Italian Journal Of Special Education For Inclusion N. 1 – 2018

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anno VI | n. 1 | giugno 2018


Italian Journal of Special Education for Inclusion Rivista ufficiale della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SI.Pe.S.)

anno VI | n. 1 | giugno 2018

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Finito di Stampare nel mese di GIUGNO 2018

Per l’invio dei contributi e per comunicazioni: sipesjournal@pensamultimedia.it / 06.57334093

Gli articoli pervenuti sono sottoposti a un procedimento di referaggio che prevede giudizi indipendenti da parte di due studiosi italiani e stranieri di riconosciuta competenza. I giudizi sono espressi secondo quanto previsto a livello nazionale e internazionale e sono comunicati agli autori unitamente alle eventuali indicazioni di modifica che gli stessi devono accettare ai fini della pubblicazione. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso parere positivo. In caso di giudizi fortemente contrastanti ci si avvale di un terzo revisore. Il Comitato dei Referee coincide con il Comitato Scientifico. Il Board, tuttavia, si avvale anche di ulteriori Referee che saranno resi noti nel primo numero dell'annata successiva.


DIRETTORE RESPONSABILE

Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) COMITATO SCIENTIFICO

Pilar Arnaiz Sánchez (Universidad de Murcia, Spagna) Serenella Besio (Università della Valle D’Aosta) Roberta Caldin (Università di Bologna) Andrea Canevaro (Università di Bologna) Lucia Chiappetta Cajola (Università Roma Tre) Lucio Cottini (Università di Udine) Piero Crispiani (Università di Macerata) Armando Curatola (Università di Messina) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) Carlo Fratini (Università di Firenze) Maria Antonella Galanti (Università di Pisa) Maura Gelati (Università Milano Bicocca) Catia Giaconi (Università degli Studi di Macerata) Karen Guldberg (University of Birmingham, GB) Elias Kourkoutas (Università di Rethymno, Creta) Dario Ianes (Università di Bolzano) Franco Larocca (Università di Verona) Michele Mainardi (SUPSI, Svizzera) Pasquale Moliterni (Università Foro Italico, Roma) Margherita Merucci (Università Cattolica de Lyon, Francia) Pilar Orero (Universitat Autònoma de Barcelona, Spagna) Marisa Pavone (Università di Torino) Eric Plaisance (Università Paris V, Parigi, Francia) Béla Pukánszky (University of Budapest, Ungheria) Robert Roche Olivar (Universidad de Barcelona, Spagna) Marina Santi (Università di Padova) Joel Santos (Universidade de Lisboa) Maurizio Sibilio (Università di Salerno) Antonella Valenti (Università della Calabria) Darja Zorc-Maver (University of Ljubljana, Slovenia) BOARD

Fabio Bocci (Università Roma Tre) Roberta Caldin (Università di Bologna) Lucio Cottini (Università di Udine) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) COMITATO DI REDAZIONE

Alessia Cinotti (Università di Bologna) Alessio Covelli (Università del Foro Italico, Roma) Barbara De Angelis (Università Roma Tre) Diego Di Masi (Università di Padova) Daniele Fedeli (Università di Udine) Andrea Fiorucci (Università del Salento, Lecce) Valeria Friso (Università di Bologna) Simona Gatto (Università di Messina) Elisabetta Ghedin (Università di Padova) Annalisa Morganti (Università di Perugia) Francesca Salis (Università di Urbino) Elena Zanfroni (Università Sacro Cuore Milano) Antioco Luigi Zurru (Università di Cagliari)


ELENCO REFEREE N. 1-2/2017

Laura Arcangeli Serenella Besio Raffaella Biagioli Fabio Bocci Elena Bortolotti Maria Teresa Cairo Roberta Caldin Lucia Chiappeta Cajola Felice Corona Anna Maria Curatola Roberto Dainese Paola Damiani Heidrun Demo Diego Di Masi Daniele Fedeli Andrea Fiorucci Angela Magnanini Stefania Pinnelli Mario Pireddu Francesca Salis Simone Visentin Tamara Zappaterra Antioco Luigi Zurru


indice /summary

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Editoriale / LUIGI D’ALONZO I. RIFLESSIONE TEORICA

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MARIA ANTONELLA GALANTI Le Paralisi Cerebrali Infantili (PCI) e lo sguardo della Pedagogia speciale

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TAMARA ZAPPATERRA Linguaggi, conoscenza e advocacy nella giovane Helen Keller

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FABIO BOCCI “Il Tempo e la Storia”. Un libro, un luogo e un film per la Pedagogia Speciale

II. REVISIONE SISTEMATICA 51

FELICE CORONA, TONIA DE GIUSEPPE L’identikit dell’X Fragile tra comprensione genetica, potenzialità fenotipiche, bisogni potenziali ed emergenze educative inclusivo-socio-emotive

III. ESITI DI RICERCA 63

HELENA MESQUITA, MARIA DO ROSÁRIO QUELHAS Uma abordagem à formação de professores em educação especial e inclusiva em Portugal

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LORENA ROCCA, XABIER ERKIZIA Rumore di occhiali da sole


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MARTINA MARCHI, ELENA BORTOLOTTI Il partenariato come risorsa: l’integrazione socio- educativa e sanitaria come prospettiva per fare fronte ai bisogni dei minori d’età e le famiglie in situazione di fragilità

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GIOVANNI SAVIA Universal Design for Learning nel contesto italiano. Esiti di una ricerca sul territorio

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MARTA CODATO Il sociodramma come strategia di inclusione contro l’abbandono scolastico precoce

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Recensioni


Editoriale / La storia del lungo cammino di riconoscimento dei diritti dei disabili nella società e le esperienze diffuse oramai in tutto il mondo ci offrono questa riflessione: quando si accoglie una persona con disabilità, un soggetto “diverso”, quando si rispetta e si offre dignità a colui che presenta problemi, inevitabilmente si cresce come uomini e come cittadini. La presenza del disabile, le sue difficoltà più o meno marcate, più o meno visibili, la sua limitazione fisica, psichica o sensoriale costringono il contesto sociale accogliente a prendere coscienza dei doveri che ogni uomo ha nei confronti dell’altro, il quale diventa, con i suoi problemi, un “promotore” di attenzioni che costringe il gruppo sociale a maturare risposte di valore in grado di promuovere positivamente la vita civile di tutti e di progredire sul piano culturale, civile, etico e morale. Abbattere le barriere architettoniche, costruire scivoli idonei, ascensori capienti, porte scorrevoli, strade e percorsi sicuri e privi di impedimenti per la persona con disabilità fisica significa costruire un mondo migliore per tutti, anche per chi non presenta bisogni specifici, anche per la giovane signora che spinge il proprio bambino nel passeggino, anche per il nonno che sempre più ha difficoltà a salire scale o a superare gli ostacoli. Progettare una città a misura di tutti, ad esempio, anche per coloro che hanno deficit sensoriali, significa dare impulso ai servizi dedicati al cittadino utilizzabili da ogni persona: l’ avviso acustico al semaforo che indica il segnale verde per il cieco non è utile solo al non vedente, ma a chiunque, i percorsi tattili stradali o sui marciapiedi che consentono alle persone con deficit visivi piena autonomia per gli spostamenti in luoghi pubblici senza l’ausilio di assistenza, sono importanti per ogni cittadino, anche per i più piccoli. Questa prospettiva permette di guardare ai disabili non come un peso per la società, ma come una risorsa: la persona che presenta limitazioni fisiche, sensoriali o psichiche non è un freno al progresso sociale e civile di un Paese, ma può rappresentare un’energia a sua disposizione per promuovere innovazione in tutti i campi, dal sociale al produttivo, dal formativo al culturale. La vita, d’altronde, non migliora senza il superamento degli ostacoli: per imparare ad interagire con il mondo, l’uomo fin dalla sua nascita ha necessità di superare barriere, difficoltà, frustrazioni e in questa continua dialettica con la realtà è costretto a difendersi, ma anche ad affrontare le contrarietà del vivere quotidiano, dapprima nel rapporto con la madre e la sua famiglia e poi con il resto dell’umanità. Ogni persona è chiamata a prendere posizione di fronte agli avvenimenti della sua esistenza, a costruire la propria vita con le sue autonome scelte, a riempirla di valori idonei a guidare il suo cammino nel mondo, a scegliere o a rifiutare le molteplici opzioni che il mondo propone. Ogni singolo individuo ha il diritto di dare significato e contenuto alla propria esistenza, può addirittura respingere il suo anno VI | n. 1 | 2018

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bene, rinnegare perfino la sua umanità e dignità. Questo perché il dono della libertà che l’uomo possiede offre alla sua esistenza una dignità infinita: il diritto «di rifiutare il proprio destino, è essenziale all’esercizio della libertà. Non è uno scandalo: l’assenza di questo diritto distruggerebbe l’uomo» (Mounier, 1982, p. 93). Una conseguenza si evidenzia immediatamente, ossia che l’uomo non è libero di mettere in atto ogni suo volere, in quanto, nello sforzo di attuare compiutamente la sua umanità, ha bisogno degli altri, ha necessità di vivere in un ambiente sociale e culturale che lo accompagni nel suo sviluppo; di per sé questa crescita risulta condizionata, non può essere disinvolta fioritura di impulsi. Tutto non è possibile, e tutto non è possibile in ogni momento. Questi limiti, quando non siano troppo angusti, costituiscono una forza, giacché la libertà, come il corpo, non progredisce se non attraverso l’ostacolo, la scelta, il sacrificio (E. Mounier, 1982, p. 17).

Questo se è vero per lo sviluppo dell’uomo vale anche per ogni contesto sociale che evolve e matura solamente se riesce a superare con capacità le barriere più o meno evidenti imposte dalla realtà ambientale e civile.

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Entrando nello specifico del presente numero, che inaugura il sesto anno di vita della Rivista, questo si compone di nove contributi distribuiti nelle diverse sezioni. Per quel che concerne la sezione Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche), sono presenti tre articoli. Nel primo di Maria Antonella Galanti dal titolo Le Paralisi Cerebrali Infantili (PCI) e lo sguardo della Pedagogia speciale, l’autrice prendendo le mosse da due film (Io sono Mateusz di Maciej Pieprzyca e Le chiavi di casa di Gianni Amelio), discute sulla necessità di integrare il punto di vista neuropsichiatrico con quello pedagogico ed educativo. Il progetto riabilitativo-educativo deve essere infatti flessibile e personalizzato, in grado di coinvolgere direttamente e in modo partecipato la persona soggetto della cura (e non meramente oggetto di cure) attivando la motivazione all’apprendimento motorio che la studiosa intende quale modalità adattiva rispetto all’ambiente e non come semplice acquisizione di competenze motorie corrette. Nel secondo articolo, Linguaggi, conoscenza e advocacy nella giovane Helen Keller, Tamara Zappaterra grazie all’analisi di una serie di fonti dirette (opere, lettere e discorsi) introduce il lettore all’interno di questioni educative (e pedagogico speciali) di grande rilevanza, come quelle inerenti lo sviluppo dell’attività metacognitiva che ha caratterizzato la crescita della giovane Helen. Grazie alla sistematica rilettura e attualizzazione operata dall’autrice del contributo, emerge come il deficit di funzionamento degli organi di senso della vista e dell’udito abbia richiesto alla Keller una modifica delle abilità comunicative e l’acquisizione di linguaggi alternativi (l’alfabeto manuale, il Braille e lo sviluppo vocale) ottenuti mediante un notevole impegno. E se i linguaggi alternativi sono divenuti i mediatori del pensiero della giovane Helen, la consapevolezza del significato di conoscenza ha agito come un vettore di libertà e di empowerment sociale, in particolare per la difesa dei non vedenti. Il terzo contributo con cui si chiude questa sezione è di Fabio Bocci, il quale Editoriale


firma un articolo dal titolo “Il Tempo e la Storia”. Un libro, un luogo e un film per la Pedagogia Speciale. Lo studioso, partendo da alcune suggestioni del programma televisivo della RAI Il Tempo e la Storia, individua un libro (Il Trattato di Edouard Séguin) un luogo (San Giovanni in Persiceto) e un film (Il ragazzo selvaggio) quali tópoi della Pedagogia Speciale. Nello specifico Bocci cerca di mettere in rilievo alcune vicende storiche che hanno caratterizzato l’educazione dei disabili, non sempre contemplate nella Storia dell’Educazione e nella Storia della Pedagogia. Far emergere determinate vicende nell’alveo della Grande Storia (per richiamarci ad un altro format televisivo di successo) significa dare voce e corpo alle nostre radici culturali e scientifiche, senza le quali è impossibile radicare il pensiero e l’azione educativa del presente. La sezione Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education) accoglie in questo numero il contributo di Felice Corona e Tonia De Giuseppe dal titolo L’identikit dell’X fragile tra comprensione genetica, potenzialità fenotipiche, bisogni potenziali ed emergenze educative inclusivo-socio-emotive. Gli autori analizzano tutta una serie di questioni e di strategie di intervento inerenti la Sindrome X Fragile, un disturbo X-Linked dovuto all’alterazione/mutazione di un gene situato sul cromosoma X che può determinare forme di disabilità intellettive, alcune delle quali riscontrabili anche nei profili di funzionamento delle persone con disturbi dello spettro autistico. Ne risulta anche un approccio multiprospettico che chiama in causa la prospettiva ecologico-sistemica e con riferimenti alla didattica inclusiva (flipped, semplessa, a stadi di complessità crescente, ecc.). La sezione Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. Strumenti e metodologie) raccoglie cinque articoli. Il primo, su invito, dal titolo Uma abordagem à formação de professores em educação especial e inclusiva em portugal, è a firma di Helena Mesquita e Maria do Rosário Quelhas. Le autrici illustrano gli esiti del progetto sviluppato nell’ambito del Master in Educazione Speciale presso la Scuola Superiore di Educazione di Castelo Branco (Portogallo). Nel Master la ricerca è organizzata sulle seguenti linee di studio e di ricerca: 1) Valutazione e intervento in educazione speciale e inclusiva; 2) Dimensioni storiche ed ecologiche dell’educazione speciale ed inclusiva; 3) Politiche educative, gestione della scuola e formazione degli insegnanti in educazione speciale ed inclusiva. Le studiose evidenziano come tali linee di studio e di ricerca che caratterizzano la formazione speciale e inclusiva all’interno del Master facciano emergere una serie di quesiti che a loro volta orientano l’azione di ricerca stessa: quali problemi vengono studiati? Con quali metodologie di ricerca? Qual è l’origine geografica degli studi? Ancora su invito è il secondo contributo di questa sezione. Si tratta di un contributo decisamente originale, già a partire dal titolo Rumore di occhiali da sole. Gli autori, Lorena Rocca e Xabier Erkizia, introducono i lettori all’interno di percorsi multipercettivi inediti, anche nella stessa fruizione del testo che può essere accompagnato dalla visione di immagini e da sonorità da scaricare da un sito e ascoltare nell’immersione della lettura. Un tentativo di infrangere la staticità della lettura tipica di un contributo scientifico per approdare a un viaggio in paesaggi sonori dalle geografie impreviste e imprevedibili. Martina Marchi e Elena Bortolotti sono le autrici dell’articolo intitolato Il partenariato come risorsa: l’integrazione socio- educativa e sanitaria come prospettiva per fare fronte ai bisogni dei minori d’età e le famiglie in situazione di anno VI | n. 1 | 2018

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fragilità. Le studiose vi affrontano, sul piano della ricerca, il tema della collaborazione tra enti per promuovere le reti necessarie per rispondere ai bisogni educativi e di crescita dei bambini. In modo specifico si tratta di una indagine sul percorso che l’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Trieste e il Comune di Trieste stanno portando avanti con lo scopo di sviluppare una partnership per la presa in carico congiunta di minori d’età in situazione di difficoltà e di disagio. Marchi e Bortolotti attraverso l’analisi della documentazione prodotta dalle due organizzazioni e per mezzo di una serie di interviste in profondità illustrano gli esiti fin qui raggiunti evidenziando anche le criticità che ancora permangono. Universal Design for Learning nel contesto italiano. Esiti di una ricerca sul territorio è il titolo del contributo di Giovanni Savia. Premesso che l’educazione inclusiva rappresenti una sfida importante per tutti i docenti, l’autore attraverso un lavoro di ricerca focalizza l’attenzione su alcune problematiche, legate in particolare a tre campi di indagine: 1) la percezione dei docenti sulla disabilità e sull’educativa inclusiva; 2) il linguaggio utilizzato; 3) le difficoltà di collaborazione nella progettazione condivisa di curricoli accessibili per tutti. Nello specifico Savia avvalendosi di strumenti di rilevazione quali questionari, diari di bordo, focus group e osservazione partecipata, ha coinvolto nella ricerca un gruppo di docenti di scuola secondaria di primo grado introducendo un approccio promettente per l’educazione inclusiva qual è l’Universal Design for Learning (UDL), utilizzandolo come sfondo teorico da un lato per rispondere a una serie di domande inerenti i tre campi di indagine e, dall’altro, per testarne l’applicabilità nei contesti di azione della ricerca. Conclude la sezione e il numero il contributo di Marta Codato dal titolo Il sociodramma come strategia di inclusione contro l’abbandono scolastico precoce. Com’è noto si tratta di un fenomeno che riguarda ancora il 13,8% degli studenti italiani, benché l’obiettivo dovrebbe essere quello di essere ridotto al 10% entro il 2020 (Europa 2020). Stante l’analisi della multifattorialità dell’abbandono scolastico precoce, l’obiettivo dell’indagine di Marta Codato è quello di promuovere l’inclusione degli studenti attraverso l’uso di metodologie attive, come, ad esempio, il sociodramma di Jacob Levi Moreno. L’ipotesi dell’autrice, infatti, è che il Sociodramma, contribuendo a contrastare i problemi emotivi e relazionali, potrebbe ridurre l’abbandono precoce. In tal senso presenta gli esiti di una esperienza di sociodramma condotta in due classi di un istituto professionale, caratterizzate per la presenza di notevoli difficoltà sia comportamentali che relazionali. I risultati sembrano incoraggiare l’utilizzo del Sociodramma come misura pedagogica da utilizzare unitamente ad altre strategie inclusive per fronteggiare la dispersione e l’abbandono.

Editoriale


Le Paralisi Cerebrali Infantili (PCI) e lo sguardo della Pedagogia speciale

The Cerebral Palsy (CP), a result of an early lesion to the Nervous System, which determines a damage to expressive, executive and communicative aspects of the movement. The rehabilitation project must be flexible and personalized; it must be capable of stimulating the motivation at learning to control the movement as something adaptive to the environment, not just as a simple acquisition of correct motor abilities. That’s the reason why we need to integrate medical and pedagogical perspectives.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: Cerebral Palsy, rehabilitation project, inclusion

I. Riflessione teorica

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Maria Antonella Galanti (Università di Pisa / galanti@unipi.it)

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1. Due film: “Io sono Mateusz” e “Le chiavi di casa”

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Tradurre le considerazioni scientifiche dei successivi paragrafi nella pratica delle interazioni riabilitative ed educative non è affatto semplice per molti motivi e primo fra tutti il fatto che il disturbo neuro-motorio in età evolutiva determina una percezione compromessa delle possibilità di chi ne è interessato da parte di chiunque interagisca con lui, a partire dai genitori e proseguendo con i medici, gli educatori e gli insegnanti. Il vissuto spontaneo dei genitori è non di rado quello di avere a che fare con un figlio con il quale è impossibile interagire, giocare, comunicare e persino, talvolta, scambiare gesti affettuosi, abbracci, carezze e baci. In maniera non dissimile, spesso, anche gli educatori e gli insegnanti provano una sorta di penoso imbarazzo. Il bambino in carrozzina, infatti, può apparire loro quasi in fusione con essa; è, nelle loro fantasie non necessariamente consapevoli, una specie di macchina rotta, un essere quasi vivente a metà, fatto di giunture meccaniche e protesiche, caratterizzato da gesti inconsulti e privi di aspetti comunicativi convenzionali, fragile al punto da generare l’impressione che un abbraccio o l’atto del sollevarlo o dello stringergli la mano potrebbe forse spezzarlo, magari romperlo. È anche su questi aspetti, legati alle rappresentazioni mentali, che occorre riflettere e lavorare, cercando di mettere in luce un’immagine meno danneggiata della persona che si trovi in una di queste condizioni e mostrandone la capacità di giocare, in qualche suo particolare modo, di esprimere emozioni e affetti o anche di ridere e di divertirsi. L’interazione con bambini e adolescenti affetti da PCI è difficile perché genera senso di inadeguatezza, di impotenza, di inquietudine rispetto al proprio ruolo di educatori familiari o scolastici. Il travaglio interiore che devono attraversare i genitori di un bambino che dalla nascita o poco dopo viene loro presentato come interessato da una disabilità neuromotoria è difficile da descrivere, anche per chi abbia avuto modo di osservarlo tante volte da vicino. Forse è più efficace, nel raccontarlo, il linguaggio filmico, perché condensa in maniera immediata ed emotivamente profonda ciò che per la propria natura complessa avrebbe bisogno di essere spiegato con moltissime parole. Sulla relazione difficile e inquietante che i genitori possono stringere con i figli in età evolutiva che presentino una disabilità invalidante, due film, in particolare, meritano di essere ricordati. Si tratta di Io sono Mateusz di Maciej Pieprzyca, del 2013, e di Le chiavi di casa, di Gianni Amelio, del 2004. Il primo film è la rielaborazione di una storia vera ambientata in Polonia. È una vicenda dolorosa e sottolinea proprio l’incomprensione, la paura e il pregiudizio che riguardano persone con disabilità neuro-motorie, ma non indulge affatto al pietismo. È un sentimento freddo, infatti, la pietà, quasi una difesa che ci consola malamente facendoci sentire a posto con la coscienza e che sancisce una distanza: quella che separa il ricco, che elargisce l’elemosina, dal povero che la riceve; o il sano dal malato che va a visitare in ospedale. Il protagonista del film, Mateusz, ha la più comune delle Paralisi Cerebrali Infantili, una tetraparesi spastica che, come sappiamo, comporta spesso una disabilità intellettiva. La sua intelligenza è in realtà normale, ma non può dimostrarlo perché la disartria gli impedisce di parlare e anche se comprende perfettamente

I. Riflessione teorica


il linguaggio verbale i guizzi dello sguardo non sono sufficienti allo scopo. Mateusz è preda di riflessi arcaici che lo costringono a reagire con movimenti inconsulti e con smorfie aspecifiche a ogni stimolo, mentre la sua progettualità motoria è coartata nella rigidità tonica tipica della spasticità. Ogni volta che vuole indicare, ogni volta che vuole abbracciare, ogni volta che vuole parlare si irrigidisce tutto mentre il volto è reso deforme dalle smorfie. Il collo e il tronco si tendono, prima che scoppi in una crisi di agitazione irrefrenabile e disperata, le cosce sono intraruotate e in ipertono fino quasi a sollevarsi e i piedi allo stesso modo si contorcono rigidi, come le mani strette a pugno, mentre gli occhi si fanno strabici. Più vuole comunicare, più il suo desiderio di farlo si traduce in messaggi corporei che esprimono l’esatto opposto, che risultano respingenti e ostili: perché come si fa ad abbracciare un corpo che sembra duro come il ferro o come nel rigor mortis? Come si fa ad accogliere chi non si fa morbido per essere avvolto e non può lasciarsi andare alle carezze? “Suo figlio è come un vegetale”. È una frase insensata, quasi grottesca, cinica, stupida, eppure è quella a cui talvolta si fa ricorso, anche in ambito medico, per comunicare una diagnosi difficile come quella di Mateusz. Infatti anche lui nei venticinque anni della sua vita che il film ci racconta sente varie volte quella frase, prima che gli altri, dai suoi più cari familiari ai medici, si rendano conto che ha un’ intelligenza assolutamente normale e che vive prigioniero dei suoi spasmi, dei suoi riflessi neurologici involontari, della rigidità tonica che gli rende impossibile sorridere o tendere la mano o abbracciare e muovere la bocca per articolare i suoni, le parole e le frasi. Quando si agita o urla è perché è disperato di non riuscire a comunicare, di non potere usare gli alfabeti che pure conosce e che si traducono in grida, in grugniti o in suoni gutturali. Se accade, più lo esortano a stare calmo più si irrita e dispera; e più cerca di farsi comprendere più gli escono suoni che non corrispondono affatto a quelli che conosce e che pensa, alle parole che vorrebbe dire e prima di tutto, come scopriremo, per ricordare agli altri che lui non è un vegetale, ma un essere umano senziente e intelligente. Ci riesce dopo che si era ormai rassegnato a sentirsi incompreso. Non ne hanno mai avuto le prove, eppure hanno dedotto, e ne sono ciecamente convinti, che lui presenti anche una disabilità intellettiva oltre a quella neuro-motoria. Il destino, però, a un certo punto gli dà la possibilità di usare l’alfabeto che conosce, quello delle parole, traducendolo in un altro che non prevede il ricorso alla voce o alla scrittura. Il film ci mostra l’evoluzione di Mateusz nel tempo che riproduce quella di tanti altri bambini e ragazzi prigionieri delle conseguenze di una lesione precoce al Sistema Nervoso. Vediamo il suo corpo crescere inesorabilmente fino a che il passeggino non lo contiene più. È un momento duro e molto doloroso di presa di contatto con la realtà quello in cui i bambini con PCI devono passare dal passeggino alla carrozzina per disabili, da un mezzo di supporto che è uguale per tutti i piccoli, a uno speciale, dedicato, spesso lugubre presagio di una vita di solitudine ed esclusione. Molti genitori tendono a utilizzare più a lungo di quanto sarebbe corretto il passeggino per bambini piccoli, quasi cullandosi in una dolorosa illusione di modificabilità futura, e in maniera non dissimile accade a Mateusz. Così, quando diventa un adolescente e poi un giovane adulto, attraversa un dolore che è comune ai ragazzi nella sua condizione e cioè si innamora, ma non viene ricambiato se non da un sentimento di sollecitudine e tenerezza amianno VI | n. 1 | 2018

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cale. Lo vediamo, quasi alla fine del film, mentre da dietro i vetri di una finestra, nella stanza in penombra, osserva impotente la vita degli altri che camminano, corrono, si agitano, si abbracciano o si prendono a pugni, si danno la mano e si scambiano parole. Non bisogna fidarsi di quella frase terribile. Nessun essere umano può essere paragonato a un vegetale, anche perché ci sono altri possibili modi di avvicinarsi in maniera intelligente al mondo e agli altri, persino quando è precluso l’uso del linguaggio verbale e di quello gestuale e mimico. Anche la storia scritta da Giuseppe Pontiggia, autobiografica, nel romanzo che darà origine al film Le chiavi di casa, ci racconta di dialoghi impossibili tra medici e familiari (Pontiggia, 2004). La sua scrittura si dispiega nel declinare il proprio dolore intimo quando il figlio ha ormai trent’anni, e tuttavia le tracce del primo impatto con la scoperta della sua disabilità sono inscritte profondamente nella memoria. Il film non si incentra solo su Paolo, il ragazzino quindicenne con PCI, ma sulla sua interazione con il padre, sul rifiuto impaurito di quest’ultimo rispetto alla condizione di disabilità del figlio, colpevole di averle portato via la compagna, morta durante il parto distocico, ma anche vittima innocente di quella stessa morte. È la storia di un doppio viaggio: quello reale in cui il padre conosce dopo quindici anni il figlio e lo accompagna in treno verso una clinica di Berlino, e quello che si svolge dentro di lui in un percorso di formazione che lo rende in grado di entrare in contatto profondo con Paolo e di accettare la sua condizione di disabilità. È lui, il padre, che in questo caso nasce due volte, nel ridefinire se stesso insieme alle proprie responsabilità, accettando l’imperfezione e il limite.

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2. Paralisi Cerebrali Infantili: problemi educativi e didattici

L’ambito dei disturbi neuro-motori e delle Paralisi Cerebrali Infantili, che ne rappresentano la parte più ampia, è quello rispetto al quale la pedagogia tende più facilmente e con più evidenza a ritrarsi per lasciare maggiore spazio alla medicina: al neuropsichiatra o al fisiatra, al neurologo o al fisioterapista. Eppure, i soggetti che fin dalla nascita o dai primi tempi di esistenza mostrano uno di questi disturbi sono presenti nelle aule scolastiche e bisognerebbe, quindi, approfondire il punto di vista pedagogico-educativo e didattico, facendo i conti anche con le filosofie riabilitative ed educative alla base dei percorsi di cura predisposti per loro. Si tratta, infatti, delle disabilità motorie più comuni in età evolutiva che nei paesi occidentali riguardano all’incirca, ogni anno, da 2 a 2,5 bambini su 1000 nati vivi, la maggior parte dei quali presenta problemi legati alla spasticità e circa un terzo dei quali non è e non sarà in grado di spostarsi autonomamente (Ferrari, Cioni, 2005; Bax, Goldstein et alii, 2005, pp. 571-576; Oskoui et alii, 2013, pp. 509-519). Tutti quanti evidenziano, inoltre, in misura variabile, dei problemi neuro-comportamentali che, come quelli relativi all’apprendimento scolastico, sono conseguenti rispetto alla propria condizione di disabilità alla quale non infrequentemente si associa quella intellettiva. I sintomi possono variare in modo davvero significativo da una persona a un’altra anche per la presenza di problematiche associate di tipo sensoriale, intellettivo e percettivo, come per le possibili complicazioni quali epilessia, osteoporosi, lussazione delle anche e più in generale disturbi e difficoltà nell’alimentazione, nel sonno e in tutte le condotte primarie. I. Riflessione teorica


Le PCI, che racchiudono un gran numero di quadri nosografici, non hanno un’origine genetica, ma rappresentano altrettanti esiti rispetto a eventi lesionali precoci. Esse sono, dunque, come sottolineato con forza nelle Linee guida SINPIA e relativi aggiornamenti, non una malattia, ma una condizione (SIMFER-SINPIA, 2013). Questa affermazione comporta due conseguenze, la prima delle quali riguarda il quadro clinico che è estremamente individualizzato, dato che dipende dalla sede colpita (quindi dal numero degli arti coinvolti, dall’essere o meno interessato anche il tronco...), dall’entità della lesione stessa e dal periodo di vita nel quale si è verificata. Possono sussistere casi nei quali il danno è molto lieve, più una sorta d’impedimento leggero e di impaccio che determinano piccole variazioni nell’andatura o nei gesti, mentre nei casi più gravi è inficiata la capacità di svolgere in maniera autonoma le azioni della quotidianità e quella di comunicare in modo adeguato ed efficace. Tra l’altro occorre ricordare che il termine “paralisi” è fuorviante in quanto solo in alcuni casi si ha il blocco del movimento, mentre in altri si può avere invece un eccesso di movimenti, parassiti o disturbanti, oppure ancora tremori, difficoltà di equilibrio e di coordinazione e debolezza muscolare. Vi sono, infatti, diverse forme cliniche delle PCI: emiplegiche, diplegiche o tetraplegiche, se distinte in base alla localizzazione del danno motorio; spastiche, atassiche, distoniche, coreo-atetosiche e miste, se distinte in base alle anomalie del tono muscolare e della coordinazione. Per una disamina di tali forme, che in questo saggio occuperebbe troppo spazio, si rimanda ad altri e più esaustivi contributi, di natura anche pedagogica (Galanti, Sales, 2017, pp. 123-135). Il fatto che questi quadri rappresentino più una condizione che non una malattia comporta una seconda conseguenza e cioè che se non si possono avere né progressi né regressi, perché la lesione è sostanzialmente immodificabile, le conseguenze sono invece passibili di trasformazioni positive o negative. Detto in altri termini: la dimensione neurologica di queste sindromi è stabile, ma non lo sono le competenze della persona che ne sia interessata perché può cambiare il suo processo adattivo rispetto all’ambiente, sia nel senso del rapporto con gli altri sia riguardo all’immagine di sé. Per comprendere la condizione di vita legata alle Paralisi Cerebrali Infantili con uno sguardo di carattere pedagogico-educativo e didattico occorre prioritariamente considerare il rapporto tra intelligenza e motricità in età evolutiva e analizzare le possibili differenze nella sua evoluzione in bambini e adolescenti che presentino un disturbo neuro-motorio significativo. La conseguenza di una lesione precoce che si traduce in un danno nell’aspetto esecutivo, espressivo e comunicativo della motricità, infatti, richiede un ripensamento di quelle fasi arcaiche di vita nelle quali si gettano le basi per lo sviluppo dello psichismo e dell’apprendimento. Il movimento non può più essere interpretato, come in passato, quale esito di un mero dato biologico. Il corpo, producendo significati ed esprimendosi con un proprio linguaggio, è l’elemento di mediazione tra i codici verbali e quelli non verbali (la postura, l’andatura, la gestualità, la mimica), preverbali e soprasegmentali (i suoni inarticolati, la risata, il singhiozzo, il sospiro, lo schiarirsi della voce, l’urlo, il lamento, il mugolio dubitoso, la prosodia stessa...), diversi e peculiari cultura per cultura, epoca per epoca. Se questo è acclarato in sede scientifica e in senso transdisciplinare, non lo è allo stesso modo a livello del senso comune e spesso la sussistenza di concezioni superate del movimento si riverbera anche anno VI | n. 1 | 2018

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in pratiche didattiche desuete o inadeguate. Dal punto di vista pedagogico-didattico oltre che educativo, non è più ritenuta valida scientificamente, per i bambini affetti da PCI, la stimolazione motoria di un aspetto specifico separato dalla globalità della persona, né di azioni motorie ritenute corrette in senso tecnicoesecutivo, ma non consapevoli, non spontanee e spesso forzate. Deve essere invece sollecitata ogni azione motoria adattiva che rafforzi l’autonomia della persona e la sua capacità di progettare prassie, cioè movimenti intenzionali e dei quali ha chiara la rappresentazione mentale prima di metterli in atto (Galanti, 2007, pp. 323-338). L’apprendimento motorio, infatti, è generato da una motivazione a sua volta dipendente dalla capacità desiderante della persona. Dimensione psichica e dimensione biologica, dunque, devono essere concepite in necessario dialogo dato che influenzandosi reciprocamente possono determinare apprendimenti adattivi oppure, al contrario, il loro blocco. Basta invece addentrarsi un po’ nell’ambito dello studio e della cura educativa per accorgersi di come si tenda a considerare come territori separati, affidati a specialisti di discipline diverse, il corpo e la mente. La scarsa considerazione per gli aspetti psicomotori da parte della scuola si può evincere anche semplicemente considerando gli arredi e la strutturazione dello spazio, con i banchi e la cattedra che costringono per molto tempo in una posizione seduta e all’immobilità. Non diversamente e nella stessa ottica le figure con funzione educativa sembrano pensare che solo restando seduti davanti a un tavolino, il più possibile senza interruzioni e movimenti che non siano finalizzati alla lettura e scrittura, si possa apprendere. È sottinteso, in definitiva, che l’apprendimento della mente possa avvenire solo in maniera contrastante rispetto a quello del corpo, cioè mettendo quest’ultimo a tacere. Si tratta di un paradosso concettuale perché, al contrario, l’apprendimento è reso possibile proprio grazie alle esplorazioni e scoperte psicomotorie dei primi anni di vita e il termine stesso lo ricorda, dato che fa riferimento a un atto motorio: quello della prensione, per lo sviluppo del quale occorre innanzitutto che sia scomparso il grasping reflex, il riflesso arcaico che porta la persona a chiudere a pugno la mano rispetto a qualsiasi oggetto entri in contatto, anche solo per sfioramento, con il palmo; riflesso che invece permane in molti soggetti affetti da PCI di tipo spastico. In una visione complessa la motricità rappresenta una delle principali funzioni dell’Io attorno alla quale si articolano e sviluppano sia l’intelligenza sia il mondo emozionale e affettivo di ogni essere umano. In un’ottica meccanicistica, invece, che sia pure scientificamente superata da molto tempo ancora sopravvive a livello di senso comune e talvolta, purtroppo, anche di pratiche educative, essa è concepita come una somma di acquisizioni gerarchiche di competenze. In realtà ogni azione motoria determina un cambiamento complessivo del proprio modo di leggere il mondo rendendo possibile un’evoluzione delle modalità adattive. Attraverso l’esperienza motoria spontanea, fin dai primi anni di vita, è possibile conquistare la permanenza degli oggetti, cioè l’idea che essi esistano indipendentemente dall’essere o meno percepiti (Piaget, 1968). È inoltre possibile acquisire la capacità di orientarsi in senso spazio-temporale e di concepirsi come unità psico-fisica autonoma, esistente indipendentemente dall’essere oggetto di riconoscimento dello sguardo genitoriale. I. Riflessione teorica


Grazie a Jean Piaget l’epistemologia genetica ci ricorda come l’apprendimento sia il risultato di prassie, cioè di azioni volontarie e intelligenti su un oggetto o di assimilazione-accomodamento rispetto alla realtà in funzione adattiva (Piaget, 1968). Le teorie sistemiche sull’organizzazione del sistema nervoso centrale sono armoniche con questa concezione adattiva dell’intelligenza e, prima ancora, della motricità1. Eppure, nella pratica educativa e clinica e nell’opinione comune, le anacronistiche teorie meccanicistiche non sono del tutto scomparse e generano l’idea che esistano gerarchie tra azioni motorie nobili e altre meno nobili e che l’evoluzione psicomotoria segua dei rigidi schemi stadiali. Lo sviluppo psicomotorio è invece un percorso di adattamento all’ambiente che relaziona dialetticamente elementi innati e istintuali con altri generati dal contesto e dall’educazione e la persona è protagonista, certamente non in modo passivo, di tale percorso stesso, nel quale la motricità è vista sia come un sistema di prassie, sia come un insieme di segni espressivi e comunicativi che riguardano la prossemica, la mimica, la gestualità, la postura, l’andatura e così via. Proprio per questo l’apprendimento motorio in epoca evolutiva si pone come un’esperienza complessa, capace di modificare il rapporto che la persona ha con se stessa e con gli altri. Grazie all’esplorazione motoria dei primi anni prendono gradualmente forma le due cornici trascendentali dell’esistenza, lo spazio e il tempo, mentre manipolando, occultando o ritrovando gli oggetti, intorno al compimento del primo anno di vita si matura definitivamente la consapevolezza che essi esistono indipendentemente dal proprio poterli percepire. Su questa prima base si strutturerà, poi, l’acquisizione della permanenza affettiva delle persone cui si è legati e dunque anche della propria. L’apprendimento, a prescindere da ciò che di volta in volta lo stimola, costituisce il risultato di azioni compiute volontariamente su un oggetto: “volontariamente” significa che l’azione motoria non può essere considerata come una mera imitazione e che tra motricità, intelligenza e competenze affettivo-relazionali si determina un rapporto di reciproca influenza all’interno del quale la prima rende possibili le seconde, ma ne è a sua volta plasmata. L’apprendimento, inoltre, si realizza nel dialogo ininterrotto tra il corpo e la mente di ciascuno e lo sviluppo motorio si snoda, fin dall’alba della vita, secondo tre direttrici compresenti e intrecciate: si tratta del rapporto con se stessi, di quello con gli oggetti del mondo e di quello con gli altri. Il rapporto con se stessi è legato alla costruzione della propria identità, alla capacità di unificare il corpo che si è con il corpo che si ha ed entrambi alla propria psiche; così, il corpo, è uno strumento della psiche 1

Le ricerche che le hanno rese possibili le teorie sistemiche di sviluppo del Sistema Nervoso Centrale ormai definitivamente affermate, possono essere collocate almeno a partire dalla fine degli anni ’60. Per esempio cfr. N.A. Bernstein, The coordination and regulation of movements, Pergamon, Oxford, 1967. Tra le teorie ecologiche v. in particolare gli studi di Gibson (The senses considered as perceptual systems, Houghton, Boston 1966), e tra le teorie sull’apprendimento legato alla funzione esplorativa del movimento: K.H. Newell, “Some issues on action plans”, in G.E. Stelmach (ed.), Information processing in motor control and learning, Academic, New York, 1978. Per le ricerche nell’ambito della psicologia cognitiva si ricordano anche i contributi di Bruner (“The growth and structure of skill”, in K. Connolly (ed.), Mechanism of motor skill development, Academic, Londra 1970).

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stessa, ma anche, contemporaneamente, un’immagine di sé con la quale presentarsi agli altri. Il rapporto con gli oggetti, invece, scaturisce dalla propria capacità di agire per trasformare la realtà attraverso la comprensione logica dei loro rapporti ottenuta classificando, seriando e operando corrispondenze e comparazioni. Le relazioni con gli altri, infine, si strutturano in base alla capacità di stringere o interrompere legami messa in scena da quel nostro segmento corporeo che simbolicamente funziona come un ponte: l’arto superiore e la mano che si tende o si ritrae. I legami adeguati, infatti, non sono definiti dalla vicinanza simbiotica, ma del ritmo di allontanamento e avvicinamento che si stabilisce tra madre e bambino fin dalle epoche più arcaiche di vita. È attraverso la motricità che il bambino, non appena è in grado di spostarsi, comincia a esplorare l’ambiente e a ipotizzare interpretazioni di ciò che percepisce. Muovendosi e percependo acquisisce in maniera sempre più adeguata e complessa il proprio “schema corporeo”, cioè la consapevolezza del proprio corpo come di un volume nello spazio e nel tempo che proprio perché capace di tridimensionalità psichica alberga in sé un mondo interno invisibile, fatto di immagini, sogni, ricordi, rappresentazioni e pensieri2. L’acquisizione dello schema corporeo è un aspetto assai critico nei soggetti con patologie di tipo neuromotorio. Tale concetto, introdotto per la prima volta da Paul Schilder quasi un secolo fa, riguarda la capacità di rappresentare il proprio corpo fermo e in movimento contribuendo a comporre un‘immagine di sé e della relazione che si stabilisce con gli altri (Schilder, 1973). Lo schema corporeo si forma mettendo in dialogo acquisizioni e afferenze di genere senso-percettivo, motorio, intellettivo, affettivo e relazionale ed è attraverso questo processo che impariamo a riconoscere la realtà come oggettiva e nello stesso tempo a interpretarla soggettivamente. Il linguaggio psicomotorio è importante perché essendo in parte non controllato, in parte anche inconsapevole, veicola messaggi meno artefatti di quelli affidati al codice verbale. Si tratta di una comunicazione affettiva profonda che talvolta si muove rafforzando quella di superficie, affidata alle parole, in altri casi contraddicendola. È un vero e proprio linguaggio corporeo: espressione che già di per sé svincola l’azione motoria da una visione meramente biologica e deterministica. Da queste considerazioni, che fanno della motricità come funzione adattiva dell’Io e del corpo l’elemento capace di mediare tra codici non verbali di opposta natura, biologica e culturale, discende un approccio riabilitativo ed educativo non concepibile come azione isolata, ma solo come stimolazione congiunta di tutte le competenze psichiche e neurologiche: cognitive, affettive e comunicative.

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Schilder, 1973. Sul punto di vista psicomotorio in merito cfr., tra i tanti contributi, altri classici come A. Lapierre, B. Aucouturier (1980), Il corpo e l’inconscio in educazione e terapia, Armando, Roma 1982 e, degli stessi autori (1982), Fantasmatica corporale e pratica psicomotoria, Sperling & Kupper, Milano 1984; B. Aucouturier, La pratica psicomotoria. Rieducazione e terapia, Armando, Roma 1992; J. Le Boulch, Educare con il movimento, Armando, Roma, 1982.

I. Riflessione teorica


3. Pedagogia speciale e Disturbi neuromotori

La pedagogia e la didattica speciale si sono occupate poco delle Paralisi Cerebrali Infantili se confrontiamo l’interesse e le produzioni scientifiche relative, invece, ad altre sindromi e disabilità, come i Disturbi dello Spettro autistico o quelli intellettivi. In parte dipende dall’idea che in questo caso vi sia una prevalenza di funzioni osservative, interpretative e terapeutiche ascrivibili solo a specialisti di natura sanitaria (il neuropsichiatra, il fisiatra, il terapista della neuro-motricità) e dunque sussiste il timore di invadere campi di sapere e di pratiche propri di altre figure. In altra misura, forse, agisce anche l’inquietudine e il disorientamento che suscitano le persone che vivono disabilità di questa natura, che fin dalla nascita appaiono difficili da comprendere dal punto di vista del dialogo tonico e dell’espressività psico-motoria. Questi bambini e adolescenti appaiono rigidi, quando definiti dal tono della spasticità, preda di riflessi arcaici che risultano di ostacolo rispetto alla normale motricità e, per di più, anche alla sua valenza espressiva e comunicativa. Li percepiamo come estremamente fragili, quasi al contatto con il loro corpo potessimo danneggiarlo, quasi le loro ossa potessero incrinarsi o spezzarsi anche solo per un semplice abbraccio. Ci si sente goffi e inesperti, impotenti e quasi paralizzati anche noi nell’avvicinarci a loro. Ci manca quella parte spontanea di dialogo corporeo, legata al tono muscolare e alle sue infinite modulazioni, che declina il contatto con il bambino piccolo e poi, per tutta la vita, l’autenticità dei messaggi più intimi. Se tremano e sobbalzano alzando gli arti e aprendo la bocca in una sorta di smorfia caratteristica, ma che non sappiamo interpretare, ci sentiamo bloccati fin dalle basi della relazione, quelle preverbali. Ecco che può accadere che venga delegata ogni scelta che li riguardi al medico o a un tecnico della motricità rischiando di cadere, involontariamente, nella trappola della coartata divisione corpo-mente. Certamente occorre ricordare che l’educatore o il docente non sono terapisti né medici ed è molto importante che non si generino confusioni o scambi di ruoli e di pratiche tra le diverse figure. Talvolta, però, questa necessaria differenza di ruoli, di obiettivi e metodologie, finisce per tradursi in un’eccessiva delimitazione di campo che non prevede la comunicazione e la sinergia di intenti generali tra i due territori, quello educativo, pedagogico e didattico e quello riabilitativo in senso stretto. Bisognerebbe, invece, che le figure con formazione e funzioni educative fossero rese partecipi almeno del senso del percorso riabilitativo pensato dai professionisti del settore per ogni persona con PCI e che lo comprendessero in modo da suggerire possibili elementi di arricchimento legati alla conoscenza del modo di pensare o sentire di quella persona, ai suoi interessi, alle sue emozioni e al suo contesto di vita. Negli ultimi anni, del resto, in ambito scientifico si tende sempre più a rivalutare il ruolo del contesto e degli strumenti perché in questo modo è più facile considerare la persona globalmente e non solo nelle sue singole competenze o disabilità. È importante, per esempio, che ciò che viene appreso in sede di terapia o anche a scuola venga trasferito nel territorio di vita e che ci si preoccupi degli stimoli, delle finalità preposte all’atto motorio anziché affidarsi a esercizi seriali e pesanti, legati solamente alla riproposizione corretta di un’azione motoria. I problemi legati alla riabilitazione neuromotoria in senso stretto sono complessi e variegati e non sarebbe opportuno trattarli in questa sede. Basti solo rianno VI | n. 1 | 2018

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cordare ancora una volta che ormai appare scientificamente valido solo uno sguardo di tipo sistemico relativamente allo sviluppo del Sistema Nervoso Centrale che è complesso e perciò non organizzato in senso gerarchico rispetto alle funzioni, ma reticolarmente, dato che ogni funzione ne influenza altre che a propria volta la influenzano (Maturana, Varela, 1995). Secondo questa ottica lo stesso trattamento motorio risulta più efficace se è capace di integrare l’apporto psicopedagogico ed educativo. In base allo sguardo della pedagogia speciale, infatti, il progetto riabilitativo deve essere sì, valido in senso scientifico-tecnico, ma anche in senso educativo e dunque deve essere nello stesso tempo flessibile, plastico e adattabile alla specificità della singola persona per la quale è pensato e alle sue trasformazioni evolutive, in avanti o all’indietro. La persona, poi, deve essere coinvolta attivamente perché l’apprendimento, anche quello motorio, non si verifica per mera imitazione, ma solo con il suo preciso accordo e perciò tutti i metodi vecchi e nuovi, basati sulla mobilizzazione passiva, oltre a determinare scarsi risultati tecnici, rendono ancora meno autonomo chi è al centro del progetto di cura. Un progetto riabilitativo ed educativo che riguardi aspetti motori non può prescindere dalla considerazione relativa al livello intellettivo, perché l’apprendimento di un’azione motoria non è solo un comportamento, ma implica un progetto mentale a partire dalla capacità di immaginarlo nelle sue sequenze. Viceversa, un buon progetto educativo e di riabilitazione motoria rafforza indirettamente funzioni quali l’intelligenza, la memoria e l’attenzione e per questo, oltre ai momenti specifici di stimolazione, si realizza in tutti gli ambiti di vita della persona e nella sua quotidianità. Una persona con PCI è infatti motivata all’apprendimento motorio solo se è funzionale a un miglioramento delle sue modalità relazionali e non se fine a se stesso o semplicemnete corretto in senso astratto. In ogni apprendimento – e quello motorio non fa eccezione – ciò che funge da stimolo è il bisogno adattivo rispetto all’ambiente che determina motivazione e dunque il bambino con una Paralisi Cerebrale Infantile, che mostra come più compromesso l’aspetto esecutivo del movimento, deve essere incoraggiato proprio e prioritariamente nell’intenzionalità, nell’aspetto soggettivo legato al desiderio che determina l’azione e dal quale discende, poi, l’esecuzione di tale azione stessa. La persona con PCI presenta quasi sempre una serie di disturbi associati che ne pregiudicano l’autonomia, compresa quella desiderante che genererebbe la motivazione a muoversi, sopportando eventuali fatiche e persino, quando siano presenti, elementi di dolorosità fisica. Si tratta, innanzitutto, di aspetti percettivi, ma a essi si accompagnano anche quelli di carattere espressivo e comunicativo che rendono difficoltosa l’interazione. La persona appare, così, difficile da decifrare nei suoi bisogni e in quello che vuole comunicare. Lo sguardo, per esempio, può essere reso inespressivo dallo strabismo o dal nistagmo, il movimento involontario verticale o orizzontale dell’iride. Il movimento generale scarso o pressoché assente e la mimica, caratterizzata da smorfie involontarie e aspecifiche, fanno da sottofondo alle difficoltà articolatorie che rendono difficilmente comprensibile, quando sia presente, il linguaggio verbale. Per tutto ciò l’interlocutore si trova stretto tra opposte tensioni di fuga o di eccessiva identificazione che come conseguenza rafforzano la natura simbiotica della relazionalità spontanea di questi soggetti, sia ritenendola inevitabile e dunque incoraggiandola come tale, sia spingendoli a non uscire dall’alveo protetto della diade-madre bambino. I. Riflessione teorica


La madre tende a prolungare all’infinito l’atteggiamento che Winnicott aveva denominato “preoccupazione materna primaria” e in base al quale mette temporaneamente da parte molte delle proprie esigenze di realizzazione come persona o all’interno della coppia di fronte ai bisogni del neonato, ma solo nei suoi primissimi mesi o anni di vita. Questo alveo confusionale di natura protettiva, prolungato più a lungo del dovuto, genera una strutturazione anomala di tutti i rapporti che il bambino con PCI stabilisce e ne ostacola il processo di autonomizzazione legato all’individuazioneseparazione che anticipa e rende possibile la nascita della vita psichica (Winnicott, 1975). Il bambino, quindi, non è in grado di attraversare la separazione fisica e per questo può assumere atteggiamenti estremamente richiestivi, mostrandosi ipersensibile e facilmente irritabile. La tendenza a prevenire i suoi desideri, anticipandone la soddisfazione prima che egli abbia anche minimamente tentato di comunicarli, lo rende ulteriormente passivo. La comunicazione di carattere empatico, da elemento che facilita l’interazione, finisce così, paradossalmente, per diventare un ostacolo che incrementa la condizione di dipendenza. In questo senso, di fronte alle gravi alterazioni dell’identità e della percezione del sé corporeo che caratterizzano i soggetti affetti da Paralisi Cerebrali Infantili, la pedagogia speciale può avere un’ulteriore funzione specifica, non tanto terapeutica in senso stretto, quanto formativa e interpretativa per gli operatori che svolgono compiti educativi o di riabilitazione. Gli strumenti ermeneutici che in questo caso è in grado di fornire riguardano la nascita dello psichismo e lo strutturarsi della relazione d’oggetto. Essi sono necessari, in un’ottica interdisciplinare, per predisporre un setting rieducativo condiviso dai diversi operatori e dalle molte figure professionali insieme a quelle di natura educativa e affettiva, genitori compresi. Nella pratica quotidiana, invece, si assiste spesso a una spartizione rigida di stili educativi e di competenze che vede contrapporsi un setting forte deputato alla riabilitazione in senso tecnico e medico e uno debole di tipo educativo che accomuna familiari e docenti. Il primo rischia, così, di risultare inefficace in quanto troppo contrastante con la sensibilità soggettiva del paziente, il secondo poco stimolante in quanto teso per lo più a proteggere e consolare. Il bambino finisce per sentirsi confuso e disorientato, ma anche abbandonato a se stesso, senza quell’alone dato dell’essere sognato nelle sue potenzialità evolutive, dalla speranza di una trasformazione possibile che mette in moto volontà e desiderio di cambiamento. Purtroppo mai, come nel caso delle PCI, si può generare negli adulti con funzione educativa e di cura un atteggiamento pressante e richiestivo. Una serie innumerevole di persone, di tecnici, medici del pubblico o del privato, si affollano e sollecitano nel bambino, unitamente ai genitori o agli insegnanti, prestazioni faticose, spesso dolorose, continue, pressanti, senza che lui ne capisca il senso o gli eventuali risultati. A volte le loro richieste sono anche incoerenti e confuse, spessissimo velleitarie e indipendenti dalla conquista di un’autonomia adattiva. Il bambino e l’adolescente con PCI può allora sentirsi schiacciato e incompreso e la sua motivazione ad apprendere, dal punto di vista motorio e in senso ampio, può scemare con il tempo e con la rassegnazione a essere un corpo per altri, manipolato, involontariamente, come un oggetto.

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Nessuno se ne accorgerà, all’inizio. Qualcuno, forse, lo sospetterà dopo qualche anno, notando strani malumori, strane fughe verbali dalla realtà, strani comportamenti aggressivi, strane perdite di motivazione, strani pianti immotivati, o anche strane forme di remissione e di obbedienza totale. In quest’ultimo caso, se la remissione e l’obbedienza avranno preso il sopravvento su ogni tentativo di protesta, vorrà dire che il bambino ha ormai avuto la peggio e che in un determinato momento della sua vita, per potersi difendere, ha rinunciato a costruirsi una propria personalità e ha preferito assumere un falso Sé, pronto a incorporare ogni parola e ogni desiderio degli altri; ha deciso che no, non valeva più la pena di combattere contro i troppi nemici confusi tra la folla (Galanti, Sales, 2017, pp. 140-141).

Rassegnarsi, come Mateusz nel film, a essere considerato il non proprietario del proprio corpo, un corpo appaltato ad altri, conteso, responsabile della solitudine affettiva o apprenditiva diventa, spesso, il destino segnato di questi bambini e ragazzi.

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Oppure la strana fuga dalla realtà sarà divenuta un atteggiamento consolidato, il delirio una modalità di pensiero abituale e confortevole, il distacco dalla relazione un porto sicuro, da cui non salpare mai più. Chi scrive ha avuto modo, nel corso della propria carriera prevalentemente spesa nel servizio pubblico territoriale, di osservarne molti, troppi di questi bambini amabili e gentili, che sono in fretta divenuti adolescenti tristi, o rabbiosi, o svuotati dei propri pensieri e poi, quasi senza accorgersene, adulti non cresciuti, cristallizzati nella loro tristezza, nella loro rabbia, o nella loro mente perduta. Era possibile una traiettoria di sviluppo diversa per questi bambini, adolescenti, adulti? (Galanti, Sales, 2017, p. 141).

Era possibile una strada diversa, e lo sarebbe sempre, per tutti i bambini e gli adolescenti affetti da disturbi neuro-motori, se la voce della pedagogia speciale avesse uno spazio maggiore nel dialogo interdisciplinare attorno alla loro condizione e al fatto che fin dai primordi dell’esistenza, fuori dalla situazione acquatica e protetta dell’utero materno, vivono un’esperienza ridotta dell’adattamento al mondo, le cui afferenze giungono loro troppo mediate e indirette. Una madre che tiene in braccio il suo bambino piccolo gli comunica attraverso il dialogo tonico la propria disponibilità nell’accoglierlo, contenerlo e consolarlo, ma anche l’incoraggiamento all’esplorazione del mondo. Il bambino muove le braccia e le mani, carezza in qualche goffo modo il seno o il collo della madre china su di lui per allattarlo, ne afferra una ciocca di capelli, risponde attivamente alla sua sollecitudine con lo sguardo e con il sorriso o ancora con il gioioso ciangottio che precede la lallazione. Nel caso dei bambini in condizione di disabilità neuro-motoria, invece, tutto questo può non accadere ed essi diventano una cosa sola con le mani di chi li manipola, fin dal primitivo abbraccio della madre che non possono, però, ricambiare. Essi non riescono a sperimentare quel momento esaltante nel quale il bambino piccolo si sente il mago creatore e onnipotente di ogni cosa, come di fronte alla magia misteriosa di un oggetto che scompare e riappare nel suo campo percettivo. Nell’occuparci di persone con danni neuro-motori precoci dovremmo sempre tenere presente che probabilmente non è stato loro concesso di vivere pienaI. Riflessione teorica


mente un’esperienza educativa importante e primaria. Si tratta di quella che secondo Winnicott ci è resa possibile, nei primi mesi della nascita, dalla madre che ci presenta il mondo, indicando oggetti e persone, facendoci percepire superfici lisce o pelose, dure o morbide, calde o fredde così che “vedere” e “toccare” significhino creare un mondo di affetti e di significati (Winnicott, 1958).

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MARIA ANTONELLA GALANTI

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I. Riflessione teorica


Linguaggi, conoscenza e advocacy nella giovane Helen Keller

The article presents, through the analysis of direct sources – some works, letters and speeches by Helen Keller – the development of metacognitive activity in the young years of the writer. It is presented how the lack of functioning of the sense organs, seen and heard, required in her the modification of communication skills and the acquisition of other languages, the manual alphabet, Braille and vocal development obtained with great exercise. These alternative languages have become Helen’s vehicles for thought. At the same time, knowledge has acted as a vector of freedom and social empowerment, particularly for the advocacy of blind people.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: Helen Keller, deaf-blind, language, knowledge, advocacy

I. Riflessione teorica

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Tamara Zappaterra (Università degli Studi di Firenze, tamara.zappaterra@unifi.it)

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Hands, understanding hands, Hands that caress like delict green leaves, Hands, eager hands Hands that gather knowledge from great books, Braille books Hands that fill empty space with livable things, Hands so quiet, folded on a book Hands forgetful of words they have read all night, Hands asleep on the open page, Strong hands that sow and reap thought, Hands tremulous and ecstatic listening to music, Hands keeping the rhythm of song and dance. (A. Sullivan, Frammento, in H. Keller, 1956).

1. I linguaggi come veicolo del pensiero

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La storia di Helen Keller, donna sordocieca, scrittrice, attivista politica e suffragetta è nota al grande pubblico grazie alla trasposizione cinematografica in Anna dei Miracoli (The Miracle Worker, di Arthur Penn, 1962). Il film, divenuto un classico del pensiero pedagogico, esprime solo una piccola parte della vita di Helen, terminando con la scena topica in cui la ragazzina assume la possibilità di comunicare comprendendo che le cose, le persone e ogni prodotto della mente umana ha un nome che può essere veicolato da un codice comunicativo, da una qualche forma di linguaggio. Tuttavia, la vita di Helen ha mostrato tutta la sua straordinarietà nel prosieguo e, anzi, come lei stessa ebbe a scrivere a proposito del titolo del film in lingua originale, quello non fu affatto un miracolo, ma una conseguenza dell’esercizio delle facoltà mentali (Keller, 1903). Ma andiamo con ordine. Helen Keller nasce a Tuscumbia, una cittadina dell’Alabama, il 27 giugno 1880, figlia di un ex capitano delle forze confederate ed editore del giornale North Alabamian, tale Arthur H. Keller e della giovane moglie Kate Adams. All’età di 19 mesi ebbe una malattia non ben definita - congestione acuta dello stomaco e del cervello disse il medico – con febbre molto alta, in seguito alla quale perse irrimediabilmente la vista e l’udito. La vita della bambina sarebbe stata a quell’epoca votata al silenzio e all’oscurità se ella non avesse avuto due fortune. Da un lato la madre Kate aveva letto America di Charles Dickens, nel quale lo scrittore narrava i progressi di una ragazzina sordocieca, Laura Bridgman, che aveva ricevuto un’istruzione dal dottor Samuel Gridley Howe all’Istituto Perkins vicino a Boston, l’attuale Perkins School for the Blind. La scuola è ancor oggi una punta di diamante nell’educazione alle persone con disturbo visivo. L’esperienza del dottor Howe la faceva sperare che un metodo per educare i ragazzi sordociechi fosse ancora in vigore presso l’Istituto. Dall’altro lato, nel tentativo di curare e istruire Helen, la famiglia, rivoltasi al medico J. Julian Chisholm di Baltimora, venne da questi indirizzata verso Alexander Graham Bell, il famoso inventore e scienziato, i cui studi annoveravano anche l’elocuzione e il linguaggio, probabilmente influenzati da elementi autobiografici (sia la madre che la moglie avevano problemi di udito). Bell consigliò al padre di Helen di rivolgersi al dott. Anagnos, direttore dell’Istituto Perkins, per chiedergli se avesse un’insegnante competente nell’educazione dei sordociechi.

I. Riflessione teorica


L’insegnante fu trovata ed era Anne Sullivan, una giovane al suo primo incarico che aveva avuto durante l’infanzia difficoltà visive. L’incontro con Miss Sullivan - e l’esperienza educativa che ne conseguì – verranno rammentati da Helen come un fatto epocale nella sua esistenza, in grado di aprirle la via della conoscenza attraverso la comunicazione con il consorzio umano: Fu in questo modo che scappai dall’Egitto ed ergendomi di fronte al Sinai una forza divina toccò il mio spirito dandomi la vista, così da poter mirare molte meraviglie. E dalla montagna sacra udii una voce che diceva: “Conoscenza è amore e luce e visione” (Keller, 1903, p. 14).

La giovane Miss Sullivan nella casa di Tuscumbia insegnò ad Helen a comunicare con un alfabeto manuale di ideazione di monaci trappisti spagnoli. Compitava sulla mano della bambina le lettere corrispondenti alle parole. All’inizio Helen ripeteva quei gesti, inconsapevole che si trattasse di sequenze motorie significanti oggetti o persone o azioni, inconsapevole dell’esistenza delle parole a significare qualsiasi elemento della realtà fenomenica e non fenomenica. Fino al momento in cui alla fontana, con una mano sotto il getto dell’acqua fresca e con l’altra a percepire lo spelling manuale della parola ‘acqua’ compitata dalla Sullivan, Helen sentì il brivido di un pensiero dimenticato che ritornava, rivelandole il mistero del linguaggio: ogni cosa aveva un nome e ogni nome dava vita ad un nuovo pensiero (Keller, 1903, p. 16). Qui il film sulla vita di Helen Keller termina, ma gli eventi straordinari nella sua esperienza educativa e umana dovevano ancora venire. Helen era desiderosa di apprendere e di comunicare in maniera adeguata in ogni contesto e ben presto i segni che aveva appreso non le bastavano più. Ciò provocava in lei un senso di grande frustrazione: I pochi segni che conoscevo diventavano sempre meno adeguati e i fallimenti che derivavano dall’impossibilità di farmi capire erano invariabilmente seguiti da eccessi di rabbia (Keller, 1903, p. 12).

Era come se l’assenza di una comunicazione appropriata ai vari contesti – sia pure gestuale e mediata dall’insegnante – fosse ancora troppo grossolana rispetto alle potenzialità dell’allieva e come se la giovane Helen avesse una consapevolezza di ciò, dal momento che ella andava cercando nella via comunicativa del linguaggio non solo un amplificatore delle sue conoscenze, ma anche un regolatore emotivo. A tal proposito è noto nella letteratura sui casi di bambini sordi che l’incapacità di comunicare con il mondo esterno attraverso un codice condiviso possa portare tali bambini ad assumere comportamenti che appaiono decontestualizzati e ambivalenti, perchè scelgono l’agito non potendo scegliere il pensiero. Trisciuzzi, narrando uno di questi casi, definisce il comportamento della ragazzina sorda, Lisa, un comportamento ‘imperfetto’ (Trisciuzzi, 1995). Anche quello della giovane Helen può definirsi un comportamento imperfetto, nel suo caso non perchè il codice comunicativo non sia condiviso, anche se lo è all’inizio solo per la sua parte ricettiva, ma perché ad un certo punto non è più in grado di attagliarsi alla complessità e alla varietà delle situazioni. Poanno VI | n. 1 | 2018

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tremmo in questo senso applicare le ipotesi di Bernstein sulle relazioni tra educazione e linguaggio, dicendo che Helen, pur privata nella prima infanzia di vista e udito, ebbe una socializzazione indubbiamente speciale, ma non certamente povera, ancora in età infantile (Bernstein, 1971). Contribuirono infatti all’elaborazione delle sue capacità comunicative non solo l’alfabeto manuale pazientemente compitato sulla sua mano da Anne Sullivan, ma più tardi l’acquisizione vocale e il codice Braille che le aprirono le porte a studi letterari, storici e filosofici di livello universitario. Sulle differenze educative nella comunicazione di sordi e udenti la stessa Helen riflettè in età più matura: I bambini udenti acquisiscono il linguaggio senza particolare sforzo, raccolgono nel vento le parole che cadono dalle labbra altrui così come sono, con gioia, mentre i bambini sordi devono agguantarle attraverso un processo lento e spesso doloroso. Ma qualunque sia il processo, il risultato è meraviglioso. Gradualmente, dopo aver dato un nome ad un oggetto, procediamo passo dopo passo fino a colmare la vasta distanza tra la prima sillaba balbettata e l’agevolezza di un verso di Shakespeare (Keller, 1903, p. 21).

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Come rileva Trisciuzzi, infatti si apprende a parlare quando sussistono tre condizioni: l’aspetto neurologico, quello intellettivo e quello sociale (Trisciuzzi, 1998). L’aspetto neurologico si lega tanto alla maturazione del sistema fonatorio, quanto alla capacità discriminatoria dell’udito. È necessario che sussistano e si organizzino, maturandosi, sia il sistema di regolazione uditivo fonatorio, sia i centri nervosi geneticamente specializzati. È l’udito, difatti, che regola la voce. L’aspetto intellettivo comprende sia la formazione del pensiero simbolico sia quella dell’immagine mentale. Il soggetto che parla e quello che ascolta devono avere sviluppata la capacità di rappresentarsi mentalmente ciò a cui il termine linguistico si riferisce. A questo tipo di capacità il bambino arriva gradualmente. Ecco come Helen narra questa acquisizione a proposito dell’immagine mentale: Avevo fatto molti errori e Miss Sullivan me li aveva fatti notare ogni volta con molta pazienza. Finalmente mi accorsi di un errore ovvio nella sequenza e per un istante concentrai tutta la mia attenzione sulla lezione e provai a pensare a come avrei dovuto organizzare le perle. Miss Sullivan mi toccò la fornte e compito con enfasi: “pensare”. In un istante realizzai che quella parola era il nome del processo che accadeva nella mia mente. Questa fu la prima percezione cosciente di un’idea astratta (Keller, 1903, p. 22).

Infine, abbiamo detto, vi è un’acquisizione sociale del linguaggio. Questo aspetto concerne propriamente il linguaggio come strumento di comunicazione che permette l’interazione sociale tra individui che usano lo stesso codice linguistico, prerogativa dell’essere umano. Esso è una facoltà innata, ma che rimane latente nei casi di sordità e in assenza di un consorzio di parlanti. Si pensi a questo proposito al fatto che i bambini sordi iniziano a balbettare solo al momento dell’inserimento della protesi acustica oppure si pensi al caso notissimo del ‘ragazzo selvaggio dell’Aveyron’, che non aveva sviluppato il linguaggio pur avendo l’organo fonoarticolatorio perfettamente funzionante, in quanto non era vissuto in un contesto interumano (Itard, 1801; Trisciuzzi, 1991).

I. Riflessione teorica


A partire dal 1888 Helen Keller si iscrisse all’Istituto Perkins di Boston e più tardi, sempre con Miss Sullivan che l’accompagnava, si trasferì a New York, dove frequentò la Wright-Humason School for the Deaf. Qui entrò in contatto con Miss Fuller, un incontro che segnerà una ulteriore tappa della evoluzione delle capacità comunicative della giovane Keller. Miss Fuller, Direttrice della Horace Mann School for Deaf, si offrì di insegnare ad Helen a parlare, documentandosi sulla scorta di un’esperienza riportata da una delle insegnanti di Laura Bigdman, la signora Lamson, che durante un viaggio in nord Europa aveva studiato il caso di una ragazza sordocieca norvegese, Ragnhild Kaata, la quale aveva imparato a parlare. Miss Fuller guidava la mano di Helen pazientemente sul suo viso perchè ella potesse cogliere i movimenti del volto, delle labbra e della lingua quando emetteva un suono. Così Helen iniziò gradualmente a parlare e, anche se all’inizio il suo eloquio non era completamente intelligibile se non ad un orecchio allenato, la soddisfazione della ragazza per il rinnovato grado di autonomia nella comunicazione è facile da comprendere: Non dimenticherò mai la sorpresa e la gioia che provai quando pronunciai la prima frase completa: “Fa caldo”. Invero si trattata di sillabe spezzettate e balbettate, ma comunque si trattava di un linguaggio umano. La mia anima, conscia di questo nuovo potere, uscì dalla prigionia, consapevole che attraverso quei simboli incerti stava raggiungendo la conoscenza e la fede tutta (Keller, 1903, p. 43).

A quel punto Helen, dopo anni in cui usufruiva della comunicazione, attraverso un linguaggio mediato, nei suoi aspetti ricettivi soprattutto, ma anche eiettivi, dall’intervento di Anne Sullivan – potè acquisire una completa autonomia nella componente eiettiva, dal momento che la voce è il tramite universale del linguaggio interumano. Non avendo alcun residuo uditivo, Helen dovette fare ricorso alla compitazione manuale come via ricettiva dell’apprendimento per tutto il suo percoso di studi. Volitiva e desiderosa di allargare le sue conoscenze, decise di prepararsi agli studi universitari. Entrò al Radcliffe College nel 1900 dove si laureò cum laude nel 1904 in studi di letteratura tedesca e francese. Fu la prima persona sorda e cieca ad acquisire un Bachelor of Arts degree. La paziente Miss Sullivan per tutto il tempo le aveva compitato le lezioni universitarie sulla mano e il percorso di studi era stato non privo di difficoltà, ma portato avanti con la consapevolezza di essere una studentessa sui generis: La compitazione manuale richiede tempo e fa sorgere delle perplessità che altri non hanno. Ci sono dei giorni in cui l’attenzione maniacale che devo dare ai dettagli mi irrita e il pensiero che io debba trascorrere ore a leggere pochi capitoli, mentre nel mondo esterno altre ragazze stanno ridendo, danzando e cantando, mi rende indisciplinata, ma recupero rapidamente il buon umore e con una risata spazzo via lo sconforto dal cuore. Perchè, dopo tutto, chiunque voglia raggiungere la vera conoscenza deve scalare la Montagna delle Difficoltà per proprio conto e non c’è una via maestra che porti alla vetta, bisogna zigzagare seguendo la propria strada (Keller, 1903, p. 74).

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Le sue riflessioni sui metodi di insegnamento sono degne di nota. Si scaglia contro i tecnicismi, le rigidità di talune metodologie che oscurano la bellezza di discipline come quelle letterarie, il sovraccarico cognitivo richiesto agli studenti, l’apprendimento mnemonico fine a se stesso. Si tratta di riflessioni metodologiche sui processi di insegnamento-apprendimento che hanno avuto spazio nella riflessione pedagogica a livello internazionale solo nel Novecento, di cui la Keller riesce ad essere antesignana, mostrando di andare ben oltre il suo caso particolare: Ma l’Università non è l’Atene universale che credevo che fosse [...] Mi sembra che molti docenti spesso dimentichino che il piacere che ci danno le grandi opere letterarie dipende più dal nostro sentire che dalla nostra comprensione [...] ci sono delle volte in cui vorrei spazzar via metà delle cose che dovrei imparare perchè una mente sovraccarica non può godere dei tesori che ha accumulato con grande fatica. È impossibile, credo, leggere in un solo giorno quattro o cinque libri in lingue differenti che trattano materie molto diverse e non perdere di vista lo scopo ultimo per il quale vengono letti (Keller, 1903, pp. 75-76).

Così si esprime a proposito degli esami universitari:

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I giorni che precedono il calvario vengono passati a stipare la testa di formule mistiche e date indigeste, una dieta repellente che ti fa desiderare che i libri e la scienza vengano inghiottiti dalle profondità degli abissi [...] dobbiamo prendere la nostra istruzione come una passeggiata in campagna, con comodo, con la mente ospitale, aperta alle impressioni di ogni sorta. La conoscenza di questo tipo scorre attraverso l’anima, invisibile, come un’ondata silenziosa della marea, fatta di un pensiero profondo. “Conoscenza è potere”. Piuttosto, direi, conoscenza è gioia, perchè la conoscenza – vasta e profonda – ci permette di distiunguere il vero dal falso, le cose nobili da quelle meschine (Keller, 1903, p. 76).

2. La conoscenza come vettore di libertà e advocacy per le persone cieche

Nel cammino di Helen verso la conoscenza, come è risaputo ebbe un ruolo determinante la sua prima insegnante. Teacher, come sempre Helen chiamò Anne Sullivan, aveva un carattere amabile, ma volto alla malinconia. Impegnava tutto il tempo nell’esercizio delle facoltà mentali della sua allieva, sapeva analizzare le difficoltà con chiarezza adamantina, ingaggiava una serie di discussioni dalle quali usciva sempre vittoriosa, era annoiata dai luoghi comuni. I suoi occhi non vedevano bene, ella stessa aveva avuto difficoltà visive in gioventù, in parte risolte con operazioni chirurgiche. Tuttavia allo spettacolo della natura preferiva l’universo letterario, i libri, in modo particolare di poesia e musica, una passione che trasmise ad Helen. Con il movimento delle sue dita, che compitavano le parole sulle mani di Helen, rendeva ogni parola ‘vibrante’ nella mente dell’allieva, restituendole una identità e riconsegnandola ad un mondo che altrimenti non avrebbe potuto usufruire di lei: I. Riflessione teorica


If Teacher’s eyes has been normal, I am sure she would have reveled in contemplating space, the stars, and planets as a stupendous, even changing spectacle. As it was, she preferred the universe of books – and what a pitifully small portion of it her undependable sight could absorb! Poetry and music were her alliers. In her fingers words rang, rippled, danced, buzzed, and hummed. She made evey word vibrant to my mind – she would not let the silence about me be silent. She kept in my thought the perceptive, audible and another qualities of every object I could touch. She brought me into sensory contact with everything we coul reach or feel – sunlit summer calm, the quivering of soap bubbles in the light, the song of beards, the fury of storms, the noises of insects, the murmur of trees, voices loved or disliked, familiar fireside vibrations, the rustling of silk, the creaking of a door, and the blood pulsing in my veins (Keller, Teacher, 1956, in 2005, p. 246).

Helen aveva mostrato fin da giovane studentessa una predilezione, come la sua insegnante, per gli studi umanistici e in modo particolare per la letteratura, la poesia e la musica. Ebbe l’opportunità di incontrare lo scrittore Mark Twain che la fece conoscere al magnate Henry Huttleston Rogers, il quale decise di finanziare la sua educazione insieme alla moglie Abbie. Ma non fu il solo benefattore di Helen, ve ne furono molti altri, tra cui John Hits, sovrintendente del Volta Bureau di Washington, che procurò ad Helen molti testi di letteratura tedesca e francese, di filosofia e di teologia che le permisero di entrare al College. In una delle tante lettere che Helen scrisse a Hits, la ragazza mostrò di essere consapevole che la sua condizione di sordocieca che accedeva alla cultura era di estremo privilegio e paragona la sua vita a come doveva essere stata quella di Laura Bridgman, ugualmente sordocieca, vissuta solamente pochi decenni prima di lei: Only love, dearest Mr. Hits, can say how deeply grateful I am to you for all that done to help me in my work! The German and French books you orderend for me came last week, and I am more glad than I can say to have the, Yes, my study-room is a perfect little library now, and I fell as proud of it as Boston is of her public library. Never did I dream that I should posses so many precious treasures of English and foreign literature. Poor Laura Bridgman, how narrow and monotonous her life was compared with mine, so rich with blessing – an immense capacity of enjoyment, books, and beloved friends, you among them without whom I could never, never know a moment of happiness (Keller, 1900, Letter to John Hitz, in 2005, p. 23).

Più di tutti predilige i testi classici della letteratura antica, in modo particolare l’Iliade e la Bibbia, ma non disdegna nemmeno la letteratura contemporanea, tant’è che si laureò in letteratura tedesca e francese. Rivendicava un rapporto personale con i testi, non mediato dalla critica letteraria, mostrando anche in questo caso una sua posizione ben precisa in uno dei dibattiti che impegnarono l’Umanesimo di fronte al rapporto con l’antichità e le sue fonti letterarie. I testi antichi la catapultavano in un mondo non più terreno, non più tangibile, quello dell’immaginario e del possibile, dove Helen poteva dimenticare i suoi limiti fisici: Un cuore sensibile non ha bisogno di interpreti per apprezzare la grande poesia, sia essa in greco o in inglese. Possano le orde che rendono la

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grande poesia odiosa, con analisi, imposizioni e commenti laboriosi, imparare questa semplici verità! Non è necessario essere in grado di definire ogni singola parola nella sua morfologia e nella sua posizione nella frase per riuscire a comprendere e apprezzare una bella poesia [...] Quando leggo i passaggi più belli dell’Iliade prendo coscienza di qualcosa di spirituale che mi innalza sopra le circostanze della mia vita, così ristrette e costrittive. Le mie limitazioni fisiche vengono dimenticate, il mio mondo si trasferisce ad un livello superiore, il paradiso in tutta la sua vastità e luminosità e mio! (Keller, 1903, pp. 81-82).

La letteratura diventò per la giovane Helen un rifugio, il mondo ideale, la sua Utopia, dove non vi erano limitazioni dei sensi, dove tutti potevano trovare accoglienza anche nella diversità: La letteratura è la mia Utopia. Lì non sono privata dei miei diritti. Non vi è nessuna barriera dei sensi che mi escluda dal discorrere amabile e generoso dei miei libri. Mi parlano senza imbarazzo né difficoltà. Le cose che ho imparato e che mi sono state insegnate sembrano avere per assurdo scarsa importanza rispetto al loro “immenso amore e carità celeste” (Keller, 1903, p. 86).

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Religiosa fin da bambina, Helen legge la Bibbia integralmente e ne rilegge quelle parti che le danno conforto, non solo in vista di una vita ultraterrena, ma anche per l’assunzione che le cose tangibili e la secolarità umana sono transeunti. È frequente inoltre rilevare nelle sue opere delle descrizioni e delle metafore di origine biblica: Ho iniziato a leggere la Bibbia ancor prima di comprenderla. Oggi mi sembra strano che ci sia stato un tempo in cui il mio spirito era sordo alle sue meravigliose armonie [...] Ma come posso descrivervi le meraviglie che in seguito ho trovato nella Bibbia? Per anni l’ho letta con un senso sempre maggiore di gioia e ispirazione e non c’è libro che ami di più [...] La Bibbia mi dà la sensazione profonda e confortante che “le cose visibili sono passeggere e le cose invisibili eterne” (Keller, 1903, pp. 83-84).

Il suo cammino verso la conoscenza e la formazione si rivolge ben presto alla causa sociale, che Helen espresse a sostegno delle categorie più deboli, le donne, i disabili, i lavoratori. Nei suoi scritti e nei suoi discorsi amava utilizzare oltre alle metafore bibliche, metafore tratte dalla concettualizzazione della disabilità. Nel 1921 fondò l’American Foundation for the Blind, che riuniva l’American Association for the Instruction of the Blind e l’American Association of Workers for the Blind. Si fece portavoce presso le autorità locali e nazionali per il miglioramento delle condizioni lavorative delle persone cieche, auspicando l’aumento del numero di agenzie lavorative a supporto e la creazione di programmi di formazione professionale. Era consapevole che la cecità avesse, oltre che cause intrinseche di carattere fisiologico, anche una natura sociale e che la mancanza di programmi educativi e di miglioramento delle condizioni materiali di vita non potesse che far peggiorare la situazione di tali persone. Sulle cause sociali della cecità scrisse:

I. Riflessione teorica


Our worst foes are ignorance, poverty and the unconscious cruelty of our commercial society [...] To study the diseases and accidents by wich sight is lost, and to learn how the surgeon can prevent or alleviate them, is not enough. We must strive to put an end to the condition which cause the disease and accidents.This case of blindness, the physician says, resulted from ophthalmia. It was really caused by dark, overcrowded room, by the indecent herding together of human beings in insanitary tenements [...] The trouble is that we do not understand the essential relation between poverty and disease (Keller, Speech in Behalf of the Massachusetts Association for Promoting the Interest of the Blind, Boston, February 14, 1911, in 1967, pp. 29-30).

L’auspicio di Helen era lavorare, attraverso la fondazione, per il miglioramento della condizione delle persone cieche in tre ambiti: auspicare una istruzione adeguata per i bambini ciechi, migliorare le condizioni sociali dei ciechi anziani e malati e incentivare l’integrazione lavorativa delle persone con cecità in grado di lavorare. Diventò la voce della loro advocacy, del loro desiderio di autodeterminazione e di rifiuto di una pensione di invalidità come scelta che Helen riteneva degradante. Accolse, quindi, come eredità dell’accesso alla cultura il potere esercitare finalmente quella libertà, di tutti e di ciascuno, solo attraverso la quale si può sperare in una vera democrazia e nell’empowerment sociale delle categorie più deboli: We are marching toward a new freedom. We are learning that freedom is the only safe condition for all human beings, men and women and children. Only through freedom, freedom for all, can we hope for a true democracy [...] A democracy would mean equal opportunity for all. It would mean that every child had a chance to be well born, well fed, well taught and properly started in life. It woul mean that every woman had a voice in the making of the laws under wich she lives. It would mean that all man enjoyed the fruits of thei labor. Such a democracy has never existed. But some of us are waking up. We are finding out what is wrong with the world. We are going to make it right. We are learning that we live by each other, and that the life for each other is the only life worth living. A new light is coming to million who looked for light and found darkness, a life to them who looked for the grave, and were bitter in spirit. We are part of this light. Let us go forth from here shafts of the sun unto shadows. With our hearts let us see, with your hands let us break every chain (Keller, Address at the Sociological Conference, Sagamore Beach, Massachusetts, July 8, 1903, in 1967, p. 53).

Depauperata inizialmente del linguaggio verbale e del funzionamento degli organi di senso, Helen Keller recuperò attraverso linguaggi altri un veicolo al pensiero, che eserciterà per tutta la vita con grande reponsabilità, aumentandone le potenzialità con studio, applicazione e impegno sociale: Besides the advantages of books and of personal experience. I have the advantage of a mind trained to think [...] People do not like to think. If one thinks, one must reach conclusions; and conclusions are not always pleasant. They are a thorn in the spirit. But I consider it a princeless gift and a deep responsability to think (Keller, Justice, Pittsburgh, Pennsylvania, October 25, 1903, p. 55).

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Riferimenti bibliografici Bernstein B. (1971). Class, Codes and Control: Theoretical Studies Towards a Sociology of Language. London: Routledge & Kegan Paul. Bocci F. (2011). Una mirabile avventura. Storia dell’educazione dei disabili da Jean Itard a Giovanni Bollea. Firenze: Le Lettere. Keller H. (2014). Il silenzio delle conchiglie. Roma: Edizioni e/o (ed. orig., The Story of my Life. J.A. Macy, Cambridge, 1903) Keller H. (1967). Helen Keller. Her Socialist Years. Writings and speeches. Edited with an introduction by P. S. Foner. New York: International Publishers. Keller H. (1957). The open door. New York: Doubleday & Company, Inc. (ed. Orig. Y. Thomas, Crowell Company, New York 1926). Keller H. (2005). Selected Writings. Edited by K. E. Nielsen. New York: New York University Press. Kudlinski K.V. (1991). Helen Keller: A Light for the Blind. London: Penguin. Itard J. G. (tr. it. 2007). Il fanciullo selvaggio dell’Aveyron. Roma: Armando (ed. orig., De l’éducation d’un homme sauvage, ou des premiers développemens physiques et moraux du jeune sauvage de l’Aveyron, Goujon fils, Paris, 1801). de Saussure F. (1916). Cours de linguistique générale. Lausanne-Paris: Payot. Trisciuzzi L. (1991). Il mito dell’infanzia. Dall’immaginario collettivo all’immagine scientifica. Napoli: Liguori. Trisciuzzi L. (1995). Elogio dell’educazione. Pisa: ETS. Trisciuzzi L. (1998). Manuale di didattica per l’handicap. Roma-Bari: Laterza. Zappaterra T. (2003). Braille e gli altri. Percorsi storici di didattica speciale. Milano: Unicopli. Zurru A. L. (2016). Helen Keller. La tenacia del volere e l’amore per la vita. In P. Crispiani (ed.), Storia della pedagogia speciale (pp. 342-356). Pisa. ETS.

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I. Riflessione teorica


“Il Tempo e la Storia”. Un libro, un luogo e un film per la Pedagogia Speciale

Key-words: Special Education, Itard, Séguin, San Giovanni in Persiceto, disability

I. Riflessione teorica

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno VI | n. 1 | 2018

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Starting from some suggestions of the television program “Il Tempo e la Storia”, broadcasted by RAI, the author identifies a book, a place and a movie as emblematic elements characterizing the Special Pedagogy. In continuity with previous personal and other scholars’ (Gatto, Canevaro, Trisciuzzi, Crispiani, De Anna, Goussot, d’Alonzo, Pavone, Mura, Galanti, Zappaterra and others’) papers, the author in this article tries to highlight some typical historical events of the education of disabled people, who seldom are included in the History of Education and Pedagogy. In particular, also here emerges what seems to be a peculiarity of Special Pedagogy, that is, bringing out issues related to the education of all (starting from the most vulnerable ones) but often not immediately visible to all (and among these, even those should be insiders).

abstract

Fabio Bocci (Dipartimento di Scienze della Formazione, Università Roma Tre / fabio.bocci@uniroma3.it)

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Premessa

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Massimo Bernardini, autore e conduttore del programma Il Tempo e la Storia, trasmesso sul canale digitale Rai Storia, conclude ogni puntata chiedendo all’ospite – uno dei 14 consulenti scientifici del format1 – di indicare un libro, un luogo e un film capaci di sintetizzare i temi trattati durante la trasmissione e di suggerire un approfondimento anche per i non addetti ai lavori. Prendiamo in prestito tale suggestione per dare voce alla Pedagogia Speciale in un momento in cui sembra, fortunatamente, rivitalizzarsi l’interesse degli studiosi del settore per la dimensione storica di questo modo di essere della Scienza dell’Educazione. Si tratta di una attenzione imprescindibile, per una serie di ragioni che abbiamo già avuto modo di indicare altrove (Bocci, 2011; 2016a; 2016b; 2016c; 2016d) sulla scia di colleghi che con noi hanno condiviso e condividono la passione per lo studio della dimensione storica della Pedagogia Speciale (Gatto, 1977; Canevaro & Gaudreau, 1988; de Anna, 1998; Crispiani, 1998; 2016; Canevaro & Goussot, 2000; Trisciuzzi & Galanti, 2001; Caldin, 2001; Zappaterra, 2003; Gelati, 2004; Goussot, 2005; 2007; 2014; 2016; Trisciuzzi, Fratini & Galanti 2007; d’Alonzo, 2008, Pavone, 2010; Mura, 2016; Magnanini, 2013; Zurru, 2015; Mura & Zurru, 2015). Il presente contributo, dunque, vuole rappresentare un’ideale continuità con questi precedenti nostri e altrui lavori, facendo proprie le modalità di chiusura/apertura del programma Il tempo e la storia. Il libro, il luogo e il film identificati come emblematici per la Pedagogia Speciale sono di fatto dei mediatori culturali in grado di introdurre temi spesso poco conosciuti e (apparentemente) distanti dalle problematiche attuali dell’educazione. Una modalità questa piuttosto significativa nel campo della formazione sia degli studenti (dalla scuola all’università) sia degli insegnanti (anche in servizio). Nel nostro specifico, questa idea è stata sperimentata per introdurre una serie di seminari sia a scuola, con un gruppo di studenti del Liceo delle Scienze Umane di Roma (il Teresa Gullace), sia all’università con studenti di vari corsi di studio oppure impegnati nei corsi di abilitazione e di specializzazione (TFA, PAS, Sostegno, 24 CFU, ecc…).

1. Il libro

Sono naturalmente moltissimi i testi di tutti i tempi che avrebbero diritto di essere qui menzionati come più che degni rappresentanti della Pedagogia Speciale: da La véritable manière d’instruire les sourds et muets dell’abate Charles-Michel de l’Épée (1784) a Pedagogia speciale la riduzione dell’handicap di Andrea Canevaro (1999), per intenderci. 1

Si tratta di nomi illustri del panorama accademico nazionale e internazionale. Nello specifico: Alessandro Barbero, Mauro Canali, Franco Cardini, Isabelle Chabot, Giovanni De Luna, Ernesto Galli Della Loggia, Emilio Gentile, Agostino Giovagnoli, Alberto Melloni, Gilles Pécout, Francesco Perfetti, Giovanni Sabbatucci, Silvia Salvatici, Lucio Villari (cfr. <http://www.raistoria.rai.it/tempostoria-archivio/default.aspx>).

I. Riflessione teorica


Dovendo operare una scelta (sempre soggettiva, comunque limitata e opinabile), ci è parso che tra i tanti volumi a disposizione potesse trovare ampio accordo la decisione di focalizzare l’attenzione su Traitement moral, hygiène et éducation des idiots et des autres enfants arriérés, opera imponente e importante pubblicata nel 1846 da Edouard Séguin. Le ragioni della scelta sono molteplici. Partiamo col dire che il Trattato di Edouard Séguin fin dalla sua scoperta in Italia2 ha influito sul nascente movimento dei medici pedagogisti nostrani, i quali, di fatto, sulla scia di quanto avveniva all’epoca altrove nel Mondo, hanno aperto la via italiana all’inclusione. La testimonianza diretta di Maria Montessori è in tal senso preziosissima: «bastò che Séguin, nel 1831, scoprisse come l’idiota non è incapace di apprendere, ma solo non arriva a seguire i mezzi comuni di educazione; e che egli svolgesse un nuovo programma per l’educazione degli idioti affinché contemporaneamente in Francia, in Isvizzera e in Germania sorgessero altri istituti adatti alla riabilitazione dei fanciulli deficienti. La gloriosa opera così inaugurata nel 1842 fu subito seguita dall’Inghilterra e dall’America, e poi quasi tutta Europa, fin nella più nordica Scandinavia, vi si associò rapidamente (Montessori, 1898, pp. 147-148). Vedremo nel paragrafo successivo, dedicato al luogo da noi prescelto come elettivo per rappresentare la Pedagogia Speciale, quale mirabile esito abbia portato questo vento di novità.

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L’opera è stata per la prima volta tradotta in italiano da Maria Montessori, alla quale si deve la conoscenza di Séguin nel nostro Paese. Montessori, com’è noto, entra in contatto con il Trattato di Séguin nel suo soggiorno di studi presso gli istituti di Bicêtre e Salpêtriere grazie a Désiré-Magloire Bourneville che lo aveva conservato nonostante l’autore fosse decisamente stato osteggiato in Francia e costretto a espatriare negli Stati Uniti. Successivamente, nel 1970, grazie a Giovanni Bollea è stata pubblicata la versione che tutt’oggi abbiamo a disposizione.

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Qui ci basti dire, ed è un tutto dire, che probabilmente non ci sarebbe la Montessori come abbiamo potuto conoscerla se la studiosa non avesse incontrato Séguin3. Affermazione probabilmente audace, ma che trova molti riscontri nelle pagine del Trattato, a partire da questa riflessione dello studioso francese, tra le più note e citate: «Se tutti i metodi che ho passato in rassegna mi son sembrati adatti per i bambini normali, o meglio, se lo sviluppo intellettuale dei bambini normali li rende eccellenti, con gli idioti essi perdevano il loro prestigio man mano che ne provavo l’applicazione; nessuno teneva sufficiente conto delle anomalie psicologiche e fisiologiche d cui l’individuo umano è suscettibile, perché me ne potessi contentare; procedendo così sempre per eliminazione, man mano che andavo avanti nell’esame critico dei metodi, mi sono ritrovato non soltanto isolato nel mio tentativo di cura degli idioti, ma anche nel lavoro di pedagogia generale che ero costretto a formulare ogni giorno con maggior precisione» (Séguin 1970, p. 30). Una riflessione che porta Canevaro ad affermare come una buona Pedagogia Speciale sia sempre parte di una buona Pedagogia Generale e di come siano i problemi posti all’educazione da bambini/e e ragazze/i con difficoltà di apprendimento a mettere alla prova e a verificare «la validità o meno dell’educazione generale» (Canevaro, 1988, p. 95). Una questione evidentemente molto cara a Maria Montessori, la quale, sappiamo bene, l’ha fatta propria applicandola inizialmente nella sua azione pedagogica con i bambini deficienti4 per poi amplificarla mediante il suo metodo pensato per tutti gli alunni. Anche Giovanni Bollea, nel momento in cui è chiamato a introdurre l’edizione italiana del Trattato, pone in evidenza il filo conduttore che partendo da Itard (anzi addirittura da Pereire) giunge al modello italiano dell’epoca (come detto siamo agli albori degli anni Settanta) grazie al passaggio Séguin-Montessori. Scrive Bollea: «se cerchiamo di intravedere, rapidamente, l’evoluzione dei concetti scientifici e dell’impostazione pedagogica sull’insufficienza mentale negli ultimi due secoli, noi possiamo considerare due linee evolutive. La prima che va da Esquirol a Bourneville, Doll, in parte Sante De Sanctis, sino alla psichiatria classica attuale. Un’altra che da Pereire, Itard, Séguin, Montessori, Lewis, va sino ad alcune scuole moderne fra cui la nostra. La prima linea evolutiva partendo dal concetto di Esquirol dell’insufficienza mentale, come uno stato irreversibile, giunge a quello di addestramento di Bourneville, di educabilità di De Sanctis fino a quello di socializzazione della scuola di Wineland (Doll). La seconda linea partendo dal concetto dell’insufficienza mentale come malattia o disarmonia strumentale e perciò teoricamente recuperabile, giunge, attraverso la psicologia sensista di Pereire, Itard a quella funzionalefisiologica di Séguin e poi attraverso la Montessori, Lewis, a quella causale e motivazionale nostra» (Bollea, 1970, pp. 7-8). 3 4

La qual cosa la studiosa di Chiaravalle non ha mai mancato di evidenziare. Su tutti si veda La scoperta del bambino (1950). Scrive in proposito Montessori in riferimento allo stupore dinanzi a esiti ritenuti impossibili: «Questi effetti meravigliosi avevano quasi del miracolo, per coloro che li osservavano. Ma per me, i ragazzi del manicomio raggiungevano quelli normali agli esami pubblici, solo perché guidati lungo una via diversa. Essi erano stati aiutati nello sviluppo psichico...» (Montessori, 1950. Edizione consultata 1999, p. 29). Sui questo aspetto si vedano certamente anche Tornar (1990) e Chiappetta Cajola (2016).

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Lo stesso Bollea, inoltre, tributa Séguin, e la sua opera, come espressioni straordinarie del pensiero sull’educazione. In modo particolare laddove asserisce – non lesinando attestazioni del proprio entusiasmo per la riscoperta di questo grande educatore – che «Séguin è stato veramente grande non solo per quel che ha fatto, ma per quello che ha saputo intravedere, e come tutti i grandi era perfettamente cosciente del “nuovo che affermava” […]. Vi sono brani del libro di Séguin che tradotti in lingua moderna sono di una attualità concettuale ed espressiva veramente eccezionale» (Bollea, 1970, p. 10). E conclude, a ulteriore prova di quanto da noi affermato precedentemente sul connubio Séguin-Montessori: «Questo entusiasmo, che spero anche parecchi di voi proveranno nel leggere il libro, settant’anni fa lo ha ugualmente sentito la grande Montessori» (Ibidem). Ma quali sono questi elementi di straordinaria attualità ieri (ossia negli anni Settanta) come oggi? Abbiamo già avuto modo altrove (Bocci, 2011) sulla scorta delle riflessioni di studiosi quali Canevaro, Gaudreau, Goussot, de Anna, Gaspari, Mura e Zurru e altri, di evidenziarli collocandoli, come del resto è d’uopo fare, all’interno di un discorso più ampio sulla Pedagogia Speciale. Qui li sintetizziamo ancora per punti, aggiungendo poi qualcosa per concludere. Punto primo: la necessità di partire dai punti di forza (vigotskianamente ciò che è presente sia come potestas sia come potentia) e non dalle mancanze. Oggi, ci verrebbe da dire con un lessico congeniale ai nostri giorni, è evidente che Séguin aveva ben chiara la differenza tra impairment e disability5. Punto secondo: la socializzazione. L’apprendimento avviene nel contesto sociale e non nell’isolamento, avviene in mezzo agli altri e per tramite degli altri. Punto terzo: l’importanza della dimensione ludica dell’apprendimento. Se si considera la passione e l’attenzione di Séguin per le tecnologie6, non ci sembra un’eresia (o forse lo è, ma probabilmente nessuno come Séguin merita un trattamento eretico) affermare che oggi avrebbe apprezzato l’approccio tecnologico ludiforme della didattica mediata dalla cultura pop dei videogame, delle App, delle piattaforme di video sharing, ecc… (si pensi alla lezione rovesciata, agli Episodi di Apprendimento Situati, ecc...). Punto quarto: l’autonomia del soggetto. Come rileva Canevaro, vestirsi, lavarsi, mangiare, cucinare, lavorare, usare le nuove tecnologie, e così via sono tutte azioni che hanno una valenza educativa e sociale di grande rilievo. Sono un sistema complesso e articolato di mediatori e di organizzatori, in grado di «fornire un’ampia possibilità di strutturazione del tempo e dello spazio secondo il modo originale per ciascuno di costituirsi come soggetto di relazione con l’apprendimento» (Canevaro, 1988, pp. 104-105). Punto quinto: l’identità della persona come esito di un processo sociale/di socializzazione che va inquadrato nell’ottica del rapporto dialettico individuocontesto/istituzione. È ancora Canevaro, a partire dalla prospettiva della peda5 6

Rimandiamo il lettore al noto passo del Trattato che ha per incipit: «Magari l’idiozia fosse soltanto come l’ingrata natura l’ha fatta!...» (pp. 149-151 ed. 1970). Sappiamo, ad esempio, che ormai stabilitosi negli Stati Uniti Séguin auspicava che gli idioti potessero utilizzare il telefono il cui brevetto, com’è noto, era stato depositato nel 1876.

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gogia istituzionale (Vasques & Oury, 1975; Canevaro, Lippi & Zanelli,1988), a fornirci le chiavi di analisi di questa ulteriore intuizione di Séguin. Intuizione (intuizioni ad onore del vero, perché a quella originaria di Séguin si aggiunge quella della lettura operata da Canevaro) che, a nostro avviso, anche alla luce dell’attuale dibattito sull’inclusione, sui suoi modelli interpretativi e, di conseguenza, sulle politiche inclusive che ne derivano, si offre/ono come attualissima/e, anzi cogente/i (AA.VV., 2018). Séguin, infatti, ci dice Canevaro, ha colto (anticipando Foucault, aggiungiamo) e, soprattutto, denunciato con decisione quale azione di cancellazione dell’originalità dell’individuo sia «messa in atto dall’istituzione quando è repressiva e coercitiva» (Canevaro, 1988, p.105). Al contempo, però, ha anche compreso come si possa far leva «sulle risorse del contesto istituzionale per realizzare un buon progetto educativo» (ivi, p. 111). Una prospettiva questa che trova applicazione da un lato, nel solco della tradizione dell’analisi istituzionale (Lapassade, 1974; Hess, Weígland, 2008) nel concetto di autogestione pedagogica (Lapassade, 1973; Gueli, 2018) e, dall’altro, nelle suggestioni e implicazioni derivanti dal modello sociale della disabilità, ad esempio con l’azione all’interno delle istituzioni scolastiche che si può attuare mediante l’Index per l’inclusione (Booth & Ainscow; 2014; Demo, 2017; Dovigo, 2017). Possiamo ben dire che Séguin ha saputo guardare con fare critico alle questioni del proprio tempo, problematizzandole in modo inedito: e non solo per i non addetti ai lavori ma anche per molti dei colleghi a lui coevi (vedi la polemica con Esquirol e con Voisin). Un modo di fare che è tipico della Pedagogia Speciale, la quale si caratterizza per la capacità di guardare oltre, al di là o, forse, in maniera più accurata dentro determinati fenomeni. In ragione di ciò, concludiamo aggiungendo ancora qualcosa. Riteniamo, infatti, che l’opera di Séguin si configuri come attuale anche per il suo proporsi quale modello di un approccio multiprospettico alle questioni oggetto di studio. Il Trattato, in effetti, compendia le diverse prospettive con le quali oggi interloquisce la Pedagogia Speciale. L’approccio bio-medico: l’attenzione di Séguin per il dato clinico è evidente, così come la sua accuratezza per le procedure di identificazione e riconoscimento del profilo di funzionamento dell’allievo. La prospettiva bio-psico-sociale. Si è appena detto della posizione dello studioso interessato all’interazione tra le strutture e le funzioni corporee e i fattori contestuali, nell’ottica di una visione ecologico-sistemica dello sviluppo umano. L’approccio della/alla capacitazione (capability approach). Séguin con le sue intuizioni sulle possibilità inespresse degli idioti e sulle iniquità dei contesti che finiscono per determinare e implementare lo svantaggio sembra anticipare (anticipa) i temi cari a Sen, Nussbaum, Terzi, immaginando per questi/e soggetti/vità marginali margini di azione per favorire, anche per/in loro, una vita fiorente. Il modello sociale e quello dei diritti, nelle rivendicazioni (perché tali furono, non solo sul piano scientifico ma anche culturale e politico) di una vita piena, significativa e indipendente per i disabili intellettivi, una vita non predeterminata da un lato dalla errata concezione del deficit come tragedia personale (richiamandoci a Oliver) e, specularmente dall’altro, da norme regolatrici di ciò che deve essere considerato normale o meno.

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2. Il luogo

Il luogo che abbiamo deciso di eleggere come emblematico per la Pedagogia Speciale (soprattutto italiana) è San Giovanni in Persiceto. Questo comune della città metropolitana di Bologna, che attualmente conta circa 28.000 abitanti, conosciuto un tempo come la piccola Manchester dell’Emilia per la produzione di letti in ferro e mobilio venduti anche all’estero, trova il nostro interesse in quanto è la sede del primo Istituto Medico Pedagogico italiano. In altri termini il luogo che ha accolto i primi ragazzi frenastenici (Babini, 1996) usciti dai manicomi, il contesto dove si è potuto sperimentare con successo quel modello educativo auspicato dai medici pedagogisti del tempo, nomi del calibro di Bonfigli, De Sanctis, Tamburini, Adriani, Morselli, Montesano, Ferrari, Montessori, Pizzoli. È davvero interessante, e affascinante, ai fini del nostro racconto storico, seguire brevemente la vicenda di questa nascita. In conseguenza dei successi delle iniziative sorte in tutta Europa a favore dell’educazione dei fanciulli deficienti di cui parla Maria Montessori riferendosi a Séguin (e che abbiamo riportato nel precedente paragrafo) anche in Italia si sviluppano una serie di esperienze di grande rilievo. Tra queste ricordiamo almeno: – l’Istituto Italiano pei Frenastenici fondato nel Gennaio del 1889 a Chiavari da Antonio Gonnelli-Cioni7; – l’Istituto ototerapico sorto a Milano nel 1889 per merito di Giovanni Longhi che ne diviene direttore. – l’Ipocofocomio Italiano attivo a Milano a partire dal 1887, grazie all’azione instancabile di un insegnante, Luigi Olivero, che successivamente, nel 1891, nel quartiere Nervi di Genova dà vita anche all’istituto Paedagogium, affidandone la direzione a Enrico Morselli, direttore del Manicomio del capoluogo ligure; – la Scuola Segatelli pro Idiotis fondata a Milano nel 1894 da Cristina Segatelli, la quale, come recita l’Almanacco Italiano del 1904 (del quale riproduciamo la copertina) ancor prima della più famosa Montessori, «apostolicamente compie il suo ministero d’amore fra i bimbi cretini, o poco meno, riuscendo ad operare veri miracoli di lento ma sicuro sviluppo intellettuale e morale. Cristina Segatelli può andare davvero orgogliosa d’essere stata prima fra tutti in Italia a provvedere ai piccoli diseredati dell’ intelletto»8; – l’Asilo scuola pei deficienti poveri sorto nel 1898 in via Tasso, 24 a Roma per

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Antonio Gonnelli-Cioni (1854-1912), figura ingiustamente obliata dalla pedagogia italiana (Cfr: Pesci, 1999; Bocci, 2016b), tra i pochi a non essere medico (era un insegnante esperto, tra l’altro, nell’educazione dei sordi) deve essere ricordato anche per aver inaugurato nel 1894 il primo Corso di ortofrenia per insegnanti specializzati nell’educazione dei deficienti, anticipando sia la Scuola magistrale ortofrenica (sorta del 1900 e diretta da Giuseppe Ferruccio Montesano) sia il Corso di pedagogia scientifica (o emendativa) di Ugo Pizzoli, altro studioso incredibilmente dimenticato (Gandini, 1995; Bocci, 2016a). Almanacco Italiano 1904 (parte seconda). Piccola enciclopedia popolare della vita pratica, Bemporad, Firenze, 1904, p. 324.

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opera di Sante De Sanctis, Giuseppe Sergi e Ezio Sciamanna, in pratica i tre mentori di Maria Montessori. Sciamanna, che succede a Bonfigli come ordinario di psichiatria (nel frattempo eletto in parlamento per il collegio di Camerino) è del resto il relatore della tesi della giovane e brillante Maria.

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Sulla scorta di queste esperienze ma, soprattutto, della caparbia intraprendenza di Clodomiro Bonfigli – che nel Gennaio del 1899 ufficializza la nascita della Lega nazionale per la protezione dei fanciulli deficienti con la pubblicazione dello Statuto – si attivano su tutto il territorio nazionale delle iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza di educare i giovani frenastenici.

Tra i più attivi si distingue lo psichiatra Augusto Tamburini, il quale unitamente al Deputato Provinciale di Bologna Cesare Sanguinetti e al Direttore del Manicomio di Imola Raffaele Brugia si fa promotore di una proposta destinata a lasciare il segno.

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Venerdì 11 Marzo in piena sintonia con lo Statuto della Lega Nazionale, si riunisce il Comitato Emiliano per la protezione dei fanciulli deficienti con lo scopo di reperire fondi per l’apertura del primo Istituto Medico Pedagogico italiano. L’appello pubblicato nel Giugno del 1899 (che riproduciamo qui in copia dall’originale) e nel quale si intravede nettamente la mano di Tamburini, è un mirabile esempio della maestria comunicativa dell’alienista anconetano, capace come pochi di miscelare da un lato informazioni mirate a suscitare nella popolazione timori per il dilagare del cosiddetto fenomeno della degenerazione e, dall’altro, gli straordinari benefici derivanti dall’educazione dei deficienti, abilmente descritti come piccoli candidati del tralignamento. L’appello del Comitato non resta inascoltato. Il 2 Luglio 1899, grazie alla generosa donazione di un privato che mette a disposizione terreno e fabbricato, si inaugura a San Giovanni in Persiceto il primo Istituto Medico Pedagogico italiano per frenastenici. La via è dunque spianata. Trovata la sede non resta che identificare i fanciulli che devono abitarla. Detto fatto, trascorsi appena dieci giorni, il 12 Luglio 1899 il Presidente della Deputazione Provinciale di Reggio Emilia comunica a Cesare Sanguinetti, Presidente del Comitato che è stato disposto l’invio all’Istituto dei fanciulli degenti nel locale Manicomio, che dalla Direzione fossero ritenuti suscettibili di qualche istruzione.

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Come si può evincere dalla lettura del documento (che anche in questo caso riproduciamo in copia dall’originale) la comunicazione tra i due interlocutori è a dir poco formale. Tuttavia, non può sfuggire che dietro il lessico burocratico della nota si cela un evento storico straordinario, per molti versi toccante. Per la prima volta, in modo ufficiale, i fanciulli deficienti reclusi in un manicomio, dove sono considerati degenti, escono da quelle mura per entrare in un istituto nella veste di educandi. anno VI | n. 1 | 2018

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Foucoltianamente potremmo dire che escono da un istituzione per entrare dentro un’altra istituzione, forse altrettanto totalizzante. Ma possiamo a ben ragione anche asserire che senza questo passaggio, senza questa prima transizione forse non avremmo posto le basi per quel lungo processo di deistituzionalizzazione che, ad onor del vero, è ancora in atto.

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I 64 fanciulli che costituiscono il primo nucleo di educandi presenti a San Giovanni in Persiceto rappresentano ai nostri occhi, a distanza di quasi 120 anni, il germoglio di quel modo di intendere la Pedagogia Speciale in Italia che ancora oggi può dirsi un unicum a livello internazionale per le caratteristiche che la connotano e la denotano non fosse altro per il fatto che, come abbiamo visto, vengono da lontano.

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3. Il film

Il film è indubbiamente Il Ragazzo selvaggio (L’enfant sauvage, 19699) di François Truffaut, in cui il regista, con un’attenzione documentaristica a dir poco magistrale, ha riprodotto per il grande schermo il rapporto scientifico (le Memorie) redatto da Itard in due riprese (1801-1806)10 per la Société des observateurs. Truffaut per realizzare questo film, sceneggiato insieme a Jean Gruault, legge e rilegge gli scritti di Itard, decidendo infine di assumere su di sé il ruolo del medico pedagogista francese, quasi a voler sottolineare un personale coinvolgimento in questa vicenda che ha cambiato la storia dell’educazione.

Abbiamo notizia diretta di questo sentire interiore del regista grazie a una lettera che lo stesso Truffaut scrive a Gruault il 1 agosto del 1969: «Mio caro Jean, sono a metà del ragazzo selvaggio; tutto va abbastanza bene, tenuto conto che non ho preparato a sufficienza queste riprese, così particolari e molto più difficili delle altre. Rispetto fedelmente la storia, rileggo Itard e recupero vari particolari, come “l’invenzione del porta-gesso da parte di Victor”. La sceneggiatura è ben costruita. Scusami se ho fatto il misterioso e non ti ho detto che volevo interpretare io la parte di Itard, volevo assolutamente che restasse un segreto fino all’ultimo momento e spero tu non sia deluso dal mio dilettantismo. Ti farò mandare delle foto del film. Vieni a trovarci quando torneremo all’istituto dei Sordo-Muti, alla fine di agosto. Buone vacanze, tanti saluti alla tribù Gruault, a presto, françois» (Truffaut, 1989, p. 183). Da appassionati del cinema, quali sentiamo di essere, vorremmo soffermarci a lungo su questo breve testo, per far emergere le mille sfaccettature dell’arte di Truffaut, del suo modo di intendere la narrazione cinematografica e, più in generale, il Cinema come fenomeno sociale e culturale11. 9

Note tecniche. Nazione: Francia. Bianco Nero. 83 Minuti. Girato nel 1969 esce nelle sale nel 1970. Regia: François Truffaut. Sceneggiatura: François Truffaut, Jean Gruault. Montaggio: Agnès Guillemot. Fotografia: Nestor Almendros. Musiche: Antonio Vivaldi. Interpreti principali: JeanPierre Cargol (Victor), François Truffaut (Jean Itard), Francoise Seigner (Madame Guérin), Jean Dasté (Philippe Pinel). 10 In Italia vi sono almeno due edizioni delle memorie: la prima del 1970 di Longanesi la seconda del 2003 per i tipi della SE. 11 Truffaut, ad esempio, nel suo cinema ha dedicato ampio spazio alle relazioni umane, in parti-

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Qui ci limitiamo a dire che l’evidente coinvolgimento di Truffaut – sia per la storia del Ragazzo selvaggio sia per la sua messa in scena – hanno avuto una evidente (e altamente positiva) ricaduta sulla strutturazione narrativa del film, a partire dalla fedeltà del testo filmico alle memorie di Itard (financo ai piccoli particolari). Sul piano del suo utilizzo in ambito formativo, questa pellicola di Truffaut è ricchissima di stimolazioni molto coinvolgenti e utili per gli studenti, per gli insegnanti, per i tirocinanti e per i ricercatori. Dalla visione del film, infatti, emergono informazioni preziose sulle procedure osservative e sperimentali adottate da Itard, sulla creatività che spinge lo studioso a elaborare strumenti e a verificarne l’efficacia e sulle metodologie educativo-didattiche, soprattutto speciali, da lui adottate per fronteggiare le difficoltà di apprendimento di Victor. Memorabili, in tal senso, sono le scene del film di Truffaut in cui si osserva Itard coinvolgere il ragazzo, e coinvolgersi, in una serie di esercizi sulla stimolazione sensoriale. Truffaut, incarnando Itard, rende manifesto e tangibile quanto asserisce Giovanni Genovesi a proposito dell’azione del medico pedagogista francese: «Itard imposta un processo che è educativo non tanto per gli effetti – peraltro non soddisfacenti – che sortisce, ma per il quadro teorico che lo sorregge, che è un quadro pedagogico, di teoria dell’educazione. Itard “crea” il rapporto educativo, l’oggetto educazione, immaginandolo come un costrutto teorico costituito dall’intreccio sensi-idee-linguaggio (significati). E per stimolare tale intreccio e produrre significati, Itard escogita mezzi e strategie d’intervento a livello sperimentale: giochi, marchingegni i più disparati, controllandone costantemente la funzionalità per i fini da raggiungere. Si pongono così le basi della pedagogia e dello sperimentalismo in pedagogia. Itard, che Moravia indica come l’iniziatore della psicologia sperimentale, è soprattutto colui che rimette in moto il cammino della pedagogia come scienza» (Genovesi, 2000, p. 146). La ricostruzione scenica accurata e partecipata di Truffaut ha dunque il grande merito di porre in dialogo due dimensioni: quella storica (nella sua declinazione scientifico-culturale) e quella relazionale (che pervade l’intera vicenda). Nel primo caso (la dimensione storica, quindi scientifico-culturale) il film «per il suo alto valore documentario dovrebbe essere proiettato in tutti i corsi di pedagogia sperimentale e, soprattutto, in quelli di pedagogia speciale» (Cecconi, 1994, p. 120), per dare corpo al «mito fondatore di Pedagogia Speciale» (Canevaro, 2013, p. 181)12. colare all’infanzia e all’adolescenza come momenti cruciali. Basti pensare, oltre al Ragazzo Selvaggio, al cortometraggio Les Mistons (1957) e ai film I Quattro-cento colpi (Les quatre-cents coups, 1959) e Gli anni in tasca (L’argent de poche, 1976). In tal senso il regista ha più volte confessato in diverse interviste che i suoi film siano tutti accomunati da un motivo ricorrente: «In fondo – afferma Truffaut – io racconto sempre la storia di una mancanza, di una frustrazione. Les 400 coups era la mancanza di tenerezza; Fahrenheit 451, la mancanza di cultura. L’enfant sauvage è la frustrazione della conoscenza, con il tentativo ostinato di Itard di annullare questa mancanza. Lui stesso ha scritto nelle sue memorie: “Senza la civilizzazione, l’uomo sarebbe uno degli animali più deboli e meno intelligenti”. È un film sulla comunicazione, lo scambio, il linguaggio, la cultura”». 12 Aggiungiamo che dovrebbe essere proiettato in tutti i corsi di pedagogia e di didattica, non solo sperimentali e speciali, nell’ottica di non coltivare l’idea errata che certi temi siano a d appannaggio solo di talune specializzazioni del mondo educativo.

I. Riflessione teorica


Nel secondo caso, che attiene alla dimensione relazionale, il film di Truffaut offre spesso l’opportunità durante le lezioni con gli studenti, così come negli incontri di formazione con insegnanti curricolari e specializzati per il sostegno o con gli educatori, di far emergere alcuni quesiti fondamentali che attengono l’azione pedagogica di Itard. Primo tra tutti, come ricorda lo stesso Andrea Canevaro (2017) in una recente pubblicazione che, non a caso, ha lo stesso titolo del film, quello delle presunte pratiche coercitive adottate da Itard per educare il giovane selvaggio. Un tema, com’è noto, già proposto da Octave Mannoni nel 1965 in un articolo apparso in Les Temps Modernes13. Al di là delle deduzioni e argomentazioni di Mannoni e le controdeduzioni e argomentazioni di altri, qui ci interessa sottolineare come questo film sia, proprio perché centrato sulla disabilità e sulla Pedagogia Speciale, uno spazio di confronto (e vivaddio anche di scontro) su un tema cruciale, qual è quello dei limiti dell’educare e dell’educazione. Un tema (forse il tema dei temi) troppo spesso (e malauguratamente) residuale oppure relegato alla sola Filosofia dell’educazione (in quanto disciplina), come se – nella folle pretesa di compartimentare le questioni pedagogiche in spazi contingentati del sapere – potesse esservi un ambito specifico dove poter disquisire di una questione tanto centrale per chi si occupa di educazione e di formazione. E ancora: così come l’uscita dai manicomi dei ragazzi frenastenici per entrare all’interno di un altro istituto ha posto (e altrove ancora pone) la questione della istituzionalizzazione delle pratiche che una certa comunità adotta come risposta ai bisogni educativi di alcune categorie di persone (ma il tema vale in generale anche per la scuola tout court e per chi la frequenta), le pratiche educative adottate da Itard per il giovane Victor pongono (e continuano a porre) domande in merito a quanto sia stato (e sia) giusto sottrarre un individuo da una certa condizione (di difetto? di mancanza? di marginalità?) per inserirlo (indurlo? costringerlo?) in un’altra condizione socialmente (culturalmente, ossia per una certa cultura) ritenuta più confacente (normale?). Si tratta di domande che pedagogicamente (almeno a nostro avviso) hanno la loro ragion d’essere non tanto per le risposte che generano – sempre parziali, soggettive e per questo dinamiche – quanto per il fatto di emergere come tali, ossia di essere formulate dal basso, in uno spazio che consente di far venire a galla i paradigmi e le epistemologie che (in modo più o meno consapevole) fanno da sfondo e da sponda alle posizioni che ciascuno di noi adotta/assume per disquisire di tali questioni. Se pensiamo che tutto questo possa scaturire dalla visione di un film, riteniamo che sia davvero una buona cosa continuare a trovare spazi per la sua visione.

13 Rivista politica, letteraria e filosofica fondata nel 1944 da Raymond Aron, Simone de Beauvoir, Michel Leiris, Maurice Merleau-Ponty, Albert Ollivier, Jean Paulhan e Jean-Paul Sartre, non a caso ha sempre ospitato posizioni dialettiche e contrarie al pensiero dominante.

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I. Riflessione teorica


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L’identikit dell’X Fragile tra comprensione genetica, potenzialità fenotipiche, bisogni potenziali ed emergenze educative inclusivo-socio-emotive

Fragile X syndrome is among the most frequent types of hereditary intellectual disability. It is an X-Linked disorder due to the alteration / mutation of a gene located in the X chromosome. The typical behavioral characteristics of subjects affected by the syndrome are likely to include multiple features of autism spectrum disorders. The excessive reaction to different environmental or social stimulations and the resulting hyper-excitation is connected to the inability to regulate impulses, with the risk of degenerating into fits of anger or in auto / hetero aggression. It is useful to invest in the inclusive model of flipped inclusion (De Giuseppe, Corona, 2016e) which applies the concept of inclusion in an ecological-systemic perspective (Bronfenbrenner, 2002) and traces the flipped educational logic at the level (Alberici, 2002) of system learning (De Giuseppe, Corona, 2017b, p.133-134). It is a matter of promoting a functional meta-reflection to a behavioral modification in relation to stimulus events, through simple teaching processes (Sibilio, 2014), stages of increasing complexity (Berthoz, 2011) and a gradual reduction of social anxiety states.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: mutation, genetics, potential, needs, learning

2. Revisione sistematica

Felice Corona ha curato il paragrafo 1; Tonia De Giuseppe ha curato il paragrafo 2.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Felice Corona (Università di Salerno / fcorona@unisa.it) Tonia De Giuseppe (Università di Salerno / tdegiuseppe@unisa.it)

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1. L’identikit dell’X Fragile tra eziologia, diagnosi e fenotipo fisico/comportamentale

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La sindrome X Fragile riconosciuta come sindrome di Martin-Bell (Martin, Bell,1943) è definita come la più comune forma di disabilità intellettiva, dopo la sindrome di Down, ed è la più frequente tra quelle ereditarie. Si tratta di una disabilità X-Linked, dovuta all’alterazione/mutazione di un gene situato sul cromosoma X. Nel 1969, effettuando un’analisi sui cromosomi di maschi con la sindrome, il ricercatore americano Herbert Lubs (2012) osservò una fragilità, come parziale rottura del marker X, il braccio lungo del cromosoma X (q27.3), successivamente ridefinito da lui stesso sito fragile, per l’aspetto di fragilità dell’area cromosomica. Le caratteristiche fisiche e i risultati raggiunti sia nei pazienti di Lubs (2012) che di Martin e Bell (1943) indussero a delineare un comune quadro clinico di riferimento. Da questa osservazione nacque il termine sindrome dell’X Fragile e la possibilità di tracciare i distinguo dalle forme più rare di disabilità cognitiva X-linked. Lo studio dei cromosomi per la ricerca del sito fragile Fraxa del cromosoma X si atteneva al test di laboratorio utilizzato per la diagnosi, questo fino alla scoperta del gene responsabile della sindrome (Verkerk et al., 1991). Fu verificata la dipendenza dell’aspetto anomalo dell’estremità distale del cromosoma dal sito del gene Fragile X Mental Retardation-1(FMR1), localizzato in corrispondenza del sito fragile descritto da Lubs (2012). Si tratta di una scoperta fondamentale perché ha rilevato per la prima volta l’esistenza di mutazioni dinamiche, o instabili, che tendono a modificarsi nel passaggio da una generazione all’altra (Daghini & Trisciuoglio, 2014). Dunque, attraverso la scoperta del gene FMR1 si è giunti alla comprensione delle basi molecolari della sindrome dell’X Fragile. Il Fragile X Mental Retardation-1 (FMR1) presenta una funzione regolativa in grado di aiutare gli altri geni ad organizzare la propria attività. Ciò è reso possibile dalla produzione/codifica della proteina FMRP, la quale riveste un ruolo fondamentale nello sviluppo corretto del sistema nervoso centrale, soprattutto a livello delle sinapsi, ossia delle connessioni che mettono le cellule nervose in comunicazione fra loro, attraverso lo scambio di sostanze chimiche: in assenza di tale proteina, le sinapsi diventano iperattive e rispondono in modo eccessivo. La sindrome ha rappresentato il primo esempio conosciuto di disabilità genetica da espansione di triplette, vale a dire di condizioni particolari, la cui mutazione scatenante comporta un allungamento notevole e anormale di una specifica sezione ripetuta di un gene (Martin, Bell, 1943), con un accrescimento (espansione) di sezioni ripetute di tre nucleotidi (triplette). A causare la sindrome dell’X Fragile, dunque, è un massivo prolungamento di triplette CGG (Citosina- Guanina-Guanina) nella porzione 5, non tradotta di questo gene, che tende a modificarsi nel passaggio da una generazione all’altra (Nolin, 2003): la tripletta CGG ripetuta tra le 5 e le 44 volte, in presenza di sindrome dell’X Fragile risulta reiterata oltre le 200 volte (Hagerman, 2002); ci sono casi, inoltre, in cui il loro numero riprodotto è compreso tra 44 e 54, la cosiddetta zona grigia, utile per la definizione di una condizione di leggera instabilità del gene FMR1 e situazioni in cui si presentano tra le 54 e le 200 ripetizioni: in tale circostanza la modificazione non è completa e la proteina FMRP viene generata in quantità inferiori

2. Revisione sistematica


rispetto alle normali. Tutto ciò genera uno stadio di pre-mutazione, in cui non vi è manifestazione della sindrome, ma di una potenziale espansione della modificazione genetica nelle generazioni successive, con mancata produzione della proteina FMRP e conseguente manifestazione della sindrome. La modalità di ereditarietà della sindrome, classificata secondo un modello di X-collegata, con trasformazione sul cromosoma X, presenta un procedimento insolito con anomalie o caratteristiche inconsuete non ancora pienamente comprese. Il gene, in quanto localizzato sul cromosoma X, determina una differente rivelazione della disabilità rispetto ai due sessi: si manifesta in maniera evidente nei maschi, la cui trasformazione genetica è completa; solo in circa la metà delle femmine con sintomi manifesti in maniera palese. Ciò accade perché queste ultime, possedendo due cromosomi X hanno anche una copia del gene che può funzionare correttamente. Nel passaggio alle generazioni successive la pre-mutazione può espandersi: le ripetizioni CGG aumentano di numero e quando superano le 200 copie producono modificazione completa. Tuttavia, il gene FMR1 può esistere in una famiglia nello stadio di pre-mutazione, per parecchie generazioni, senza causare alcun problema di sviluppo: la tendenza all’espansione della sequenza ripetuta CGG si verifica solo quando è trasmessa dalla madre, poiché durante la maturazione dell’ovulo materno o nelle prime fasi della crescita embrionale, ha il tempo di prolungarsi con trasformazione completa. Di conseguenza, una madre geneticamente avrà il rischio al 50% di avere dei figli maschi affetti e al 50% di avere delle femmine con la trasformazione totale, delle quali solamente la metà presenterà i sintomi della sindrome. La pre-mutazione trasmessa dal padre, invece, rimane stabile. In questo caso, quindi, le figlie femmine riceveranno trasformazioni genetiche senza che avvengano variazioni nel numero delle triplette CGG; i figli maschi, invece, ricevendo dal padre il cromosoma Y, non incorrono nel rischio di ereditarla (Wheeler et al., 2017). Nella popolazione generale il numero di femmine con pre-mutazioni è di 1 su 250, mentre quello dei maschi è di 1 su 800 (Sherman, 2005). Studi recenti (Kong et al., 2017) hanno evidenziato come la condizione di premutante, pur non causando automaticamente la sindrome dell’X Fragile, può essere associata a due condizioni cliniche, quali: la sindrome di tremore e atassia (FXTAS) e l’insufficienza ovarica precoce (FXPOI). Per molto tempo, l’X Fragile non è stata riconosciuta come sindrome specifica e, ancora oggi risulta sotto-diagnosticata, a causa della forte variabilità con cui si manifesta in termini di abilità, disabilità, aspetti di forza e debolezza. L’età media per la diagnosi è 35/37 mesi per i maschi e 42 mesi per le femmine (Cafasso, 2016). Dall’inizio degli anni novanta, con la scoperta del gene responsabile della trasformazione genetica, la diagnosi viene effettuata tramite un’indagine molecolare eseguita direttamente sul gene FMR1, con l’obiettivo sia di individuare l’espansione anomala della sequenza ripetuta della tripletta CGG, sia di definire lo stato di metilazione, un indicatore della funzionalità del gene FMR1, che consente di identificare portatori genetici e persone con la sindrome. La sindrome di X Fragile, quale disturbo X-linked comporta la disattivazione del fragile gene X (gene FMR1), il che determina una mancata produzione della proteina (FMRP), particolarmente importante durante lo sviluppo del cervello anno VI | n. 1 | 2018

FELICE CORONA, TONIA DE GIUSEPPE

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fetale, con una perdita di funzioni ed un impatto sull’elaborazione precoce delle informazioni e sui percorsi di sviluppo con conseguente sviluppo atipico dall’infanzia (Grigsby, 2016) e sintomatologie comportamentali, spesso coincidenti, il che ne determina non di rado dei falsi diagnostici (Kaufman, 2017). Esistono, però, specifiche caratteristiche fisiche, associate alla sindrome, che molto spesso non diventano evidenti fino a che il bambino non raggiunge l’adolescenza o l’età adulta. Sono presenti in più del 70% delle persone con X Fragile: viso sottile e allungato; orecchie lunghe, prominenti e sporgenti; piede piatto e ipersensibilità delle articolazioni, in particolare delle dita; un palato alto e di forma ogivale; basso tono muscolare; prolasso della valvola mitrale; scarso senso dell’equilibrio e, nei ragazzi con più di otto anni, macroorchidismo, ossia ingrossamento dei testicoli (Garber et al., 2015). Vi sono differenze tra il fenotipo comportamentale dell’X Fragile e i criteri comportamentali dei disturbi dello spettro autistico. Ad esempio, differisce l’interesse per la socializzazione e le abilità imitative, maggiori in presenza di X Fragile, così come la frequenza della disabilità intellettiva maggiore nell’X Fragile rispetto ai disturbi dello spettro autistico. I deficit di coordinamento motori risultano peggiori in FXS, così come le competenze linguistiche, la cognizione non verbale, le capacità di adattamento e demotivazione. Le caratteristiche comportamentali tipiche della sindrome hanno in comune con lo spettro autistico forme di deficit della comunicazione e della interazione sociale. Siamo in presenza di restrizioni e di comportamenti ripetitivi, connessi ai processi cerebrali di elaborazione delle informazione sociali rilevanti, per la presenza di modelli differenti di cablaggio neurale o connettività. La genetica del disturbo è la chiave per comprendere differenze tra i sessi anche nel grado di disabilità cognitiva. La compromissione delle abilità cognitive e metacognitive dei maschi è tale da evidenziare nell’80% dei maschi con X Fragile difficoltà di apprendimento, di grado lieve o moderato, mentre in circa il 30% dei casi tali difficoltà risultano gravi con ritardi nell’elaborazione dei discorsi e nel linguaggio più evoluto. Le femmine con X Fragile mostrano minori difficoltà cognitive rispetto ai maschi, grazie al cromosoma X in più che, producendo alcuni FMR, consente di compensare gli effetti del gene mutato sul cromosoma interessato. Tuttavia, le competenze verbali e l’uso di vocabolari espressivi e ricettivi, costituiscono un punto di forza su cui investire rispetto ad altre abilità cognitive, con una discreta competenza nell’etichettatura e nella comprensione verbale. Dallo studio di Saunders (2004) emerge la difficoltà in entrambi i sessi di conservare le informazioni, soprattutto astratte-non verbali, nella memoria a breve termine, nel richiamarle per ordine soprattutto, determinando conseguenti influenze sull’apprendimento. Inoltre, si evidenzia una buona competenza verbale di memoria a lungo termine, in particolare la loro capacità di sfruttare un repertorio di conoscenze acquisite e di vocabolario sembra crescere costantemente durante l’infanzia.

2. Revisione sistematica


2. Tra bisogni emergenti, potenzialità e meta-riflessione comportamentale inclusivo-socio-emotiva del modello flipped inclusion, in presenza di X Fragile

La sindrome dell’X Fragile, che è associata ad un fenotipo evolutivo e comportamentale, ha effetti significativi sulle abilità di comunicazione, producendo forme di ritardo e un’atipicità nel linguaggio. Nelle persone con X Fragile c’è una divergenza tra capacità verbale - non verbale in direzione di migliori punteggi IQ verbali rispetto ai punteggi IQ di performance (De Vries et al., 2007), che evidenzia competenze verbali migliori rispetto alle competenze non verbali e spaziali, connesse alle relazioni di contesto. La discrepanza è stata segnalata attraverso una serie di test standardizzati IQ, tra cui la (WISC) Wechsler Intelligence Scale for Children (Wechsler, 1987), che valuta le competenze verbali e non verbali, attraverso prestazioni di aritmetica, vocabolario, comprensione, completamento delle immagini e ragionamento astratto. Al termine della sessione di test vengono prodotti tre punteggi: IQ verbali, IQ di prestazione e un punteggio IQ completo (combinato). Invece, lo studio di Saunders (2004) evidenziò una migliore abilità verbale delle femmine, connessa alla capacità di argomentazione e comprensione del discorso, rispetto alle abilità non verbali, come la percezione emotiva, il riconoscimento dei volti e le abilità di tipo visuo-spaziali. Nell’interazione sociale in presenza di X Fragile è possibile osservare comportamenti verbali con forme di linguaggio atipiche, che può essere: tangenziale, perseverante e da discorso ripetuto (Abbeduto et al., 2016). Il linguaggio tangenziale si riferisce a risposte o commenti a domande, che non seguono logicamente la conversazione precedente. Il linguaggio perseverante attiene alla reintroduzione di argomenti preferiti, il cui uso facilita un controllo dell’ansia sociale rispetto all’ignoto. Il discorso ripetitivo (Belser, Sudhalter, 2001), invece, si caratterizza per la ripetizione dei suoni, parole o frasi all’interno di un’espressione o di una conversazione. Il 77% delle persone con X Fragile (Cohen et al., 1988) mostra un’abilità d’imitazione spiccata. Si rilevano problemi connessi all’integrazione di due o più ingressi sensoriali, il che rende gli stimoli percepiti come un ronzio insignificante ed induce ad ulteriori forme di interferenza sensoriale, che altera il rapporto suono-vista. Il contatto visivo, che rappresenta un noto segnale non verbale, utilizzato per trasmettere il desiderio di avviare una conversazione, comporta l’aspettativa di una possibile risposta. Per tale motivo, l’elusione dello sguardo riflette la difficoltà all’interazione. I maschi con X Fragile (Hagerman, 2002) evidenziano un adeguato contatto visivo nel corso del loro primo anno, che gradualmente diviene avversione accompagnata da ansia sociale. L’ipersensibilità uditiva tattile e gustativa rappresenta un altro elemento caratteristico destabilizzatore e promotore dell’accrescimento di stati d’agitazione, a cui si aggiungono problemi di vista, come lo strabismo che impedisce forme di concentrazione con entrambi gli occhi su un singolo oggetto, la miopia e la presbiopia. Inoltre, si evidenziano di frequente difficoltà nello sviluppo motorio fine e globale, con incidenze sul movimento, sull’equilibrio, sul portamento incontrollato e saltellante. Le difficoltà in quest’area sono legate a due specifici problemi: il anno VI | n. 1 | 2018

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basso tono muscolare e un disordine del tessuto connettivo, che inficia le connessioni articolari, producendo instabilità nel movimento (Garber et al., 2015). Da ciò si determina un’ipersensibilità delle articolazioni, nonché la presenza di piede piatto. Anche il funzionamento delle abilità motorie fini è danneggiato; per tale motivo coloro che presentano tale condizione hanno uno scarso controllo dei muscoli delle dita e della mano: scrivere diventa, quindi, un meccanismo lento, laborioso e disordinato. Una conoscenza più approfondita dei sistemi vestibolari e propriocettivi può aiutare a comprendere la genesi di comportamenti atipici ed apparentemente insensati. Il sistema vestibolare, che indica la percezione di gravità e la modalità di interrelazione da risposta, permette di cogliere lo stato di mobilità, di velocità e di direzione. Pertanto, in presenza di un sistema vestibolare ipo-funzionante (Fisher, 2002) con informazioni circa la posizione del corpo nello spazio ed in relazione alle situazioni di gravità da affrontare che non arrivano al cervello, si determina una difficoltà ad eseguire movimenti raffinati, a coordinarli tra loro e a mantenere un equilibrato tono posturale. Quando il cervello riceve numerosi input, la persona si sente minacciata ed impaurita da un movimento percepito come rischio e controllo del corpo, il che sviluppa una instabilità posturale, con rigidità di movimento. Il sistema propriocettivo, che consente la consapevolezza del proprio corpo nell’ambiente circostante, l’abilità di movimento in modo intenzionale e l’esecuzione di semplici compiti di movimento, è reso possibile dalle informazioni ricevute dall’allungamento e dalla contrazione dei muscoli e delle articolazioni. Tutto ciò promuove un aumento delle informazioni di posizione necessarie al cervello per sopperire all’inadeguatezza dei sistemi vestibolari e propriocettivi. Le persone con X Fragile assumono molto spesso una serie di comportamenti strategici, messi in atto, consapevolmente o inconsapevolmente, al fine di raggiungere un maggior successo, alleviare o compensare ansie e difficoltà. La reazione eccessiva alle diverse stimolazioni ambientali o sociali e l’iper-eccitazione che ne consegue si connettono all’incapacità di regolare l’eccitazione, quale stato generale del sistema nervoso, che si manifesta nel comportamento e nella componente emotiva, che sfocia in scatti d’ira senza apparenti ragioni, in auto/etero aggressione. Inoltre, emerge un’alta incidenza da disturbi di ansia e depressione nelle femmine (Saunders, 2004), che si evidenzia con difficoltà espressivo-relazionale, forme estreme di timidezza e isolamento sociale manifeste nei contesti sociali, percepiti come fonte di disagio fisico, accompagnato da sintomi di ansia sociale e paura di vivere. Le persone con X Fragile mostrano difficoltà nelle abilità d’astrazione e ragionamento, memoria a breve termine, nonché di focalizzazione e problem-solving, come è stato anche confermato da misure IQ standardizzate, come il K-ABC Kaufman Assessment Battery (Kamphaus, 2011). Si tratta di un sistema di valutazione molto utilizzato nella ricerca e utile nell’identificazione di una grande variabilità delle abilità in presenza di sindromi specifiche (Kemper, 1988), che ne evidenzia una predilezione per l’elaborazione/processazione simultanea, piuttosto che sequenziale e dettagliata in presenza di X Fragile (Haessler, 2016). Una processazione simultanea è una funzione che richiede l’integrazione di stimoli volti alla formazione di un’unità completa e che, in presenza di analoghe stimo2. Revisione sistematica


lazioni e condizioni, produce risposte esaustive a circostanze future. Tuttavia, in assenza di elementi costituenti l’idea originale, potrebbe incorrere in difficoltà di comprensione o di riconoscimento dello stimolo in momenti successivi. In presenza di X Fragile si comprende l’entità intera, il processo e non le singole parti che la compongono, in una visione globale di insieme, investendo sulla quale è possibile apprendere. Tutto ciò spiega il perché non si produce feedback ad una sollecitazione sequenziale su domanda, pur conoscendone la risposta: la riformulazione della domanda con una terminologia differente consentirà una probabile risposta se riconducibile all’intero percorso e a parole/pensieri noti, a pregresse conoscenze/esperienze. Le persone con X Fragile prediligono, dunque, un apprendimento per processo simultaneo, piuttosto che sequenziale, in quanto quest’ultimo richiede la capacità di connettere concetti o parti secondo una proceduralità lineare volta a promuovere un’abilità o produrre un’idea. Evidenziano, altresì, una preferenza per l’attenzione visuale rispetto all’astrattiva ed una difficoltà di generalizzazione, intesa come abilità di trasferire conoscenze acquisite tra situazioni, il che richiede la capacità di riprodurre il comportamento originale in circostanze simili, ma non identiche, attraverso un procedere didattico per indizi visivi che susciti memoria; e che promuova azioni imitative, stimolazioni promozionale di abilità pratiche, con attività fisiche, non motorie fini. È opportuno investire in processi di didattica (Sibilio, 2014), in grado di fronteggiare attraverso stadi di processo semplesso (Berthoz, 2011), una graduale riduzione degli stati d’ansia sociale, di tendenza all’isolamento, e al perseguimento delle abilità di stabilizzazione motoria, di concentrazione temporalizzata e di un controllo dell’impulsività. È possibile avvalersi del modello d’inclusività della flipped inclusion (De Giuseppe et al., 2016e) la cui locuzione idiomatica complessa declina il concetto di inclusione in prospettiva ecologico sistemica (Bronfenbrenner, 2002) e ripercorre la logica didattica flipped a livello di apprendimento di sistema (De Giuseppe, Corona, 2017b, pp. 133-134). Si tratta di investire in un apprendimento per problemi scomposti, fatto di investigazione – inquiry learning (Kuhn et al., 2000), di scoperta-discovery learning (Bruner, 1978), per giungere ad un apprendimento per padronanza – mastery learning (Bloom, 1972) attraverso attività in flipped learning (Bergmann et al., 2011), che promuovono un prosociale problem solving (De Giuseppe, 2016d) d’inclusività (De Giuseppe, Corona, 2017). È un procedere didattico (Cuomo e al., 2014) per anticipazione probabilistica degli eventi (Berthoz, 2011), che attraverso anche una crono-strutturazione delle esperenzialità secondo logiche di processo sistemiche, tendano all’abbattimento delle paure da confronto, all’abbassamento dei livelli di stress da cambiamento e promuovano processi e contesti inclusivi, come ipotesi di artefatti cognitivi risolutivi di problematiche, per livelli didattici di complessità crescente (Sibilio, 2014). Attraverso “Un agire didattico strutturato in modalità top down per fasi cooperative di livello cooperativo, è possibile perseguire obiettivi trasformativi (Mezirow, 1989) inclusivi, promovendo contesti inclusivi” (Corona, De Giuseppe, 2016b, p. 118). È necessario attivare comunità di pratiche riprodotte in situazioni differenti, al fine di favorire analoghe applicazione in contesti altri. Le tecnologie cross mediali, nonché l’impiego di classi virtuali e gruppi cooperativi, rappresentano strumenti strategici d’inclusività sistemica, volti ad una gestione emozionale anno VI | n. 1 | 2018

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socio-fobica, per promuovere contesti inclusivi. Infatti, attraverso fasi di propedeuticità desensibilizzante sistematica (Corona, De Giuseppe 2016a) e stadi comunicativi di overlapping verbali/ non verbali, avvalendosi di modalità interazionali formali, non formali ed informali, si investe in forme di apprendimento d’empowerment peer education (De Giuseppe, 2016c,) “L’intento è quello di promuovere una meta-riflessione funzionale ad una modifica comportamentale, in relazione agli eventi stimolo, prima causali e successivamente strutturati dal docente, nella fasi successive di fading e shaping, chaining (Denton, 1978)” (Corona, De Giuseppe, 2016b, p. 118). Ripercorrendo le fasi della flipped inclusion con matrice EIPS (esplorare-ideareprogettare-sperimentare), nell’Esplorare, è possibile indagare sia il livello di comunicazione, sia livello contestualizzato d’ansia espresso nella comunicazione (Shipon Blum, 2010). Nell’Ideare si ipotizzano scenari di intervento inerenti la sfera personale ed interpersonale senso percettivo-psicomotoria, l’area della comunicazione, l’area cognitiva e socio-affettiva. La fase 3 del Progettare attiene sia all’assessment sia agli interventi programmatici, volti ad uno sviluppo delle competenze sociali e prosociali, attraverso azioni incentrate sul self-esteem, sulla consapevolezza percepita, attraverso una valorizzazione delle potenzialità, della reciprocità e della fiducia (De Giuseppe, Corona, 2016a). Nello Sperimentare, si pongono in azione sociale gli interventi di prosocial flipping cooperative d’impianto pedagogico cognitivo-comportamentale volti ad incrementare la probabilità di comparsa dei comportamenti-scopo (D’Ambrosio, Coletti, 2002), per superare l’insicurezza e la gestione dei comportamenti aggressivi o asociali, attraverso situazioni- stimolo/prompting strutturate e controllate. La percezione si connette a situazioni concrete, ad interessi e a motivazioni oltre che alle emozioni. Pertanto, risulta utile avvalersi del metodo globale (Decroly, 1929) ed associazioni di parole ed immagini, per progressivi stadi procedurali di presentazione, al fine di motivarne l’agire. Tra le strategie educative che facilitano l’interscambio comunicativo, risulta utile l’utilizzo della Comunicazione Aumentativa Alternativa (Beukelman, Mirenda, 2014), ma anche esempi applicativi come il Logo Reading System (Braden, 2000a), che prevede l’impiego di logo dei fast food e grandi magazzini. Si procede in maniera graduale. Dopo aver selezionato il primo livello, compaiono i primi loghi e le prime scritture (Vedi figg. 3 e 4).

Fig. 3. Scelta dei livelli

2. Revisione sistematica


Fig. 4. Primo livello

La focalizzazione dell’attenzione su forme di conoscenza-pratica-incidentale non richiede istruzioni dirette, creando così un innato interesse ed una promozione dell’impegno motivato attraverso forme di role-game per associazione. In conclusione è fondamentale ribadire il ruolo di centralità dell’educativo sul formativo, tale da indurre ad una riflessione circa il valore pro sociale eco-sistemico (Bronfenbrenner, 2002)dei processi di gradualità relazionale flessibile (Schön, 1973) in una liquida (Bauman, 2003) e complessa (Morin, 1993) prospettiva socio-gestionale (Beck, 2000) empatico-motivazionale (Goleman, 2013, p. 64), che costituiscono la manifestazione dei nuovi bisogni conflittuali sociali (Gordon, 2014), imprescindibili dalle differenze individuali. Un responsabile investimento formativo non può prescindere, dunque, da stili comportamentali empatici modellizzanti agiti, che rappresentano la base fondativa su cui incentrare didattiche altruistico-solidaristiche pro-sociali, soprattutto in presenza di X Fragile. Ogni atto emozionalmente auto-controllato (Goleman, 2013, p. 65), va inteso come funzionale ad un percepirsi secondo la logica dei mediatori (Damiano, 2013), in un rimando dell’uno nell’altro nella co-costruzione di storie di vita, espressione delle molteplicità esperenziali incontrate, percepite, comprese e vissute.

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2. Revisione sistematica


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Uma abordagem à formação de professores em educação especial e inclusiva em Portugal

Helena Mesquita

Instituto Politécnico de Castelo Branco - Escola Superior de Educação - Portugal Centro Interdisciplinar de Ciências Sociais (CICS.NOVA) Sport, Health & Exercise Reseach Unit (SHERU)

Maria do Rosário Quelhas

Key-words: special and Inclusive education, project work in special and inclusive education, research in special and inclusive education, specialized training in special and inclusive education

3. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

The final project developed to obtain the Master’s Degree in Special Education (SE) at the Castelo Branco Higher School of Education (ESECB) includes the development of knowledge in thematic areas of SE in the cognitive and motor domains, involving a critical, in reflections provided by an adequate and updated “state of art” of the thematic area in which it is inserted. In the SE Master’s degree, the research is organized around 3 lines, according to thematic areas, integrated in theoretical paradigms, suitable for this type of investigation. These lines focus on studies conducted at any stage in the life of special populations. The research lines are systematized as follows: - Evaluation and Intervention in Special and Inclusive Education - Historical and Ecological Dimensions of Special and Inclusive Education - Educational Policies, School Management and Teacher Training in Special and Inclusive Education. Thus, we sought to contribute to the characterization of the research activity carried out in the scope of Special and Inclusive Education through the final Project of ESECB Master, using as reference the categorization focused on some fundamental questions: What problems are studied? With what research methodologies? What is the geographical origin of the studies?

abstract

Instituto Politécnico de Castelo Branco - Escola Superior de Educação - Portugal

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Introdução

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Progressiva e lentamente o princípio da inclusão vai-se introduzindo na comunidade educativa, bem como na política educativa de cada país. Documentos internacionais como, a Public Law de 1975 (EUA), o Warnock Repport de 1978 (Reino Unido) e a Declaração de Salamanca de 1994 (Espanha) foram as forças estruturantes para uma nova conceção de escola, em que todas as crianças têm as mesmas oportunidades para desenvolverem ao máximo as suas potencialidades e onde ser diferente é fator de aprendizagem para toda a escola, visto que a diferença funciona como um estímulo que promove estratégias destinadas a criar um ambiente educativo mais rico para todos e não motivo de exclusão da mesma. As evoluções sentidas caminham claramente para um percurso que se tornou necessário e irreversível: ESCOLA PARA TODOS. Os direitos à educação, à igualdade de oportunidades, assim como o de participar na sociedade são inquestionáveis, pelo que a escola se deve adaptar a todas as crianças, sem exceção, para responder às necessidades de TODOS os alunos. A qualidade do sistema de ensino superior em Portugal depende de uma consistente formação inicial, mas também de ciclos posteriores de excelência, capazes de dotar os profissionais com competências específicas para uma intervenção profissional mais consciente, inovadora e promotora da aprendizagem ao longo da vida. Nos últimos anos, a educação das crianças e dos jovens com necessidades educativas especiais (NEE) tem conhecido profundas modificações, assistindose a um amplo movimento de inclusão nas estruturas regulares de ensino, o que conduz a profundas alterações no sistema de ensino, nomeadamente na organização das estratégias de intervenção do professor e do seu papel na escola, entre outras. As diretivas emanadas pelos diversos enquadramentos legais portugueses (Constituição da República, Lei de Bases do Sistema Educativo, Decreto-Lei N.º 319/91 e outros) e atualmente pelo Decreto-Lei nº3/2008 de 7 de janeiro, que define os apoios especializados em Portugal, apontam para a necessidade de um sistema de Educação Especial que disponha de agentes educativos com sólida formação especializada para protagonizar as mudanças previstas. O maior desafio que se coloca, atualmente, à escola regular, numa perspectiva de escola inclusiva, é o de “ser capaz de desenvolver uma pedagogia centrada nas crianças, susceptível de as educar, a todas, com sucesso, incluindo as que apresentam graves incapacidades” (Declaração de Salamanca, 1994, p.6). Para Ortiz González (1989) numa escola para todos a educação é rica, flexível e ampla, de modo a que se possa dar cobertura a todas as individualidades. O professor confrontar-se com crianças com necessidades diferenciadas na sua sala de aula, o que leva, também, a confrontar-se com metodologias diferentes, novas práticas, novas técnicas de trabalhos de grupo, diferentes estratégias e ajudas específicas. Os conhecimentos e as competências exigidas aos professores são, essencialmente, as relacionadas com um ensino de qualidade, que tem a ver com: 1- a capacidade de saberem avaliar as necessidades especiais; 2- saber adaptar currículos; 3- saber utilizar a ajuda tecnológica; 4- saber utilizar métodos 3. Esiti di ricerca


de ensino individualizados, capazes de responder às características individuais dos seus alunos, independentemente da deficiência que apresentem. Tudo isto reside na qualidade do processo pedagógico, cuja responsabilidade é do professor. O professor da turma é considerado o recurso mais importante no ensino dos alunos com NEE e o professor de educação especial atua como um consultor de apoio junto do professor da classe regular, sendo responsável por ajudá-lo a desenvolver estratégias e atividades que apoiem a inclusão (Porter, 1994). O professor de educação especial realiza uma vasta gama de atividades, quer com os professores da classe, quer com toda a escola, de maneira a melhorar a qualidade de ensino e o clima de atitudes da escola perante as NEE. As funções destes professores envolvem: 1- planeamento e desenvolvimento de programas; 2- serviços de avaliação e de orientação; 3- ações de supervisão, cooperação, comunicação e ensino direto (Porter, 1994). López Melero (1996) aponta para uma formação mais específica, no caso do professor que vai desempenhar funções de apoio, de acordo com os seguintes objetivos:1- intervir diretamente com crianças que apresentam NEE; 2-promover e apoiar, de uma forma concertada, a intervenção educativa junto dos pais e profissionais de educação; 3- estabelecer modelos de investigação e de compreensão da realidade destas crianças em situação de inclusão. A forte tendência, neste âmbito, incide numa formação, quer inicial, quer permanente, que tenha por base as necessidades emergentes da prática, uma formação mais centrada na escola, na investigação-ação, na prática reflexiva, no desenvolvimento organizativo da escola. A escola é entendida como local de resolução dos problemas e os professores como práticos reflexivos, sendo as estratégias a utilizar aquelas que promovam processos de formação num clima de cooperação e colaboração entre profissionais (Illán Romeu & Arnaiz Sanchez, 1996; López Melero, 1996; Jiménez Martinez & Vilá Suñé, 1999). Entendemos que a formação superior em Educação Especial (EE) deve ter como preocupação fundamental e determinante formar especialistas interventivos, conscientes do valor e das potencialidades da sua área de formação e com potencial para fundamentar as suas opções no contacto com a realidade. A oferta formativa da Escola Superior de Educação (ESECB), nesta área, iniciou-se com o CESE em Educação Especial (1997) e o Curso de Especialização de Pós-Licenciatura em Educação Especial-Domínio Cognitivo e Motor (2005) À luz do Processo de Bolonha e do Decreto-Lei nº 74/2006, de 24 de Março, tornou-se estratégico para o IPCB, através da ESECB, que pudesse continuar a consolidar a sua oferta formativa nesta área através da criação de um Mestrado de Educação Especial – Domínio Cognitivo e Motor. Esta formação de 2º Ciclo, tem como objetivos: – A aquisição de competências e de conhecimentos científicos, pedagógicos e técnicos; – O desenvolvimento de capacidades e atitudes de análise crítica, inovação e de investigação no domínio da EE no domínio Cognitivo e Motor Pretendemos com o curso: – Dar resposta às necessidades de formação, com agentes educativos capazes de responder às mudanças resultantes de uma Escola que se quer para todos;

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– Dinamizar em termos de serviços e concepções psico - educacionais, o campo da Educação Especial; – Desenvolver competências para o despiste, avaliação, planeamento e intervenção educativa em crianças/jovens com necessidades educativas especiais, especialmente no Domínio Cognitivo e Motor; – Dar apoio ao aprofundamento de competências de construção e gestão diferenciada do currículo para crianças / jovens com problemas cognitivos e motores; – Preparar para funções de conceção, planeamento e intervenção em estruturas e serviços que permitam um melhor atendimento a crianças/jovens com necessidades educativas especiais; – Desenvolver a capacidade para promoverem a INCLUSÃO e a dignificação da pessoa com necessidades educativas especiais, como cidadãos ativos. No plano de estudos, com 90 créditos ECTS, 60 desses créditos distribuemse pelo conjunto organizado de unidades curriculares e, 30 créditos, para o Trabalho de Projecto, que surge no 3.º Semestre, tendo como objetivos a síntese, a integração e a aplicação dos conhecimentos adquiridos, por forma a permitir uma experiência de intervenção pedagógica no seu contexto profissional, de acordo com aquilo que se pretende de um ensino de natureza politécnica. Neste trabalho, que agora desenvolvemos, começámos por definir as questões de pesquisa e objetivos, para, de seguida, estabelecermos os critérios de análise que nos levarão à apresentação e discussão de resultados.

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1. Questões de pesquisa e objetivos

Considerando que a investigação realizada no domínio da EE é, tal como noutros campos e áreas da Ciências da Educação, determinada por muitos e variados fatores; e reconhecendo o contributo dessa investigação na edificação de uma Escola cada vez mais inclusiva, pareceu-nos apropriado refletir sobre a investigação neste domínio científico, na medida do maior ou menor impacto e influência que a mesma pode ter nas práticas educativas. Cabe aqui identificar as questões centrais que nortearam este estudo e em função das quais se definiram igualmente os critérios de análise e os resultados apurados. Procurou-se responder às seguintes perguntas: Que problemáticas são estudadas? Com que metodologias de investigação? Qual a origem geográfica dos estudos? Relativamente à análise das problemáticas estudadas, centramos o nosso objetivo em identificar as temáticas, os objetos empíricos e o contexto em que foram desenvolvidas. Quanto à caraterização das metodologias de investigação tivemos como objetivo identificar os tipos de análise de dados segundo o binómio qualitativo/quantitativo, as técnicas de análise e instrumentos utilizados e ainda caracterizar a amplitude da amostra sobre a qual incidem os estudos. Relativamente à origem geográfica dos estudos, centrámo-nos em identificar os locais onde foram recolhidos os dados

3. Esiti di ricerca


2. Metodologia

No âmbito deste artigo apresentam-se os resultados da meta-análise realizada aos Trabalhos de Projeto do Mestrado de Educação Especial – Domínio Cognitivo e Motor, da Escola Superior de Educação do IPCB, apresentados e defendidos desde a sua 1ª edição, até à data de organização deste estudo, considerando-se, assim, um corpo documental constituído por 48 trabalhos realizados em 4 edições do curso.

3. Critérios De Análise

Tendo em conta o corpo documental considerado, recorreu-se a uma análise documental, classificando e indexando os textos, o que conduziu à constituição de uma base de dados de referência nesta área de investigação, tornando mais fácil a posterior utilização destes dados. De seguida, procedeu-se à análise de conteúdo dos resumos e, sempre que aconselhável, ao corpo dos trabalhos, em função de critérios pré-estabelecidos permitiu-nos identificar os elementos que definem cada investigação. Os critérios emergem diretamente dos objetivos definidos para este estudo e anteriormente apresentados. Para o efeito a análise foi organizada em torno das três questões centrais anteriormente referidas: 1-problemáticas estudadas; 2-metodologias de investigação e 3-origem geográfica dos estudos. Critério 1 - Problemáticas estudadas. Tendo como objectivo identificar as principais problemáticas estudadas, procurámos caracterizar, essencialmente, o tema central estudado, o objeto de estudo e o contexto onde este foi realizado. Relativamente ao tema, recorremos às três linhas de investigação definidas para este mestrado, que são as seguintes:

1. Avaliação e Intervenção em Educação Especial e Inclusiva que inclui estudos que possibilitem o desenvolvimento, validação e/ou aferição de instrumentos de avaliação adequados a diferentes problemáticas; avaliem o desenvolvimento de programas educativos, programas individuais de intervenção ao longo da vida, unidades educativas em escolas regulares e especiais. Estudos que visem as práticas educativas, para a promoção do desenvolvimento e da aprendizagem que ultrapassam o domínio da educação formal, abarcando aspetos cognitivos, afetivos, motivacionais e sociais. 2. Dimensões Histórica e Ecológica da Educação Especial e Inclusiva que inclui estudos sobre a evolução histórica e legislativa, aspetos antropológicos e sociológicos da EE e Inclusiva, investigações sobre o impacto familiar, comunitário e outros, com as profissões da EE (professor) no que respeita ao âmbito de atuação, satisfação, valores, crenças, representações e atitudes dos professores face à inclusão. 3. Politicas Educacionais, Gestão da Escola e Formação de Professores em Educação Especial e Inclusiva que inclui estudos sobre as relações entre as polí-

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ticas públicas de educação, organização e gestão da escola nos vários níveis e a formação de professores. Estudos que incidam na conceção, implementação e avaliação de projetos de formação de professores e outros técnicos

Quanto ao objeto de estudo, foram considerados: o aluno, o professor, a formação de professores, a família e outros. De forma a perceber o tipo de distribuição dos estudos no que respeita ao contexto, considerámos os contextos: escolar, transição vida pós-escolar e outros. !"#$%&'&(&)*%+"%,-.&/&0#1/2*/#,-.&/3&4567%,-.& 489/7"%+&/&0#7+68"*%& & @/3%&7/#12%+& &

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Quadro 1- Identificação e caracterização das problemáticas estudadas

Critério 2 – Metodologias de investigação. Para caracterizar as metodologias de investigação utilizadas, este critério aplicou-se à descrição feita, em cada trabalho, sobre a natureza e técnicas de recolha de dados, bem como os procedimentos metodológicos adoptados na sua planificação, análise e interpretação. Considerámos diferentes aspetos para a caracterização das opções metodológicas: o tipo de análise de dados - quantitativa, qualitativa e mista; as técnicas e instrumentos utilizados - inquérito por entrevista, inquérito por questionário, grelhas de observação, testes padronizados e técnicas mistas; e a amplitude da amostra considerada – um sujeito, mais do que um sujeito e instituição. & & @"9.&5/&%#L+"8/&

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Quadro 2 - Caracterização das metodologias utilizadas

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3. Esiti di ricerca


Critério 3 – Origem geográfica dos estudos. Este critério aplicou-se à identificação dos locais onde foram recolhidos os dados para as investigações, tendo sido considerados, como unidade de análise, os distritos do continente. Na impossibilidade de determinar a proveniência geográfica dos dados apresentados nas investigações, de acordo com estas unidades (os distritos) por motivos de anonimato dos sujeitos, optámos por indicar a região mais alargada onde os estudos decorreram, de acordo com a informação constante no trabalho. &

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Quadro 3 – Origem geográfica

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4. Apresentação e discussão de resultados

4.1 Evolução do número de estudos

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Procurando analisar como se distribuíram os Trabalhos de Projeto no âmbito deste Mestrado, ao longo de quatro anos, foi-nos permitido constatar como evoluíram no tempo estas pesquisas, desde a 1ª Edição do curso de 2º Ciclo. Através da observação ao Quadro 4, podemos constatar que há regularidade no número de investigações discutidas. Os dados relativos à 4ª Edição do curso revelam o facto de só um mestrando não ter pedido adiamento e ter entregado o trabalho no prazo previsto, em maio de 2013. Os restantes mestrandos deverão entregar os trabalhos para discussão pública durante o mês de novembro de 2013, pelo que não foram considerados no âmbito deste estudo.

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Quadro 4 – Evolução do Número de Estudos Distribuição de frequências e percentagens

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O conjunto de dados reunidos parece apontar para a continuação do ritmo de investigação neste curso. 4.2 Que problemáticas são estudadas?

Tal como referimos anteriormente, para a caracterização das problemáticas estudadas, tomámos como referência um conjunto de critérios, de modo a contribuir para um conhecimento mais profundo do que se investiga, em que contexto e sobre quem. Os quadros seguintes referem-se a cada um desses pontos de análise, isto é, aos temas tratados, aos objetos de estudo e, por último, aos contextos observados e estudados.

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- Temas tratados na investigação Com base na análise do Quadro 5, pode verificar-se que existe um predomínio de estudos na Linha de Investigação 1 (72,9%) relacionados com Avaliação e Intervenção em Educação Especial e Inclusiva. Os estudos relacionados com as Dimensões Histórica e Ecológica da Educação Especial e Inclusiva - Linha 2, são foco de menor interesse (20,8%) e o tema das Políticas Educacionais, Gestão da Escola e Formação de Professores em Educação Especial e Inclusiva - Linha 3 é, até à data, o menos investigado (6,3%). & 0$12/3$4&526//

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- Objetos de Estudo Da análise dos resultados apresentados no Quadro 6 é percetível que os “alunos” são o principal foco da investigação desenvolvida no âmbito dos Trabalhos de Projeto de mestrado analisados, com 68,8%, ou seja 33 investigações. Os “professores” surgem em segundo lugar, com 14,5% dos estudos (7 investigações). É possível, também, observar algum interesse nos estudos em torno de “outros” objetos (10,4%) e da “família” (4,2%). Por outro lado, apenas um estudo (2,1%) incide na “formação de professores”, sendo esse, aliás, o valor mais baixo verificado nesta categoria de análise, o que não deixa de ser um fator de estudo interessante, até porque o processo e as práticas de formação de professores na EE são, reconhecidas e incontornavelmente, questões de grande importância nesta área.

3. Esiti di ricerca


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Quadro 6 - Objetos de estudo Distribuição de frequências e percentagens

- Contextos em que a investigação é realizada Da análise do Quadro 7, pode verificar-se que uma grande parcela das investigações realizadas (37 estudos, 77%) decorreram no contexto “escolar”, presumivelmente porque a maioria dos aprendentes deste curso são professores e porque estes procuram, principalmente, desenvolver os seus estudos no contexto “escolar”. Com valores de menor expressão verificam-se pesquisas no contexto “outros” (14,5%) e no contexto “Transição Vida Pós-Escolar” (8,5%). & 3)4&$=&);/ 487.+%2&&

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Quadro 7 - Contextos em que a investigação é realizada & Distribuição de frequências e percentagens

4.3 Com que metodologias de investigação?

Como referido anteriormente, para a caracterização das metodologias de investigação usámos um conjunto de critérios, de modo a contribuir para um mais detalhado conhecimento do tipo de análise realizada nos estudos, as técnicas e instrumentos aí utilizados, bem com a dimensão da amostra. Os quadros seguintes referem-se a cada um desses pontos de análise.

- Tipo de Análise Através do Quadro 8 é possível observar a preferência na maior parte dos Trabalhos Projeto por uma análise de dados de tipo “qualitativo” (85,4%), em detrimento de uma análise “quantitativa”, utilizada em apenas 1 investigação, ou seja, 2,1% do conjunto dos casos considerados neste estudo. Numa percentagem reduzida desses estudos (12,1%) são utilizadas combinações de ambos os tipos de análise (análise “mista”). A opção por dados qualitativos é, assim, manifestamente a preferida por estes mestrandos.

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Quadro 8 - Tipo de Análise Distribuição de frequências e percentagens

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- Técnicas e instrumentos utilizados Da análise aos resultados apresentados no Quadro 9, podemos verificar a predominância das técnicas de recolha de dados “mistas” (observação, e inquérito, quer por entrevista, quer por questionário, notas de campo…), em 58,4% do total de estudos. Os estudos analisados recorrem, ainda, à técnica do inquérito, por questionário (20,8%), e através de entrevistas (14,5%). Por fim, com pouca incidência, utilizam-se testes padronizados (4,2%) e grelhas de observação (2,1%). & 0A%4'%2;/ 4#12/*"81%& O6/81".#L2".&

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- Amplitude da Amostra Sobre a amplitude das amostras estudadas, o Quadro 10 mostra que 64,6% das investigações incidiram em estudos em que a amostra era constituída por mais do que um sujeito. Os restantes 33,3% enquadram-se em estudos com um sujeito e 2,1% em estudos sobre uma instituição. & ?1);&52/

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Quadro 10 – Amplitude da Amostra Distribuição de frequências e percentagens &

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3. Esiti di ricerca


4.4 Qual a origem geográfica dos estudos?

Do ponto de vista da “geografia” dos estudos, isto é, da sua distribuição pelos distritos de Portugal Continental, a análise dos resultados sugere algumas tendências que são interessantes analisar. Foi no Distrito de Castelo Branco, tal como se pode observar no Quadro 11, que se realizaram a maioria das investigações (29 estudos, 60,4%). Nos Distritos de Portalegre e Santarém desenvolveram-se 3 estudos em cada (6,3%), nos de Lisboa e Coimbra dois estudos cada (4,2%) e no Distrito da Guarda apenas um estudo (2,1%). O valor respeitante a “Outras” origens geográficas (16,5%) refere-se a um conjunto de localizações onde decorreram estudos no âmbito deste mestrado sem que fosse possível determinar com precisão o distrito a que correspondem: Centro, Alentejo, Vale do Tejo e Zona do Pinhal. & !5'B$1/

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Quadro11 – Origem Geográfica dos Estudos Distribuição de frequências e percentagens

5. Considerações finais

Partindo dos dados analisados no estudo, e da reflexão a que nos conduziu, parece-nos importante levantar algumas questões que permitam constituir uma sistematização das principais tendências nas investigações realizadas no âmbito deste Mestrado, contribuindo, assim, para a continuação da realização deste tipo de pesquisas. Começamos por destacar o interesse pelo desenvolvimento de temas relacionados com a Avaliação e Intervenção em Educação Especial e Inclusiva, em detrimento dos estudos direcionados para as Dimensões Histórica e Ecológica da Educação Especial e Inclusiva bem como dos estudos nas Politicas Educacionais, Gestão da Escola e Formação de Professores em Educação Especial e Inclusiva. Considerando, ainda, que os “alunos” e os “professores” são os principais objetos de investigação, e que uma parte significativa das pesquisas realizadas decorreram no contexto “escolar”, verifica-se uma clara tendência dos aprendentes deste curso, maioritariamente professores, em desenvolverem os seus Trabalhos Projeto em torno de questões e problemas concretos, visando, sobretudo, analisar e compreender os fenómenos ou situações por eles observados nos seus contextos profissionais. Apesar dos mestrandos serem maioritariamente professores, é interessante verificar que, a importância que atribuem a temas relativos às Políticas Educaanno VI | n. 1 | 2018

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cionais, Gestão da Escola e Formação de Professores em Educação Especial, questões de grande importância na área, é pouco expressiva e até mesmo preterida em função de outras temas relacionados com as famílias e, até, com outros sujeitos fora do contexto escolar. Quanto às opções metodológicas, verifica-se uma clara tendência pela investigação Qualitativa e pelo recurso a técnicas de pesquisa mistas. É de destacar que, no entanto, o inquérito, quer por entrevista, quer por questionário, é uma técnica muito utilizada e que, pelo contrário, as grelhas de observação e os testes padronizados são, até à data, instrumentos pouco usados, isoladamente, nas investigações analisadas. É ainda de referir que os estudos considerados foram, sobretudo, realizados em torno de mais do que um sujeito por investigação e que apenas um estudo foi realizado em torno de uma instituição. Importa, ainda, refletir sobre o importante contributo que estas pesquisas podem representar nos professores que as realizaram, pela massa crítica criada e pelo impacto que podem ter, no futuro próximo, nas comunidades escolares em que estão integrados, ou naquelas por onde venham a passar. Efetivamente, mais de um terço dos estudos desenvolvidos no âmbito deste curso decorreram fora do Distrito de Castelo Branco, maioritariamente nos locais de intervenção profissional destes mestrandos, o que se considera ser muito positivo, considerando que o capital investigativo desenvolvido poderá ser utilizado e enquadrado em projectos de intervenção ao nível desses mesmos locais.

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Referências bibliográficas Declaração de Salamanca (1994). Conferência Mundial sobre Necessidades Educativas Especiais: Acesso e Qualidade. Salamanca, UNESCO e Ministério da Educação e Ciência de Espanha. Ortiz González M. (1989). Orientación en la educación espacial: Modelos de integración. Siglo Cero, 121, 12-18. Porter G. (1994). Organização das escolas: Conseguir o acesso e a qualidade através da inclusão. In M. Ainscow, et al. (coord.), Caminhos para as Escolas Inclusivas (p. 33-46). Lisboa: IIE. López Melero M. (1996). De la reforma educativa a la sociedad del siglo XXI. La integración escolar, otro modo de entender la cultura’. In M. López Melero, & J. Francisco Guerrero (com.), Lecturas sobre integración escolar e social (pp. 33-79). Barcelona: Paidós. Illán Romeu N. & Arnaiz Sanchéz P. (1996). La Evolución histórica de la educación especial. Antecedentes y situación actual. In N. Illán Romeu (coord.), Didáctica y Organización en Educación Especial (pp. 13-43). Malága: Aljibe. Jimenez Martínez P. & Vilá Suñé M. (1999). De Educación Especial a Educación en la diversidad. Malaga: Aljibe.

3. Esiti di ricerca


Rumore di occhiali da sole

Key-words: soundscape, inclusion, blindness, sound art, visual art, cultural geography, heterotopy, utopia

3. Esiti di ricerca

Il presente contributo è stato redatto in stretta collaborazione tra gli Autori. Particolare attenzione di L. Rocca per la prima parte, di X. Erkizia per la seconda.

Italian Journal of Special Education for Inclusion

anno VI | n. 1 | 2018

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

There is not the sound of swords, but just the sound of sunglasses. The transaction from the perception of the space (geo-structure) to the representation of this space (geo-gramma) ends to shape a heterotrophic place where there are no duels or blood but there is a scene where is possible include different points of view. Though this experience different spaces juxtaposes even if in the normality they would be incompatible with each other; the purpose is to make accessible art works to people with different disabilities to turn, though the experience, the space into a place. In the last part of the work Xabier Erkizia presents an utopia following the Foucault (2010) ideas; this is a story between narration and sounds measured by the body (your easing, your sight and your emotions).

abstract

Lorena Rocca (Scuola Universitaria della Svizzera Italiana (SUPSI) Università di Padova / lorena.rocca@supsi.ch) Xabier Erkizia (Associazione AUDIOLAB / info@audio-lab.org)

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1. Etorotopia sonora

C. «mai visto in quadro cosi!»1.

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Quando C. davanti al quadro di Boccioni “il treno che passa” ha commentato in questo modo la sua esperienza di visita al centro Lugano Arte e Cultura (LAC), la commozione era talmente presente da poterla toccare. C. è non vedente dalla nascita e lo scorso agosto ha deciso di prendere parte ad una visita alla collezione del Museo d’arte della Svizzera italiana (MASI Lugano). È una visita speciale, sono mesi che la prepariamo con delle idee sull’accessibilizzazione ai luoghi d’arte per le persone non vedenti e ipovedenti che abbiamo condiviso tra noi, un gruppo di ricercatori “indisciplinato” con competenze diversissime (architettoniche, di design d’interni, sociologiche, pedagogiche, psicologiche, linguistiche, artistiche, geografiche, filosofiche), ma con la volontà di ampliare le possibilità che un museo d’arte offre. Ci abbiamo ragionato a lungo, per noi era importante dare la possibilità di vivere non solo un’esperienza artistica intellettuale stimolante, ma di giocare sulla relazione fisica degli spazi in rapporto alla sua architettura, alla sua acustica per trasformare lo spazio in luogo, uno spazio vissuto, connotato emotivamente. Siamo partiti con l’idea che lo spazio è un medium non neutro, rappresenta l’uso politico della conoscenza ed è performativo, circa i modi in cui si tracciano limiti o si definiscono identità. Direbbe Lefebvre (1976), è uno spazio percepito che attiene alla pratica spaziale di riproduzione sociale. Per noi è stato fondamentale individuare le logiche di potere tra nodi, reti e maglie che nel museo si configurano come regole: ciò che si può fare o che non si può. Queste regole escludono comportamenti scorretti o dannosi, misurano le superfici e ne controllano l’accessibilità. Quello che ne esce è uno spazio empirico, materializzato e prodotto socialmente per rispondere a dei bisogni. Ma quali bisogni? Ai bisogni di chi? P. «Quando entro in un museo di solito sono molto irritata, molto nervosa mi agito perché non vedo più bene ed è molto faticoso, ci sono molte restrizioni». 1

Le citazioni nel testo sono tratte dalle trascrizioni del Focus Group realizzato all’interno del progetto di ricerca “Mediazione Cultura Inclusione”, condotto dal Laboratorio cultura visiva della SUPSI in collaborazione con la FSC, Federazione svizzera dei ciechi e deboli di vista ed in particolare con l’UNITAS, Associazione ciechi e ipovedenti della Svizzera italiana. In particolare il sottogruppo di progetto del Dipartimento Formazione e Apprendimento della Scuola Universitaria della Svizzera Italiana, all’interno del consolidato filone si ricerca sui paesaggi sonori, ha proposto un’esperienza di sonorizzazione di alcune opere scelte tra le collezioni del Museo d’arte della Svizzera italiana (MASI Lugano) esposte, lo scorso agosto (2017), presso il Lugano Arte e Cultura (LAC). Sono state coinvolte dieci soci dell’UNITAS che hanno risposto volontariamente all’invito. I focus group realizzati al termine dell’esperienza di visita sonora avevano l’obiettivo di raccogliere le impressioni dei partecipati rispetto: all’efficacia e la pertinenza del suono come strumento di trasposizione di un’opera visiva, rispettivamente figurativa o astratta e alla funzionalità del format in generale (visita guidata intervallata da ascolto). Nello scorrere del teso si fa riferimento alla narrazione sonora di questa esperienza curata da Xabier Erkizia presente al link http://paesaggisonori.www2.dfa.supsi.ch/x-erkizia-e-l-rocca-rumori-di-occhiali. Nelle varie parti interessate al racconto viene riferito il minutaggio corrispondente.

3. Esiti di ricerca


P. «Il museo io lo vedo quasi come un luogo sacro. Mi piacerebbe andare da sola. Perché devo vedere con gli occhi di altri? Perché deve interessarmi o piacermi quello che interessa o piace a chi mi accompagna? Ho la possibilità di percepire la presenza di opere di artisti che sono lì esposti dal vero, che hanno una personalità con una marcia in più. Perché devo andare accompagnata? Perché devo ascoltare le scemenze che dicono gli altri?».

Lo spazio concepito da P. rimanda agli spazi delle rappresentazioni (Lefebvre, 1976). Quella di P. è infatti una sua proiezione, un desiderio che delinea nuove funzioni ed originali interpretazioni dello “spazio museo”. In genere, chi entra al museo lo percepisce come un luogo sacro. Il silenzio, gli spazi molto grandi, i percorsi forzatamente guidati in una direzione o secondo un verso definito, ne fanno trasparire la logica e il valore. P. piega la sacralità in un suo desiderio, certo non del serbatoio di regole e costrizioni che questo spazio porta con sé, ma di un’intimità che vorrebbe ricreare in un contatto privato e diretto con l’opera che si trova lì davanti a lei, ma che non può controllare con un colpo d’occhio. Il museo, quale spazio pubblico, per venire incontro a P. dovrebbe plasmarsi in uno spazio privato, in cui poter vivere un’esperienza artistica di contatto diretto con l’opera. Nella fase di progettazione dell’esperienza, di realizzazione e nel Focus Group finale (presenti al minuto 16:19 della narrazione di Xabier Erkizia al link http://paesaggisonori.www2.dfa.supsi.ch/x-erkizia-e-l-rocca-rumori-di-occhiali) si è dovuto realizzare un inevitabile passaggio dalle pratiche spaziali -la geostuttura del museoa nuovi spazi della rappresentazione -geogramma-. In questo processo di adattamento alle forme istituzionali dello spazio-museo non si è sentito rumore di sciabole, ma ironicamente, solo rumore di occhiali da sole, quegli occhiali che non hanno un uso funzionale nelle persone non vedenti ma che, indossati o meglio “sfoderati”, possono portare alla costruzione di preziose eterotopie. Foucault (2004) «ci sono dunque paesi senza luogo e storie senza cronologia; […] di cui sarebbe certo impossibile trovare traccia in qualche carta geografica […] semplicemente perché non appartengono a nessuno spazio […] insomma è la dolcezza delle utopie. Credo tuttavia che ci siano -e questo in ogni società- delle utopie che hanno un luogo preciso e reale, un luogo che si può localizzare su una carta. Questi spazi assolutamente altri sono le etero-topie».

Torniamo un attimo indietro immaginiamo i dieci volontari non vedenti e ipovedenti dell’UNITAS che, in una calda mattina d’agosto, arrivano al LAC di Lugano da posti molto diversi del Canton Ticino, chi con il treno, chi accompagnati, chi guidati dal proprio cane2. Non è facile arrivare al LAC, ma sono lì elettrizzati e curiosi di partecipare ad una sperimentazione che renda merito alla loro fatica. A. «Trovo che per noi toccare le opere sia un’esperienza unica. Capisco i vincoli assicurativi, ma per me è assolutamente importante».

2

Per visionare la documentazione della gioranta: <http://www.mci.supsi.ch/risorse/interpretazioni-sonore> (consultato il 5 luglio 2018).

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LORENA ROCCA, XABIER ERKIZIA

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L’esperienza prende avvio a un’esplorazione tattile. Il racconto dell’esperienza, ricostruita da Xabier Erkizia, la si può sentire al minuto 00:00 (al link: http://paesaggisonori.www2.dfa.supsi.ch/x-erkizia-e-l-rocca-rumori-di-occhiali). Mani che vedono scorrono la scultura, ne cercano di riconoscere i tratti, l’epoca, il gusto. L’esperienza funziona perché accompagnata da una densa narrazione. La voce calda, appassionata e preparata, segna la via alle mani, mani ironiche capaci anche di ridere ma soprattutto di immaginare, insomma, mani che vedono.

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B. «Personalmente credo che non è necessario toccare un quadro. A me non dice nulla, non posso capire il colore o le forme, posso percepire le rugosità della tela. Il quadro poi può essere rovinato e questo non è di nessuna utilità».

Pensando all’impossibilità di far toccare i quadri, ma forse anche, come suggerisce B., alla inutilità di questa operazione, resta la necessità di stabilire un contatto, di rendere viva la presenza dell’opera. La nostra eterotopia prende quindi la forma di un’esperienza che si vuol proporre ai volontari dell’UNITAS e che faccia leva sulla potenzialità e sull’efficacia del suono attraverso i corpi. La traduzione sonora èstata elaborata da un professionista, un artista Xabier Erkizia, specializzato proprio nell’ambito delle installazioni sonore. Erkizia ha creato una galleria parallela alle opere visuali composta appositamente per lo spazio-museo. Questa diventa parte dell’eterotopia dal momento in cui propone una giustapposizione di più spazi che normalmente sarebbero incompatibili: da un lato la densa descrizione che contribuisce a creare delle immagini mentali delle opere narrate; dall’altro la sonorizzazione che evoca e ricrea la presenza dell’opera stessa; tutto attraverso i corpi di chi, nel tempo definito in cui l’eterotopia prende vita (le due ore della vista), con la loro presenza e sensibilità limiti e possibilità diventano il punto zero del mondo a partire dal quale è possibile sognare, parlare, procedere, immaginare, percepire le cose al loro posto. È un corpo che non ha luogo, ma è da lui che nascono e si irradiano tutti i luoghi possibili, reali o utopici (Foucault, 2004).

3. Esiti di ricerca


P. «Essere avvicinata al quadro da una musica che è stata composta appositamente per questo spazio è un grandissimo aiuto per cogliere la presenza del quadro stesso. Permette di stare lì, di osservare di più e di non pensare alla mia vista. Tutto questo fa sì che diventi un vero piacere stare in quel luogo».

Nella nostra eterotopia l’intervento sonoro ha voluto rompere la logica della pratica spaziale che si svolge nella quotidianità del museo ed ha proposto un intervento sonoro aperto in un rapporto il più stretto possibile con la fisicità delle opere. T. «Non sarebbe stata la stessa cosa con le cuffie. Questo effetto delle vibrazioni non le hai con le cuffie. Le cuffie ti isolano».

La scelta di usare altoparlanti di dimensioni proporzionate rispetto alle opere, ha reso fisicamente le dimensioni e la presenza dell’opera stessa nelle sale creando forti parallelismi tra le sensazioni visive generate dalle opere negli spazi espositivi e quelle sonore. Inoltre le apparecchiature audio sono state posizionate in modo strategico nelle sale in modo tale che se ne potesse cogliere il lay-out generale (e non solo delle opere selezionate), la collocazione e la logica espositiva offerta dal museo stesso. T. «Si sentivano anche le frequenze sonore e poi entravano in vibrazione e la spiegazione del colore che pulsa faceva vivere la tela. Il suono ha un’incredibile forza immersiva. Le descrizioni di Silvio, la sua passione nel raccontarle, unite alla dimensione sonora rendevano la fisicità delle opere, come se ci fossi dentro».

Ha condotto la visita Silvio Joller, mediatore culturale del LAC che ha rielaborato la presentazione delle opere curando nel dettaglio la descrizione producendo così una densa narrazione (Tuan, 1974) molto partecipata ed appassionata che veniva ad intrecciarsi con le sonorizzazioni. In qualsiasi momento i partecipanti potevano interagire ed esprimere le loro impressioni in una sorta di dialogo partecipato e non secondo il format della visita guidata. Come si usa in molti musei, inoltre, è stato loro offerto uno sgabello che poteva essere collocato davanti all’opera. Non erano però costretti a stare in posizione statica, ma a loro era data la possibilità di muoversi in autonomia negli spazi a disposizione del museo, possibilità che in molti hanno colto. B. «La dinamica spiegazione e suono mi faceva vedere il quadro. Ho preferito la sonorizzazione delle opere figurative, si sentivano i grilli».

M. «La parte sonora più descrittiva mi ha fuorviato. Nel quadro di Boccioni ho sentito una campana ma la campana non c’era. La musica astratta era più evocativa riusciva a darmi più sensazioni. Mi è piaciuta di più».

A. « Durante la visita dei quadri giallo e rosso sono stata infastidita, i suoni erano talmente ipnotici che sembrava di andare in trans meditativo. Poi mi è stato descritto il giallo e il suo pulsare sulla tela. Mi è piaciuto tantissimo, il suono mi ha fatto vedere la vibrazione del giallo. Sicuramente senza il suono non mi sarei neppure fermata davanti a quest’opera».

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LORENA ROCCA, XABIER ERKIZIA

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Infine, la nostra eterotopia ha voluto esercitare la concezione del bello dando valore alla soggettività. Alcune sonorizzazioni sono state vissute come descrittive e per questo facilitanti, altre più astratte sono state maggiormente predilette perché in grado evocare l’opera, altre hanno suscitato emozioni positive, alcune negative, parti sonore sono state comprese alla luce della spiegazione, altre non sono state capite per nulla. Ma l’elemento importante è che tutte hanno permesso di sviluppare una “visione” personale di bello e brutto, suscitando le stesse emozioni che ciascuno di noi prova quando si reca a visitare delle opere di artisti moderni. Attraversare il museo con la chiave dei suoni ha posto di fatto i partecipanti nella stessa condizione delle persone vedenti con un sapere esperto in più aumentando la percezione di contare in quel contesto e, per questo, di sentirsi bene, in quel luogo o meglio in quella eterotopia. Per avvicinare ancor più il lettore vi proponiamo un racconto sonoro di Xaber Erkizia. Il testo sintetizza la logica che ha guidato la sonorizzazione delle opere, la traccia sonora dei frammenti di narrazione. Potete ascoltarla tutta oppure attivarla in relazione al racconto. A voi la scelta. Ciò che prenderà corpo sarà un’utopia nel senso che ne dà Foucault (2010). Queste opere sonore sono infatti nate tra gli interstizi delle parole, nello spessore dei suoni raccolti in dialogo con gli spazi del museo che l’Artista si è rappresentato nella sua mente. Ma ora ascoltarle da dove voi siete, attraverso i mediatori che utilizzerete, è vero, in un certo senso rende la logica potenzialmente trasferibile in altre eterotopie, ma soprattutto diventa un luogo senza luogo se non il luogo in cui voi riprodurrete queste tracce: una vera utopia.

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2. Interpretazioni sonore 00:00 inizio percorso3.

La proposta si basa su un lavoro di traduzione delle opere (principalmente opere pittoriche e sculture) che si pone in stretta relazione con gli spazi del museo, la tematica dell’opera, la sua estetica, l’epoca di realizzazione, il formato o il materiale utilizzato, ma, allo stesso tempo, offre ai visitatori una nuova esperienza e una rilettura originale dell’opera stessa. Ogni esercizio di sonorizzazione e di densa descrizione, presenta un elevato grado di soggettività. È chiaro che ogni traduzione (sia essa anche semplicemente testuale) è un’interpretazione soggettiva dal momento che è impossibile riportare letteralmente e in tutta la sua globalità lo spirito dell’opera. Pertanto la priorità data durante la realizzazione di questo delicato esercizio è stata quella di ricercare una formula che potesse offrire un’esperienza artistica in grado di dare sensazioni simili a quelle che i visitatori vedenti possono sperimentare quando si avvicinano alle collezioni permanenti del museo.

3

Al link http://paesaggisonori.www2.dfa.supsi.ch/x-erkizia-e-l-rocca-rumori-di-occhiali la narrazione sonora dell’esperienza di Xabier Erkizia. Ad ogni opera è collegato il minutaggio corrispondente. Qui l’eterotopia prende corpo.

3. Esiti di ricerca


Ciò che si è realizzata è una galleria parallela di altrettante opere sonore che attraversa quella visuale ed offre un’esperienza che privilegia l’udito. Vale la pena notare che durante il processo di realizzazione di questa traduzione sonora si è rilevato il potenziale di questo esercizio, non solo in termini di “visibilizzazione” dell’opera, ma come strumento in grado di decodificare e valorizzare le idee integrate originariamente nelle opere anche se queste sono messe in secondo piano nel contesto del museo. Pertanto, alcune di queste interpretazioni offrono all’ascoltatore (sia esso vedente, non vedente o ipovedente) una lettura contemporanea delle opere in forma di commento sonoro (non verbale), che dialoga con la “densa descrizione” ed aggiunge nuove stratificazioni di significato. Il percorso si configura quindi come un esercizio dal grande potenziale educativo che può proporre dialoghi diversi tra le opere dell’intera collezione (quindi non solo la fruizione di una singola opera) e che arricchisce di una nuova esperienza il visitatore che si avvicina alle opere. Treno che passa, 1908 (Umberto Boccioni)

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02:08 Treno che passa, Umberto Boccioni.

Questa opera pre-futurista di Umberto Boccioni ha un grande carattere sonoro. Il paesaggio naturale mostrato qui in primo piano, in una forma impressionistica, sembra mascherare una locomotiva che sullo sfondo dell’immagine attraversa la campagna da destra a sinistra. La relazione con le dimensioni configura un doppio effetto sonoro che da un lato utilizza il suono della locomotrice quale “punto di fuga sonoro” segnando questo paesaggio acusticamente, dall’altro dà una profondità acustica di ampio spettro. Questo è senza dubbio un brillante esercizio di rappresentazione di un paesaggio sonoro realizzato paradossalmente attraverso un’arte, quella del dipinto, a priori silenziosa. La traccia sonora cerca di riprodurre l’esercizio quasi tridimensionale proposto da Boccioni, ponendo di fronte due piani principali con l’aggiunta di minuscoli frammenti sonori del paesaggio come pennellate (di fantasia-fiction) che sembrano voler fondersi con il paesaggio sonoro naturale della campagna.

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LORENA ROCCA, XABIER ERKIZIA


Asphere II, 1988 Asphere VII, 1989 (Roni Horn)

05:19 Aspheres, Roni Horn.

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Il materiale metallico e denso utilizzato originariamente per la realizzazione di queste due sculture sonore emisferiche determina la traduzione sonora delle stesse. La sensazione di densitĂ , il peso di un oggetto che sembra voler rotolare, ma è fermo nello spazio e la sua estetica luminosa sono gli elementi scelti per la realizzazione dell’opera sonora, che, come nei casi precedenti, ha voluto unire le due parti in un unico insieme, esattamente come sono esposte nella mostra. Cartagena (Yellow Painting), 1989-1990. Opponent (Red grid), 1990 (Roeth Winston)

07:23 Thru series: yellow and red, Roeth Winston.

3. Esiti di ricerca


La realizzazione di questa traduzione sonora si basa sulla teoria cromatica della pittura messa a punto dal chimico inglese George Field alla fine del XIX secolo. Con il libro intitolato Chromatics, or The Analogy, Harmony and Philosophy of Colours (1817), Field cominciò un’originale ricerca dedicata quasi esclusivamente alla natura e alla riproduzione dei colori. Per questa sua ricerca fu premiato diverse volte. Sulla base del confronto tra i colori e toni musicali primari, l’autore propone una relazione tra occhio e l’orecchio che, in questo caso, abbiamo usato per rappresentare i due dipinti di Roeth Winston: Cartagena (Yellow Painting) (19891990) y Opponent (Red grid) (1990). Prendendo come punto di partenza i due colori primari dei quadri, le due composizioni sonore mantengono il tono minimalista degli oggetti pittorici, così come le sottigliezze dei confini della griglia di forma quadrata che include le due opere. Le traduzioni sonore rispettano le dimensioni originali dei quadri trasportati in estensione temporale, in modo che, da un lato, i suoni conversano con i quadri, dall’altro, le due opere sonore convivono da sole. In questo modo è possibile ascoltare i due brani sia separatemene che insieme. Alain Colas, Monument pour un Marin Disparu, 1989 (Thomas Schütte).

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10:41 Alain Colas, Thomas Schutte.

Queste due opere scultoree di Schutte hanno tra loro una curiosa conversazione proprio per la disposizione assunta nell’esposizione. Sono due omaggi alla figura del marinaio: la prima scultura rappresenta il noto velista francese Alain Colas (1943-1978), il primo essere umano che ha realizzato il giro del mondo su una nave multiscafo; la seconda è un omaggio al marinaio perduto e fa riferimento alla scomparsa di Colas proprio mentre era in competizione con il suo eterno rivale Éric Tabarly (1931-1998). Il brano di traduzione sonora si basa su una raccolta di registrazioni realizzate in vita dallo stesso Alain Colas; registrazioni di radioamatori raccolte dopo la sua scomparsa, avvenuta nei pressi delle Isole Azzorre e la durante le sue ricerca; uccelli marini nelle Azzorre, interni di barche e registrazioni dei diversi suoni del mare Atlantico (sull’acqua e sott’acqua). Il brano sonoro ha l’obiettivo di rafforzare il rapporto tra queste due opere fondendole in una. anno VI | n. 1 | 2018

LoRenA RoCCA, XAbIeR eRkIzIA


Via Nassa 1 novembre 2014-2015 (Silvia Gertsch).

14:08 Via Nassa, Silvia Gretsch.

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Questa volta l’obiettivo della composizione sonora è stato quello di realizzare una traduzione quasi letterale dell’opera pittorica della Gertsch. A tal fine, è stata utilizzata, come base, una registrazione di campo effettuata nella stessa strada rappresentata nel lavoro della Gertsch: Via Nassa a Lugano e riprodotta attraverso un vetro nel tentativo di proporre un parallelismo rispetto alla tecnica della retropittura su vetro utilizzata nel lavoro originale. Per ottenere l’effetto, la registrazione sul campo è stata ri-registrata in forma di vibrazionale con un microfono che capta le vibrazioni dagli oggetti solidi. Come risultato, è possibile ascoltare la registrazione reale della strada, con le attività che quotidianamente lì si svolgono, filtrata attraverso il vetro, che crea un filtro risonante che distorce, in un certo senso, la realtà della scena della registrazione originale e crea una sensazione di realtà e di finzione simile a quella che ha realizzato nell’immagine la Gertsch.

Riferimenti bibliografici Foucault M. (2004). Utopie. Eterotopie. Milano-Udine: Mimesis, 2010. Foucault M. (2010). Eterotopia. Napoli: Cronopio. Lefebvre H. (1976). La produzione dello spazio. Milano: Moizzi (ed. or. 1974, La production de l’espace, éditions Anthropos, Paris). Tuan Y. (1974). Topophilia, a study of environmental perception, attitudes, and values. Englewood Cliffs, prentice Hall.

3. Esiti di ricerca


Il partenariato come risorsa: l’integrazione socio-educativa e sanitaria come prospettiva per far fronte ai bisogni dei minori d’età e le famiglie in situazione di fragilità

This research paper analyses the manner in which institution work together in order to meet the educational and development needs of children and families. The contribution presents a survey regarding the ways that the Integrated University Health Authority of Trieste and the Municipality of Trieste work together to develop a partnership for the joint care of vulnerable children. The methodology used is intended to investigate how the above-mentioned services have worked to integrate themselves. We employed documentation produced by the two institutions as well as in-depth interviews with the relevant individuals. The interviewees have expressed the positive results obtained thus far and the critical issues still to be addressed.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: partnership, integration, services, documentation, survey

3. Esiti di ricerca

Martina Marchi ha curato la parte di raccolta dati e stesura dell’articolo; Elena Bortolotti ha seguito l’impostazione della ricerca e ha curato la revisione dell’articolo

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Martina Marchi (Università di Trieste / marchi.martina92@libero.it) Elena Bortolotti (Università di Trieste / ebortolotti@units.it)

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“La frase più pericolosa in assoluto è: abbiamo sempre fatto così.”

Grace Murray Hopper

Introduzione

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All’interno della società in cui viviamo si incontrano difficoltà che, per essere trattate, impongono uno sguardo sempre più complesso e multidimensionale, uno sguardo d’insieme che va utilizzato anche per le richieste di sostegno e di aiuto che coinvolgono i minori d’età e le rispettive famiglie, e che sempre più spesso approdano presso i servizi, siano essi sociali ed educativi o quelli sanitari. Constatata l’utilità di procedere con un’ottica multidisciplinare, il seguente articolo vuole affrontare il delicato tema dell’importanza della collaborazione tra enti, al fine di promuovere quelle reti necessarie per rispondere ai bisogni di crescita dei bambini. Si vuole in particolar modo esaminare il difficile percorso che porta a equilibrare, di fronte a situazioni di fragilità e bisogni che stanno nel mezzo di problematiche diverse, l’ottica sanitaria con l’ottica socio-educativa. A tal fine si presenta, in questo contributo, un’indagine sul percorso che l’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Trieste (da qui in avanti, A.S.U.I.Ts) e il Comune di Trieste, stanno svolgendo al fine di far nascere, ed evolvere, una partnership che ha come obiettivo la definizione di una rete di supporto per la presa in carico congiunta di minori d’età in situazione di difficoltà e di disagio. Si tratta di due culture che, nonostante la loro diversità organizzativa, gestionale e valoriale, sono riuscite a trovare campo comune che ad oggi vuole arrivare a una gestione di corresponsabilità delle situazioni complesse. Prendendo dunque le mosse dalla teoria di E. Schein (1985) che definisce la cultura organizzativa come “[…] l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato” (cit. in Bonazzi, 2006, p. 159), si andranno ad analizzare gli assunti presenti nei documenti comuni che le due organizzazioni hanno creato per condividere i percorsi di presa in carico e, attraverso alcune interviste, si approfondiranno le criticità incontrate nella co-costruzione di questo percorso di collaborazione.

1. La legislazione in merito ai diritti dei minori d’età

Nell’ampio quadro del tema dei diritti dei minori d’età non si possono ignorare i due anni più importanti: il 1924 e il 1989. Rispettivamente il 1924 è la tappa decisiva per la nascita della “Dichiarazione di Ginevra” (stilata dopo le conseguenze della Prima Guerra Mondiale), mentre il 1989 è l’anno in cui è stata emanata la “Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza”, che richiama i diritti dei bambini a crescere e vivere secondo prospettive adeguate al periodo di sviluppo, diritti che richiamano quindi l’importanza del gioco, dell’istruzione e della cura. Rimanendo a livello internazionale, inoltre, dobbiamo considerare anche il 2006, in quanto è l’anno in cui è stata approvata la “Convenzione sui diritti delle persone con disabilità”, una Convenzione che nuovamente ribadisce e richiama l’attenzione sui minori e, in particolar modo, 3. Esiti di ricerca


sui minori affetti da disabilità. Il 2006, però, è stata solo una tappa di un lungo percorso cominciato a partire dagli anni ’80, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità decise di affiancare all’ICD-10 (International Classification of Diseases) un primo documento (l’ICIDH - International Classification of Impairments, Disabilities and Handicaps) finalizzato a fornire, assieme alla diagnosi, informazioni riguardo al funzionamento delle persone sul piano corporeo, personale e sociale, riconoscendo quindi, al di là della patologia diagnosticata, la diversità insita in tutti gli individui. Vi è stata poi un’evoluzione concettuale che ha portato, nel 2001, alla pubblicazione dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), un documento che permette di affrontare alcune condizioni umane non solo secondo l’ottica della malattia o della menomazione, ma con uno sguardo al funzionamento generale della persona, tenendo presente anche i fattori contestuali che rappresentano le circostanze in cui vive (modello bio-psico-sociale). Nuovamente troviamo nella pubblicazione di questo documento un’attenzione ai minori d’età che porta alla pubblicazione, nell’anno 2007, della versione ICF-CY (Children and Young), dove viene ribadita l’attenzione rispetto alla dipendenza dei bambini e degli adolescenti dai contesti di nascita e di vita (Bortolotti, 2012). Il panorama che si è posto in questi ultimi quarant’anni a livello internazionale vede inoltre una continuità con l’ottica che si è sviluppata a livello nazionale. I diritti che troviamo all’interno della legislazione italiana possono essere, solo per fare alcuni esempi, il diritto al mantenimento, all’istruzione, all’educazione e di assistere moralmente il minore d’età nel rispetto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni (art. 147 del Codice Civile)1. In letteratura troviamo i diritti che alludono alla necessità di avere una famiglia, quello di vedere riconosciuta e rispettata la propria identità e, infine, il diritto all’assistenza. Diritti, quelli sopra elencati, che sono contenuti all’interno della “Convenzione internazionale”, ratificata in territorio italiano con 176/91. In materia di disabilità, i passi avanti che sono stati fatti vengono concretizzati, soprattutto, con la Legge 104/92. Per i minori d’età con disabilità si riferisce a indicazioni legislative e pedagogiche che vengono contestualizzate principalmente in ambito scolastico e, in particolar modo, avendo come obiettivo l’integrazione scolastica di alunni con disabilità (Galanti, 2017; Ianes e Canevaro, 2015). Ma i bisogni legati alla disabilità non si fermano qui, è da affrontare con attenzione il diritto a una progetto di vita che conferisca a tutti i soggetti disabili, che da bambini divengono adulti, quei percorsi che portano a garantire una vita percepita come dignitosa e di qualità. Ciò porta a ragionare in termini di servizi che siano sempre meno legati all’ottica sanitaria/assistenziale e sempre più legati all’ottica socio-educativa, che guardano, cioè, alle persone e alle loro potenzialità di crescita e di inserimento sociale. Tutto ciò obbliga dunque a “ripensare” anche i servizi e il ruolo che si devono assumere nel rispondere a queste nuove prospettive.

1

www.brocardi.it/codice-civile/libro-primo/titolo-vi/capo-iv/art147.html.

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MARTINA MARCHI, ELENA BORTOLOTTI

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2. La tutela dei diritti nei servizi

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I diritti elencati sino ad ora mantengono inalterato il nocciolo celato delle Convenzioni, ovvero il rispetto dei minori d’età come soggetti in divenire che, nel percorso di crescita, necessitano di un supporto e di un affiancamento. Due aspetti che dovrebbero essere garantiti dalla prima agenzia di socializzazione con cui il bambino entra in relazione, la famiglia. In questo caso è necessario alludere alla possibilità che alcune famiglie non siano in grado di affrontare determinate situazioni, tra le quali, l’evoluzione della società che, a detta di Z. Bauman (1999), appare “liquida”. Una società che cambia velocemente intaccando anche i valori di comunità che vengono sostituiti da valori utilitaristici. Le famiglie che subiscono questi cambiamenti possono ritrovarsi vessate da difficoltà economiche, ma anche sociali, per non aggiungere poi le complessità educative e gestionali che emergono quando si presenta la disabilità di un figlio. Complessità che si riverberano su questo gruppo primario e che ne svalutano il valore e la sua funzione principale, quella di essere il “punto di partenza”, ovvero il luogo, lo spazio relazionale, in cui il bambino riceve l’“[…] imprinting culturale [che] segna gli esseri umani, fin dalla nascita, […] con il sigillo della cultura familiare” (Morin, 2001, p. 27). La famiglia è punto di partenza per l’educazione e per la socializzazione, è il punto di partenza per la crescita e per la formazione dell’identità (Mancini, 2001). Nello spazio in cui manca un supporto, o esiste una condizione di vivere un disagio, intervengono i servizi, che devono attuare interventi secondo le modalità previste dalla legge, collaborare tra di loro secondo un’ottica reticolare, al fine di aiutare le famiglie e i minori d’età in difficoltà. Quali sono questi servizi?

1) I servizi sociali: secondo Galli D. (2005) per “[…] servizi sociali si intendono le dotazioni tramite le quali si sviluppano tutte le attività di Servizio Sociale, ivi comprese anche quelle del privato sociale orientate a farsi carico dei bisogni della collettività” (Galli, 2005, p.33). Il servizio sociale racchiude in sé numerose funzioni. Prendendo in considerazione l’analisi dell’autrice sopra citata, si possono riassumere in: funzione conoscitiva (il servizio sociale conosce e studia, ad esempio, il territorio di intervento, le potenziali risorse e le caratteristiche sociali), la funzione curativa (aiuta le persone attraverso la relazione di aiuto), quella organizzativa (attiva le risorse e le politiche sociali) ed, infine, quella di prevenzione e promozione (mira alla soluzione di problemi).In questo quadro generale, subentra quello che Bertotti T. chiama “dilemma strutturale”. Esso “[…] riguarda la costante necessità di trovare un bilanciamento tra i bisogni del bambino e quelli dei genitori” (Bertotti, 2012, pp. 45-46). 2) I servizi educativi: si può qui affermare che quelli specializzati hanno lo scopo di affiancare i minori d’età e le loro famiglie durante la loro crescita, tutelarli da situazioni pregiudizievoli, garantendo loro un supporto in momenti delicati della loro vita. In generale si tende a ipotizzare che i servizi educativi si riducano alle mere strutture formative (si pensi, ad esempio alle scuole di ogni ordine e grado) dimenticando che un servizio socio-educativo, secondo l’analisi di Besozzi e Colombo (2014) va concepito anche in un’ottica più ampia, che coinvolge innanzitutto la famiglia, definita come una vera e propria istituzione e in complementarietà anche le agenzie extrascolastiche che in qualche modo offrono supporto educativo e istruttivo ai minori di età. 3. Esiti di ricerca


3) I servizi sanitari: per annoverare l’azione dei servizi sanitari è necessario citare il “Codice del diritto del minore alla salute e ai servizi sanitari” (2015) un documento che, secondo Spadafora V. (Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza) “[…] rappresenta un notevole passo avanti verso la garanzia dei diritti dei minorenni in campo pediatrico sanitario”2. Il Codice è risultato utile anche nell’ambito della disabilità e per ragazzi ospedalizzati infatti, analizzando il suo contenuto, troviamo due articoli di rilevanza, ovvero, l’art. 3 il quale si riferisce al “Diritto alla salute” e, nella parte III intitolata “Minori e assistenza sanitaria”, troviamo l’art. 6, il quale annovera un aspetto che verrà trattato successivamente, ovvero quello della continuità assistenziale.

I servizi precedentemente citati possono attuare interventi o programmi innovativi di supporto come, per esempio, il programma P.I.P.P.I. (Programma di Intervento Per la Prevenzione dell’Istituzionalizzazione) che qui merita un accenno in quanto può essere definito come il punto di inizio verso la rimodulazione del lavoro socio-educativo. Il progetto è nato nel 2010 dalla collaborazione tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il Laboratorio di Ricerca e Intervento in Educazione Familiare dell’Università degli Studi di Padova e alcune città italiane che per prime hanno accettato di applicarlo. La strutturazione del programma non indugia su ciò che manca all’interno della famiglia o all’esercizio delle funzioni genitoriali, ma lavora sulle potenzialità presenti, valuta positivamente ciò che la famiglia possiede come risorse, affronta il dilemma che spesso l’assistente sociale e l’educatore incontrano, ovvero che riguarda la necessità di trovare un bilanciamento tra i bisogni del bambino e i bisogni dei genitori (Bertotti, 2012). L’obiettivo principale del programma P.I.P.P.I. è diminuire la percentuale di istituzionalizzazione all’interno di comunità di minori d’età, attuando interventi di supporto alla famiglia per una vera e propria educazione familiare.

3. L’obiettivo del seguente lavoro

Adottare un’ottica reticolare per la progettazione comune risulta una scelta vincente per la presa in carico congiunta di minori d’età (e la famiglia) in situazione di disagio e, in particolar modo, per dare attuazione alle disposizioni della L. 328/20003 (divenuta L.R. 6/2006 nel Friuli-Venezia Giulia). Comunemente l’ottica reticolare si concretizza secondo modalità usuali per cui il Servizio sociale comunale e l’Azienda Sanitaria collaborano con il Terzo Settore, mantenendo una separazione che si esaurisce secondo questa equazione: il Comune sta al sociale, come il sanitario sta all’Azienda sanitaria. Le due culture organizzative ineriscono principalmente, la prima, alla prevalenza di aspetti sociali ed educativi e l’altra alla prevalenza di aspetti sanitari. Tale visione si è evoluta, in territorio triestino,

2 3

Istituto Nazionale per i diritti dei minori, Codice del diritto del minore alla salute e ai servizi sanitari, Roma, 2015, p. 7. Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

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rompendo lo schema dell’equazione precedente e cercando l’“integrazione socio-sanitaria” rivolgendo l’attenzione sulle funzioni, prestazioni e servizi piuttosto che sulle rispettive identità organizzative. Si è cercato un nuovo livello gestionale che non preveda più la netta separazione degli ambiti professionali e disciplinari sanitario, sociale o pedagogico, ma prestazioni che, pur mantenendo le specificità proprie di ognuno di essi, sono connesse tra di loro per lasciare spazio a una governance integrata che consideri in toto le funzioni sanitaria, sociale e pedagogica per garantire unitarietà nell’erogazione di servizi per il cittadino. La ricerca che qui viene presentata va ad indagare le modalità con le quali si è perseguito l’obiettivo di integrare i suddetti servizi. Nello specifico si è lavorato esaminando innanzitutto la documentazione che è stata prodotta dalle due organizzazioni per la collaborazione, che ha portato alla nascita di un protocollo comune denominato “Procedure Comuni per la presa in carico congiunta di minori d’età in situazione di disagio”. L’obiettivo prefissato era quello di indagare se la compartecipazione di questi due Enti storici fosse equilibrata nell’apporto alla documentazione nata da questa collaborazione, tale da poter parlare d’integrazione socio-sanitaria in forma paritaria. In particolar modo, si è voluto comprendere se vi era parità nella presenza delle due culture prendendo in considerazione il linguaggio utilizzato, ovvero con l’ipotesi che un protocollo integrato debba rappresentare in modo paritario la cultura e il linguaggio proprio dell’ambito sanitario e dell’ambito socio-educativo. Si è voluto dare importanza a questa collaborazione in quanto, come sostiene Santamaria (2013, p. 192), è necessario “[…] avviare un processo di rivisitazione e di ripensamento […], facendo investimenti collettivi sulla conoscenza e su esperienze diverse, costruendo alleanze inedite, promuovendo collaborazioni parziali, piccole sperimentazioni che mettono insieme più sguardi per riconoscere i problemi”. Una posizione sostenuta anche da Moretti M. (2014, p. 37), secondo la quale “[è necessario] superare il tradizionale principio della netta separazione dei poteri, trovare nuove forme di collaborazione tra istituzioni che hanno sì funzioni diverse, ma che debbono necessariamente coordinare la loro azione per attuare nel modo più pieno possibile il diritto di un soggetto non in grado di autotutela e di autopromozione”. Contestualizzando tali principi nell’ambito dei servizi, bisogna tener conto del fatto che gli operatori si trovano di fronte a una moltitudine di strumenti utili a inquadrare una situazione, ma che la grande quantità di schede di segnalazione diverse, rischia di mettere in difficoltà gli operatori stessi. Ed è a questo punto che sembra utile, se non indispensabile, standardizzare la segnalazione in modo tale che possa andare bene a tutti i servizi che sono coinvolti (Giamberardino , Stradi, 2008). Una decisione che ha coinvolto i due servizi presi in esame e che ha previsto la nascita di una scheda di segnalazione che viene utilizzata congiuntamente.

3. Esiti di ricerca


4. La metodologia della ricerca

Per analizzare come i due enti si sono organizzati sono stati utilizzati due metodi di analisi:

1) l’analisi di contenuto di documenti prodotti congiuntamente dai due enti; 2) le interviste semi-strutturate a testimoni qualificati (o soggetti di indagine esperti). L’analisi del contenuto, metodologicamente parlando, permette di “[…] prendere un documento verbale, non quantitativo e di trasformarlo in dati quantitativi”(Bailey, 2006, p.77), ed è stata utilizzata per tredici protocolli di “Procedure comuni” (tra revisioni e documenti ufficiali). Dopo una iniziale lettura dei protocolli sono state definite le categorie utili per poter perseguire l’obiettivo della ricerca. In questo caso le “categorie” sono le seguenti: 1) “sanitario”; 2) “socio-educativo”; 3) “partenariato”.

Per ogni “categoria” sono state valutate le “unità di analisi” (per esempio per la categoria “Sanitario”, sono state conteggiate parole come diagnosi, prognosi, assistenza ecc.; per la categoria “Socio-educativo”, parole come sociale, educatore, progetto ecc.; per la categoria “Partenariato”, parole come condivisione, collaborazione, scambio ecc.). Come divisore è stata utilizzata la somma di tutte le “unità di analisi” presenti in tutto il documento. La media finale di tutti i dati raccolti analizzando i documenti (sempre per “Categoria”) è stata effettuata per verificare se esiste una situazione di parità tra le due culture organizzative. I dati sono stati inseriti in una matrice e, in un successivo momento, in un grafico (istogramma) che riassume il valore percentuale presente nei protocolli. La validità, in tal caso, è dimostrata dal fatto che tutti i documenti sono simili tra di loro, infatti, se “[…] i materiali, la lingua, la grammatica, lo stile e l’uso delle parole sembrano tutti coerenti per di un certo periodo, [si può] andare in cerca di indicazione che gli consentano di determinare la validità apparente esaminando il contenuto del documento” (Bailey, 2006, p. 93). La seconda parte della ricerca si è basata sul concetto già citato di cultura organizzativa data dallo psicologo statunitense E. Schein (1985) il quale cita “l’insieme coerente di assunti fondamentali che un dato gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato imparando ad affrontare i suoi problemi di adattamento esterno e di integrazione interna, e che hanno funzionato abbastanza bene da poter essere considerati validi […]” (cit. in Bonazzi, 2006, p. 159). In questa sede, però, è necessario un approfondimento. La definizione non si riduce alla mera descrizione di cosa sia l’oggetto preso in analisi. Lo psicologo aggiunge che, in ogni cultura organizzativa, ci sono tre livelli fondamentali per l’identità dell’organizzazione stessa: 1) gli artefatti, ovvero “[…] i prodotti immediatamente osservabili di una data organizzazione […]” (cit. in Bonazzi, 2006, p. 160);

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2) i valori espliciti “[…] creati e fatti circolare dalla leadership con l’intento di rafforzare il senso di appartenenza […]” (cit. in Bonazzi, 2006, p. 160); 3) gli assunti di base che sono “[…] le convinzioni profonde e inespresse, date talmente per scontate da non attrarre l’attenzione e di cui spesso i membri non sono nemmeno del tutto consapevoli” (cit. in Bonazzi, 2006, p. 160). Basandosi su questa definizione è stata creata la traccia dell’intervista che, in un successivo momento, è stata somministrata a sei soggetti di indagine esperti (tre dell’ A.S.U.I.Ts e tre del Servizio sociale comunale) coinvolti, in primo piano, nella stesura del “Protocollo” e della nuova “Scheda di segnalazione”. La traccia dell’intervista (in allegato) è stata suddivisa in tre passaggi, il primo volto a esplorare l’organizzazione di appartenenza dell’intervistato e il ruolo che svolge (o svolgeva) all’interno dell’organizzazione. Si è voluto sondare l’appartenenza dell’intervistato alla rispettiva organizzazione, per poi inquadrarne la posizione e il punto di vista. È possibile infatti che il punto di vista di un responsabile dell’Azienda Sanitaria possa essere diverso, ad esempio, dal punto di vista di un responsabile del Servizio Sociale Comunale. Il secondo e terzo passaggio hanno affrontato invece rispettivamente:

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– “La storia delle Procedure comuni”. Si è voluto indagare il punto di vista dell’intervistato ponendo il focus su alcuni aspetti importanti quali le tappe significative che hanno contribuito alla stesura dei Protocolli e delle Schede di segnalazione, nonché le difficoltà riscontrate (da parte degli operatori) nell’utilizzo della documentazione che è scaturita dalla collaborazione tra Azienda Sanitaria e Servizio Sociale Comunale; – “La cultura organizzativa”. In questo caso si è voluto indagare quali siano, a parere degli intervistati (previa spiegazione a livello teorico di cosa si intende per “cultura organizzativa”), i valori dell’organizzazione di appartenenza, le criticità rispetto alla collaborazione con la cultura organizzativa diversa da quella di appartenenza, quali gli aspetti che creano le differenze tra l’Azienda Sanitaria e il Servizio Sociale Comunale, nonché suggerimenti che ciascun intervistato apporterebbe alla propria organizzazione e all’altrui organizzazione.

5. Gli esiti della ricerca

In prima istanza sono stati analizzati i dati complessivi ricavati dall’analisi del contenuto effettuata sulla documentazione prodotta nel periodo che va dal 2007 al 2017. La Tabella n.1 riporta il dato finale delle presenze percentuali delle categorie analizzate (1. sanitaria, 2. socio-educativa, 3. di partenariato).

3. Esiti di ricerca


Tab. 1 – Presenze percentuali delle categorie analizzate

Come si evince dalla tabella non vi è effettiva parità nel linguaggio utilizzato. Il riferimento agli aspetti sanitari prevale con una presenza del 46%, la dimensione socio-educativa presenta una percentuale lievemente più bassa, che si attesta al 42% che, seppure vicina agli aspetti sanitari, mostra ancora una certa subordinazione dell’area socio-educativa rispetto a quella sanitaria. Va ancora peggio quando s’indaga il linguaggio che fa riferimento alla collaborazione/partenariato, qui infatti si identifica solo il 12% di presenza di categorie concettuali che riferiscono a questa prospettiva. Per quanto riguarda le interviste, si può affermare che in linea generale sono emerse situazioni di conflitto dovute principalmente a linguaggi e mandati diversi. Queste, non solo non hanno impedito la definizione di prassi, procedure e standard condivisi, bensì hanno dato luogo a nuovi spazi di intesa. Tali spazi, oltre a mantenere vivo l’obiettivo dell’integrazione socio-sanitaria, permettono di lavorare conoscendo sia i difetti delle culture organizzative di appartenenza, sia quelli dell’altra cultura. Il confronto permette però di comprendere e moderare gli aspetti meno positivi, evidenziare i pregi, per valorizzarli e mantenerli vivi e, infine, consolidare e estendere, oltre i confini delle professioni e delle discipline, il campo aperto dell’integrazione socio-sanitaria, proponendosi a beneficio dei cittadini. Quanto segue è una esposizione degli estratti più rilevanti delle interviste. Per quanto riguarda la prima dimensione che andava a indagare l’appartenenza dell’intervistato e il ruolo che svolge (o svolgeva) all’interno dell’organizzazione, possiamo classificare i ruoli degli intervistati nel seguente modo:

1) per l’Azienda Sanitaria: una/un direttore, una/un responsabile e una/un collaboratore. 2) per il Servizio Sociale Comunale: una/un responsabile di posizione organizzativa, una/un ex responsabile di posizione organizzativa (arrivata/o all’età pensionabile) e una/un ex dirigente; La seconda dimensione andava ad indagare “La storia delle Procedure comuni”.

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La storia delle Procedure comuni è una storia abbastanza lunga. Gli intervistati alla domanda “Mi racconti, dal Suo punto di vista, la storia delle Procedure comuni” hanno espresso il loro vissuto e il loro punto di vista rispetto alla nascita di questo lavoro condiviso. Tutti e sei gli intervistati hanno alluso sia alla necessità di applicare la legge nazionale 328/2000, sia all’esigenza di trovare punti in comune per strutturare interventi per l’area target sino a qui presa in considerazione. Le difficoltà nel superare alcuni conflitti sono state ridimensionate grazie ad un aiuto esterno che ha mediato rispetto ai due enti. […] era previsto che ci fosse un’area comune in cui non era possibile differenziare ma era possibile delineare le prestazioni sanitarie ad alta integrazione, o prestazioni sociali ad alta componente sanitaria, quest’area doveva essere affrontata in modo congiunto. Int. 2 (A.S.U.I.Ts)

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Come precedentemente ribadito la storia delle Procedure comuni è una storia lunga, ma anche molto complessa. Una storia che ha alcune tappe significative che meritano attenzione in quanto hanno permesso di muovere i primi passi verso il lavoro condiviso, di comprendere le modalità di lavoro dell’Ente opposto e di avere una “consapevolezza organizzativa” che si concretizza nella necessità di confrontarsi con un punto di vista professionale che, nella quotidianità, non si trova all’interno dell’organizzazione di appartenenza. Ecco che alla domanda “Quali sono, a Suo parere, le tappe più significative della nascita delle P.c.?”, gli intervistati hanno espresso pareri concordi della condivisione di risorse umane (ad esempio l’educatore che lavora all’interno del Comune di Trieste ha prestato le sue conoscenze presso l’A.S.U.I.Ts e, viceversa, lo psicologo che lavora all’interno dell’A.S.U.I.Ts ha collaborato all’interno del Comune di Trieste). Anche le situazioni di conflitto, però, sono risultate costruttive anziché portare alla disgregazione del gruppo di lavoro. […] l’azienda ha dato la possibilità […] alla figura del psicologo […] di svolgere delle ore proprio all’interno del Gruppo Affidi del Comune […] questo è stato un […] aspetto che ha aiutato moltissimo anche la relazione tra servizi. Int. 1 (Comune di Ts) sicuramente la formazione […] i momenti di conflitto anche piuttosto aspri […] ma che hanno aiutato a capire […] Int. 6 (A.S.U.I.Ts)

A opinione degli intervistati che hanno risposto alla seguente domanda “Quali strumenti avete utilizzato per trovare un accordo che andasse bene alle culture organizzative dell’A.S.U.I.Ts. e degli Ambiti4?”, gli strumenti utilizzati per trovare un accordo tra le due organizzazioni variano da strumenti oggettivi/pratici (i gruppi di lavoro o le normative) a strumenti meno concreti ma che di per sé svolgo un ruolo non meno importante come, ad esempio, il dialogo. sono stati strumenti a più livelli […] si è cercato di trovare degli strumenti che venissero utilizzati e riconosciuti da ambedue i servizi. Int. 5 (Comune di Ts)

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Ambiti del Comune di Trieste.

3. Esiti di ricerca


Abbiamo parlato. Nel senso che abbiamo molto discusso e dialogato…tentando di trovarci di tanto in tanto in qualche terra di nessuno. Int. 4 (Comune di Ts) […] la riflessione degli strumenti è stata quella che dovrebbe progressivamente portare ad una maggiore consapevolezza dei gruppi di lavoro […] abbiamo molto curato questa necessità di comunicare in modo esplicito formale e non interlocutorio. Int. 2 (A.S.U.I.Ts)

Infine, andiamo ad analizzare l’ultima dimensione: “La cultura organizzativa”. Indagando sulla parte valoriale della cultura organizzativa di appartenenza, gli intervistati che hanno espresso un’opinione rispetto alla domanda “Come definisce la cultura organizzativa di appartenenza? Quali valori?”, hanno ribadito punti di vista diversi sia che appartenessero alla stessa organizzazione, che ad un’organizzazione diversa. In entrambe le organizzazioni i punti in comune sono la centralità della persona e il rispetto dei diritti. […] un valore è quello di continuare furiosamente di mantenere la persona al centro…in questo caso il bambino e la famiglia al centro […] l’altra cosa è la questione dell’integrazione […] cioè all’aumentare della complessità del bisogno deve aumentare l’integrazione e la mutliprofessionalità […]. Int. 2 (A.S.U.I.Ts) […] l’attenzione a non perdere mai di vista che si sta lavorando con delle persone…questa […] sembra scontata, ma non è così scontata nei servizi sociali dove la pressione della domanda sociale aumenta tantissimo […]. Int. 5 (Comune di Ts)

Nonostante le differenze riscontrabili a livello operativo, a livello finanziario o di mandato queste due culture organizzative sono state “[…] in grado [,per un obiettivo comune,] di dialogare con operatori interni ed esterni alla propria organizzazione […]” (Orefice, 2001, p.200). Un aspetto, quello della collaborazione, che trova terreno fertile nell’opinione degli intervistati i quali, alla domanda “Come considera la collaborazione con una cultura organizzativa diversa?”, rispondono ritenendola faticosa, ma positiva perché le due organizzazioni si sono confrontate portando così ad una maggior consapevolezza delle modalità di lavoro e una maggiore fiducia l’una nei confronti dell’altra. […] la considero faticosa ma interessante […] devi concentrarti e prendere atto che esiste una visione diversa dalla tua […]. Int. 4 (Comune di Ts) un’altra cosa positiva è che nella maggior parte delle situazioni […] c’è una fiducia […] reciproca […] non è che le situazioni sono le mie o le tue, sono nostre. Int. 6 (A.S.U.I.Ts)

Durante l’intervista sono stati indagati anche gli aspetti che creano differenze tra le due culture organizzative. Gli aspetti emersi dall’opinione degli intervistati che hanno risposto alla domanda “Quali sono gli aspetti che, a suo dire, creano una differenza tra il Servizio sociale comunale e l’A.S.U.I.Ts. al di là dell’aspetto sociale e sanitario?”, sono riconducibili ad aspetti oggettivi e concreti quali la burocrazia e i finanziamenti. Una burocrazia, quella del Comune, che risulta molto

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più complessa e granitica rispetto a quella dell’A.S.U.I.Ts mentre, per quanto concerne i finanziamenti, una minor difficoltà da parte dell’A.S.U.I.Ts ad ottenere risorse finanziarie in quanto strumento della Regione. […] forse la nostra burocrazia cerca di essere un po’ più vicina alla persona […]. Int. 6 (A.S.U.I.Ts)

[…] la gente di una città […] sceglie una politica con la quale essere amministrato […] che piano sociale avere, quindi quali politiche sociali; l’Azienda Sanitaria, invece, non ha questa dimensione […] è un ente strumentale della Regione quindi questo è proprio una differenza sostanziale […]. Int. 4 (Comune di Ts)

Ovviamente non mancano le criticità. Al quesito “Quali cambiamenti introdurrebbe nel gruppo di lavoro di appartenenza per migliorare l’interazione con gli operatori dell’A.S.U.I.Ts./dei Servizio sociale comunale ed educativi?” gli intervistati che rappresentano il Comune ribadiscono posizioni diverse ma che, di per sé, hanno come tema comune le risorse umane cioè cercare, ad esempio, di diminuire il turn over; l’A.S.U.I.Ts, invece, allude sia alla gestione diversa del carico di lavoro ma anche la creazione di un équipe multidisciplinare che gestisca esclusivamente l’area delle Procedure Comuni.

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[…] stabilità del personale, perché il grosso problema è il turn over…tu hai situazioni che hanno visto dieci assistenti sociali nel giro di tre, quattro anni di dispersione. Int. 1 (Comune di Ts)

il carico di lavoro […] l’altra è che forse dovremmo predisporre delle modalità di gestione delle risorse che riguardano i minori che fossero comuni, cioè non solo le Procedure, ma anche forse l’utilizzo di alcune risorse. Int. 2 (A.S.U.I.Ts)

Ogni organizzazione, inoltre, ha espresso un proprio parere rispetto ai cambiamenti che introdurrebbero nella cultura organizzativa di non appartenenza. Alla domanda “Quali cambiamenti organizzativi e operativi suggerirebbe per i gruppi di lavoro dell’A.S.U.I.Ts./ dei Servizio sociale comunale ed educativi per migliorare l’interazione con il gruppo di lavoro di appartenenza?” gli intervistati che rappresentano il Comune ribadiscono che l’A.S.U.I.Ts, oltre ad attuare interventi a livello gestionale, dovrebbe destrutturare l’impronta aziendalistica per poi così avvicinarsi più facilmente al cittadino mentre l’A.S.U.I.Ts, rispetto al Comune, ribadisce che dovrebbe diminuire o ammorbidire le pratiche burocratiche, oltre a diminuire il turn over del personale (opinione condivisa anche da alcuni intervistati del Comune stesso). […] penso anche che sia un po’ una complicazione la caratterizzazione aziendalistica dell’Azienda Sanitaria […] c’è un distacco nell’immediatezza tra il popolo italiano e la salute che, alla fine, porta ad alcune aberrazioni che rischiano di farci avvicinare agli Stati Uniti […]. Int. 4 (Comune di Ts)

3. Esiti di ricerca


[…] una maggiore apertura […] il turnover del personale […] [in quanto]per situazioni che hanno bisogno di continuità, questo è un dato che non funziona. Int. 2 (A.S.U.I.Ts).

Conclusione

A oggi possiamo affermare che, se dal punto di vista legislativo vi è ampio consenso e attenzione ai diritti della persona, il passaggio dai diritti alla loro fruizione è ancora un percorso in salita, che richiede ampio sforzo da parte del contesto sociale, degli enti del territorio e di chi lavora ogni giorno per erogare servizi alla persona. Il passaggio “dall’ideale al reale” non è dunque semplice, immediato e scontato e lo studio di cosa accade nella realtà può aiutare chi fa ricerca a meglio comprendere, e sostenere, le azioni che vengono messe in campo per perseguire gli obiettivi di intervento e di sostegno mirati a coloro che sono portatori di specifiche fragilità. Il lavoro qui portato vuole essere un piccolo contributo che aiuti a comprendere il cammino che gli enti, e coloro che li popolano, devono fare per co-costruire percorsi condivisi. Da un lato vediamo come sia fondamentale superare lo “scollamento” tra enti che erogano servizi alla persona, e in questa analisi si è potuto individuare nella scelta di trovare “Procedure comuni” per la presa in carico e la progettazione degli interventi un primo tentativo di risposta organizzativa. Vediamo anche la necessità di riconoscere pari dignità professionale a tutti gli enti e a coloro che operano all’interno di essi, in particolar modo il tema delle fragilità e dei bisogni speciali chiede un riequilibrio tra gli aspetti sanitari e quelli socio-educativi. L’integrazione socio-sanitaria si pone, infatti, come una direzione possibile per garantire tutte quelle risposte necessarie ai soggetti in difficoltà, senza perdere di vista due diritti fondamentali: il diritto alla salute e il diritto a essere innanzitutto persona.

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Allegati Traccia dell’intervista !"#$%&'())&)(#'*+,(+&--&$.*'*')&+,*//"('.*$0(1.&.#+*+(/+$2#/#+34*+10#/%*+5#+10#/%*0&6+ +&//"('.*$'#+,*//"#$%&'())&)(#'*+ !"#$%&'("$)#*'+,--'-,)+"$('.)#'/$0'$('.)#'1)2$ 3&'("$4&+-,)+"$0'/$0'$'.&1)$'((5,+1"#+)$6"((5)#*'+,--'-,)+"2$ !&+1.#$(&+,*//*+7$#3*,2$*+3#82'(+ 7,$#'88)+1,9$6'($:&)$;&+1)$6,$.,<1'9$('$<1)#,'$6"(("$!#)8"6&#"$8)=&+,>$ 3&'(,$<)+)9$'$:&)$;'#"#"9$("$1';;"$;,?$<,*+,4,8'1,."$6"(('$+'<8,1'$6"(("$!>8>ϱ2 $ 3&'(,$ <1#&="+1,$ '."1"$ &1,(,--'1)$ ;"#$ 1#).'#"$ &+$ '88)#6)$ 80"$ '+6'<<"$ A"+"$ '(("$ 8&(1&#"$ )#*'+,--'1,."$6"((5B>:>C>D>E<>$"$6"*(,$B=A,1,2$ !"+<'$6,$'."#$8)+1#,A&,1)$'6$'**,&+*"#"$"("="+1,$6,$+).,1F$6&#'+1"$('$<1#&11&#'-,)+"$6"(("$!>8>2$$ :"$<,9$%&'(,2$ G'$#,<8)+1#'1)$6,44,8)(1F$8)+$*(,$);"#'1)#,$;"#$(5&1,(,--)$6"(('$<80"6'2$ !&+32/.2$&+#$%&'())&.(0&+ H)="$6"4,+,<8"$('$8&(1&#'$)#*'+,--'1,.'$6,$';;'#1"+"+-'2$3&'(,$.'()#,2$ H)="$8)+<,6"#'$('$8)(('A)#'-,)+"$8)+$&+'$8&(1&#'$)#*'+,--'1,.'$6,."#<'2$ 3&'(,$6,44,8)(1F$;"#$I",$<)+)$<;"<<)$#,<8)+1#'A,(,2$ J,1,"+"$80"$('$8)(('A)#'-,)+"$8)+$(5B>:>C>D>E<>/,($:"#.,-,)$<)8,'("$8)=&+'("$'AA,'$;)#1'1)$'$%&'(8)<'$ 6,$+&).)$'($6,$(F$6"(("$!>8>2$ 3&'(,$ <)+)$ *(,$ '<;"11,$ 80"9$ '$ <&)$ 6,#"9$ 8#"'+)$ &+'$ 6,44"#"+-'$ 1#'$ ,($ :"#.,-,)$ <)8,'("$ 8)=&+'("$ "$ (5B>:>C>D>E<>$'($6,$(F$6"((5'<;"11)$<)8,'("$"$<'+,1'#,)2$ 3&'(,$ 8'=A,'="+1)$ ,+1#)6&##"AA"$ +"($ *#&;;)$ 6,$ ('.)#)$ 6,$ ';;'#1"+"+-'$ ;"#$ =,*(,)#'#"$ (5,+1"#'-,)+"$8)+$*(,$);"#'1)#,$6"((5B>:>C>D>E<>/6",$:"#.,-,)$<)8,'("$8)=&+'("$"6$"6&8'1,.,2$

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Acronimo di Procedure comuni.

3. Esiti di ricerca


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Universal Design for Learning nel contesto italiano. Esiti di una ricerca sul territorio

Giovanni Savia (Universidad Complutense de Madrid - I.C. “O. G. de Cruyllas” di Ramacca (CT) - Università di CaThe present research starts from the assumption that in the current educational landscape, inclusive education represents an important challenge for all teachers, protagonists, today more than ever, of a conceptual evolution of disability and the meaning of inclusion, which calls into question the way of thinking about normality, diversity and consequently the inclusive way of acting in didactic practice. The work highlights some problems, linked specifically to three fields of investigation such as the perception on disability and the inclusive education that teachers have, the language used and the difficulties of collaboration in the shared design of curricula accessible to all. Three aspects that influence the educational practice of each teacher and that deserve to be explored from different perspectives. In our case we introduced and shared, after a period of training, in the class councils of a group of teachers of some secondary schools of first degree, a considered promising approach to inclusive education such as Universal Design for Learning (UDL), with the aim of answering specific questions related to the three aspects of investigation and testing the applicability of the same in the field. They have been used detection tools initial, intermediate and final as the questionnaires and qualitative analysis such as the logbook, focus group and participatory observation. The results can be considered overall appreciable, with interesting improvements in the perception of teachers on inclusive education, in the reduction of the labeling language and in the relationships of collaboration between teachers and specialized for the support activities.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: inclusion, education, collaboration, UDL, languages

3. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

tania / giosavia@ucm.es)

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Introduzione

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È giunto il tempo di guardare con occhi diversi l’educazione inclusiva. Strategie, approcci e modelli che meritano la giusta attenzione, in una visione internazionale, che spinge verso un cambiamento di paradigma di inclusione unidirezionale, con al centro la persona che apprende, immersa nel proprio universo di bisogni educativi personali, di rispetto e di diritti umani che necessitano assoluta e incondizionata accettazione, valorizzandone ogni peculiarità individuale nella scuola ordinaria, in una piena contaminazione di didattica speciale e ordinaria. È giunto il tempo di un incontro di persone, di luoghi e di idee, per abbattere confini strutturali, limiti e ridurre distanze mentali al fine di condividere ricerca e passione in movimento, condividere nello specifico una filosofia di pensiero inclusivo, l’Universal Design for Learning (UDL), come valido approccio che contribuisce a costruire supporti facilitanti per gli educatori di oggi e di domani, ma soprattutto per lo sviluppo armonico e globale di tutti gli studenti di oggi until learning has no limits (cast.org). Un utile approccio che mira a educare gli educatori (Morin, 1997) a pensare e riflettere in profondità, in particolare, al fatto che la disabilità e l’inclusione sono ormai concetti evoluti, che spesso ci sbattono in faccia la rigidità e il senso di inadeguatezza del contesto in cui viviamo, di tutto quello che pensiamo e progettiamo per soggetti standard, lasciando ai margini una quantità sempre più ampia di alunni, categorizzando la normalità in una visione ristretta, limitata e lontana dalla realtà caratterizzante la diversità della natura umana. La condizione di disabilità non è mai solo nella persona e non è mai solo nel contesto, ma nell’interazione dinamica e sistematica persona-contesto, sulla base di questo nuovo concetto, solo un contesto sfavorevole determina un livello più o meno grave di disabilità (OMS, ICF 2001), evidenziando quindi anche la responsabilità dell’ambiente nel sapere accogliere le diversità di ognuno. Partire dalla evidente constatazione che la condizione umana è plurale, significa, come sostiene Morin (2001), che l’insegnamento deve produrre una antropo-etica capace di riconoscere il carattere ternario di questa condizione, che consiste nell’essere contemporaneamente individuo, specie e società, che ogni persona esprime ed emana unicità in ogni impronta lasciata e vissuta nel mondo che ci appartiene, dove diventa necessario rompere costrutti ideologici ormai superati, legami superflui nella società complessa e liquida (Bauman, 2011) che attraversa il nostro periodo storico, che si evolve intorno ai pilastri-valori delle differenze, dove la diversità illumina ormai ogni conoscenza e ogni nostra azione. Al centro del pensiero UDL c’è la premessa che spesso il curriculum è disabile, non è flessibile, pone delle barriere, e di conseguenza ostacola, piuttosto che facilitare esperienze di apprendimento ottimali per la variabilità degli studenti che dimorano nelle nostre classi (Meyer, Rose, Gordon, 2014). Ci troviamo, quindi, di fronte a un cambio di prospettiva in direzione inclusiva, a una frattura ideologica che pone domande interiori, a volte irritanti, che ci interrogano continuamente su quello che pensiamo, progettiamo e realizziamo nella scuola e nella società di oggi e di quella che verrà. Spunti di riflessione interessanti che ci portano oltre quella siepe che il guardo esclude (Leopardi, 1819), verso una gran visión (Pastor, 2012) che dalla base dei tre princìpi UDL, sviluppatesi dalla ricerca delle neuroscienze sulle tre reti neurali 3. Esiti di ricerca


attivate durante i processi di apprendimento (reti di riconoscimento, reti strategiche e reti affettive) e dai chiari riferimenti fondamentali di carattere psicopedagogico moderno (Vygotskij, Bloom e altri), che ampliano il campo di visione e di azione didattica con linee guida, punti di controllo e suggerimenti pratici per progettare e realizzare percorsi formativi accessibili a tutti. Una grande visione, un approccio educativo che insieme all’innovazione tecnologica rappresenta una sfida importante per la scuola inclusiva che ancora ci manca. Una nuova visione che stimola la creatività intrinseca di ogni docente (Ianes, 2016) e garantisce flessibilità ed equità nell’offerta formativa, personalizzabile sulla base delle esigenze di ogni alunno/a solo ed esclusivamente per la sua condizione di essere alunno e basta. L’Universal Design for Learning pone domande, a volte mette in crisi, destruttura il lineare procedimento del percorso comune di molti docenti, ma nello stesso tempo ristruttura, genera e rigenera la forza dell’insegnamento (Robinson, 2016), dove i bravi insegnanti, pur sapendo di non avere il pieno controllo su tutto il processo educativo, creano continuamente le condizioni ottimali dell’apprendimento per tutti gli alunni. Robinson, nel suo libro Scuola creativa, evidenzia che “gli insegnanti esperti rivestono quattro ruoli principali: coinvolgono, forniscono strumenti, hanno aspettative e creano le condizioni” (p. 126) e ancora, “gli insegnanti esperti adattano costantemente le loro strategie alle necessità e alle possibilità del momento. L’insegnamento efficace è un processo di continuo adattamento, valutazione e risposta all’energia e alla partecipazione degli studenti” (p. 128). Le riflessioni di Robinson e non solo trovano terreno fertile nella filosofia dell’approccio UDL, in quanto le linee guida elaborate dai ricercatori del C.A.S.T. (2008, 2011 e aggiornate nel 2018) indicano continuamente opzioni, percorsi e molteplicità nelle scelte, a conferma che non esiste un mezzo, uno strumento o una strategia ottimale per tutti e quindi proporre flessibilità diventa ormai necessario per una scuola creativa e pienamente inclusiva come deve essere. L’evoluzione del sistema scolastico inclusivo italiano, da oltre 40 anni, ha contribuito a costruire ponti e distruggere barriere grazie al pensiero creativo di personaggi (Don Milani, Falcucci et. al.), di azioni e di idee che hanno avuto la capacità e la forza di immaginare un possibile mondo migliore, forse non ancora pienamente compiuto, attraverso l’innovazione, la scoperta, ma soprattutto la passione per l’arte nobile dell’insegnare nella scuola di tutti e per tutti. Il docente passionale, che ama profondamente il proprio lavoro, non ha bisogno solo di etichette preliminari, che categorizzano sotto la lente medicalizzante gli alunni per comprenderne i bisogni educativi personali e progettare, insieme agli altri colleghi, curricoli accessibili per tutti. In questa nuova prospettiva culturale, per il docente inclusivo, preparato e competente “è vitale vivere nelle differenze” in quanto “la sterilizzazione dell’apprendimento è quella che molte volte viene giustificata con il fatto che vi è una disabilità” (Canevaro, 2013 p. 127), scuse non più accettabili nel mondo della globalizzazione dei diritti universali condivisi, della democrazia e della civiltà. Il nuovo paradigma dell’inclusione è inteso come un processo dinamico e aperto, un’immagine reticolare multicolore, che coinvolge persone e contesti, così come la variabilità della condizione umana, presenza costante che attraversa il nostro campo esistenziale. Nel dibattito attuale, la didattica inclusiva moderna ha bisogno di conoscere, anno VI | n. 1 | 2018

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approfondire e applicare l’approccio dell’Universal Design for Learning, non solo come innovazione strategica del momento, ma come struttura formativa alla base di ogni processo di apprendimento-insegnamento, in quanto “poggia decisamente sui valori etici delle pari opportunità e dell’equità” (Ianes, 2016 p. 21). In questa prospettiva, il contesto italiano, per la sua storia e il modello di inclusione sviluppatosi nel corso degli anni, risulta essere un territorio maturo e fertile per accogliere e far crescere un tipo di approccio come l’UDL, che vada anche a legittimare il sostrato culturale che caratterizza il nostro modello inclusivo unico.

1. Quadro teorico

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La presente ricerca è stata realizzata nell’ambito del programma del Dottorato di Ricerca in Educazione, linea di ricerca in educazione inclusiva e attenzione alla diversità, dell’Università Complutense di Madrid, in collaborazione con il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Catania e le scuole coinvolte. L’impostazione trova giustificazione nel fatto che, nell’attuale contesto sociale internazionale, una sfida importante per i sistemi di istruzione nei paesi di tutto il mondo è sicuramente l’inclusione sociale, in tutti i contesti e per tutte le persone. In questa prospettiva è proprio l’educazione inclusiva, in particolare, che deve saper rispondere congiuntamente con un approccio globale filosofico, etico, culturale, politico e psicopedagogico, in grado di promuovere l’accettazione e la valorizzazione delle differenze di ciascuno degli studenti presenti nel sistema formativo. Oggi, tutte le scuole italiane accolgono nella scuola ordinaria ogni alunno/a, indipendentemente dalle loro condizioni personali, culturali, economiche e/o sociali. Tuttavia, l’inclusione non ha a che fare solo con il semplice accesso fisico degli studenti con bisogni educativi speciali nelle scuole, ma con una vera e propria rivoluzione di pensiero finalizzata alla riduzione e alla eliminazione delle barriere all’apprendimento e alla partecipazione attiva di tutti gli studenti (Booth, Ainscow, 2011). Per garantire i diritti educativi essenziali riconosciuti per uno sviluppo integrale della persona umana, per ottenere una migliore qualità dei servizi educativi e per dare risposte concrete alla varietà di esigenze di questa grande e diversificata popolazione scolastica, è essenziale che gli operatori coinvolti nel sistema scolastico e non solo, conoscano e utilizzino approcci e principi di una progettazione curricolare equa e universale, al fine di permettere pari opportunità di apprendimento a tutti gli studenti e nel miglior modo possibile. In questo nuovo panorama culturale di inclusione e di istruzione per tutti, la necessità di abbracciare modelli operativi flessibili e personalizzabili che utilizzano anche le nuove tecnologie, sta emergendo come elemento necessario e strategico, come valido strumento per agevolare le attività lavorative scolastiche quotidiane, per migliorare e diversificare l’attenzione agli studenti con bisogni educativi speciali e non solo, ma anche come mezzo di apprendimento cooperativo professionale, oltre che come utile opportunità per riflettere sulla propria attività. Proprio in questo momento storico, la scuola italiana e i docenti in particolare, 3. Esiti di ricerca


stanno attraversando momenti di grandi cambiamenti culturali e organizzativi (ultima direttiva miur, circolari e chiarimenti sui Bisogni Educativi Speciali1, formazione continua e specialistica, merito2, personalizzazione dell’apprendimento, ruolo, funzione e responsabilità dei docenti, orario scolastico etc...), soprattutto nell’ambito dell’accettazione e della valorizzazione delle diversità a vario titolo e della ricerca di una giusta pratica educativa, finalizzata a realizzare concretamente processi di inclusione efficaci a favore di tutti gli studenti. Nelle classi ordinarie della scuola italiana c’è la presenza di una ampia variabilità di studenti che ha bisogno di una speciale attenzione educativa e i docenti devono affrontare una complessità di problemi comunicativi, collaborativi e di responsabilità rilevanti nella progettazione e gestione di un curriculum generale inclusivo e valido per tutti, in molti casi senza avere una preparazione adeguata. La necessità, quindi, di una formazione adeguata, soprattutto nell’ambito di strategie e di metodi per una didattica inclusiva efficace e nella risoluzione di problematiche connesse all’insegnamento nei confronti di alunni con bisogni educativi speciali, emerge dall’analisi di importanti documenti che mettono in evidenza la realtà scolastica italiana, la situazione lavorativa e bisogni formativi dei docenti (TALIS, 2013). Un aspetto non trascurabile evidente è la presenza di docenti che sono entrati nel sistema scolastico prima delle riforme di reclutamento docenti (SISSIS, TFA; FIT), con il possesso di titoli culturali del vecchio ordinamento senza alcuna formazione psicopedagogica o metodologica per l’insegnamento. Il nostro sistema scolastico inclusivo ha subito una piacevole evoluzione in dignità e rispetto della persona, e di fatto, a partire dal 2010 con la legge n. 170, ma soprattutto con la Direttiva del 27 dicembre 2012, la successiva circolare n. 8/2013, le note di chiarimento del 2013 e per ultimo il D.Lgs n. 66/2017, il quadro dei Bisogni Educativi Speciali (BES), si è ampliato e specificato molto, con percentuali in continuo aumento, differenti nei vari contesti territoriali e comprendente studenti con diverse disabilità certificate lieve, media e/o grave (dal 2 al 4%), studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (dal 3 al 10%), studenti con svantaggio socio-economico, socio-linguistico e socio-culturale (dal 3 al 15%). Questo sta determinando il bisogno diffuso, in ogni classe e per ogni docente, di aumentare il livello di attenzione speciale per un gran numero di studenti, che prima era limitato solo all’alunno/a con disabilità certificata e alla relativa assegnazione del docente di sostegno (ultimi dati Miur/Istat, a.s. 2016/2017). Gli strumenti legislativi disponibili e le diverse metodologie educative utilizzate dai docenti, permettono si l’accessibilità fisica nelle classi comuni di tutte le tipologie di studenti, ma nello stesso tempo si tende a identificare e catalogare ancora di più le diversità presenti in classe con un linguaggio etichettante e potenzialmente discriminante - studenti con disabilità certificata (H), studenti DSA, studenti altri BES etc.– tanto da determinare, stimolare e amplificare quel processo di categorizzazione considerato un possibile impatto negativo sulle reali

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Direttiva Miur del 27/12/2012; Circolare Ministeriale 8 del 6 marzo 2013; Nota Prot. 1551 del 27 giugno 2013; Nota Prot. 2563 del 22 novembre del 2013. Legge 107/2015 e relativi Decreti legislativi emanati nel 2017.

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opportunità di apprendimento di ogni alunno e sulla riduzione delle aspettative, come segnalato anche dall’European Agency for Development in Special Needs Education (2012). I dati mostrano come la variabilità e l’aumento degli alunni con bisogni speciali presenti in classe, determina, oggi più di prima, una forte presa di consapevolezza e di impegno verso strategie didattiche inclusive per tutti gli studenti e che tutti i docenti sono chiamati a conoscere e applicare. Mentre nella scuola primaria le problematiche evidenziate sono più contenute (presenza di un solo insegnante prevalente, programmazione settimanale condivisa etc.), nella scuola secondaria di primo grado, in particolare, il processo di differenziazione disciplinare (presenza di più docenti, di materie e formazione diverse, orario diversificato), l’evoluzione psicologica degli alunni (sviluppo psicofisico e relazionale) e la complessità di gestione unitaria della classe (mancanza di un valido modello educativo condiviso da tutti), produce grosse difficoltà comunicative, di collaborazione e di condivisione tra i docenti della classe, proprio nella progettazione, gestione e applicazione di curricula pensati per accogliere tutti gli studenti (Ianes, 2006; Canevaro, 2009; Dovigo, 2007; d’Alonzo, 2014). Anche il fenomeno della dispersione scolastica evidenzia una quasi assenza nella scuola primaria, con inizio graduale del fenomeno a partire dalla scuola secondaria di primo grado e un aumento sostanziale nella scuola secondaria di secondo grado. Dal focus sulla dispersione scolastica del servizio statistico del MIUR 2013, emerge che soprattutto nella Regione Sicilia, oggetto della presente ricerca e nella scuola secondaria di primo grado, la problematica di rischio abbandono scolastico comincia a diventare reale, meritevole di attenzione e in relazione al maggior disagio socio-economico e culturale presente nel territorio. Quest’ultimo aspetto oggi risulta particolarmente significativo, in quanto con la direttiva Miur del 2012 sui bisogni educativi speciali, devono essere curate problematiche prima discrezionali, ma che adesso vengono considerati motivo di individuazione di svantaggio e di conseguenza di intervento didattico personalizzato, con attivazione di opportune strategie migliorative del processo di insegnamento. L’ampliamento delle disposizioni di tutela fa emergere, però, un altrettanto uso frequente di una terminologia etichettante non adeguata al rispetto della persona e ancora più grave si produce inconsapevolmente un possibile disagio personale nella percezione di una diversità negativa penalizzante negli studenti che presentano bisogni educativi speciali riconosciuti, nei confronti degli altri che non sono ufficialmente etichettati e ritenuti nella norma (USR Emilia Romagna, 2013). In molte realtà scolastiche, diversi docenti vivono isolati la propria esperienza lavorativa, si registra spesso, una situazione di confusione educativa e conflittualità comunicativa costante tra docenti, con la sensazione di accettazione e di convivenza delle diversità quasi forzata, che non permette lo sviluppo di un ambiente inclusivo armonioso, una reale accessibilità all’apprendimento e il potenziale sviluppo delle qualità di ogni studente in maniera ottimale. La collaborazione tra docenti (curricolari e di sostegno) della stessa classe e l’utilizzo di un linguaggio educativo comune e condiviso risulta fondamentale per migliorare i processi di insegnamento e di apprendimento, l’ambiente di 3. Esiti di ricerca


lavoro e per promuovere contesti inclusivi per tutti gli studenti (Blanton, Pugach, 2007 e al.).

2. Perché l’Universal Design for Learning

Il CAST(Center for Applied Special Technology), definisce l’approccio dell’Universal Design for Learning (UDL) o Progettazione Universale dell’Apprendimento (PUA), come un insieme di principi (3), linee guida (9) e punti di verifica (31), sempre in evoluzione, per la progettazione e lo sviluppo di curricula che propongono a tutti gli individui pari opportunità per imparare e presenta un modello per la creazione di obiettivi didattici, metodi, materiali e valutazioni che valgono per tutti, non una sola soluzione, una taglia unica per tutti, one-sizefits-all, ma l’utilizzo di approcci flessibili che possono essere personalizzati e adattati per le esigenze individuali di ogni studente(cast.org). L’approccio UDL/PUA si sintetizza in tre principi didattici: 1. proporre molteplici forme di presentazione e rappresentazione, per dare agli studenti diverse opzioni per acquisire informazioni e conoscenza (Rete Riconoscimento); 2. proporre molteplici forme di azione ed espressione, per dare agli studenti diverse alternative per dimostrare ciò che sanno (Rete Strategica); 3. proporre molteplici forme di coinvolgimento, per dare agli studenti differenti stimoli di motivazione ad apprendere (Rete Affettiva).

Questi tre principi, si dividono, a loro volta, in nove linee guida e diversi punti di verifica operativi, per la progettazione iniziale e la scelta di obiettivi, strumenti, metodi, materiali a seconda del contesto (Savia, 2015). La maggior parte degli studi e delle ricerche mostrano che proporre informazioni, formazione e creazione di ambienti secondo i principi dell’UDL possono produrre un significativo miglioramento nell’atteggiamento collaborativo dei docenti e in generale nei processi di insegnamento e apprendimento a favore di tutti gli alunni, compreso gli alunni con bisogni educativi speciali (Spooner, Schelly, Davies, 2011; Sánchez, Díez et al., 2013). In Italia, in particolare, esistono pochissime esperienze di studio, formazione e applicazione dei principi UDL (Calvani, 2012; Mangiatordi, Serenelli, 2013; Guglielman, 2014; Ghedin, Mazzocut, 2017) e comunque limitati in gran parte alla presentazione teorica dei contenuti, anche se negli ultimi anni si registra un significativo interesse per tale approccio in considerazione degli elementi di stimolo lanciati nel mondo della scuola e dell’università. Non esiste alcuna ricerca scientifica di carattere empirico nella formazione dei docenti in attività e applicazione diretta sul campo dell’approccio, in particolare nelle classi nel contesto della scuola secondaria di primo grado.

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3. Obiettivi della ricerca

Obiettivi generali della ricerca sono quelli di individuare, analizzare, approfondire problematiche connesse all’educazione inclusiva e produrre, nei docenti coinvolti, un miglioramento sostanziale, attraverso l’utilizzo dell’approccio UDL, in particolare, negli atteggiamenti, nelle opinioni personali riguardo alla disabilità e all’inclusione, nella riduzione dell’utilizzo di un linguaggio etichettante nei luoghi di lavoro e non, sostituito con un linguaggio legato esclusivamente alla definizione di bisogni educativi essenziali della persona-soggetto e soprattutto un miglioramento nei rapporti di collaborazione efficace tra i docenti di sostegno e curricolari, co-autori di progettazioni curricolari condivise e valide per tutti gli alunni.

4. Domande della ricerca

L’analisi delle varie problematiche e la costruzione delle domande sono state definite e condivise con tutti i docenti coinvolti negli incontri iniziali e dalle considerazioni dell’analisi di contesto, in particolare, si cerca di dare risposte concrete alle seguenti domande:

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1) la conoscenza e l’applicazione dei principi e delle linee guida UDL potrebbero migliorare l’atteggiamento dei docenti verso l’educazione inclusiva per tutti? 2) La conoscenza e l’applicazione dei principi e delle linee guida UDL potrebbero migliorare la collaborazione dei docenti nella progettazione curricolare per tutti? 3) La conoscenza e l’applicazione dei principi e delle linee guida UDL potrebbe ridurre l’uso del linguaggio etichettante, potenzialmente negativo per gli alunni interessati?

5. Gruppo docenti coinvolti

Dopo un primo incontro pubblico generale di presentazione e sensibilizzazione sull’approccio UDL, diverse scuole interessate della Regione Sicilia, sono state invitate formalmente a deliberare la propria adesione alla ricerca, con un numero minimo di almeno tre docenti curricolari e specializzati per le attività di sostegno per ogni consiglio di classe, preferibilmente della scuola secondaria di primo grado e con criteri di scelta individuati dalle stesse scuole. Dopo invito e scadenza formale, hanno aderito volontariamente sette scuole3 distribuite nel contesto territoriale siciliano con un numero complessivo iniziale di 109 docenti così distribuiti: scuola infanzia n. 5; scuola primaria n. 11; scuola secondaria di primo grado n. 89; scuola secondaria di secondo grado n. 4. 3

I.C. Pitagora di Misterbianco (CT); I.C. “Calvino” di Catania; I.C. “Vasta” di Acireale; I.C. “Cruyllas” di Ramacca(CT); SSPG “Castiglione” di Bronte(CT); I.C. “Da Vinci” di Castel di Iudica/Raddusa; I.C. De Amicis di Enna.

3. Esiti di ricerca


Anche se tutti i docenti aderenti erano liberi di partecipare agli incontri programmati, la ricerca ha focalizzato l’attenzione sulla fascia della scuola secondaria di primo grado, ritenuta più rappresentativa riguardo agli elementi di ricerca con un gruppo di docenti appartenente a diverse classi di concorso (linguistico/letterario, matematico/scientifico, tecnologico, artistico e altro) e docenti con specializzazione alle attività di sostegno. Dopo i primi incontri, hanno partecipato attivamente e completato tutte le attività previste dalla ricerca n. 69 docenti, di cui docenti curricolari n. 38 e docenti con specializzazione per le attività di sostegno n. 31.

6. Metodologia e strumenti

Tutta la ricerca può essere considerata un’esperienza diretta sul campo, una ricerca-azione di tipo qualitativa interpretativa, che ha coinvolto attivamente i docenti in tutte le fasi, ha approfondito e applicato l’approccio dell’Universal Design for Learning nella formazione dei docenti e di conseguenza nelle classi del contesto di riferimento, per valutarne l’impatto con la nostra cultura inclusiva e i possibili cambiamenti dei docenti nell’attività didattica quotidiana. Il periodo di riferimento dell’intero percorso di ricerca va da gennaio 2015 a giugno 2016. La ricerca è partita con l’intenzione di esplorare per tutto il periodo tre campi di indagine legati alla professione docente in relazione ai processi di educazione inclusiva, nel dettaglio: 1) opinioni e atteggiamenti dei docenti riguardo alla disabilità e all’educazione inclusiva; 2) linguaggio etichettante utilizzato nel contesto scolastico; 3) collaborazione tra docenti di sostegno e curricolari nei processi di insegnamento-apprendimento.

In particolare, riguardo al linguaggio etichettante si intendono quelle forme linguistiche e quel particolare lessico che non stereotipizza, non etichetta, non denigra, non cancella o omette e che riconosce e rispetta la dignità di ogni persona, a prescindere dal proprio status personale, sociale, economico e giuridico (ISFOL, 2014) e per il contesto scolastico, nello specifico si intende quella terminologia etichettante utilizzata e diffusa nella pratica da alcuni docenti, in maniera formale e informale, in classe, nelle riunioni collegiali e/o anche fuori contesto, quando discutono degli alunni (es. alunno/a H, BES, DSA, ADHD etc.), trascurando, alcune volte, l’immagine e il nome della persona considerata nella propria essenza. All’inizio del percorso di ricerca, dagli incontri preliminari tra docenti delle diverse realtà scolastiche, sono emerse problematiche comuni condivise, attraverso le espresse dichiarazioni e le analisi di contesto iniziali dei gruppi docenti, coincidenti con i tre campi di indagine, nella quale, quasi la totalità dei docenti coinvolti ha dichiarato che nella propria scuola le opinioni sull’inclusione sono discordanti, si utilizzava un linguaggio etichettante e si confermava una considerevole difficoltà nella collaborazione tra insegnati curricolari e di sostegno, oltre a un dato di fatto anno VI | n. 1 | 2018

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ampiamente riconosciuto, che nella maggior parte delle classi di ogni istituzione scolastica coinvolta si registrava la presenza di alunni individuati con bisogni educativi speciali (disabilità certificata, disturbi specifici dell’apprendimento e svantaggio), a volte, in percentuali anche superiori al 30%. Questo mostrava l’esigenza di conoscere e condividere un modello di azione pedagogica comune, in grado di abbracciare un’unica visione dell’educazione inclusiva. Tutti i docenti coinvolti hanno compilato, in presenza e in forma anonima, un questionario iniziale, costituito da n. 19 items su scala Likert, con quattro opzioni di risposta: pienamente d’accordo; poco d’accordo; in disaccordo; completamente in disaccordo; e con l’obiettivo di fare emergere e condividere le diverse problematiche legate ai campi di indagine riguardante la disabilità e l’inclusione, l’importanza del linguaggio utilizzato e la qualità della collaborazione tra docenti curricolari e di sostegno. Dopo un primo incontro generale, collettivo e formativo, nel quale sono stati condivisi i principi e la normativa di riferimento sull’educazione inclusiva, l’analisi dei contesti e la presentazione ufficiale del progetto di ricerca, i docenti coinvolti hanno partecipato a un incontro formativo specifico divisi per gruppi, dove, oltre a una formazione specifica sui principi e le linee guida UDL, è stato somministrato un breve questionario sull’attività formativa vissuta, ma con l’obiettivo anche di ricavare la notizia principale sulla conoscenza iniziale dell’approccio UDL. Nessun docente era a conoscenza dell’approccio UDL fino a quel momento. In un successivo incontro di approfondimento specifico sulle linee guida, i punti di verifica, i tanti suggerimenti e gli strumenti operativi UDL, sempre diviso per gruppi, è stato somministrato un altro breve questionario sull’attività formativa in generale, ma con l’obiettivo principale di ricavare notizie riguardante l’opinione dei docenti sull’utilità dell’approccio UDL connesso al miglioramento degli elementi relativi ai campi di indagine. Nei primi mesi dell’anno scolastico, i docenti hanno approfondito quindi la preparazione con lo studio personale e la condivisione dei principi, delle linee guida e degli strumenti disponibili dell’approccio UDL, hanno controllato e aggiornato la propria progettazione curricolare con un apposito foglio di lavoro UDL, evidenziando la presenza o meno delle caratteristiche UDL, criticità, barriere all’apprendimento ed eventuali proposte di miglioramento con l’aiuto delle linee guida, versione integrale e dello schema grafico UDL. Nel corso di tutta l’esperienza in classe e negli incontri collegiali, ogni docente, registrava le proprie attività progettate in ottica UDL e le proprie riflessioni su un diario di bordo personale riguardante le singole esperienze facendo riferimento sempre ai tre campi di indagine (atteggiamenti, linguaggio e collaborazione). Tutti i singoli gruppi di docenti delle diverse scuole hanno partecipato inoltre a due focus group (uno a gennaio e uno a aprile/maggio) per condividere insieme l’esperienza, osservare e analizzare gli elementi di arricchimento, di difficoltà, di innovazione didattica e di cambiamento nelle relazioni tra docenti. Alla fine dell’anno scolastico (maggio/giugno), a tutti i docenti che hanno completato le attività e utilizzato tutti gli strumenti UDL, è stata data la possibilità di presentare i propri contributi in un convegno pubblico ed è stato somministrato un questionario finale, costituito da 12 items su scala Likert, sempre in presenza e in forma anonima, con l’obiettivo di testare i cambiamenti positivi e/o le criticità personali, all’interno del consiglio e nel contesto classe di riferimento. 3. Esiti di ricerca


In particolare, i questionari iniziale e finale sono stati costruiti, validati e condivisi da un gruppo pilota formato da dirigenti scolastici, docenti con esperienza e docenti universitari. Riepilogo percorso formativo docenti e fasi della ricerca !"#$% !"# $%&&'(## )*!+# )"# .%&&'(# 1#41771.F-1# )*!+# I"# 5%#(77(F-1# )*!+# %#.%&&'(# )*!J# K"# .%&&'(# &'9&0(# )*!J#

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7. Criticità

Alcuni docenti hanno rilevato difficoltà di condivisione dell’approccio UDL con altri colleghi della classe che non partecipavano alla ricerca e tra le motivazioni più ricorrenti veniva segnalato il fatto di non essere ancora pronti per questo tipo di approccio o che è un approccio complicato da applicare nella nostra realtà oppure che tante elementi menzionate nell’approccio molti docenti già li utilizzano in maniera ordinaria.

8. Risultati

I risultati ottenuti possono ritenersi complessivamente soddisfacenti riguardo alla conferma degli obiettivi raggiunti e alle risposte delle domande della ricerca. La maggior parte dei docenti partecipanti, già nel questionario iniziale, affermano che l’inclusione educativa nella scuola ordinaria di tutti gli studenti è un diritto fondamentale non più discutibile, che l’utilizzo di un linguaggio etichettante potrebbe influire negativamente nei processi di apprendimento di alcuni alunni e che una collaborazione efficace tra docenti di sostegno e di diverse discipline risulta di grande utilità nella condivisione di una progettazione curricolare pienamente inclusiva. A tal fine si riportano integralmente i risultati del questionario iniziale per unità di risposta e percentuali:

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3. Esiti di ricerca


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Durante il primo incontro di formazione specifica di gruppo di conoscenza UDL, alla domanda prima di partecipare a questa iniziativa, conoscevi l’approccio UDL? tutti hanno risposto no, in quanto l’approccio risultava completamente sconosciuto nell’ambito scolastico fino a quel momento. Nel successivo incontro specifico di formazione e approfondimento UDL, sempre per gruppi, i docenti partecipanti sono stati chiamati a rispondere alle seguenti domande e tutti hanno risposto con affermazione positiva, ritenendolo un approccio innovativo e di grande utilità nel nostro contesto: Pensi che questo tipo di approccio possa portare miglioramenti nella tua pratica didattica inclusiva? Pensi che questo tipo di approccio possa portare miglioramenti nei rapporti con i tuoi colleghi? Pensi che questo tipo di approccio possa portare miglioramenti nella tua progettazione curricolare? Pensi che questo tipo di approccio possa portare miglioramenti nell’utilizzo di un linguaggio?

Per non limitarsi a quanto espresso nei singoli questionari, si è cercato di scavare in profondità, con due focus group regolarmente videoregistrati, rivisti, analizzati, trascritti e successivamente caricati su programma NVivo, condotti con domande guida, divisi per gruppi di docenti, che hanno evidenziato aspetti di grande entusiasmo per l’innovazione didattica condivisa con alcuni colleghi per

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la coprogettazione degli interventi e per i cambiamenti positivi nella classe, in particolare per l’utilizzo di diverse modalità di presentazione dei lavori, ma anche punti di criticità nei rapporti con altri colleghi che non partecipavano ufficialmente alla ricerca e non utilizzavano l’approccio UDL., ancorati a una logica tradizionalistica della didattica. Anche i contenuti riportati in forma individuale nel diario di bordo, analizzato manualmente uno per uno, anche se non molto ricco di riflessioni come si sperava, complessivamente confermano nella sostanza, in gran parte dei docenti coinvolti quanto espresso nei focus group. In merito, molti docenti hanno riferito, inoltre, di avere difficoltà a registrare per iscritto, con continuità, le proprie riflessione nel proprio diario di bordo, per mancanza di tempo. Sotto l’aspetto prettamente qualitativo, i focus group hanno rappresentato un’esperienza molto significativa sia per i docenti sotto il profilo formativo e della condivisione, sia per i contenuti e le dinamiche relazionali emerse. Appositamente strutturati per singoli gruppi da 3 a 12 persone e nel periodo di gennaio (il primo ciclo) ad anno scolastico avviato e nel periodo aprile/maggio (il secondo ciclo) a conclusione delle attività didattiche scolastiche. In ogni focus group, della durata media di circa 1 ora e trenta minuti, dopo introduzione, le domande di transizione, le domande centrali e ampia discussione sulle linee tematiche opportunamente tracciate, sempre riguardanti i campi di indagine (opinioni, linguaggio, collaborazione e pratica riflessiva) e la relativa correlazione con l’approccio UDL utilizzato, veniva chiesto ai docenti, liberamente, a turno di esprimere la propria opinione, i punti di forza, le criticità dell’esperienza vissuta, e nel secondo ciclo, in particolare, la risposta alla domanda esplicita su una valutazione complessiva condivisa sull’applicabilità dell’approccio UDL da poco positiva ……………………………………………………………………………………. a molto positiva 1 2 3 4 5

Tutti i gruppi di docenti partecipanti hanno manifestato piena volontà di assegnare una valutazione complessiva dell’esperienza e dell’applicabilità dell’approccio UDL molto positiva (4 e 5). Alcuni contributi delle esperienze vissute dai docenti coinvolti durante la ricerca, dove vengono esplicitate percorsi, linee guida UDL di riferimento utilizzate e conclusioni, sono stati presentati in un convegno pubblico finale e gli interventi pubblicati come atti del convegno nel testo Cultura inclusiva nella scuola e progettazioni curricolari. Suggestioni e proposte, a cura della prof.ssa A. Catalfamo (2017), che si riporta, per opportuna consultazione, in bibliografia. Alla fine del percorso, ai docenti che hanno completato la ricerca utilizzando tutti gli strumenti disponibili e concordati è stato somministrato un questionario finalizzato a raccogliere dati concreti e interpretare gli effetti del percorso dopo la formazione specifica e l’applicazione dell’approccio UDL nelle classi di riferimento e per un anno scolastico intero. In merito, si riportano i risultati integrali delle risposte al questionario finale per unità di risposta e percentuale:

3. Esiti di ricerca


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(4 =pienamente d’accordo; 3 = abbastanza d’accordo; 2= abbastanza in disaccordo; 1= completamente in disaccordo)

Dall’analisi del questionario finale, emerge, per ogni affermazione, che comunque la maggior parte dei docenti partecipanti si colloca nella fascia pienamente d’accordo e abbastanza d’accordo (3 e 4), vedendo quindi positivamente l’utilizzo dell’approccio Universal Design for Learning, es. nell’affermazione n. 4 (L’UDL può essere considerato un valido approccio per realizzare percorsi di inclusione educativa efficaci per tutti gli alunni) tutti i docenti si collocano nell’area di accordo, mentre alcuni docenti invece manifestano, con una visione tendenzialmente critica, collocandosi nella fascia 2 (abbastanza in disaccordo), in maniera variabile riguardo alle diverse affermazioni, es. affermazioni n. 4, 5, 6, 8 e 12, con prevalenza nell’elemento riguardante il linguaggio etichettante, a conferma, forse, di una presenza rigida della terminologia dovuta alla richiesta e alla redazione di documenti specifici che necessitano un’identificazione legata alla diagnosi, al disturbo e/o allo svantaggio. Un dato sicuramente importante che non può essere ignorato e che forse anno VI | n. 1 | 2018

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mette in rilievo il fatto che gli insegnanti italiani, per il loro vissuto sono sicuramente in linea, da un punto di vista teorico con i principali movimenti verso l’inclusione, ma che nella pratica poi evidenziano ancora delle difficoltà nell’applicazione dei principi alla realtà. Complessivamente, considerando tutta l’esperienza di ricerca e tutti gli strumenti utilizzati e analizzati (questionari, focus group e diario di bordo), possiamo confermare, se pur con i limiti e le criticità emerse, oggetto di ulteriori approfondimenti, che l’approccio UDL, migliori la pratica didattica inclusiva di tutti i docenti, curricolari e di sostegno, negli atteggiamenti verso l’inclusione, nella potenziale riduzione di un linguaggio etichettante e nei rapporti di collaborazione, determinando, di conseguenza, un sostanziale benessere nell’ambiente di apprendimento a favore di tutti gli alunni e di tutti i docenti.

Conclusioni

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L’Universal Design for Learning, insieme a un completo ripensamento in maggiore flessibilità dei contesti scolastici e dei curricoli, sganciando la rigidità etichette-interventi personalizzati e solo co-progettando e co-realizzando insieme una didattica efficace tra docenti curricolari e specializzati, merita un serio approfondimento anche su ampia scala e conferma una potenziale positività e validità dell’approccio per una didattica realmente inclusiva nel nostro contesto formativo. La ricerca dimostra che la sfida dell’educazione inclusiva per tutti, nella scuola ordinaria, deve essere prima di tutto un valore condiviso, proiettato verso un orizzonte di senso legato al rispetto e alla valorizzazione della persona nella sua globalità esistenziale e che i docenti, attraverso l’utilizzo di un approccio organico e sistematico come l’UDL, sensibile alla variabilità degli individui, possono migliorarsi professionalmente e coprogettare interventi efficaci nel rispetto delle peculiarità di ogni studente.

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3. Esiti di ricerca


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3. Esiti di ricerca


Il sociodramma come strategia di inclusione contro l’abbandono scolastico precoce

This work starts from a reflection on early drop out. This phenomenon still concerns the 13,8 % of Italian young students but should be reduced to 10% by 2020, according to the Europe 2020 Strategy. Early drop out is caused by many factors: among them it is possible to cite economic reasons, the migration background, the place of residence, the level of education of parents. There are also causes within the school that make learning difficult and could contribute to early drop out: for example personal and interpersonal problems, connected to self-esteem and eventually to bullying, learning difficulties or an unappropriate teaching organisation. The focus of this work is on promoting greater student’s inclusion through the use of active methods, such as the sociodrama of Jacob Levi Moreno. Sociodrama by contributing to counteract emotional and relational problems could also reduce early drop out. An experience of sociodrama has been realized within two first classes of a Vocational School, which were characterized by considerable behavioral and relational difficulties; the activities carried out have made it possible to understand that students need to talk about themselves, to learn to listen to others, in short, to find a space of mutual acceptance within a place (“the school“) from which they often feel excluded. Among other pedagogic measures sociodrama could be a good strategy of inclusion against early drop out.

© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)

Key-words: school, early drop out, inclusion, empowerment, sociodrama

3. Esiti di ricerca

Italian Journal of Special Education for Inclusion

abstract

Marta Codato (Università di Trento / marta.codato@unitn.it)

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L’abbandono scolastico, che riguarda gli studenti che lasciano la scuola senza aver conseguito una qualifica, è un fenomeno preoccupante, perché accresce il rischio di disoccupazione, povertà, emarginazione sociale e si correla ad un mancato sviluppo di competenze specifiche, fondamentali per il progresso di un Paese moderno. In Italia l’abbandono precoce, che prevale nel sud e nelle isole, sta gradualmente diminuendo: infatti tra il 2009 e il 2014 la percentuale di early drop out (abbandono scolastico precoce) tra i 18 e i 24 anni è scesa dal 19,2% al 15% e ora è al 13,8%. Ma si è ancora lontani dall’obiettivo europeo del 10% (Commissione Europea, 2013). In questo scritto si prenderanno in considerazione le possibili cause di abbandono, come il background migratorio e lo svantaggio socio-economico, ma si focalizzerà l’attenzione soprattutto sulle difficoltà emotive e relazionali e su alcune modalità per gestirle, in particolare sul sociodramma, portando un’esemplificazione di utilizzo di tale metodo in un Istituto Professionale di Padova, nell’a.s. 2016/2017.

1. Fattori che influiscono sull’abbandono scolastico

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L’abbandono dei percorsi di istruzione è un tema complesso, le cui cause variano da studente a studente. Riguarda soprattutto i più deboli dal punto di vista scolastico, motivazionale, identitario. La dispersione e l’abbandono dipendono da molti fattori: accanto a ragioni personali ed economiche, al luogo di residenza, al livello di istruzione dei genitori, si possono individuare anche cause interne alla scuola che rendono difficile l’apprendimento e favoriscono l’insuccesso negli studi (Civettini, 2016, p. 36). Gli studenti con un passato di migrazione, la cui presenza sta aumentando, dal 7.5 % nell’anno 2009-2010 al 9.4 nel 2016-2017 (MIUR, 2018) sono i più coinvolti da questo fenomeno. Di essi la maggior parte si iscrive ad un Istituto professionale, mentre è raro frequentino i licei (5,2%, MIUR, 2014/2015) e i tassi più alti di abbandono riguardano il primo anno di scuola secondaria superiore. Nel 2014-15 gli studenti immigrati che hanno abbandonato la scuola sono stati – in media – il 23,4 % in UE e il 34,9% in Italia (MIUR, 2014/2015). Il fatto che ci siano tassi di abbandono più elevati tra i migranti può essere dovuto alle maggiori difficoltà che devono affrontare nell’accesso e nella partecipazione all’istruzione, a causa di barriere linguistiche, culturali e di tipo socio-economico. Generalmente appartengono a famiglie con un basso livello di istruzione (in media il 25,5 % degli immigrati in UE ha una formazione di terzo grado, in Italia solo il 10,1%, secondo i dati MIUR), quindi spesso manca una tradizione familiare che dia valore ai percorsi scolastici. Coloro che abbandonano precocemente la formazione iniziata provengono molto spesso da famiglie con disoccupati, in cui il reddito e i livelli di istruzione sono bassi. Lo svantaggio socioeconomico contribuisce a spiegare il fatto che gli studenti con una storia di migrazione abbiano percentuali di abbandono più elevate. Infatti dall’indagine dell’ OECD del 2015 emerge che il divario nella resa scolastica tra gli alunni immigrati e gli altri diminuisce da 44 a 27 punti se si tiene conto del fattore socio-economico. 3. Esiti di ricerca


Ci sono anche elementi interni alla scuola che rendono difficile l’apprendimento: determinate modalità di insegnamento e di valutazione; modi impropri con cui gli insegnanti si relazionano agli studenti; la competizione con i compagni possono predisporre alcuni ragazzi a momenti di malessere, fino ad una vera e propria fobia scolare. Quest’ultima può implicare il timore di essere rifiutati dal gruppo o di avere un rendimento scolastico al di sotto delle attese: negli studenti tra i 15 e i 18 anni l’ansia è una delle cause principali di disimpegno e quindi di abbandono (Diatkine, Valentin, 1990; King, Bernstein, 2001).

2. L’“inclusione”, per prevenire l’abbandono scolastico

Il concetto di “inclusione” è essenziale nel presente momento storico, come emerge dalla Council Recommendation (2018) della Commissione Europea, che connette strettamente l’inclusive education con la mobilità e l’inclusione sociale. In accordo con quanto affermano Booth e Ainscow (2014) in questi anni il vocabolo inclusione ha iniziato a sostituire la parola “integrazione”. Non si tratta di un cambiamento di termini solo formale: le due parole rinviano a differenti scenari educativi. In Italia si è passati, prima che negli altri paesi europei, dall’esclusione degli alunni con disabilità e svantaggi al loro inserimento, quindi si sono potute sviluppare esperienze rilevanti rispetto all’integrazione. Ma dopo 30 anni dalla legge 517 appaiono i limiti del modello integrazionista, sia per la cronica carenza di strutture da dedicare ad attività alternative, sia per la debolezza degli assunti impliciti nella prospettiva dell’integrazione. Quest’ultima si inserisce all’interno del paradigma della normalizzazione o dell’assimilazione (Ainscow, 1999; Ainscow, Barrs e Martin, 1998), in base al quale l’alunno con bisogni educativi speciali dovrebbe adattarsi ad una organizzazione scolastica strutturata in funzione degli studenti “normali”. L’idea di integrazione muove dalla premessa che lo svantaggio costituisca il problema di una minoranza a cui occorra dare opportunità analoghe a quelle degli altri alunni (Farrell, 2000; Vislie, 2002; Booth, Ainscow, 2008). Quindi l’integrazione riguarda strategie per rendere l’alunno il più possibile simile agli altri. Il rifarsi ad un ideale, ad una “norma” implica una negazione delle differenze e dell’unicità di cui ognuno è portatore. Nella prospettiva dell’inclusione non ci sono disabili, stranieri, poveri e normali, ma semplicemente diverse abilità, attitudini e talenti, diversi contesti sociali di riferimento e provenienze. L’dea di inclusione non si basa su una misurazione della distanza da uno standard ma, corrisponde alla capacità di valorizzare ciascuno, a prescindere da (e anzi grazie a) abilità, genere, linguaggio, origine etnica e culturale. L’inclusione avviene quando tutti gli alunni si sentono apprezzati e nella condizione di apprendere e contribuire alla co-costruzione di conoscenza.

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3. Come includere?

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Per rispondere ai fattori primariamente correlati all’abbandono scolastico precoce, vi è la necessità di un approccio olistico, che combini tre prospettive: sociale, politica ed educativa. A questo proposito, la Raccomandazione per l’istruzione sulle politiche globali volte a ridurre l’abbandono precoce (Commissione europea/EACEA/Eurydice/Cedefop, 2014) suggerisce una visione globale, comprensiva di: misure di prevenzione, volte ad affrontare i problemi strutturali; misure di intervento, per migliorare la qualità dell’istruzione e della formazione offrendo un sostegno mirato agli studenti in difficoltà; misure di compensazione, che creino nuove opportunità di ottenimento di una qualifica per coloro che hanno abbandonato i percorsi scolastici. I problemi socio-economici e quelli connessi ad un passato di migrazione, strettamente legati all’abbandono scolastico precoce, non possono essere rimossi dagli educatori e dagli insegnanti, in quanto coinvolgono meccanismi strutturali e sociali. Sono necessari partenariati tra gli ambiti educativi, sociali ed economici. I team multiprofessionali favoriscono l’uso di risorse, esperienze, nonché una più rapida intermediazione di servizi e una riduzione degli ostacoli all’accesso. L’impegno delle parti interessate facilita l’intervento multiplo e simultaneo sui vari livelli interconnessi attraverso la pianificazione congiunta, l’identificazione delle strategie, l’attuazione di piani d’azione e lo sviluppo di programmi. Per quanto riguarda le dinamiche personali ed inter-personali, da un punto di vista educativo, è fondamentale mettere in discussione le rappresentazioni unilaterali relative ai migranti e ai gruppi svantaggiati in genere. Le discriminazioni influenzano fortemente le dimensioni emotive, cognitive e comportamentali dei giovani studenti. Tra le attività scolastiche inclusive si possono citare l’orientamento, l’individualizzazione dell’insegnamento, il peer tutoring, la valutazione formativa, i corsi intensivi di lingua locale per studenti immigrati e per i loro familiari. Risulta essenziale concentrarsi su pratiche educative che rafforzino, negli studenti, non solo le competenze, ma anche l’identità, la conoscenza di sé e la capacità di scegliere autonomamente. In questa ottica rientrano le strategie di empowerment, volte a promuovere il riconoscimento dei valori della diversità (propria e altrui) come risorsa e non come fonte di vergogna o discriminazione. Tali valori vengono promossi anche dal piano di formazione per i docenti (Miur, 2016-2019, p. 42), in riferimento al “Welfare dello Studente”. Tra le attività pedagogiche si inserisce anche lo psicodramma (Boria, 1991, 1997, 2005), nella sua declinazione sociodrammatica, più adatta al contesto scolastico, perché centrata sull’aspetto sociale e collettivo dei problemi, più che sulle dimensioni private degli individui (Kellerman, 2007). Il soggetto del sociodramma è il gruppo, in questo caso la classe.

4. Una esperienza inclusiva di sociodramma

Lo psicodramma, nella sua concretizzazione sociodrammatica, è stato utilizzato dalla scrivente con gli alunni di due classi prime dell’Istituto Professionale Leo-

3. Esiti di ricerca


nardo da Vinci di Padova, nei mesi di maggio e giugno dell’a.s. 2016/2017. Nelle due classi, composte da studenti con differenti svantaggi (socio-economico, passato di migrazione, problemi cognitivi, relazionali, familiari, etc.), si erano instaurate dinamiche disfunzionali: da un lato, al successo scolastico, dall’altro, ad un rapporto costruttivo tra studenti e tra studenti e insegnanti. Si è ipotizzato che l’utilizzo del metodo sociodrammatico potesse promuovere, all’interno delle due “classi difficili” un miglioramento della comunicazione ed un aumento della fiducia e quindi del benessere emotivo generale, che notoriamente favorisce l’apprendimento (Hilgard, 1980; Politi, 2000). Il sociodramma, in effetti, porta tutti partecipanti, a prescindere dalle abilità e dalle conoscenze, all’azione, all’espressione di sé e, dando il massimo valore alla “verità soggettiva”, favorisce spontaneità e creatività nella comunicazione (Boria, 2005; Bonato, 2010). Nello specifico, con 10 ore di attività in ognuna delle classi coinvolte, si puntava a: – migliorare il clima interno; – disinnescare o comunque ridurre dinamiche di potere controproducenti (bullismo); – costruire nuove connessioni sociometriche (nuove relazioni); – aumentare la coesione di gruppo; – diminuire l’isolamento; – dare voce alle resistenze e difficoltà degli studenti; – stimolare la motivazione allo studio e all’assunzione di responsabilità.

Il termine “psicodramma”, che deriva dalle parole greche “psiché”, spirito, e “drama”, azione, implica la messa in scena/azione dei vissuti dei partecipanti. L’ideatore dello psicodramma è Jacob Levi Moreno (1889-1974), uno psichiatra che, negli anni ’20 del secolo scorso, fondò a Vienna il teatro della spontaneità, che offre a ciascuno la possibilità di esprimersi liberamente in un contesto protetto e ha una potente funzione catartica sia per gli attori sia per gli spettatori. Secondo Moreno questo nuovo modo di fare teatro, invece che riportare in vita una storia scritta in precedenza, consente alle persone di mettere in scena - spontaneamente - i propri conflitti interiori, per poterli rivivere, guardare dall’esterno ed esprimere la propria creatività (Boria, 2005; Bonato, 2016). Con un target rappresentato da una classe di adolescenti “resistenti” è fondamentale l’utilizzo dello psicodramma declinato sociodrammaticamente (Wiener, Adderley, Kirk, 2011). Il sociodramma, come si evince dalle esperienze di Dotti e Bonato (Dotti, 2013; Bonato, 2016), aiuta i gruppi nella maggior comprensione delle dinamiche interne, nella sperimentazione e nell´apprendimento di modalità relazionali più sane (Codato et al., 2012) ai fini di una convivenza pacifica e produttiva. Moreno lo riteneva particolarmente utile per trattare i conflitti interculturali e come strumento di ricerca antropologica (Codato, Testoni e Ronzani, 2012). Oggetto del sociodramma sono i ruoli sociali sottostanti allo sviluppo e alle attività del gruppo, e l´obiettivo è quello di rendere manifesti (e quindi risolvibili) gli eventuali conflitti (Telesco, 2006). Tra le diverse tecniche sociodrammatiche, con gli adolescenti risulta particolarmente utile l’uso della tecnica del “doppio“, consistente nel tentativo, da parte degli altri membri del gruppo o del conduttore, di dare voce a ciò che una peranno VI | n. 1 | 2018

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sona non riesce ad esprimere. Tale tecnica si basa sulla relativa funzione di doppio, meccanismo psicologico grazie a cui il soggetto diviene in grado di osservare i propri contenuti mentali più profondi, in situazioni cariche di empatia e di disponibilità alla reciprocità e all’apertura interpersonale1. Quest’area privilegiata si può definire come holding environment (Winnicott, 1984), in cui la relazione scaturisce dalla capacità, propria di chi si prende cura, di sintonizzarsi con l’altro per coglierne i reali bisogni. Se la funzione di doppio non si attiva, diviene molto difficile realizzare l’intervento (Boria, 2005). La creazione di un buon guppo classe, grazie all’utilizzo del sociodramma, può aiutare i ragazzi a sviluppare fiducia nelle proprie idee e capacità. Al contrario, il costituirsi di un gruppo classe disfunzionale può essere rischioso e indurre gli adolescenti ad agire comportamenti pericolosi, assumendo ruoli non adattivi e cristallizzati. Con una delle classi prime dell’Istituto Professionale Leonardo da Vinci di Padova, mi sono dedicata, nel ruolo di conduttrice (nei mesi di maggio e giugno 2017), ad attività di warm-up (riscaldamento) – tramite polarità, locogrammi e sociometrie – utili ad abbassare il livello di ansia, ad accrescere la spontaneità e ad affiatare il gruppo. Con maggiore cautela, in base a come rispondeva la classe, ho utilizzato tecniche quali “la sedia vuota” e “le proiezioni nel futuro”. Tra le diverse attività realizzate:

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1) una ha implicato il posizionamento al centro dell’aula di due sedie (A e B): “A: la sedia degli aspetti della scuola da cambiare“ e “B, la sedia degli aspetti scolastici positivi”. Chi voleva parlare, poteva farlo sedendosi nell’una e/o nell’altra sedia. È emerso un apprezzamento nei confronti della tecnologia, e in particolare delle nuove lavagne elettroniche; d’altra parte gli studenti hanno manifestato il bisogno di una maggiore innovazione anche nella didattica. Hanno, inoltre, detto che preferirebbero insegnanti più giovani, spiegazioni più coinvolgenti, lezioni all’aria aperta, con lavori di gruppo. 2) Un’altra attività è consistita nel farli sedere in cerchio, con la consegna che ognuno dicesse su quali tematiche – personali e relative alla classe – avrebbe voluto che il sociodramma si incentrasse. La maggior parte degli studenti ha evidenziato che il problema principale su cui “lavorare”, con il sociodramma, riguardava il mantenimento di una maggiore “serietà“ in aula; qualcuno ha detto che ci sarebbero voluti più partecipazione e impegno da parte di ognuno. Alcuni studenti hanno parlato dell’importanza dell’ascolto. Proprio colui che veniva considerato dalla maggior parte degli insegnanti “il bullo” ha sottolineato quanto fosse fondamentale promuovere una riduzione dei comportamenti infantili a scuola. 3) Una semplice attività, che ha concluso il primo incontro, consisteva nel farli camminare liberamente nella classe, passandosi la palla. Chi la riceveva doveva dire, con una parola, come si sentisse in quel momento. Alcuni stavano in disparte, non camminavano, non rispondevano alle domande e dicevano

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Si parla di “doppio“ in relazione alla prima funzione psicologica e relazionale che la madre attiva nei confronti del bambino che consiste nella capacità della madre di sentire l’altro (bambino) come parte di sé.

3. Esiti di ricerca


di essere stanchi (evidenziando meccanismi di difesa rispetto ad emozioni che non erano abituati a gestire). Colui che ha partecipato maggiormente e ha quasi sempre trainato il gruppo è stato proprio il sopracitato “bullo”. È interessante notare come i leader negativi possano divenire positivi a seconda dell’approccio educativo che si adotta. 4) Una delle attività è iniziata dividendo la classe in quattro gruppi, in base al criterio della minor conoscenza, in modo che si iniziassero a sciogliere i “clan“ cristallizzati e ognuno potesse interagire con i compagni che conosceva meno. In base alla consegna, gli studenti dovevano descriversi agli altri come se li stessero incontrando per la prima volta. In seguito dovevano presentarsi anche al grande gruppo, ma ognuno impersonando/prendendo il ruolo di chi stava alla propria destra (grazie alla tecnica psicodrammatica dell’“inversione di ruolo“). La consegna implicava l’esercizio dell’ascolto silenzioso, con “sospensione della risposta” (Boria, 2005) e lo sforzo di di immedesimarsi nel compagno vicino e di ricordare quello che aveva detto. 5) Un’altra attività era mirata a colpire problematiche relazionali, come quelle connesse al bullismo. Sono state posizionate, in mezzo alla stanza, due sedie (A e B), con la seguente spiegazione: “nella sedia A si siederà un ragazzo che fa il bullo, prende in giro gli altri; nella sedia B si siederà un ragazzo che viene ridicolizzato dagli altri”. Gli studenti sono stati invitati a dare forma ai due personaggi, usando l’esperienza e la fantasia. Hanno stabilito insieme le caratteristiche di entrambi e chi li avrebbe interpretati: – nella sedia A si sarebbe seduto “Ismaele, di 16 anni, muscoloso, che non va bene a scuola e ha successo con le ragazze”; O., un ragazzo della classe con un passato di migrazione, molto sportivo, con difficoltà comportamentali e di rendimento scolastico, ne avrebbe assunto il ruolo. – nella sedia B si sarebbe seduto “Andrea, di 16 anni, occhialuto e secco, bravo a scuola, ma preso in giro dai compagni”. N., un ragazzo della classe, padovano, con gli occhiali, molto bravo a scuola, lo avrebbe interpretato. Stimolati dalla scrivente, i due personaggi sociodrammatici si sono sforzati di interagire, esprimendo verbalmente quanto sentivano in relazione al proprio ruolo. Di seguito il primo scambio di battute: O/Ismaele ha rivolto ad N/Andrea la seguente frase: “ce l’hai piccolo, hai delle scarpe da povero, sei un pezzente”, e N/Andrea ha risposto “mi fai stare male, soffro”. Entrambi, immedesimandosi nel personaggio, hanno espresso quello che sentivano, anche con l’aiuto di “doppi” fatti dai compagni. Alla fine della scena, caratterizzata dallo scambio di insulti e manifestazioni di sofferenza, ho chiesto a tutti se avesse loro ricordato qualcosa delle dinamiche esistenti nella classe reale. Dalle poche risposte che ci sono state, prima del suono della campanella, è emerso che nella classe erano effettivamente presenti delle forme di bullismo. Il giorno successivo si è continuata e conclusa l’attività. E. ha detto di aver provato in molti modi a spronare i compagni ad impegnarsi e ad essere rispettosi, anche nei confronti dei docenti, ma invano. Il suo desiderio era che tutti insieme potessero andare in seconda l’a.s. successivo. Allora ho chiesto, a chi condividesse l’obiettivo di E., di alzarsi, avvicinarsi a lei per appoggiarle una mano sulla spalla. Si sono alzati tutti. Ho chiesto ad ognuno di dire in che modo avesse intenzione di impegnarsi per realizzare tale obiettivo. Hanno iniziato a dire frasi come “voglio impegnarmi”, “voglio studiare”, “non voglio più fare casino” e a un certo punto una ragazza (A.) ha anno VI | n. 1 | 2018

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affermato di essere dispiaciuta per aver preso in giro, soprattutto all’inizio dell’anno, una compagna. Le ho chiesto se avesse il coraggio di avvicinarsi a lei e di scusarsi direttamente. Allora è andata da P. (una ragazza immigrata, molto timida e riservata), le ha detto che all’inizio non aveva riconosciuto il suo valore, mentre in seguito aveva imparato a stimarla, quindi si sono abbracciate (P. appariva commossa e felice). Altre tre persone sono andate da P. e si sono scusate, le hanno detto delle cose molto positive e in seguito c’è stato un abbraccio tra loro. Si è attivato un movimento di abbracci e scuse, all’interno del quale ho anche scoperto (perché a un certo punto l’ha detto lei) che A.S. dall’indomani non sarebbe più stata in quella classe. Anche lei si è scusata con due compagne che aveva preso in giro. A un certo punto ho chiesto, a chi non avesse ancora detto nulla, di esprimersi: D. (una ragazza che viveva in comunità e seguiva una programmazione per obiettivi minimi, con l’insegnante di sostegno) ha detto che il bullismo nella classe era un fenomeno tangibile e che lei si voleva impegnare per prima a rispettare sempre gli altri. Questo incontro è stato molto utile, gli studenti si sono inaspettatamente aperti e hanno iniziato a costruire dei legami basati su una maggiore autenticità.

A qualche giorno di distanza dall’ultimo incontro di sociodramma vi è stata una fase di valutazione qualitativa dell’esperienza, da parte degli studenti: il professore di lettere di una delle due classi ha proposto lo svolgimento di un tema riguardante le attività di sociodramma svolte. Risulta interessante riportare alcuni dei feedback:

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Ho capito che non devo giudicare una persona senza conoscerla, in questo ultimo mese l’ho capito e l’ho messo anche in pratica, cercando di legare con le persone della classe che ho solo giudicato senza nemmeno parlarci, scoprendo poi che quello che ho pensato giudicando, non era vero niente (A., ripetente di Padova).

L’attività di sociodramma secondo me aveva come obiettivo migliorare il rapporto tra di noi e cosa faccio io per migliorare la classe. Questa attività mi potrà servire anche in futuro, sulla relazione con la gente e mettersi nel ruolo di un’altra persona (H., studentessa immigrata).

[....] per conoscerci bene e fare in modo di aprirci senza avere paura, di fidarsi delle persone [....] abbiamo parlato di bullismo e ho pensato a tutte le cose che mi sono successe in questi anni e ho avuto dei momenti di debolezza. Era anche un modo di fare amicizia con tutti. A me è servito molto, perché ho avuto una opportunità unica per confidarmi con tutti e ho capito che tutti noi abbiamo delle maschere che fanno fatica ad andare via, per la mancanza di fiducia. È stata una esperienza bellissima, perché adesso sono più aperta e ottimista, con tutti e anche con me stessa. [....] Ho capito di essere me stessa nella vita di tutti i giorni [....] (D., studentessa che viveva in comunità e che seguiva una programmazione per obiettivi minimi).

Il sociodramma mi ha lasciato un po’ di felicità, perché quando abbiamo parlato di bullismo, alcune persone si sono rese conto che mi trattavano come se non avessi nessuna qualità e si sono scusate. Il sociodramma ha lasciato nella mia vita della positività, perché cercando di capire le mie insicurezze, sto cercando di migliorare, anche se con difficoltà (P., studentessa immigrata).

3. Esiti di ricerca


Quest’attività è stata fatta per rafforzare il rapporto tra di noi, grazie a vari esperimenti sociali che ci hanno permesso di conoscerci meglio, sia a livello collettivo che individuale (N., studente ripetente di Padova).

Anche se non è possibile, in questa sede, riportare i commenti di ogni studente, si può comunque affermare che generalmente hanno partecipato con entusiasmo al percorso sociodrammatico e che ha avuto effetti positivi a livello individuale e di classe. Il sociodramma ha rappresentato una opportunità di esplorazione di sé e di ascolto dell’altro, ha consentito un abbassamento dei livelli di ansia e un aumento delle dimensioni di spontaneità, creatività e autostima (Boria, 2005), come ci si attendeva in fase di progettazione. Un’atmosfera scolastica di benesessere e reciproco rispetto, in cui gli studenti percepiscano di essere delle “persone” e non soltanto oggetto di valutazione, favorisce l’apprendimento e contribusce a prevenire l’abbandono scolastico.

Conclusioni

Nel presente scritto si sono prese in considerazione cause e strategie di prevenzione in riferimento alla questione dell’abbandono scolastico prematuro, nella consapevolezza che si collocano dentro e fuori la scuola: non solo gli studenti con difficoltà di apprendimento sono coinvolti in questo problema, ma anche coloro che si trovano a disagio con docenti e compagni nell’ambiente scolastico. Il focus di questo lavoro riguarda il sociodramma come possibile metodo che, contribuendo al miglioramento del clima scolastico, favorisce l’inclusione e, quindi contrasta l’abbandono precoce. Ogni strategia educativa ha successo in un contesto costruttivo, dove l’organizzazione dell’insegnamento, i rapporti fra scuola e famiglia, la vita quotidiana siano indirizzate al benessere dei soggetti, all’incremento della loro creatività e parallelamente ad una riduzione dei livelli di ansia. Grazie all’uso del sociodramma, che implica un clima di non giudizio, gli studenti con diverse abilità, talenti, condizioni sociali, possono imparare a gestire meglio le difficoltà emotive e relazionali ed entrare maggiormente in contatto con i propri vissuti, assumendo consapevolezza dell’originalità e importanza del proprio contributo alla co-costruzione della conoscenza e imparando ad ascoltare e a rispettare gli apporti degli altri (anche degli “altri insegnanti”), i loro vissuti ed emozioni.

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3. Esiti di ricerca


1. Recensione

Lucio Cottini, L’autodeterminazione nelle persone con disabilità. Percorsi educativi per svilupparla. Erickson, Trento, 2016, pp. 151 di Ines Guerini, Università Roma Tre, ines.guerini@uniroma3.it

‘No, non è affatto vero che a tutti i disabili adulti piace il caffè d’orzo’. Iniziamo la recensione di L’autodeterminazione nelle persone con disabilità. Percorsi educativi per svilupparla, scritto dal professor Lucio Cottini, rispondendo alla provocazione da lui stesso lanciata nell’Introduzione. È una provocazione che, come l’autore spiega, ci ricorda i pregiudizi ancora pervicacemente presenti sulla disabilità – soprattutto sulla disabilità intellettiva e sull’autismo – che conducono le persone disabili a relazionarsi spesso «con un ambiente orientato a vicariare decisioni, anche quelle più comuni relative alla vita di ogni giorno» (p. 18), o a un semplice caffè, per restare sulla provocazione. Una serie di pregiudizi, quindi, «sui quali come operatori del settore non sempre riflettiamo in maniera adeguata» (p. 7), osserva Cottini, che attraverso il libro intende infatti interrogarsi sulla possibilità solitamente negata alle persone con disabilità intellettiva e autismo di compiere scelte autodeterminate. «Situazione questa che può alimentare l’equivoco e accreditare la convinzione che si possa decidere per gli altri» (p. 15) e che di fatto va a rinforzare quei meccanismi per cui nessuno meglio del caregiver pensa di sapere cosa sia meglio per la persona disabile. E allora finisce che l’eta avanza, ma la persona con disabilità non decide mai su niente! (Cottini, 2011). Dopo tali premesse, essenziali per introdurre il testo che stiamo presentando, illustriamo ora l’articolazione del libro. L’autodeterminazione nelle persone con disabilità. Percorsi educativi per svilupparla è costituito da tre parti ognuna preceduta da un abstract. Scritte dallo stesso autore sono anche l’Introduzione e le Conclusioni. Andando più nello specifico, la prima parte – dal titolo Autonomia e disabilità: un inquadramento – si sviluppa in due capitoli: Autodeterminazione, qualità della vita e capability approach e Autodeterminazione, disabilità intellettiva e autismo. Nel primo capitolo l’autore si sofferma inizialmente sul costrutto dell’autodeterminazione, riportandoci il modello funzionale di Wehmeyer (Wehmeyer, 1999; Wehmeyer et al., 2003), per poi illustrare il concetto di Qualità della vita (QdV) secondo l’approccio elaborato da Schalock e Verdugo Alonso (2002), che «fra le varie dimensioni della QdV enfatizza molto anche quella dell’autodeterminazione» (p. 21). Infine presenta i due modelli, quello medico e quello sociale – che storicamente si sono contrapposti nel cercare di spiegare le situazioni di disabilità – discutendo in ultimo il modello ICF e il modello delle capacità (capability approach), «nel quale l’espansione delle opportunità di scelte, e quindi delle libertà delle persone, è posta a fondamento del concetto di “star bene” (well-being; Sen, 1993)» (p. 16). Nel secondo capitolo trovano invece spazio le ricerche internazionali su cui Lucio Cottini si sofferma, informandoci al tempo stesso delle Italian Journal of Special Education for Inclusion

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questioni lasciate ancora aperte – come ad esempio quella relativa all’esigenza di considerare l’autodeterminazione nei primi livelli scolastici (p. 37) o quella di creare modelli di valutazione e programmi di intervento educativo (p. 38) – alle quali tenta di dare risposta con il presente volume. A tal proposito, in La valutazione dell’autodeterminazione, che costituisce la seconda parte del libro, è illustrata la scala ADIA (Cottini e Bonci, 2012). Si tratta di uno strumento che «tende a indagare se la persona abbia la possibilità di fare delle scelte, manifesti dei progetti per la sua vita, abbia dei soldi a disposizione per le sue spese e possa decidere come utilizzarli» (p. 45). La scala è costituita da quattro dimensioni: Percezioni e conoscenze; Abilità; Opportunità e Sostegni, che sono puntualmente spiegate nel terzo capitolo del testo. Caratteristica peculiare della scala ADIA è che «pone grande attenzione agli aspetti contestuali riferiti ai diversi ambienti di vita (casa, scuola o centro), che possono determinare atteggiamenti anche molto diversi» (p. 46) e che pertanto è fondamentale indagare in maniera unitaria. Nel quarto capitolo (La scala ADIA in pratica: caratteristiche psicometriche e prime ricerche) vengono inoltre descritte l’affidabilità, l’analisi fattoriale e la validità della scala, nonché riportati i primi risultati emersi dalla fase di validazione dello strumento. Infine, la terza parte del libro, intitolata Lavorare per l’autodeterminazione: un percorso educativo per persone con disabilità intellettiva grave e autismo, propone – nei sei capitoli di cui è composta – una serie di schede operative che «devono trovare collocazione nella programmazione didattica fin dai primi livelli scolastici, per favorire la conquista di spazi di autonomia sempre più ampi nelle decisioni inerenti la propria vita» (p. 71). Un modo questo per garantire un graduale sviluppo dell’autodeterminazione nel rispetto dei limiti che i deficit impongono, tale per cui si possa a un certo punto della loro vita chiedere alle persone disabili quali sono i loro obiettivi; senza improvvisamente aspettarsi l’impossibile o peggio, negando a se stessi (al caregiver di turno) che il possibile sia effettivamente realizzabile e concedendo talvolta anche al disabile la possibilità di errare. In fondo, scrivere e riscrivere percorsi è tipico dell’essere umano, come la metodologia del lavoro autobiografico ci insegna. Proprio per questo motivo – tra le diverse proposte operative presentate nel libro – troviamo anche il lavoro autobiografico, attraverso cui «è possibile aiutare le persone a ridisegnare i contorni della propria vita e a porre le fondamenta per una proiezione della stessa nel futuro» (p. 98). Proprietà quest’ultima essenziale per lo sviluppo dell’autodeterminazione. A tal fine, secondo l’autore, un percorso educativo possibile per svilupparla potrebbe essere sintetizzato in sei concetti chiave: Ascolto; Scelta; Visione; Decisioni; Autoregolazione; Opportunità e sostegni, che sono ben delineati – anche operativamente attraverso la proposta di alcune schede – all’interno degli ultimi sei omonimi capitoli del libro. Come lo stesso lettore avrà compreso, l’intero volume si rivolge tanto ai professionisti, che quotidianamente operano con e per le persone disabili, quanto agli studiosi – interessati a problematizzare costrutti quali l’autodeterminazione e l’autonomia nella disabilità (adulta) – che nel libro troveranno diversi spunti di riflessione, corroborati da pratiche di ricerca. Ciò che l’autore sottolinea nel libro è la necessità per la persona disabile di agire «come un agente causale con l’intento di strutturare il proprio futuro e il proprio destino» (p. 17). Tale agentività è in grado di creare «le migliori condizioni Recensioni

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per una vita di qualità» (p. 9) ed è anche per questo motivo che va praticata dalle stesse persone disabili «anche se non sono completamente autonome nella realizzazione delle varie azioni» (p. 25). Secondo Cottini, infatti, è importante «educare all’autodeterminazione nell’ottica del rispetto della persona, anche quando le sue condizioni sono gravemente compromesse» (p. 10). Un’affermazione con la quale non possiamo che concordare, poiché tale modo di agire – anche in accordo con il più recente filone di studi dei Disability Studies a cui l’autore accenna nel primo capitolo – «cambia l’approccio educativo e sicuramente orienta in una dimensione inclusiva per tutti» (p. 9). Quest’ultimo aspetto è davvero essenziale e difatti – riprendendo il costrutto di sostegno diffuso (Canevaro, 2011) – Lucio Cottini afferma che «[…] una vera inclusione all’interno della società non sarà raggiungibile fino a quando l’offerta di sostegno rimarrà unicamente, o quasi, a carico di figure dedicate a questo scopo» (p. 140). Tuttavia, l’autore ribadisce l’importanza di contesti inclusivi per la stessa acquisizione dell’autodeterminazione da parte delle persone disabili, affermando che «esiste una sostanziale convergenza nel ritenere che i contesti maggiormente aperti e inclusivi […], risultino in grado di stimolare nelle persone con disabilità indicatori superiori di autodeterminazione» (p. 30). Cottini auspica dunque che il “sostegno classico” fornito dagli operatori specializzati possa integrarsi «con forme di sostegno più naturali, fornite da chi vive nell’ambiente della persona con disabilità, in un modo che non sia né troppo invadente per chi ne usufruisce, né troppo vincolante in termini di tempo e impegno per chi lo fornisce» (p. 140). Si tratta, in altri termini, di ri-pensare l’inclusione come occasione unica per creare un sistema accogliente in cui ciascuno abbia la possibilità di essere al tempo stesso fornitore e beneficiario di sostegno; creando in questo modo le opportunità di accrescimento dell’autodeterminazione in chi solitamente appare non in grado di indicare obiettivi e delineare strade per raggiungerli.

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Recensioni

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2. Recensione

Andrea Fiorucci, Omofobia, bullismo e scuola. Atteggiamenti degli insegnanti e sviluppo di pratiche inclusive a sostegno della differenza, Erickson, Trento, 2018, pp. 151

di Cristian Efthimio Balafas, Docente secondaria secondo grado e operatore per il Turismo accessibile, c.balafas@yahoo.it

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In Italia l’omofobia rappresenta una tra le prime cause di disagio per ragazze e ragazzi vittime di bullismo omofobico non del tutto sostenute e aiutate dalla scuola e dalle proprie famiglie. Epiteti negativi, discriminazioni, aggressioni verbali e fisiche sono solo la punta dell’iceberg di un sistema culturale che rischia di fare la fine del Titanic. Proprio così, perché è vero che la vasta letteratura su cui ci porta a riflettere il volume di Fiorucci ribadisce a gran voce quanto il bullismo omofobico e, in generale, l’omofobia socio-culturale creino nei discenti sofferenza, disagio, abbandono della scuola, allontanamento dalla vita sociale, atti anche estremamente drammatici, ma, allo stesso tempo, in questo meccanismo di deresponsabilizzazione educativa a catena molto ci perde anche la scuola. Nell’immaginario collettivo, si pensa che la scuola rappresenti un’occasione straordinaria per abbattere ogni tipo di barriera culturale, che educhi al rispetto di tutte le differenze, promuovendo il benessere personale e riconoscendo il diritto alla felicità per ogni cittadino. Non sempre è così, purtroppo. Partendo dal mio personale sguardo, quello di un giovane docente di scuola secondaria, credo che il libro “Omofobia, bullismo e scuola” di Andrea Fiorucci scoperchi un vero e proprio vaso di Pandora, senza però abbandonare il lettore in balia di conclusioni facili e riduttive. Certo, soprattutto in Italia, il quadro omofobia a scuola è molto complesso: una emergenza e una sfida educativa, usando le parole dell’Autore. Tuttavia, il volume invita a scommettere “sempre e comunque” sul bicchiere mezzo pieno, esortando il professionista dell’educazione ad abbandonare l’atteggiamento di chi rimane a guardare a favore di un solerte richiamo alla responsabilità e all’azione. In questi termini, ritornando alla visione di giovane insegnante, questa lettura ha “concretizzato” il concetto dell’essere un docente non solo in termini istitutivi, ma soprattutto in termini di responsabilità sociale nei confronti dei discenti. L’obiettivo del volume è infatti quello di vincere una sorta di omertà culturale, intervenendo con la propria professione sul tema dell’educazione alla cittadinanza e alle differenze quale strumento di prevenzione e contrasto di ogni tipo di violenze e discriminazioni basate sull’orientamento sessuale. In questo senso, essere docente significa pensare e promuovere una cultura organizzativa permeata dai valori dell’accoglienza e del rispetto, del senso di comunità e di condivisione, della responsabilità civica ed educativa nonché essere fieri di appartenere a una scuola “di” e “per” tutti. Si tratta di una scuola in grado di ritenere prioritaria la dimensione educativa; in grado di ritenere la differenza un valore, dando così vita a proposte formative ed esperienze non stigmatizzanti, in un’ottica mai assimilazionista, ma rispettosa delle differenze. Recensioni

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Oltre ogni facile e possibile spot filantropico, il volume invita alla responsabilità, alla presa in carico della differenza a scuola, scorgendo le fatiche e gli impegni che ogni docente dovrebbe mettere in conto nella propria professione/professionalità educativa. In questa direzione, oltre a descrivere il fenomeno del bullismo a scuola, il volume di Fiorucci diventa un utile vademecum per ogni docente in quanto fornisce tutta una serie di linee guida indispensabili al fine di instillare nel discente lo stimolo a un libero pensiero e di infondere negli alunni la fiducia verso la propria scuola, in quel suo auspicabile accogliere senza stigmatizzare. Per raggiungere quest’obiettivo è necessario che tutte le professionalità coinvolte nel processo educativo ricevano una formazione che consenta loro di comprendere la situazione di vita vissuta nei contesti scolastici da minori LGBT e di intervenire con azioni educative specifiche sul dilagante fenomeno dell’omofobia a scuola. Come si legge nell’introduzione, agli insegnanti si chiede di diventare un animatore dell’incontro educativo, un facilitatore, un mediatore, uno sfondo integratore; si chiede loro di contribuire a rendere la scuola “un luogo di costruzione di un sapere non solo contenutistico, ma soprattutto relazionale; un contesto simbolico nel quale abbia spazio e voce la cultura dell’inclusione quale strumento di valorizzazione e tutela delle differenze” (p. 19). Dai vari capitoli che compongono questo passe-partout del “vivere a scuola” emerge il grande impegno dell’Autore in termini di miglioramento della qualità della vita e del benessere del singolo individuo, che per i motivi più disparati viene etichettato come “diverso”. Oltre ad inquadrare l’omofobia all’interno del più ampio costrutto di atteggiamento, il volume analizza il ruolo e le funzioni delle rappresentazioni sociali, assegnando molta importanza alla nascita e allo sviluppo dell’atteggiamento denigratorio e discriminatorio nella sua veste bullistica. Quest’ultimo aspetto trova conferma nella vasta e articolata letteratura scientifica nazionale e internazionale alla quale il secondo capitolo del volume ha destinato una specifica attenzione. Dalla lettura emergono le principali e drammatiche conseguenze che le persone sottoposte a molestie omofobiche potrebbero vivere a scuola: assenteismo, dispersione scolastica, auto-invalidazione, disturbi psicologici, risultati scolastici meno soddisfacenti, isolamento, minor grado di benessere personale, maggior rischio di suicidio. Il tutto si ricollega all’atto di responsabilità cui è chiamato ogni docente. Uno dei cardini principali di questo libro è infatti quel pensiero-azione che caratterizza l’atteggiamento che assume l’insegnante verso l’inclusione e la differenza. Gli insegnanti svolgono un ruolo importante nello sviluppo di un clima scolastico positivo e sicuro, come si evince dalla lettura del terzo capitolo. L’articolata rassegna della letteratura sul tema conferma che un clima scolastico omertoso e caratterizzato dalla noncuranza degli insegnanti rappresenta l’humus culturale all’interno del quale con molta velocità e facilità il bullismo omofobico prolifera e regna incontrastato. Allo stesso tempo, però, ciò che trova maggiormente conferma nel volume è il ruolo svolto dalla formazione insegnanti per la diffusione di pratiche e politiche educative contro l’omofobia. Tuttavia, in Italia, l’azione formativa a supporto dell’educazione alla differenza a scuola rappresenta un aspetto ancora troppo critico. Il più delle volte, si legge nel volume, “fatica a trovare espressione o continuità di intervento, sopravvivendo negli in-

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terstizi disciplinari o nelle specifiche richieste formative avanzate dagli stessi studenti” (p. 82). Negli ultimi capitoli, il volume è ulteriormente arricchito dalla presentazione e discussione dei dati di un progetto di ricerca finalizzato a esplorare e a descrivere le percezioni di un gruppo di insegnanti in servizio e in formazione del territorio pugliese. Dalla ricerca emergono significati e modelli culturali dei docenti in riferimento all’identità sessuale e alla sua vittimizzazione a scuola: non si rileva intolleranza, quanto la necessità di assecondare il silenzio, rimettendo alla famiglia il compito di affrontare un tema complesso e spinoso. Tuttavia, nella parte operativa del lavoro di ricerca sulle percezioni, la progettazione da parte dei partecipanti di un modello d’intervento finalizzato a promuovere la cultura dell’inclusione e delle differenze a scuola, le idee dei docenti mostrano apertura e un propositivo ottimismo. Si evidenzia quanto la scelta dei contenuti disciplinari, l’uso di strategie e metodologie didattiche e di linguaggi espressivi possano sostenere un’educazione alle differenze. Come scrive lo stesso Autore, tali idee “mostrano che l’accensione della macchina-scuola può avvenire anche grazie a piccole scintille” (p. 129). Da docente, credo che uno dei messaggi che il volume mi lascerà in eredità è che il “diverso”, insito in ognuno di noi, non solo è da considerare in positivo, ma che tutti dovrebbero sentirsi stimolati nel lasciar risplendere la propria diversità condividendola con chi lo circonda. Mi riferisco anche a noi docenti e alle diversità tutte. Lo stile accurato di questo libro ne rende scorrevole la lettura, soprattutto grazie alle dettagliate descrizioni che lo rendono veramente gradevole e accessibile, anche per i non addetti ai lavori. Fiorucci è riuscito ad appassionarmi come docente e a stimolare la mia “vena empatica” dalla prima all’ultima pagina con profonde, ma allo stesso tempo immediate riflessioni, considerazioni e nuovi punti di vista con i quali, il lettore, può “confrontarsi”. La premessa di Stefania Pinnelli, che inaugura il libro, non va trascurata: attraversando le fitte maglie di tutto il testo, ci invita a riflettere sul significato più ampio e trasversale dell’inclusione: un’azione contestuale e culturale finalizzata a rimuovere tutte quelle barriere fisiche e/o sociali che potrebbero escludere e discriminare “chiunque”. Alla luce di tutto il lavoro scientifico-culturale presentato da Fiorucci, rapportato alla mia esperienza professionale di “trincea”, mi sento di consigliare la lettura di questo libro a tutti coloro i quali sono o saranno coinvolti nell’ambito dell’istruzione e soprattutto a tutti coloro che sentono vivo in sé un senso di responsabilità sociale nei confronti di se stessi e dei propri alunni-figli, facendo trionfare il grande concetto del “diverso è bello” e che un mondo a colori è sicuramente più interessante di un’esistenza in “bianco e nero”.

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