutamente così!». Veramente c’è anche un’altra possibilità, ossia quella di diventare un Giovane Salmone del Trash, che non si lascia andare al flusso della corrente verso le mete scontate del camp e del kitsch, ma risale il flusso del trash per assorbirlo, analizzarlo, perdersi al suo interno. E a ogni salto controcorrente in questo torrente inarrestabile, il Giovane Salmone si chiede addolorato: «Perché io non sono così?». Ma rientrare in questa categoria è cosa assai difficile, soprattutto se si vuole conservare una propria dignità.
Camp L’esponente camp non ripudia il trash, ma il suo approccio è imperfetto. Il campista è un conoscitore parziale del trash, che accetta con un po’ di vittimismo, come per dire: «Questo è ciò che passa il convento, poveri noi. Per non restare affo-
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gati nel mare di spazzatura, cerchiamo di giocarci e di prenderla in giro». È la tipica filosofia su cui si basa la programmazione di RaiTre. Il camp può essere puro o evolutivo. Il camp puro è l’osservazione dei moduli trash effettuate da un esterno, spesso acculturato, che si diverte a giocare con quegli elementi, dopo averli scoperti, cercando di ricreare nuove commistioni artificiali. Il camp evolutivo è lo stadio cui giunge un trashista che si accetta dopo che i suoi occhi sono stati aperti, Calibano di fronte allo specchio che non scappa inorridito, ma resta affascinato dalla propria mostruosità e fa di tutto per sottolineare i suoi aspetti più orribili (pensando però a una prossima plastica). Il trionfo del camp puro si ha negli ultimi film di Almodòvar, nei quali l’esagerata accumulazione di elementi disparati più che da un contagio naturale nasce da un’entropia intellettualizzata, a circuito chiuso, creata da un campista per un pubblico di campisti, non certo di trashisti. Il migliore esempio di camp evolutivo è invece offerto da alcune televisioni private. Agli inizi i venditori di pentolame e dimagranti dele televisioni locali erano spontaneamente (superbamente) trash in tutto. Nell’immagine: vestiti come parrucchiere o banconieri di salumeria finalmente in balera aggiungevano qua e là qualche lustrino o lasciavano intravedere porzioni di seni e gambe per emulazione del livello superiore televisivo cui si rifacevano. Nel linguaggio: espressioni ruspanti, scorrette e dialettali mescolate a frasi del più trito neogergo televisivo: «il tempo è tiranno», «il bello della diretta», «il numero in sovraimpressione», «il nostro centralone sta scoppiando» e altri motti assorbiti per emulazione da reti nazionali e da telepersonaggi di spicco. Si sarebbe potuti andare avanti così all’infinito, con un germinare inarrestabile di eventi trash cui forse non avremmo resistito, soccombendovi, o che avremmo completamente ignorato. Ma ecco apparire all’improvviso un elemento rivelatore, vero deus ex machina che, emerso da una nube di polvere d’oro ha portato con sé la luce per molti: Blob. Blob, senza parlare (ed è ciò che lo differenza, in meglio, da Mai Dire TV), ha codificato il trash, almeno quello televisivo (anche se una simile distinzione non ha motivo di esistere, visto che tra vita e televisione il trashista non fa alcuna differenza), soprattutto nel suo aspetto di esagerazione. E, rivedendosi, quei protagonisti che in origine si comportavano così rispondendo solo alla propria spontaneità, vagamente mediata da una naturale emulazione del visto-in-tv, sono caduti in trappola, campificandosi. Ossia hanno cominciato a emulare non più il personaggio di livello superiore, ma se stessi. Blob ha aperto loro il terzo occhio e, invasi da tutta questa luce, quei personaggi si sono visti, hanno conosciuto le proprie esagerazioni e hanno fatto di tutto per esagerarle ulteriormente. Ed ecco cos’è il camp: il trash che si è rivelato a se stesso, ma che, spintosi troppo in là nel gioco, non è più trash, poiché non è più spontaneo. Tristemente, dato che la campificazione è un processo
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che non risparmia nessuno, lo stesso Blob ne è rimasto vittima e, lungi dal proporsi come acritico détournement situazionista quale era nel 1989, è ormai diventato l’emulazione di se stesso, in una giostra scontata di fantasmi. Così, mentre il trash si evolve, cambia e distrugge continuamente il suo stesso passato, il camp si congela nell’attimo in cui è nato, perso in un loop da cui pare non vi sia via d’uscita.
Kitsch Con un errore diffusissimo si ritiene che il kitsch sia un sinonimo di cattivo gusto. Lasciamo pure questa illusione alle fashion copy più ricche e incolte che non hanno mai consultato il Duden. I Giovani Salmoni, invece, staranno dalla parte della più severa filologia tedesca, per la quale kitsch identifica un’opera d’arte (per lo più letteraria e tardo-romantica) che mira a essere elevata e sdolcinata e per farla elimina dal territorio della sua narrazione tutto ciò che è basso. Questo nelle intenzioni, poiché i risultati appaiono disperatamenti scadenti e patetici qando vengono raffrontati al modello. Così, tentando di nascondere il trash, se ne crea dell’altro. Kitsch non è il risultato ottenuto ma, il processo con il quale lo si ottiene, è l’atto che Kundera, in Nesnesitelnà Lehkos Bytì, definisce come letterale eliminazione della merda dalla propria vita. Dunque il kitscher non è colui che fa una scelta di rigore, seguendo i moti del proprio istinto, ma è colui che vorrebbe essere ciò che non è e, circondato, sommerso, soffocato dalla merda (il trash) combatte ogni giorno un’estenuante battaglia per nasconderla. L’esempio più diffuso a livello popolare (e proprio per questo grave) di pulizia etnica eseguita in nome del kitsch è quello commesso quotidianamente dalla Fininvest su due dei principali prodotti dell’immagionario trash: le telenovelas e i cartoni animati giapponesi. Terrorizzata anche dalla più piccola pillacchera di merda, della quale nega persino l’esistenza, la Fininvest compie ogni giorno grandiose operazioni di kitschaggio, distruggendo la spontaneità trashista e sostituendola con prodotti stucchevoli. Telenovelas e cartoni animati giapponesi vengono presentati sulle emittenti più ruspanti nelle loro forme originarie. L’intervento si limita esclusivamente al doppiaggio. I risultati sono spesso capolavori di massimalismo trash, come nel caso della telenovela Rosa… de lejos (Rosa… da lontano), il cui titolo nella versione italiana non è stato tradotto, ma tout court massimalizzato in Rosa De Lejos, dove forse si credeva che De Lejos fosse il cognome di Rosa… Abituata a celebrare la falsità dell’immagine, la Fininvest, prende invece le telenovelas, le rimonta, le pulisce, le integra persino con sequels di produzione
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autoctona. Con aria schifata, e in preda ad attacchi di kitsch furioso, i responsabili Fininvest eliminano le sigle originali sudamericane cantate da idoli locali o anche i motivi eseguiti da ignoti cantanti neoromantici italiani per sostituire il tutto con sigle dalla grafica rinnovata, accompagnate da motivi già noti, ma così drogati dall’equalizzazione che, smanettassimo per due ore di seguito, non riusciremmo mai a ripetere uguali sugli impianti di casa nostra. Tutto è perfetto dal punto di vista tecnico, ma dov’è la spontaneità originale dell’opera? E con che diritto la Fininvest procede in questo tentativo di educazione estetica di un gusto ribelle come quello incoltivabile del trash? Allo stesso modo vengono trattati i cartoni animati, operando ancora una volta a livello di sigla. Senza pietà vengono buttate via mirabili marcette giapponesi o canzoni in italiano eseguite da gruppi ombra o da antichi cantanti sixties appositamente riesumati. E il cartone animato viene banalizzato con motivetti-fotocopia ammiccanti e pseudo-attualizzati, veri e propri crimini contro l’infanzia, concepiti da Alessandra Valeri Manera e perpetrati da Cristina d’Avena. Potremmo mai perdonare a costoro la kitschiazzazione di Lupin III, eseguita abolendo l’affascinante valzer musette che ne apriva e chiudeva gli episodi?
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8. Caldi e freddi
Abbiamo fatto un grande passo avanti: abbiamo definito le parti in gioco nella battaglia estetica che ogni giorno si svolge. Da una parte ci sono i trashisti puri, i Giovani Salmoni e i campisti che mai nasconderebbero la propria essenza trasholina. Dall’altra ci sono i kitscher. La differenza sostanziale tra questi due gruppi, quella che poi crea tutte le altre diversità nel modo di porsi in relazione agli eventi estetici, sta nell’approccio all’intellettualità. Chiamiamo approccio caldo quello dei primi e approccio freddo quello dei secondi.
I caldi A livello inconscio (trashisti) oppure conscio (Giovani Salmoni e campisti), i fautori dell’approccio caldo sanno che l’universo estetico è composto da elementi, tutti indipendenti e perfettamente amalgamabili tra loro in una serie infinita di combinazioni. Veri e propri atomi, questi elementi non sono ulteriormente divisibili. Essi possiedono delle caratteristiche formali, ma sono del tutto privi di valori morali o estetici. Di ogni elemento si potra dire quanto dura, quanto è grande, magari anche cos’è, ma non si sarà mai in grado di esprimere al proposito un giudizio, una valutazione extraformale: non si potrà dire se è bello o brutto, se resterà o passerà rapidamente di moda, se risulta conveniente citarlo o non citarlo in un particolare contesto, se ha o meno un valore. Ecco, il valore: questo è un concetto talmente momentaneo che vi si può rinunciare in partenza. Pensiamo alla plastica, materiale sempre considerato povero, ma misteriosamente passato dalle regioni del disvalore a quelle del supervalore nel caso degli orologi Swatch. In realtà non è la plastica a dare valore agli Swath. Quando la plastica (elemento neutro) viene assemblato con altri elementi (viti, ruote, lancette, vetro, idea, design) a creare uno di questi orologi, a fornire il valore al Prodotto finale non è nessuna delle caratteristiche degli elementi che lo compongono (costo della plastica, fama del designer…), bensì le intenzioni che lo sorreggono: creare un oggetto di
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moda e in serie limitata. Per quanto riguarda l’effetto trash di questi orologi come dimenticare i Watch splendidamente reclamizzati sulle reti televisive locali dall’asmatico Roberto il Baffo? On a mis de soi-meme partout, tout est fécond, tout est dangereux et on peut faire d’aussi précieuses découvertes que dans les Pensées de Pascal dans une réclame pour un savon. Queste parole di Proust sono l’esempio migliore della vacuilità delle categorie convenzionali e ci invitano a guardare il mondo liberato dalla sua rete di meridiani e paralleli artificiali. I trashisti-caldi creano dunque i loro Prodotti così, prendendo alcuni Elementi da una serie infinita e riunendoli in un Prodotto. Fin qui l’azione è meccanica e il Prodotto avrà le stesse caratteristiche formali sommate degli Elementi che lo compongono. Naturalmente, qualsiasi azione di produzione estetica non è mai soltanto meccanica, ma è governata da qualcosa di sfuggente (la già vista costante k). Questo qualcosa si potrebbe chiamare con i nomi genio, creatività, demone o con altri mille insufficienti termini, alcuni dei quali disgustosamente romantici; scelgo, per comodità, intenzione. L’intenzione assegna un valore al prodotto, lasciando indenni gli elementi. Se l’intenzione corrisponde a un desiderio di emulazione e il risultato dimostra poi il fallimento di quel tentativo, ecco che nasce un Prodotto trash.
I freddi Dunque non sono i Prodotti in sé a essere infami, sono le Intenzioni che stanno dietro di loro a essere abiette. Purtroppo questa verità fondamentale non è stata ancora compresa e noi caldi siamo vittime innocenti di chi ha deciso di procedere per contrapposizione, cioè degli intellettuali kitscher e freddi. I fautori dell’approccio freddo si comportano in maniera ignobile. Questi esseri costituiscono purtroppo la maggior parte dell’attuale popolazione intellettuale. I loro caratteri primari sono: una certa propensione agli aspetti estetici nobilitati dell’esistenza, una notevole mediocrità e chiusura mentale, una eccessiva sopravvalutazione di se stessi, del proprio operato e dei propri gusti, un allontanamento definitivo, perlomeno in pubblico, dalla vita reale. Si potrebbe pensare che il modus operandi dei kitscher sia simile a quello dei caldi, con l’intenzione rappresentata dal desiderio di pulizia, di elevatezza, di cultura. Invece non è così: i freddi operatori di kitsch ignorano totalmente l’esistenza degli elementi poiché entrano nell’universo culturale a un livello più superficiale e molto più rozzo, il livello dei Blocchi. Un Blocco può essere visto come una sorta di Prodotto, ma tenendo presente alcune fondamentali differenze. Prima di tutto il fred-
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do acquisisce il Blocco, là dove il caldo costruisce il suo Prodotto. In secondo luogo la materia collante tra gli elementi del Prodotto, cioè l’intenzione, nei caldi è di tipo diversissimo, mentre nei freddi è sempre una e una soltanto: la supponenza. Un blocco non è sezionabile, è un insieme di elementi talmente irrigidito dal cemento del pregiudizio estetico da apparire come una cosa sola. Anzi, da apparire come la sola cosa possibile. Per il kitscher oltre il blocco c’è il resto del mondo, c’è la presunta ignoranza, c’è il brutto, il sottoculturale, il non-citabile, c’è ciò di cui vergognarsi e che si deve nascondere. I blocchi vengono acqustati in vari modi. Il più diffuso e nefando è la preparazione scolastica. A ogni livello, dalle elementari all’università, si creano potenziali detrattori di trash cui si consegnano con cerimonie ufficiali pacchetti omnicomprensivi di cultura premontata, evitando di fornire invece i molto più pratici kit per il fai da te. Ma un Blocco può essere anche considerato come l’insieme dei diktat forniti da un quotidiano o da un opinion-maker… Mentre i caldi più evoluti, campisti e Giovani Salmoni, giocano con la cultura, prendendola, smontandola, dissacrandola, ricostruendola personalizzata e demistificata, i freddi hanno per le mani quei Blocchi a-merdici, puliti, netti, impersonali e acquisiti precotti. Gli operatori di kitsch non sono assolutamente in grado di andare oltre, perché non sono assolutamente in grado di pensare. Compiono azioni di separazione solo a Blocchi e la loro attività principale è la sostituzione di dogmi. O anche la sostituzione della merda umana con una sostanza elevata e artificiale, falsa e illusoria. Insomma il kitsch, come tutti i tentativi di conservazione della presunta purezza della razza, è un atteggiamento assolutamente deprecabile e attuato da imbecilli, di fronte ai quali qualsiasi reazione è giustificata, dall’insulto alla bomba.
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9. Colonizzatori alla colonia
In un articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa del 12 marzo 1993 Pier Francesco Loche scriveva: “Non c’è ridicolo solo dove l’uomo non ha mai messo piede”. Questa frase è vera, però solo a metà. Per raggiungere la pienezza della verità si dovrebbe precisare: ”Non c’è ridicolo solo dove l’uomo occidentale e urbanizzato non ha mai messo piede”. A cadere nella spirale del trash sono, infatti, sempre i più deboli, le vittime dei processi selvaggi e improvvisi di urbanizzazione e di occidentalizzazione. Le miscele trash più esplosive si hanno quando l’Ingenuità originaria incontra l’Elettronica, quando il Lumpenproletariat eredita improvvisamente la Tecnologia. Nascono allora effetti incontrollabili (pensate ai cremaschi con l’autoradio volume-pumped). In campagna (una campagna ideale, allo stato originario) il trash non esiste. I rifiuti, infatti, nascono e si moltiplicano là dove maggiore è il consumo e più urgente la necessità di rinnovare (rinnovamento esclusivamente formale!) al fine di accrescere la voglia verso il nuovo consumo. In campagna, invece, nulla viene buttato via, né materialmente né metaforicamente. I rifiuti materiali vengono riciclati, le deiezioni sono usate come concime. Le abitudini diventano tradizioni e mutano a fatica. Un ottimo esempio di come il rinnovamento trashista sia esclusivamente formale è questo: ho fatto ascoltare ad alcuni adolescenti un brano folk in dialetto calabrese, destando l’ironia e le risate dei ragazzi che credevano di trovarsi di fronte al trash (loro lo chiamavano brutto e vecchio). Ho aggiunto a quel brano una traccia di batteria elettronica techno abbastanza potente e dei campionamenti tratti dal testo cantato. Riascoltando lo stesso brano gli stessi ragazzi si sono entusiasmati. Eppure era cambiata solo la forma, poiché l’essenza (ossia la semplicità binaria del ritmo che si ritrova in tutte le espressioni musicali popolari, dal folk alla dance) non era mutata. Ormai, situazioni di campagna, ossia di assenza del trash si possono osservare solo in quelle poche remote zone dell’Albania dove non giunge il segnale di
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RaiUno. Ma presto anche lì accadrà ciò che è accaduto in Africa i cui abitanti, affascinati dal glamour d’orientamento kitschizzante dell’invasore, hanno iniziato a rinnegare la propria essenza. Là, tra gli infiniti mali causati dai colonizzatori, il peggiore è forse quello causato da una colonia, il profumo Ploum- Ploum, celebrata in uno spot autoctono risalente a metà degli anni Sessanta. Il breve film ci introduce ai momenti topici nella giornata di un africano evoluto. Eccolo al mattino, davanti allo specchio, mentre si rade e si cosparge di PloumPloum. Poi siede a una scrivania, impugnando il ricevitore di un telefono, ancora avvolto nella sua nube di Ploum- Ploum. E infine, stretto a una avvenente negra, balla languidamente sullo sfondo di una catena di squallide lampadine colorate, di quelle che in occidente non si usano più neanche nel Festival de l’Unità di Zogno (BG), continuando a esalare sentore di Ploum-Ploum, la cui emivita è evidentemente superiore a quella del cobalto-60. Guardando questo filmato pubblicitario viene spontaneo definirlo trash e ridere. Ridiamo perché si tratta di uno spot vecchio? No. Adattandolo ai giorni nostri si riderebbe lo stesso. Perché è un filmato africano? Ci siamo quasi: si ride non perché lo spot è africano, bensì perché lo spot non vuol essere africano. Nel momento in cui l’africano al profumo di verbena simula una appartenenza a un mondo che non è il suo (ma che è quello appetibile dei colonizzatori francesi) scatta la classificazione nell’universo del trash, capo di imputazione: emulazione fallita. La colpa, però, non è tutta dei colonizzatori occidentali. In realtà il trash è innato in ogni persona, di qualunque luogo essa sia originaria. Il desiderio di emulazione è una caratteristica comune a tutti gli uomini, fa parte del corredo genetico di tutte le razze umane. Negli africani era assopita. L’occidentalizzazione ne è stata il trigger, il fattore scatenante. Ma non è tutto. Quello spot è di inusitata potenza anche per quanto riguarda l’uso del massimalismo. Già le parole del jingle esprimono l’inevitabile concetto-acatena profumo-Francia-seduzione: Parfum de Paris, parfum qui séduit. Ma il massimalismo qui va oltre il concetto, si incarna nella materia delle scene, degli arredi. Il film pubblicitario, girato con una fotografia a colori drogati da cartolina balneare Cecami, si snoda lungo scenari accennati, ossia semplici sfondi sui quali spiccano uno o due oggetti alla volta, con una potenza simbolica tale da sconfiggere la mnemonicità delle composizioni religioso-didascaliche medievali. Sembrerebbe, agli occhi di un qualsiasi kitscher, un’ambientazione “minimalista ed essenziale”. Si tratta invece del contrario, di massimalismo e ridondanza. Il simbolo, così isolato, così fintamente minimalista, richiama in realtà una accumulazione di concetti, costruiti a formare un castello di ingenuità (e l’ingenuità è il pane
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del trash). Basta uno specchio da bagno a fare presupporre intorno un intero bagno e oltre la porta un intero appartamento. Il telefono resta sempre il simbolo dell’uomo importante e impegnato: l’unica cosa reale nell’ufficio inesistente del nostro africano è proprio una cornetta di telefono. Per finire, sottolineatura esagerata dell’atmosfera di mondanità, musica, luci e colori in cui si muove questo pubblieroe è la patetica catena di lampadine colorate che pendono dai muri virtuali di un night tanto esclusivo, quanto inesistente. State ancora ridendo? Allora provate a sostituire lo specchio del bagno con una vasca idromassaggio, la cornetta telefonica con un cellulare, il night esclusivo con la barca a vela e confessate: siamo meno ridicoli dell’africano? Siamo più avanti di lui, più intelligenti, più furbi? Siamo veramente lontani dal trash? Anche nel trash nulla si crea e nulla si distrugge.
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10. Il trash dei ricchi si chiama entropia
Dall’ornamentalismo al demeublé, dall’unione di pezzi d’alto antiquariato con oggetti in plastica degli anni Cinquanta alla mescolanza tra design esclusivo e frutti dell’anonymous design, dal métissage al grunge. Negli anni Ottanta le riviste patinate non hanno lesinato sull’argomento “mescolanza di elementi diversi e (forse) incompatibili tra loro”. Non era una novità: in passato l’eclettismo ha avuto più di una stagione d’oro e il Coppedè ha segnato un intero quartiere romano. Inoltre, tutto quel fiorire di mix stilistici era uno dei fondamenti dell’estetica postmodernista, popolarizzata anche nell’arredamento di boutique e discoteche. I più evoluti trend-makers osservano questa tendenza e la chiamano entropia. L’ennesima sosia di Madonna che si esibisce in una remota discoteca del Casertano applica tutto ciò senza curarsi minimamente di dare un nome al suo comportamento. Abbagliata dall’oro dell’icona di partenza, questa trashista cerca di diventare come lei, ma la sua emulazione è sempre imperfetta, poiché è poligama. Nella sua aspirazione non c’è il desiderio di diventare come Madonna, non copierà mai perfettamente il modello prefisso (e se lo facesse sarebbe un falso e, per tanto, per niente interessante), ma toglierà, aggiungerà, varierà elementi, rispondendo agli stimoli del proprio impellente furore imitativo. I motivi di queste variazioni sul tema di partenza sono diversi: in primo luogo vi è il fatto che la trashista emulatrice non rinuncia mai a ciò che le piace, né tanto meno rinuncia alla sua spontaneità. Inoltre non ha compiuto alcuno studio approfondito del modello, ma ne ha solo una visione di massima. Infine c’è l’infatuazione contemporanea per più modelli, tutti confluenti nella stessa emulazione. In pratica, questa improbabile sosia diventa un compendio della teoria del trash poiché contiene i cinque pilastri:
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1. la libertà di espressione; 2. il massimalismo: se si imita Madonna di Like a Virgin e non quella di Like a Prayer è perché quell’immagine ha avuto il maggiore impatto sul pubblico il quale, proprio per effetto del massimalismo trash, riconosce Madonna quasi solo nei pizzi, nella biancheria intima portata all’esterno e nei capelli biondi; 3. la contaminazione e 4. l’inconcruenza: pur ripetendo nell’aspetto Madonna, la sosia si esibisce in brani di tutt’altri artisti, accompagnata, da un’orchestra con un deciso sound liscio. Inoltre Madonna si evolve e cambia aspetto, la sosia resta sempre ferma all’imitazione della Madonna di Like a Virgin. 5. l’emulazione fallita. Attenzione: anche Madonna è trash in partenza poiché anch’essa emula altre dive con una notevole dose di massimalismo. Infatti, la pop singer americana ritiene ingenuamente che basti farsi bionda per emulare Marilyn Monroe. Ma Madonna fa parte della metà ricca del mondo estetico e il suo trash si chiama entropia.
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11. Degli errori 1: i falsi non sono trash
Il presupposto che sta alla base di tutta la teoria trash è questo: vi sono creatori originali e vi sono loro emulatori dagli esiti più o meno riusciti. L’emulazione è una terza fase, molto evanescente e inafferrabile, che sta tra i due contrari, il vero e il falso. Il creatore del vero è un artista, è il demiurgo, lo stilista, l’ideatore, il rivelatore, l’iniziatore, mosso da tecnica e demone. Il creatore del falso (falsario) è un imbroglione, ma anch’egli è un artista, benché limitato. È mosso solo dalla tecnica e non ha spirito. La sua attività è tesa soltanto a copiare pedissequamente il già fatto, a cercare di ripetere il successo già affermato. Non desidera apparire, desidera solo guadagnare. Chi nell’umido di qualche cantina sta producendo in questo stesso momento Vuitton in cartone e Cartier in ghisa dorata non si preoccupa assolutamente di lasciare una traccia che possa identificarlo. Anzi, meno è identificabile dalla Finanza, più il falsario è felice. L’emulatore-trash è totalmente diverso dal falsario. Egli non vuole falsificare anonimamente un prodotto di successo: vuole fare di più, vuole venire alla luce, diventare celebre, sostituirsi al creatore, imporre la sua versione del prodotto sperando di annientare l’altro. E quanto un emulatore sia identificabile lo dimostra il fatto che non si sceglie un prodotto emulante per errore, ma con cognizione. Si può credere di acquistare una vera borsetta Fendi, poi a casa si scopre che è taroccata (è successo anche a Lady Diana Spenser). Ma quando in uno degli stupendi market hard discount di recente diffusione si acquista un vasetto di crema al cacao Niger invece di Nutella si sa perfettamente cosa si sta facendo. Non si può tornare al supermercato e dire che si è stati imbrogliati, poiché non c’è imbroglio (come nel caso del falso), c’è solo inganno. Il massimalismo ha colpito ancora: il vasetto è uguale a quello della Nutella, ci sono nocciole e il logo è una chiara reminescenza del prodotto originale, ma sull’etichetta c’è scritto un altro nome. Facile, a questo punto, capire che se l’emulazione è fallita esteticamente (il
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gusto Niger non è il gusto Nutella), non lo è commercialmente; il pubblico-trash acquista Niger poiché è gratificato due volte: per il prezzo più basso e perché ritiene di aver acquistato qualcosa che, a grandi linee, assomiglia al prodotto originale. Insomma, sono tutti contenti: il produttore-emulatore, che sogna di soppiantare l’originale, l’acquirente-massimalista, che risparmia, e l’osservatore, cioè io, che ha dovuto compiere un interessante esame comparativo tra i due prodotti (cioè: ho svuotato a cucchiate alterne i due vasetti, ricavandone alla fine anche due stupendi bicchieri spaiati).
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12. Degli errori 2: immanenza del trash
Tra i tanti errori di valutazione che vengono commessi a proposito del trash c’è quello, frequente, di chi considera il trash come il risultato della svalutazione operata dal tempo su cose precedentemente considerate di qualità. Falsa concezione: è già stato visto come gli elementi non posseggano qualità intrinseche. Se non è accettabile chi tenta di dare agli elementi dei valori generalizzati al di fuori del gusto personale, ancora più esecrabile è chi vede in questi presunti valori un decadimento operato dal tempo. Un Giovane Salmone esperto è in grado di identificare gli aspetti trash di un Prodotto nel momento stesso in cui quest’ultimo appare. Un Giovane Salmone molto esperto, basandosi sull’apparizione di un Prodotto originario e non-trash, è in grado addirittura di prevedere l’apparizione di un Prodotto trash da quello derivato. E di fronte a simili capacità di preveggenza qualcuno ha ancora intenzione di parlare della trashizzazione operata dal tempo passato? Il trash non è una qualità che si acquista con il passare del tempo. Il trash è uno stato, una condizione originaria. Purtroppo chi assiste senza un’adeguata preparazione estetica a una delle innumerevoli Schegge di RaiTre sarà portato a credere che Canzonissima ’70-’71 con Raffaella Carrà era accettabile ai suoi tempi ed è trash oggi. Ma allora perché quando sulla stessa rete vede La strategia del ragno di Bernardo Bertolucci, sempre del 1970, non definisce trash anche quel film? Evidentemente perché c’è dietro qualcosa di diverso dal semplice trascorrere del tempo, né si tratta di diversità nelle presunte qualità dei due Prodotti. C’è dietro quel qualcosa che abbiamo già visto e che è stato chiamato intenzione. Canzonissima ’70-’71 era, è e sarà trash poiché nasceva dall’intenzione di emulare le precedenti edizioni storiche e tuttora apprezzate di quella stessa trasmissione (per esempio quella del 1959), tentativo fallito per diversi motivi (soprattutto i mutamenti sociali
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che causano una diversa risposta da parte del pubblico a certe offerte). L’intenzione di Bertolucci era un’altra, non importa qui sapere precisamente quale, ciò che conta è sapere che non si trattava di un tentativo di emulazione. E già, perché in molti prodotti l’intenzione non corrisponde necessariamente all’emulazione! In questi casi, naturalmente, si avranno Prodotti non-trash (come il film di Bertolucci), che esulano dai territori di questa analisi. Il trash è dunque residente nel Prodotto e si manifesta con lui. Non dovremo aspettare altri vent’anni per definire non-trash la Carrà del 1992 che invece di emularsi tenta altre strade, e conduce un talk-show in spagnolo. Né avremo da aspettare altri vent’anni per definire ultra-trash le ultime prove di Bertolucci, perso in una serie di baracconate hollywoodiane orientali e medio-orientali. Il trash, signori miei, è immanente. Bisogna ammettere che, come tutti gli errori, anche questo ha un fondo di verità. Infatti vi sono cose che con il passare del tempo ricevono una diversa accoglienza da parte delle persone, a volte persino dei propri creatori. Ma non è l’oggetto a cambiare: dal punto di vista qualitativo il Prodotto e gli Elementi che lo compongono sono immutabili. Ciò che determina la trasformazione è il mutato rapporto dell’oggetto con il contesto, la sua diversa funzionalità in seguito all’apparire di nuovi Prodotti, di nuovi Elementi, di nuove conoscenze. Quando un Prodotto sfasa il suo rapporto con lo Zeitgeist non diventa trash, ma soltanto junk. La principale differenza tra trash e junk sta nell’evoluzione. Il prodotto trash, infatti, è non-evolutivo. L’apparizione tra i fenomeni estetici di Mal e i Primitives non ha apportato alcun vantaggio all’umanità, né è servito da base per un miglioramento delle conoscenze musicali a livello popolare. È apparso, è durato, è passato. La storia della musica avrebbe potuto fare benissimo a meno di Mal e dei Primitives, mentre senza dubbio non si sarebbe evoluta allo stesso modo se fossero mancati i modelli beat originari cui quel sottoprodotto si rifaceva. Il trash dunque è sterile, ma proprio per questo ci è indispensabile.
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13. Il bakismo
L’emergere del trash è indissolubilmente legato al ritardo. La spiegazione è sillogistica: 1.
Il trash ha un suo pilastro nell’emulazione.
2. L’emulazione, poiché si rifà ad un modello pre-esistente, è necessariamente in ritardo. 3.
Il trash è l’espressione di un ritardo.
Esistono tre ritardi possibili, dalle valenze trash progressive. Primo livello: emulazione JIT (just-in-time). In fondo non ha alcuno vero effetto trash, poiché ne nasce al di fuori, nell’universo della mediocrità, ma è comunque importante parlarne, poiché i suoi frutti sono facilmente confondibili con l’originale e servono a loro volta da modello. Capita spesso che l’emulazione JIT abbia un successo pari o addirittura superiore a quello del suo modello. È un’emulazione ricca, poiché fatta con dovizia di mezzi, anzi con gli stessi mezzi usati per lanciare il modello. Si verifica spesso nel settore della musica leggera. Marco Masini era un’emulazione immediata e ricca di Eros Ramazzotti, ma entrambi sono di grado zero, mediocri, puliti da ogni eccesso o spontaneità, quindi trash. Lo stesso si è verificato con i tanti cantantucoli d’après Zucchero (quindi vertiginosamente sottoprodotti di un sottoprodotto), derivati da un presunto modello rock tutto birra e barbe incolte. Qui, in fondo, le basi per un tuffo nel trash ci sarebbero, soprattutto il massimalismo: l’idea-rock sulla quale si sono basati i produttori per sintetizzare questi cantanti è estremamente nebulosa e
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mescola nello stesso calderone gli U2 con Sting e Bruce Springsteen. Il risultato sta al rock come lo skai sta al vero cuoio. Ma queste operazioni sono con una tale base monetaria che non diventano mai ridicole. Sono solo infami. Al secondo livello entriamo finalmente nel trash (e non ne usciremo più). Ecco l’emulazione metatemporale, ossia l’emulazione povera. In questo caso, la distanza tra apparizione del modello e l’emulazione non ha una periodicità definibile. L’emulazione metatemporale non nasce dalla moda del momento, ma dal desiderio irrefrenabile (che insorge in un qualsiasi momento successivo) di copiare un modello maggiore. Tra gli esempi più eclatanti: i balletti della Carrà ispirati ai grandi musical di Broadway, lo pseudo-rap di Jovanotti. A determinare questo tipo di emulazione è sempre il desiderio di essere qualcosa di diverso da ciò che si è, senza però avere i mezzi (culturali) di farlo. Incombente sullo sfondo dell’emulazione metatemporale si staglia la solita sagoma del massimalismo (lustrini + cilindri = Broadway; batterie scatolari + pettinature afro = rap). Il pubblico su cui fanno presa queste produzioni non saprà mai com’è fatto un vero musical di Broadway, né è in grado di capire i testi con cui i neri americani esprimono la propria rabbia e il proprio disagio. È dunque un pubblico incolto, non perché non legge i libri di Roberto Calasso, ma solo perché non possiede i mezzi culturali per poter eseguire il confronto e recuperare il ritardo puntando all’originale. I prodotti dell’emulazione metatemporale hanno però due aspetti positivi: sono filtrati dalla personalità di chi li realizza (perché a realizzarli sono non furbi manipolatori di tendenze, ma trashisti ruspanti e appassionati che non rinunciano al proprio gusto) e possono istigare alla scoperta o riscoperta dell’originale. Infine, eccoci al terzo livello, quello del bakismo, ovvero della infausta emulazione lievemente ritardata. Chi ha una minima dimestichezza con l’informatica sa che molti programmi, quando aggiornano un documento, mantengono traccia della versione precedente alle modifiche, identificata dall’estensione “bak”. Il file bak (al di là della sua utilità di back-up in caso di perdita di dati) è sempre meno interessante di quello aggiornato, proprio perché è superato. L’emulazione lievemente ritardata si chiama bakismo perché si comporta nello stesso modo, ossia crea un prodotto emulando non un modello contemporaneo (livello 1), né metatemporale (livello 2), ma seguendo con il fiato corto, a pochi metri (attimi, mesi o anni) di distanza. Un esempio tra i maggiori di questo atteggiamento è rappresentato dalle pubblicità della fabbrica di abbigliamento Conbipel. Nel corso della sua ascesa commerciale (un numero sempre maggiore di punti vendita accompagnato da una diffusione del messaggio pubblicitario dalle piccole tv locali ai network nazionali) questa azienda non ha mai mancato un solo appuntamento con il bakismo. Senza analizzare l’intero corpus pubblicitario della ditta piemontese basta ricordare due momen-
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ti di questa anamnesi estetica. Agli inizi (1984) la pubblicità prevedeva la ripresa di alcuni indossatori e indossatrici immobili o dalla gestualità appena accennata che posavano accanto a gigantografie di divi hollywoodiani al suono della Moonlight Serenade. Niente di male se non che quell’immobilismo e la scelta di puntare su Bogart e Marilyn erano emulazioni lievemente in ritardo di modelli dei tardi anni Settanta. Coeva a questo comunicato Conbipel (trash allora come oggi e nei secoli dei secoli) ce n’era un’altra che invece ben incarnava lo Zeitgeist, può apparire come esempio di junk reale. Era la pubblicità della McFarnell Red Beer in cui i protagonisti correvano in scenari nebbiosi da campagna inglese con una colonna sonora arricchita da campionamenti vocali. In tal modo si rispettavano alcuni stilemi estetici degli anni Ottanta (il movimento e una maggiore attenzione all’Europa) che parevano ancora ignoti nei dintorni di Cocconato d’Asti. Passano gli anni (ma otto sono lunghi) e arriviamo al 1992. Ora i protagonisti degli spot Conbipel arrivano in negozio su un’auto di lusso, mentre lei sceglie un’infinità di capi lui telefona col cellulare e alla fine, estratta la carta di credito, se ne vanno felici. La fonte è fin troppo chiara, è il film Pretty Woman con Richard Gere e per chi non l’avesse ancora capito c’è anche una colonna sonora che rifà il verso alla canzone del film. Tutto bene, lo spot è tecnicamente perfetto, ma disperatamente trash per quanto riguarda il fuori-sync con l’attualità. Il film Pretty Woman è del 1989. Nel 1992 è già uscito in videocassetta e ha già avuto un passaggio in televisione. Fare uno spot che gli si ispira quando è svanita l’eco del successo e non è ancora iniziata la leggenda, significa far sentire amplificato a 3000 W il rantolo di chi corre dietro alle mode con il fiato corto. Eppure lo spot ha presa sul pubblico che lo guarda, non si pone domande estetiche e non ride come aveva fatto con lo spot africano. E se il pubblico stavolta non ride è solo perché i protagonisti sono ricchi e bianchi, ossia sono i padri fondatori del trash e meritano rispetto.
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14. Trash and Zen
Il trash in sé non esiste. È solo un’apparenza che si rivela quando qualcuno vuole negarlo. Il trash in sé non esiste. Non esiste nulla che sia trash, come non esiste nulla che sia aulico. Il trash in sé non esiste. All’inizio non vi sono che elementi neutri. Nel momento in cui si compie un’azione di territorial pissing culturale nascono le apparenze: si crede che queste cose siano serie, sane, alte e si crede che tutto il resto sia forzatamente ridicolo, marcio e basso. Il trash in sé non esiste. Siamo noi che lo creiamo ogni volta che ce ne chiamiamo fuori. Il trash in sé non esiste. Visto che identifichiamo come trash tutto ciò che non rientra nel nostro Cerchio Magico di Orina Metaforica, esistono tanti trash quanti sono gli esseri viventi. Il trash in sé non esiste. Questa prima parte del libro ha solo illustrato delle apparenze. Peggio: ha solo illustrato le apparenze che io vedo.
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PARTE SECONDA IL TRASH E IL SUO DOPPIO
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Nutella e Niger Solo la Settimana Enigmistica conta più tentativi di imitazione della Nutella. Nessuno riuscito, naturalmente. La formula chimica della celebre crema alle nocciole è tenuta più segreta di quella della Coca Cola e chi la conosce non può, per contratto, abbandonare la provincia di Cuneo. In realtà c’è il sospetto che vengano usate costosissime nocciole tartufate, rara specie reperibile solo nei pressi di Alba. Tutti gli altri produttori-emulatori, non potendosi permettere simili delizie, arrancano come fa la Pepsi dietro la Coke. E proprio ispirandosi a questo paragone, un giorno anche alla Niger decisero di ingaggiare per la propria pubblicità Michael Jackson. La celebre popstar che sbaglia (di proposito) candeggio, di fronte a un prodotto dal nome così spiccatamente black, non solo rifiutò, ma passò la cosa ai suoi legali.
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Astra e Astri Emulazione arruffona. Se ad Astra hanno in redazione un art director che ha disegnato un logo originale, ad Astri ci si è limitati a scegliere tra i font del Mac quello che più assomigliava al carattere della testata-modello. La scelta del giallo fa il resto. Così la segretaria che passa frettolosamente all’edicola della metropolitana, ansiosa di sapere se Giorgio suo l’amerà per tutta la vita, afferra la prima rivista su cui intravede la scritta Astr... e scappa via. Ci cascherà ancora il mese prossimo?
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Elvis Presley e Little Tony Ecco un caso di emulazione talmente spontanea e talmente lampante che a volte mi ritrovo a pensare il contrario. Ossia, che Elvis abbia sempre copiato Little Tony. Non c’è niente da aggiungere. A Little Tony si perdona tutto, tanto è l’amore che porta verso il suo modello. Ha detto Little: “Quando seppi che Elvis era morto, passeggiai senza meta sulla spiaggia per tutta la notte”. Un qualsiasi altro emulatore invidioso, saputo che il suo modello era defunto e che quindi sarebbe stato l’unico a poter sfoggiare ciuffoni cotonati e improbabili zampe di elefante tempestate si strass, avrebbe goduto. Per Little Tony si è invece trattato quasi di una vedovanza.
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Brian Ferry e Roby Vandalo Chi è Roby Vandalo? Non lo so. Questa foto è tratta da quella che ritengo (anzi spero) sia la sua unica produzione su cassetta, uscita nel 1990 e contenente cinque canzoni in vago stile disco. Chiaro il modello cui si rifà Roby: Brian Ferry, ex leader dei Roxy Music. E così abbiamo da un lato il Ferry ritratto in un raffinato bianco e nero, con ciuffo ribelle e sguardo maliardo. Dall’altro il Vandalo (nomen est omen…) ritratto in bianco e nero pateticamente sfuocato, con capello gommoso e sguardo da postumi di indigestione da porchetta ai peperoni.
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Dylan Dog e Dick Drago Il successo di Dylan Dog ha reso possibile l’apparizione di un vero capolavoro trash: Dick Drago, ovvero l’emulazione fallitissima e ai limiti del plagio. Stessi scenari inquietanti, logo alla carta carbone con ombreggiatura giallo-rossa ripresa paroparo, monogramma DD identico (per fortuna non usano camicie cifrate, altrimenti…), copertina con impostazione replicata. Persino il prezzo è identico! A sistemare le cose provvede però il disegno di Dick Drago: un tratto così incerto e inabile non si è mai visto nemmeno su Corna Vissute.
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John Travolta e Reddy Bobbio Una delle fonti maggiori di emulazione, e quindi di trash, di tutti i tempi è stato il film La febbre del sabato sera. Fu un’emulazione strisciante, impregnante, soffocante cui non si solvò nemmeno la famiglia di Travolta (i patetici tentativi del fratello di venire a galla), né lo stesso Travolta, caduto nell’immancabile “seconda parte”. L’Italia, Paese dei grandi creativi, rispose all’appello con una serie di filmacci emulativi, di musiche imitative, di mode copiative. Tra tutti i prodotti trovo davvero raccapricciante questa rielaborazione sabatoseriana di vecchie melodie EIAR realizzata da tal Reddy Bobbio (che sia parente?). davvero una delle copertine più emulativo-fallite degli ultimi decenni. Un simbolo.
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Bill Cliton e Mariotto Segni In politica le emulazioni fallite non si contano. Ne esistono di due tipi: a) figlio di politico che emula il padre e b) politico piccolo che emula politico grande. Mariotto Segni, miracolosamente, incarna entrambe queste tipologie. Lasciamo perdere le emulazioni di tipo a. e focalizziamo il nostro interesse sul tipo b. Quando, ai tempi del referendum sulla proporzionale, Segni apparve su tutti i giornali in compagnia della moglie Vicky, fummo in molti a pensare a Bill e Hillary Clinton. Sarà per il gusto di presentarsi con famiglia al seguito, saranno i nomignoli che rendono più umana la politica (Mariotto da Mario e Bill da William), saranno le y che concludono vezzosamente i nomi delle due signore…chissà!
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PARTE TERZA AGIOGRAFIE NON AUTORIZZATE
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Premessa
La critica, per un Giovane Salmone del Trash, non esiste. In tutta la teoria trash la critica è sostituita dall’osservazione. Quando si ricercano i modelli originari nelle emulazioni si esegue un’operazione di analisi concreta, lontana da ogni astrazione tipica dei critici, i quali amano perdersi in comparazioni tra gli oggetti derivati e un presunto standard di elevatezza (che non esiste) o, peggio ancora, tra gli oggetti e la massa delle proprie sensazioni, conoscenze, letture e idee (delle quali ci interessa poco o nulla). Il mio desiderio più grande, quello che ogni volta torno a esprimere segretamente mentre spengo le candeline sulla torta del compleanno, è la scomparsa dei pregiudizi che, utilizzati in maniera erronea come criteri di valutazione, portano alla creazione di scale di valori tra gli artisti e tra le cose. Lo stile critico di un Giovane Salmone del Trash potrebbe essere anche chiamato Revisionismo Estetico. Più che critico, quello stile è constatativo. Si constata, cioè, l’esistenza di Elementi (Cronaca Vera, Claudio Baglioni, Tommasi Ferroni e così via). I saggi che seguono possono però sembrare, almeno secondariamente, critici: sono costantemente percorsi da un biasimo verso gli anti-trashisti, biasimo a volte accennato, a volte espresso con nomi e cognomi. Ma questa non è critica: questa è lotta. Il Giovane Salmone è un fiero nemico dell’intimismo e dell’autonarrazione. Non devono trarre in inganno la frequenza nell’uso della prima persona singolare, né le varie citazioni di episodi personali. I saggi revisionisti non vogliono svelare l’intimo, il cuore. Chi fa simili operazioni confidenziali è un ipocrita, poiché per svelare qualcosa bisogna prima averla tenuta nascosta. Dunque, colui che si confessa ha sempre mostrato, in precedenza, un’immagine di comodo e solo ora trova il coraggio di rivelarsi. Assolutamente monodimensionale, il Revisionista trash fa coincidere esattamente il suo animo con la sua immagine. La frequenza di io e di reminescenze è solo un simbolo della profonda partecipazione alla realtà, atteggiamento condiviso da ogni Giovane Salmone. Alcune osservazioni sulla struttura: tutte le seguenti agiografie sono estrema-
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mente brevi, nessuna supera i 7.000 byte. La loro costruzione non è ciclica, ma progressiva. Ossia, l’oggetto dei brevi saggi non è il nucleo intorno al quale ruota la narrazione, bensì è la base per successive ramificazioni che spesso si discostano dall’elemento di partenza e, raggiunto il punto del non ritorno, terminano bruscamente. Per mettere in atto i non sequitur mi sono ispirato a Totò. La maggiore fonte di ispirazione per questa sezione del libro è stato il film I mostri (con Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, regia Dino Risi, Italia 1963), dalla cui ripetuta osservazione spero di aver bene appreso la lezione di brevità epigrammatica.
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Andy Warhol era un coatto
Andy Wharol mi sta molto simpatico. Cerco di leggere tutto ciò che lo riguarda con la stessa passione con cui cerco di evitare ogni esposizione di sue opere. Un tempo non era così: nel 1989, per esempio, andare a visitare la mostra Le cento opere di Andy Warhol fu per me d’obbligo come un pellegrinaggio al Divino Amore. Ma nonostante l’equivalenza nella devozione al Palazzo della Permanente di Milano il miracolo non si verificò. Cento opere: pensavo di dover camminare per ore attraverso sale e sale. Mi ero anche portato i panini avvolti nella stagnola. E invece la mostra era concentrata in un unico stanzone tutto diaccio e umido. Fu in quell’occasione che iniziai a detestare le mostre su Wahrol. Mi aggiravo per la sala e mi sentivo inappagato. Anche appoggiando il naso contro il vetro che proteggeva una Marilyn non provavo alcuna impressione. Sfiorai fugacemente e di nascosto dai custodi la superficie serigrafata di un Mao. Ancora nulla. Lo stesso brividozero che provo appoggiandomi, in metropolitana, a un manifesto della Philips sapendo di poterlo ritrovare identico in tutte le stazioni, da Molino Dorino a Sesto F.S. Rifeci un’altra volta il giro dell’esposizione, tanto per dare un senso alle 5.000 del biglietto, e mi resi conto di una cosa: quasi rovinato dagli anni di scuola e da certi atteggiamenti accademici, tra quei quadri colorati simili alle pubblicità di tinte per capelli nei coiffeurs pour dames, io cercavo l’Artista aulico e non la sua vera essenza Insomma, volevo trovare i quadri e convincermi a ogni costo che quelle non erano pubblicità di tinte per capelli da coiffeurs pour dames. Per fortuna mi salvai in tempo. Lanciai una rapida maledizione all’Assessorato alla Cultura del Comune di Milano che aveva rinchiuso la forza pop in un ambiente asettico e prestigioso e capii che in Warolh (ma dove va l’h?), al di là di tutte le pose, cuore e corpo coincidevano. Mi resi soprattutto conto di quanto, dentro e fuori, Wharol fosse meravigliosamente coatto (sostituire le ultime sei lettere con maranzo se si è a Lodi, tamarro se
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si è a Milano e dasai se si è a Tokio). Il suo cognome per noi due volte esotico (il ceco Warhola americanizzato in Warhol) non nascondeva che una consistenza spirituale da apprendista edile bergamasco. Checché ne dicano i non-revisionisti, Andy non era figlio di Duchamp. Hwarol era fratello di Eros Ramazzotti, del quale condivideva, per fortuna, l’atteggiamento antiintellettualistico. La Weltanschauung di Warolh era la stessa dei seguaci del primo Jovanotti, riconducibile alla formula lavoro-paga-discoteca-sesso. Certo il lavoro di AW oggi è esposto nei musei, la paga era scritta con una $ seguita da numeri a molti zeri, la discoteca era l’esclusivo Studio 54 dei tempi d’oro e cambiava specularmente l’oggetto del sesso. Ma la filosofia di base era quella. Come doveva godere il nostro artista pop quando si patinava (diceva proprio così) e arrivava in qualche posto con la Iimousine presa in affitto, in compagnia di Debbie Harris o di Grace Jones! Esattamente come gode il coatto celebrato dagli 883 in Sei un mito che, cosparso di deodorante musk acquistato alla Coop, arriva con i tappetini nuovi e l’arbre magique nella Golf, al fianco di una commessa ben zinnuta e con le calze a rete. Insomma Andrea era un provincialotto, tale e quale il suo concittadino Vudi Alen e i giornalisti dei quotidiani di NY, per i quali il resto del mondo deve essere fantascienza. Ripensandoci, forse Andy era ancora meno di un coatto. Per esempio, viveva in una zona ben determinata dell’urbanistica newvorchese dalla quale usciva poco volentieri. Aveva notizie frammentarie di ciò che avveniva all’estero. Almeno i coatti nostrani d’estate vanno in Grecia o a Ibiza. Uorol parlava solo l’inglese, e anche piuttosto male. Un coatto, al confronto, è quasi un poliglotta: oltre all’italiano e al dialetto locale conosce l’inglese quanto basta per dire Dis is de ritm of de nait e per affrontare disinvoltamente anche le canzoni straniere nei locali karaoke. Allo stesso modo dei coatti, però, Warhol non aveva prospettiva storica, non sapeva con precisione cos’era avvenuto prima di lui. Così, non potendo ispirarsi a un passato storico, si ispirò a un passato di verdura, quello della Campbell’s. Ne derivò un’ingente fornitura di zuppe in scatola, un successo mondiale e numerosi tentativi di imitazione. D’altronde, se date in mano una matita a un coatto credete che vi sforni una Madonna con Bambino? No. Disegnerà un’auto, un personaggio televisivo, una scatola di dadi. Andy partiva dallo stesso livello, ma grazie alla sua profonda conoscenza dell’imbecillità dei critici, decise di fare più soldi possibile con i suoi quadri coatti, la cui ispirazione nasceva nei supermercati e dalla stampa. Ce la fece benissimo perché era un grande. Perché Andy come coatto era comunque un numero uno, una specie di capo banda, quello con l’auto più veloce e il car stereo più potente. Quello che tutti cercano di imitare. Negli ultimi anni di vita, ci fanno sapere i suoi Diari,
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Warol (tolgo l’h e non ci penso più) era angustiato dall’AIDS. Proprio come i coatti che vanno in giro col condom nel portafogli. Ma, invece di diventare sieropositivo, Andy divenne Xeroxpositivo, ossia oggetto di infinite imitazioni. Peccato che tutti questi emulatori trascurino il suo aspetto più vero e amabile, quello borgataro. Anzi, insieme a chi gli dedica le mostre, i cataloghi e le analisi storico-artistiche, quegli emulativo falliti fanno di tutto per creargli (e crearsi) un ingiustificato alone di aulicità e internazionalità, intellettualismo e raffinatezza. Una volta ho visto persino una Campbell’s Soup Can usata come illustrazione di copertina per un libro di saggi di Roland Barthes...
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L’Eros celeste is not dead!
Non è inconcepibile, Erissimaco, che a molti altri dèi i poeti abbiano dedicato inni e peani, e a Eros, invece, che è un dio così grande e potente, neppure uno, fra tutti i grandi poeti del passato, abbia mai destinato un encornio... nessun uomo invece ha mai osato, sino a questo giorno, di celebrare degnamente Eros (Platone, Simposio). D’accordo. Per Platone, Eros non significava ciò che ormai significa per noi. Per cominciare, la maiuscola si è persa. Per molti, poi, l’Eros celeste sembra essere stato definitivamente ucciso dall’Eros volgare. Ma tutto questo non importa poi tanto. La cosa fondamentale, invece, è che, pur nelle mutazioni subite, la realtà lamentata nel 387 a.C. permane a tutt’oggi: nessuno ha dedicato un inno all’eros, forse intimorito dal fatto che si tratta di un argomento spinto. Spinto dalla pruderie ai limiti dell’oblio. Per prima cosa: sono un Revisionista Estetico e non Etico. Non mi interessa il giudizio morale che si può dare sulla pornografia. Con la mia azione non voglio scandalizzare, non voglio pubblicizzare la pornografia. Anzi, preferirei non rompere mai l’aura di intimità, segretezza, riservatezza che circonda la visione e il godimento di materiali X-rated. Svelare a tutti il mistero racchiuso nella protezione in cellofan significherebbe distruggere il 90 per cento della potenzialità estetica di un prodotto porno. Non credo che l’Eros celeste sia stato ucciso dall’Eros volgare. Questo poiché la mia finezza di Revisionista Estetico e la mia totale mancanza di giudizio e pregiudizio mi fanno assaporare sensazioni che vanno al di là della vuota eccitazione carnale. Mi fanno vivere avventure estetiche che richiedono però un esame più accurato della pagina o della pellicola e non un semplice, rapido consumo onanistico. La vita non è mai schematica, le cose non sono mai racchiudibili in categorie. Estasiarsi spiritualmente soltanto davanti a un’opera d’arte ed eccitarsi o scandalizzarsi soltanto davanti a una foto pomo? No. Le parti possono, devono essere scambiate. Il piccolo Mishima (grande revisionista inconscio) non si eccitava di fronte a una
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riproduzione del San Sebastiano di Guido Reni? Così io raggiungo l’estasi sciamanica davanti a una pagina di Caballero del 1977. L’evoluzione dell’eros è forse ancor più veloce di quella dell’informatica. Tra i pomo anni Settanta e quelli degli anni Ottanta c’è un abisso. La differenza non è tanto in quello che le immagini mostrano, poiché l’atto è sempre noiosamente lo stesso. Le diversità serpeggiano tutt’intorno ai corpi allacciati. Il mio modo di vedere le cose non è convenzionale. In una immagine pomo, il Revisionista Estetico esclude infatti la parte locale, i genitali, e si fissa sul resto: i (pochi) vestiti, l’arredamento, gli accessori. Gli occhi non si fermano su seni e natiche, ma scivolano subito sugli zatteroni di lei, si accendono del colore dorato della loro zeppa da quindici centimetri. Gli animi si eccitano nel vedere non una fellatio, ma il rossetto sbavato, le rughe intorno agli occhi, il sudore. Quante volte mi sono sorpreso a decifrare i titoli dei libri sugli scaffali che facevano da sfondo all’azione... Anche per capire in che nazione ci si trovava. Ricordo che mi colpì molto in una foto evidentemente italiana il ritrovare Le confessioni di Sant’Agostino su uno scaffale al quale si appoggiava con le mani una signorina che offriva la schiena al suo compagno. Una volta Alessia Galati, mentre la riaccompagnavo a casa, mi raccontò che nulla l’aveva mai eccitata tanto in una pubblicazione pornografica quanto una coperta di pelle di leopardo appoggiata sul letto: «Tutto quello che avveniva su quella coperta era scomparso. C’era solo lei, la coperta e il fascino maiale che emanava». La Galati tentò poi di ricreare in casa sua quella atmosfera, non so con che risultati. A fianco delle foto, ci sono poi i testi. Veri gioielli letterari nei quali il Revisionista Estetico cerca ancora una volta non l’eccitazione, ma l’esaltazione. Cerca e trova frasi di audacia avanguardista, come quella che non dimenticherò mai: «E mentre suggevo il finnico banano di Hans, il compare mi smarmellava il rigoglioso tettame». Sembra che Sanguineti, al leggerla, abbia telefonato a Nanni Balestrini dicendogli: «Il nostro lavoro è stato inutile». È una frase che mi ha subito affascinato anche per la sua difficoltà lessicale. Si crede che i lettori di materiali porno siano incolti. Non è vero. Altrimenti come potrebbero essere in grado di comprendere termini inusitati come suggere e finnico, o come potrebbero apprezzare ardite innovazioni linguistiche come tettame e soprattutto l’efficacissimo smarmellava? Ma ciò che più mi ha colpito, forse, è stata l’aderenza di questo passaggio alla Teoria Trashistica del Contagio, di tendenza massimalista, uno dei cui caposaldi è la considerazione della Parte per il Tutto. Prendete il nome Hans. Non credo che Hans sia un nome tipicamente finlandese, lo trovo più tedesco, ma tant’è. In questo caso, la legge della Parte per il Tutto risponde alla catena di equazioni:
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1. 2. 3. 4.
sexy = svedese svedese = nordico nordico = lingue con sonorità dure lingue con sonorità dure = tedesco
Quindi, necessariamente, il biondo protagonista del servizio, chissà poi perché ambientato in Finlandia, doveva chiamassi «Hans» (il massimalismo insito in questi meccanismi non ci porta così lontano da farci domandare perché mai Hans e non Peter o Wolfgang). Lo stesso procedimento è applicabile anche a un pregevole film del 1970, dal titolo Mazurka på Sengekanen. Si tratta di un film moderatamente soft-erotico di produzione danese. Poiché di danese senz’altro conoscerete solo due parole, giusto Enten-Eller, vi dico che il titolo significa Mazurka a letto. La traduzione italiana comportò una vera e propria trasposizione geografica e il film fu distribuito con il celebre titolo La mazurka le svedesi la ballano a letto. E l’anno successivo seguì Le svedesi continuano a ballare... la mazurka a letto.
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La generazione de I Quindici
C’è stata una generazione che si è formata sul Mondo di Pannunzio. È seguita poi una generazione che è cresciuta intellettualmente con L’Espresso, quello in grande formato. I risultati si sono visti: intellettuali di ottimo livello, analizzatori profondi dei mali della società, autori di testi ponderosi e basilari. Chi ha avuto la ventura di nascere nella prima metà degli anni Sessanta ha invece avuto, come primo testo di riferimento, un’enciclopedia: I Quindici. Ne sono sicuro, poiché ho condotto personalmente un’inchiesta tra i miei conoscenti. Agivo così: quando incontravo qualcuno tra i 25 e i 35 anni che, nelle parole o nelle azioni, dimostrava in embrione inconsce idee revisioniste, gli chiedevo subito se da piccolo aveva avuto I Quindici. La risposta è sempre stata sì. Brevemente, ecco le principali peculiarità dei membri di questa fortunata generazione, così come sono risultate dalla mia inchiesta. Uso la prima persona plurale, poiché anch’io, con molto orgoglio, faccio parte della generazione de I Quindici. 1. Apparteniamo a vari strati sociali. Forse I Quindici sono stati il primo elemento che ha scatenato la reazione livellante che oggi ha portato alla quasi-scomparsa delle classi sociali. 2. Siamo intellettualmente di prima mano. La nostra formazione è nata nella maggior parte dei casi proprio su I Quindici e non su emulazione delle attività e delle mentalità paterne. Questo rende originale la nostra creatività, non copiamo il modo di scrivere, pensare e agire dei colleghi di papà. 3. Abbiamo un’apertura verso l’internazionalità. I Quindici erano sicuramente la traduzione di un’opera americana. Erano pieni di citazioni e allusioni alla cultura e al modo di vita statunitense. Quasi tutti gli intervistati hanno confermato il senso di disorientamento toniokrogeriano da me provato di fronte a quelle immagini di bambini biondi e dagli occhi azzurri. Nessuno si riconosceva nelle storie in cui nostri coetanei mangiavano burro di noccioline o facevano parte di uno dei vari club della
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scuola. Chiusi negli appartamenti condominiali, in un’epoca che ancora non conosceva l’esplosione delle villette a schiera, guardavamo i ragazzini USA costruire casette per uccelli e porle nel giardino delle loro case. Personalmente, essendo ai tempi ancora perso nelle nebbie catodiche del bianco e nero, mi ha sempre colpito l’immagine di Pico de’ Paperis che appariva in un televisore a colori. Comunque, questa estraneità veniva presto superata e accettata. Una capacità di superamento e accettazione delle differenze che contraddistingue ancora oggi i membri della generazione de I Quindici e che è alla base della nostra inclinazione internazionale. 4. Abbiamo un forte senso del colore. La rilegatura dei 15 volumi era in una tinta neutra, ma ogni volume era contraddistinto da bande che, dall’1 al 15, rappresentavano una fantastica iride raddoppiata. Ognuno degli intervistati ha un preciso ricordo cromatico. Se devo dire che colore ha l’infinito, rispondo: «Il violetto dell’ultimo volume dei Quindici. Profondo e misterioso». 5. Abbiamo una spiccata tendenza alla reminiscenza. Sfogliati in tenera età, quei volumi avevano almeno un’immagine che si è fermata nella nostra memoria. Jacqueline Ceresoli mi ha detto: «Ricordo il disegno di un uomo che volava con uno zaino dotato di retrorazzi. Quella per me è ancora l’immagine del futuro». Ma non erano solo le immagini. Marco Lavagetto ricorda perfettamente l’odore, anzi il profumo che aveva la carta di quella enciclopedia. Insomma, al lettore de I Quindici tutti i sensi si sono aperti insieme. 6. Siamo stati precoci. Chi ha letto il Mondo, prima, e L’Espresso, poi, l’ha fatto dai vent’anni in su, sentendo molto forte il senso di comunione di interessi. Nel nostro caso, la Bildung è iniziata molto prima: non sono rari i casi di membri della generazione de I Quindici che hanno iniziato a leggere a 4 o 5 anni. La nostra formazione si è avviata negli anni Sessanta con questa enciclopedia e si è sviluppata negli anni Settanta lungo una seconda fase che aveva già superato la lettura, sostituendola con la visione (Oggi le Comiche e, in certe regioni, Scacciapensieri sulla TV svizzera). Così, giunti ai vent’anni ricchi di questo bagaglio, non abbiamo avuto più alcuna voglia di dedicarci a esperienze unificanti in cui poterci riconoscere. Il nostro senso di comunione intellettuale è perciò esclusivamente retroattivo ed è stato scoperto solo in seguito. 7. Siamo particolarmente ricettivi di fronte alla rapidità del messaggio iconico. Non facciamo parte della civiltà dell’immagine solo perché qualche sociologo decide di scriverlo sui giornali. Lo siamo perché è nelle nostre radici la capacità di decifrare i pittogrammi, quelli che identificavano l’argomento di ogni volume dell’enciclo-
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pedia. Ricordo un globo stilizzato per il tomo dedicato ai paesi del mondo. Un martello e una sega per il volume in cui si insegnava a realizzare oggetti d’ogni tipo... I membri della generazione de I Quindici si riconoscono poiché all’aeroporto si muovono con sicurezza tra le indicazioni non verbali e pittografiche. Chi non ha letto I Quindici da piccolo, invece, di solito si perde e riconosce a malapena l’omino e la donnina sulle porte delle toilette.
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Un fenomeno protoeuropeista
I miei ricordi più remoti me la raffigurano su tavolinetti da barbiere, accanto allo scomparso ABC (una prece). Mentre oggi i grandi trust editoriali si scannano per un posto al sole nell’Europa ventura, Cronaca Vera ha sempre avuto una diffusione da Mercato Unico anche quando il ‘93 non era che un numero cui mancava 7 per fare 100. Diffusa tra emigrati italiani in tutte le nazioni, Cronaca Vera è arrivata anche lì dove la Farnesina non giungeva. Oggi la si trova alla libreria del Beaubourg come allo spaccio aziendale della Volkswagen. L’impatto di Cronaca Vera è notevole sin dall’inizio, sino dalla sua copertina modulare. Essa è infatti basata su un modulo, su una maglia ripetuta, le cui dimensioni sono 90-60-90 (preferibilmente). Spesso però la maglia non c’è, sostituita da un più comodo bikini. Passando all’interno si resta colpiti dai caratteri usati nella composizione: tutti bastoni, ma moltiplicati in una fantasia di corpi e in un irresistibile avvicendarsi quasi psichedelico di dimensioni e inclinazioni. Per anni devota a un bianco e nero sul quale fiorivano richiami rossi nei titoli, recentemente Cronaca Vera ha aperto le porte al giallo, patinando lievemente la copertina. Il risultato, però, non ha subito flessioni. Ma l’elemento grazie al quale Cronaca Vera non potrà mai cadere nell’oblio è quello che si potrebbe definire sgranamento garantista. Vittime e assassini, pie missionarie e delinquenti incalliti, tutti ricevono lo stesso trattamento fotografico. La tecnica è precisa e personalissima: si prende una foto tessera in bianco e nero, realizzata rigorosamente nelle apposite cabine automatiche che si trovano in metrò o nelle stazioni, e la si ingrandisce almeno del 500 per cento con conseguente esplosione della grana. L’effetto è assicurato: anche gli occhi più innocenti appariranno torvi, ogni pelo di barba raggiunge dimensioni da baobab, ogni graffio assume gravità di sfregio.
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Nonostante queste interessanti caratteristiche, nessuno studioso di semantica dell’immagine, né alcun maestro della comunicazione ha mai dedicato una sola parola a Cronaca Vera. Il perché è semplice: tutti costoro, non appena hanno in mano una copia di questo settimanale, tralasciano di eseguirne l’esame strutturale e corrono a leggersi le risposte del Dottor K.
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Picnic revisionista
Raramente ho provato una sensazione di coinvolgimento più totale e vicina all’hysteria lacrymosa di quando, alla Contemporanea Internazionale d’Arte Moderna di Milano del 1989, mi trovai di fronte il Desinare al Gianicolo di Riccardo Tommasi Ferroni. Caddi in ginocchio dinanzi alla tela e mi dovettero portar via a forza. Cercherò di descrivere cosa successe in me in quell’istante, anche se so già che sarà molto difficile, un po’ come descrivere con precisione un sogno che ci ha segnati profondamente. Siamo a Roma, sul Gianicolo, e in lontananza vediamo il panorama della città con le solite cupole, i marmi e altri edifici, alcuni nell’ombra, altri resi abbaglianti dal sole che riesce a filtrare attraverso uno strato di nuvole nere. In primo piano, stesi al suolo, sei personaggi. Quattro di loro (due coppie) sembrano aver trovato qualcosa da fare e lo fanno con molto impegno. Restano discinti, scosciati, abbracciati, avvinghiati in baci che però i due single non sembrano invidiare. Loro hanno un amore molto più grande di quello che possono dare le donne: loro amano la Lazio! Lo dimostrano il fazzoletto al collo dello smagrito sul fondo e il drappo biancoazzurro del panzuto dalla testa scimmiesca in primissima piano. Deve essere domenica, tardo pomeriggio. La Lazio deve aver giocato in trasferta e i due non hanno certo i soldi per seguire la squadra anche fuori casa. Devono aver ascoltato Tutto il calcio minuto per minuto e poi hanno mangiato. Lo smilzo si appoggia con il gomito a un bidone rovesciato della spazzatura. L’obeso, che a guardarlo bene pare quasi Kafka ingrassato, giace su due sacchi dell’immondizia stranamente ancora integri, mentre tutt’intorno ve ne sono di sventrati. Tra questi si stende un firmamento di scatole vuote, bottiglie scolate, flaconi di insetticida, siringhe, pacchetti di sigarette. Non c’è alcun nome, eppure quei rifiuti appaiono così familiari: il pacchetto è di Marlboro, la bottiglia di Fanta... i loro colori ci parlano. Su dei fogli di quotidiano, probabilmente più Il Tempo che Il Messaggero, ecco i resti del desinare: piatti di plastica, ossi (oppure ossa? da tipi del genere c’è da aspettarsi di tutto) e una testa
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di porchetta che, nel centro esatto della parte bassa del quadro, ride: ed è l’unica espressione umana di tutta la vasta tela. Non c’è altro eppure c’è tutto: dalla Tempesta del Giorgione all’inevitabile Déjeuner sur l’Herbe (mais sans herbe). Nell’aria c’è la voce di Enrico Ameri e sul fondo una reminiscenza dell’Altare della Patria. Quotidianità e storia. Alto e basso. Benessere e degrado. RTF ha sintetizzalo nei 56.000 centimetri quadrati di questa tela l’unione degli opposti che ieri era ricercata dagli alchimisti, oggi è perseguita dai revisionisti trash e che in ogni momento si celebra miracolosamente e spontaneamente ovunque. Ma cosa c’è oltre alle immagini? Questo quadro nasconde qualcosa? Vi sono sotto lo strato dei colori a olio dei sottintesi filosofici? Non mi interessa assolutamente saperlo e lascio volentieri questa inutile analisi ad altri. A Guido Almansi, per esempio, che sul numero 77 di FMR (dicembre 1989) ha parlato proprio di questo quadro e, facendolo, ha pensato a Jean Genet. Ma Almansi deve fare il colto, non è un Giovane Salmone, è troppo vincolato a cliché élitari che, nello stesso articolo, lo portano a ritenere i personaggi di questa opera come «seguaci di Pippo Baudo» e di conseguenza membri di una «sottoumanità irredimibile». È leggendo frasi del genere che mi convinco sempre più della necessità di una battaglia revisionista costellata di epurazioni. Mi chiedo proprio con che diritto un non-revisionista come Almansi si metta a parlare di un iper-revisionista come Ferroni. Verso la fine dell’articolo, Almansi strikes back. Dovendo far notare i riferimenti alla Lazio (e alla Roma in un’altra splendida tela di RFT) tiene subito a precisare la sua estraneità dal futile mondo del pallone e dice: « ... è un appassionato di calcio, Tommasi Ferroni, o, come lo scrivente, un feroce odiatore di quel barbaro cerimoniale?». È l’ultima goccia. Almansi, go home, if you have one! Tutto il quadro è leggibile solo in chiave calcistica! Quel senso di lassismo, di rinuncia, di accettazione fatalista dipinta sul volto dei due laziali nasce dal risultato calcistico: senz’altro uno zero-a-zero, poiché solo un pareggio a reti inviolate può far assumere quelle atarassiche espressioni sospese. Non c’è alcuna nota di speranza nel quadro: i torsi nudi dei personaggi fanno pensare a una primavera avanzata, praticamente alla fine del campionato. Un campionato concluso dai bianco-azzurri in posizioni da bassa classifica, forse in zona retrocessione. D’altronde, cerchiamo di capire in che anno siamo. Una indicazione ce la offre la bottiglia di plastica accartocciata vicina al piede del trucido in primo piano: è del tipo in PET da 1,5 litri. Queste bottiglie hanno incominciato a essere diffuse verso la metà degli anni Ottanta. Maggiore precisione non è richiesta: l’importante è essere riusciti a sapere che siamo lontani dai fasti laziali, che ci troviamo in quella lunga notte post-Chinaglia mentre lontani sono ancora i bagliori dell’alba di Signori. Solo il calcio, quindi, può farci vedere questo quadro come un viaggio nelle regioni dell’incerto: l’incertezza della situazione in classifica (A o B?) ha effetti a un primo livello sugli uomini (immobili si chiedono «agisco o non agisco?») e a un secondo livello sulla natura, sul tempo (sole e nuvole, luce e ombra).
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Contro il fumetto reso colto
Gian Carlo Mangini è uno e plurimo. Appare infatti sotto più pseudonimi: Mang, per esempio, Oppure (e soprattutto) El Cubano. È tra l’altro, un disegnatore di vignette e fumetti. In una società che, anteEco, sdegnava i fumetti e oggi li eleva a dignità tale da far loro meritare borse e gallerie, analisi e apposite librerie, Mangini/El Cubano rappresenta la Primula Rossa. Inafferrabile, inclassificabile, ininquadrabile in alcuna scuola, corrente, mozione o emozione. Veramente revisionista. Triplamente revisionista: per la trascuranza delle correnti, per la non-ricerca del consenso, per la sua polimedialità. La banalità multimediale vorrebbe che un disegnatore accompagnasse questa sua attività a quella di pittore o di grafico. Con originalità polimediale GCM va invece oltre: all’attività di disegnatore unisce quella di commentatore radiofonico di baseball! Oggi le sue opere sono reperibili sempre più raramente. Come G.C. Mangini o Mang appare su alcune riviste enigmistiche e disegna (come non cadere in adorazione dopo averlo saputo!) le avventure a fumetti di Stanlio e Ollio. Come El Cubano ha firmato per lungo tempo la pagina di vignette su Le Ore prima che anche quest’ultimo baluardo del laido si votasse al patinato. Quando i suoi acuti schizzi sexo-umorisitici cessarono le pubblicazioni fummo in molti a rammaricarci, a tal punto che oggi Le Ore ha ricominciato a pubblicarli. Ma sono i suoi interventi del periodo d’oro che i collezionisti più accaniti ricercano nelle cosiddette buste, raccolte di vecchi numeri offerte a prezzi di concorrenza. Pare anzi che Leo Castelli abbia ultimamente svaligiato le edicole di Porta Venezia in vista di una grande retrospettiva su El Cubano che terrà a New York nella sua galleria. Ma sono solo voci. Molti rifiutano El Cubano, definendolo pornografico. Facile accusa. È con rabbia che mi chiedo: perché El Cubano scandalizza ed Egon Schiele no? Ma diciamo la verità: Schiele deprime, El Cubano diverte. Tra la violenza stuproistigatrice di certi fumetti erotici e l’enorme noia di erotic comics come la soporifera Valentina, El
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Cubano genialmente traccia la Terza Via alla Camera da Letto, quella che passa per l’umorismo. Anni di ricerche psicoanaliliche su turbe e devianze sessuali vengono spazzati via dai tratti colorati del nostro e dal suo universo affollato di personaggi. Cumenda panciuti, siciliani pelosissimi (e dotatissimi), mariti votati alla cornificazione e soprattutto donne, un’infinità di donne dalle vite schizzate e dai seni come palloni aerostatici. Sono due le categorie più spesso rappresentate dall’Artista: le segretarie (in combinazione, anzi in combutta con i cummenda) e le straniere, eredi iconiche di tante Fride adriatiche, che si esprimono in un improbabile italo-tedesco. La bellezza femminile in El Cubano è un altro argomento che, alla fine dell’analisi, dimostra la grandezza di questo artista, grandezza che passa attraverso la personalizzazione dei canoni estetici. El Cubano non è un disegnatore dozzinale di donnine tanto perfette, quanto anonime. Egli reinventa la donna, anzi la esagera. La sua ricerca del bello muliebre è spiccatamente anti-ellenista ed è votata alla sottolineatura dei volumi. E gli uomini? Al proposito, invito gli esperti a compiere una profonda osservazione psicoanalitica su due elementi ricorrenti nell’opera di El Cubano: 1. in proporzione dimensionale, le donne sono sempre almeno due volle più grandi degli uomini, e 2. la presenza ossessiva, maniacale direi, dei calzini nei maschi anche quando sono completamente nudi. Ma veniamo alla tecnica: El Cubano è forse l’ultimo grande esponente della Neue Sachlichkeit più pura, netto come Dix, tagliente come Grosz. Naturalmente, lo scenario storico è mutato, non siamo più nel ‘33 e quindi in El Cubano si è passati dalla rappresentazione della tragedia a quella della commedia. Commedia dell’Arte per la presenza di personaggi fissi e ricorrenti, Commedia all’Italiana per la facile regionalizzazione dei caratteri (soldi = lombardo, focosità = siciliano eccetera). Ed ecco il punto sul quale El Cubano è stato spesso attaccato da molti critici militanti: la precisa, immutabile collocazione temporale degli eventi narrati. Si tratta di accuse gratuite, fatte da personaggi impreparati che si vergognano d El Cubano e preferiscono Corto Maltese aI Lando (ma in cuor loro amano solo Dylan Dog). È vero: i personaggi di El Cubano sono esteticamente cristallizzati nelle mode degli anni Sessanta. Lo dimostrano le pettinature gonfie agli estrogeni delle signorine e i basettoni degli uomini. Gli stessi, immutabili personaggi sono però immersi in décors e avvenimenti attualissimi. Ne sono prova i riferimenti all’attualità riscontrabili soprattutto nella serie non erotica e a firma Mang intitolata Al bar dell’angolo. E non deve stupire questa incoerenza cronologica tra l’abbigliamento e l’evento: anche Tiepolo vestiva Cleopatra e Antonio con abiti del suo tempo. L’artista può permettersi di trascurare le convenzioni cronologiche e vestitive. Ed El Cubano è un artista.
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Franco Franchi era meglio di Lyotard
Come al solito, tutto ciò che troviamo scritto nei libri è inutile ed è il riflesso, molto pallido, di fatti già avvenuti che non hanno certo bisogno della fase narrativa. Esaminiamo il caso della ecletticità. Jean-Francois Lyotard scriveva, non senza un certo disgusto, nel 1982: «L’eclettismo è il grado zero della cultura generale contemporanea: si ascolta il reggae, si guarda un western, si mangia un hamburger la mattina e un piatto locale la sera, si mettono profumi francesi a Tokio, ci si veste rétro a Hong Kong ... ». Una pubblicità per l’edizione tedesca del mensile Max nel 1991 dichiarava il trionfo di quella tendenza indicata da Lyotard: «Negli ultimi trent’anni si è sviluppata una generazione che pensa e vive in modo particolarmente mobile, aperto e cosmopolita. Beve Coca Cola, si veste in jeans. Guida cabriolet e ascolta Madonna. Ama Richard Gere e rispetta Gorbaciov. Guarda video e porta orologi di designer. È questa la generazione che legge Max». Nel primo caso l’eclettismo è visto in maniera negativa, come appiattimento universale che accompagna la trasformazione delle tradizioni locali in anti-tradizioni globali. Ma la visione di Lyotard è troppo colta, è eseguita troppo dall’esterno perché un Giovane Salmone, pur abituale consumatore in contemporanea di hamburger e di spaghetti, ci si possa riconoscere. L’altra, la citazione di Max, è esasperatamente modaiola e pubblicitaria: qui l’universalizzazione è celebrata e il mondo sembra fatto di imbecilli monodimensionali che (con un passaggio Max/Marx degno del Bersaglio) feticizzano alla stregua di merci simili Swatch e Gorbaciov, allo stesso modo e in qualsiasi latitudine. E neanche in questo voglio riconoscermi. li Revisionista Estetico non rifugge però l’eclettismo, sebbene la sua tendenza alla commistione sia spontanea e non esposizione di un simbolo intellettuale (Lyotard) o mezzo subdolo per definirsi parte di un particolare stato sociale (Max). Nessuno dei due esempi sopra riportati può soddisfare un Revisionista
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Estetico, poiché entrambi mancano dell’appiglio alla realtà. Sono vaghi, sono di comodo, sono devianti. Ma allora la realtà dov’è? Dov’è che l’ecletticità, negativa o positiva, si trasforma in contagio? La realtà, la verità, il contagio e il vero specchio del Revisionismo sono contenuti in un film del 1973: Ku Fu? Dalla Sicilia con furore, diretto da Nando Cicero e magistralmente interpretato da Franco Franchi. Quest’opera, e alcune scene in particolare, rappresentano mirabilmente il modo naturale e anti-intellettuale cui deve tendere chi voglia dedicarsi a un eclettismo sano. Nel film risultano perfettamente fusi almeno otto elementi. Il primo elemento è lo stesso Franco Franchi, figura per niente neutra, impossibile da inserire in un qualsiasi contesto senza dimenticare la sua fortissima caratterizzazione, tra i tanti sotto-elementi, della quale spicca la sicilianità (elemento 2) subito contrapposta alla cinesità (elemento 3) che è lo spunto di tutto il film. Nel primo tempo Franchi entra in un ristorante cinese nel quale si cantano però stornelli romaneschi (elemento 4). Questa contrapposizione può non essere spontanea, ammetto che il regista possa aver ricercato l’effetto incongruo. L’ elemento 5 è però assolutamente genuino: nella scuola di arti marziali cinesi (nel secondo tempo del film) pende una bandiera giapponese. Il massimalismo è uno dei fondamenti del contagio: «Cinesi, vietnamiti, giapponesi si assomigliano tutti, sono tutti orientali». E proprio questo atteggiamento non discriminatorio che a Milano permette a legioni di sudcoreani di gestire ristoranti cantonesi. Il film di Cicero prende atto di questo comportamento direttamente, perché forse lo stesso Cicero possiede per natura questa mentalità massimalista e non vi giunge dopo noiose intermediazioni intellettuali come sto facendo io qui. Ah, essere come lui! La stessa modularità può essere poi osservata nei frequenti prologhi ai duelli che Franchi, della palestra di Kon Chi Lhai, ingaggia con gli esponenti della palestra avversaria di Lho Kon Teh. L’intuizione di Cicero qui è fulminea e imitativa. lo purtroppo devo dilatare questa rapida intuizione nel tentativo di gettare una minima luce sui meccanismi da cui nasce il contagio. Dunque c’è un duello e siamo in un film. A quale modulo prêt-à-imiter potrà rifarsi Cicero se non al western? Ed ecco perché i primi piani dei contendenti (ricordo che l’ambientazione è vagamente filocinese) sono sottolineati da una tromba messicaneggiante, evocativa di duelli al sole nel deserto (elemento 6). Vorrei aggiungere che i tre cattivissimi karateki che dovrebbero far fuori Franchi vengono assoldati da Kon Chi Lhai a Milano. Si tratta, per la precisione, dei «migliori sulla piazza a San Babila». Ora, questo elemento 7 potrebbe essere un contagio contratto dall’attualità: il film è del 1973 e in quel periodo a Milano, in piazza San Babila, ne succedevano di lutti i colori. Anzi, di un solo colore: il nero. Cicero dunque precede Lizzani di ben tre anni.
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Altrettanto potentemente incongruo e non motivato da imitazioni e riferimenti diretti è l’episodio in cui Franchi, stordito da una capocciata infertagli da Nuto Kekkor, proprietario del ristorante cinese, esce dal locale intonando un pezzo operistico (elemento 8). Gli esempi potrebbero proseguire all’infinito tra citazioni gitane e napoletane. Ora devo giustificarmi. Perché considero positivo l’eclettismo di questo film e condanno l’eclettismo della pubblicità di Max? Semplice: perché l’eclettismo di Cicero & Franchi non è entropia modaiola, ma pura espressione trash. Ossia nasce dal contagio di elementi incompatibili. Nulla lega tra loro gli otto elementi, ognuno è indipendente dall’altro e tutti si trovano ammassati solo in nome dell’accumulazione. Invece, nella pubblicità di Max, dietro la scelta pseudocasuale di elementi c’è un super-elemento di base: la ricchezza. Gli orologi di design costano. Richard Gere è ricco. Per vivere in modo aperto e cosmopolita ci vuole la grana. Gorbaciov rientra perfettamente in questo ambito poiché, almeno nelle intenzioni, la sua azione segnò il primo passo per far precipitare l’URSS in questo eclettismo per abbienti.
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Musica leggera e letteratura pesante
Se fosse vissuto oggi, Marcel Proust avrebbe a casa sua tutti i dischi di Claudio Baglioni. Soprattutto i primi, quelli favolosi degli anni Settanta, quelli venuti prima della stagione esistenziale. Nelle sere in cui si coricava presto, Marcel non avrebbe mancato di portarsi tra le lenzuola il walkman e di riascoltarsi E tu, Questo piccolo grande amore e Amore bello. In questo modo, non avrebbe avuto bisogno di inventarsi un Vinteuil per trovare un terreno dove coltivare le proprie reminiscenze. Probabilmente (e saggiamente) non avrebbe neanche scritto una sola riga, annichilito dalla grandezza di un artista che incarna meglio di chiunque altro il sentimento del tempo. Claudio Baglioni è il massimo artista contemporaneo italiano: in futuro la sua immagine simboleggerà per sineddoche l’arte italiana del tardo Novecento, come Caravaggio incarna il tardo Cinquecento e Verdi si identifica con l’Ottocento. Nel 1991 Baglioni ha tenuto una serie di concerti a sorpresa a Centocelle, suo quartiere natale, spostandosi su un camion insieme ai suoi strumentisti. In una registrazione televisiva di questi eventi ho avuto la conferma della sua grandezza. È stato quando gli si è avvicinato un signore sui trentacinque anni che gli ha detto: «Claudio, quanto mi hai fatto sognare da militare con le tue canzoni». Arte è anche parlare per mezzo dell’artificio ai sentimenti degli altri. Baglioni è grande perché ci riesce. Continua poi a essere grande perché la sua trasmissione sentimentale non è legata al momento, ma resta intatta nonostante il passare del tempo. Non si ride riascoltando un pezzo di Baglioni del 1975 come invece si può fare riascoltando un brano coevo dei Cugini di Campagna o dei Santo California, eppure anche questi erano frequentatori di temi amorosi e di melodie coinvolgenti. Evidentemente la comunicazione di Baglioni è semplice, ma non è ingenua: è vera, quindi destinata a restare. Baglioni raggiunge l’80 per cento dell’universalità. Lo spettro del suo pubblico non comprende tutti, naturalmente, ma è comunque vastissimo e la forza evoca-
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trice delle sue creazioni coinvolge non solo chi vi si ritrova, ma anche chi non è passato per simili esperienze. Nei primi evoca la nostalgia di ciò che è stato, nei secondi il rimpianto per ciò che non è stato. Parlo per esperienza diretta: il mio stile di vita non sarà mai oggetto di una canzone di Baglioni, eppure mi sarebbe piaciuto sperimentare almeno una volta in prima persona i microeventi narrati in Questo piccolo grande amore. Non deve stupire se molti, dagli anni Settanta in poi, si siano identifica nelle canzoni di Baglioni. In che cosa d’altro avrebbero potuto identificarsi? Nella letteratura, forse? La letteratura, intendo la letteratura narrativa contemporanea italiana, è qualcosa di totalmente estraneo alla realtà. La letteratura è uno specchio che non riflette più nessuna immagine o forse riflette solo l’immagine del suo autore. In ogni caso è un oggetto inutile e va buttato via. Baglioni è in grado di suscitare emozioni. Purtroppo, anzi, per fortuna, non si può dire lo stesso di nessuno scrittore suo contemporaneo. Chi ha mai sognato, leggendo un libro di narrativa italiana pubblicato da Feltrinelli tra il 1975 e il 1994? Non c’è alcun autore in cui le generazioni più giovani possano riconoscersi. Chi riesce a identificarsi negli universi stantii di Paola Capriolo o in quelli stereotipati di Lara Cardella? Baglioni raggiunge l’80 per cento dell’universalità, la letteratura procede per compartimenti stagni. Ben più basse sono le percentuali di coloro che si identificano, per esempio, in Benni; sono settori di pubblico molto meno variegati, più definiti, sempre mediati dall’intellettualismo o dalla convinzione politica o dal desiderio di apparire. La letteratura manca di immediatezza e di originalità. Chiunque abbia mai scritto una sola riga, pur rappresentando magari una vetta di mediocrità, si sente autorizzato a indossare la veste aulica e a disprezzare la realtà. Esempio: a fine gennaio 1992, Il Venerdì di Repubblica chiese a un po’ di personaggi, i soliti, che cosa pensassero del Festival di Sanremo. Mi è rimasta impressa nella memoria, a lettere di fuoco, la risposta di tale Lidia Ravera che, per fare la colta kitsch, disse di disprezzare le canzoni e di ascoltare solo Mozart e Beethoven. Mozari e Beethoven, ripeto. Non Ligeti o Xenakis. Ma Mozart e Beethoven. Ossia, la signora Ravera sostituiva la melodia delle canzoni non con una ricerca intellettuale, con l’interesse nell’atonalità o nella stocastica, ma con la KV 550 (solo il primo movimento, per carità) o con la Für Elise... Chissà, magari ai vertici della hit parade che la Ravera cela in fondo al suo cuore c’è Titti Bianchi, ma questo non si può dire a un giornale. Sono questi comportamenti preconfezionati, rispettosi del pregiudizio, che hanno avviato il processo di dissoluzione della letteratura. Questo, comunque, è un bene. Le cause che determinano la formazione
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ideologica di una generazione passano dalla letteratura alla musica, rispettando una necessaria Verschiebung. Chi non ha ancora accettato il fatto compiuto deve rassegnarsi: la letteratura-narrativa scomparirĂ , sommersa dalla sua noia, e verrĂ sostituita da tante cose piĂš fresche, eccitanti e interessanti.
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