Rassegna Italiana di Criminologia 02/12

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DIREZIONE

Tullio Bandini - Roberto Catanesi

COMITATO DI CONSULENZA SCIENTIFICA

Consiglio Direttivo Comissione Scientifica della Società Italiana di Criminologia

COMITATO DI DIREZIONE Uberto Gatti Salvatore Luberto Giovanni Battista Traverso Giancarlo Nivoli Luigi Ferrannini Ernesto Ugo Savona

Ugo Fornari Francesco Maisto Adolfo Ceretti Alessandra Luzzago Pietrantonio Ricci Oronzo Greco Luigi Lanza Adolfo Francia Marco Marchetti

COORDINATORE DI REDAZIONE Oronzo Greco

REDAZIONE

SEGRETERIA

Di.M.I.M.P. Sez. di Criminologia Università degli Studi di Bari Tel. 080 5478282 - Fax 080 5478248

AMMINISTRAZIONE

Pensa MultiMedia Editore s.r.l. Via A.M. Caprioli, 8 73100 Lecce Tel. 0832-230435 info@pensamultimedia.it www.pensamultimedia.it

Barbara Gualco Antonia Valerio

ELENCO REFEREES Marcelo Aebi (Losanna) Bruno Assumma (Napoli) Anna Costanza Baldry (Napoli) Jutta Birkhoff (Varese) Cristiano Barbieri (Pavia) Alessandro Bertolino (Bari) Ernesto Calvanese (Milano) Giovanni Camerini (Genova) Stefano Caneppele (Milano) Felice Carabellese (Bari) Adolfo Ceretti (Milano) Rosagemma Ciliberti (Genova) Carlo Cipolli (Bologna) Anna Coluccia (Siena) Roberto Cornelli (Milano) Antonella Crisci (Salerno) Luisella De Cataldo Neuburger (Milano) Laura De Fazio (Modena) Paolo De Pasquali (Roma)

Francesco De Stefano (Genova) Andrea Di Nicola (Trento) Stefano Ferracuti (Roma) Luigi Ferrannini (Genova) Ugo Fornari (Torino) Adolfo Francia (Varese) Ivan Galliani (Modena) Uberto Gatti (Genova) Annamaria Giannini (Roma) Mario Grandi (Milano) Ignazio Grattagliano (Bari) Oronzo Greco (Lecce) Barbara Gualco (Firenze) Liliana Lorettu (Sassari) Alessandra Luzzago (Pavia) Adelmo Manna (Foggia) Maurizio Marasco (Roma) Marco Marchetti (Campobasso) Pierpaolo Martucci (Trieste)

Vincenzo Mastronardi (Roma) Isabella Merzagora (Milano) GianCarlo Nivoli (Sassari) George Palermo (Nevada) Susanna Pietralunga (Modena) Pietrantonio Ricci (Catanzaro) Carlo Alberto Romano (Brescia) Gaetana Russo (Messina) Ugo Sabatello (Roma) Giuseppe Sartori (Padova) Tiziana Sartori (Parma) Ernesto Ugo Savona (Milano) Gilda Scardaccione (Chieti) Simona Traverso (Siena) Alfonso Troisi (Roma) Alfredo Verde (Genova) Vittorio Volterra (Bologna)


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ORGANI DIRETTIVI PRESIDENTE

Roberto Catanesi (Bari)

VICE-PRESIDENTI

REVISORI DEI CONTI Anna Coluccia (Siena) Carlo Alberto Romano (Brescia) Tiziana Sartori (Parma)

Ugo Fornari (Torino) Salvatore Luberto † (Modena) Ernesto Ugo Savona (Milano)

COMMISSIONE SCIENTIFICA

PRESIDENTI ONORARI

GianCarlo Nivoli (Sassari)

Tullio Bandini (Genova) Francesco Carrieri (Bari) Mario Portigliatti Barbos (Torino)

SEGRETARIO

Adolfo Ceretti (Milano)

TESORIERE

Isabella Merzagora (Milano)

CONSIGLIERI

Adolfo Francia (Varese) lvan Galliani (Modena) Uberto Gatti (Genova) Oronzo Greco (Lecce) Alessandra Luzzago (Pavia) Marco Marchetti (Campobasso) Pietrantonio Ricci (Catanzaro) Gaetana Russo (Messina) Giovanni Battista Traverso (Siena)

Presidente

Bruno Assumma (Napoli) Cristiano Barbieri (Pavia) Jutta Birkhoff (Varese) Francesco Bruno (Salerno) Ernesto Calvanese (Milano) Stefano Caneppele (Milano) Felice Carabellese (Bari) Laura De Fazio (Modena) Andrea Di Nicola (Trento) Nunzio Di Nunno (Lecce) Ignazio Grattagliano (Bari) Barbara Gualco (Firenze) Liliana Lorettu (Sassari) Pierpaolo Martucci (Trieste) Maurizio Marasco (Roma) Gemma Marotta (Roma) Vincenzo Mastronardi (Roma) Susanna Pietralunga (Modena) Ermenegilda Scardaccione (Chieti) Alfredo Verde (Genova)


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EDITORIALE

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SP.IN. Genova: un modello di trattamento per soggetti dellʼarea penale e per le loro famiglie Sandro Rivara, Ermanno Arreghini, Carlo Andrea Robotti, Valeria Franzoi

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Il malato di mente autore di reato nelle strutture residenziali: una ricerca in una comunità terapeutica Giovanni Fossa, Elisa Zanelli, Alfredo Verde

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Dal modello rieducativo a quello riparativo: spunti e applicazioni Carlo Alberto Romano

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Le catene di Pinel: pratiche riflessive della criminologia e della psichiatria forense Silvio Ciappi

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La gestione degli autori di reati sessuali tra psicopatologia e rischio di recidiva. Prospettive trattamentali Felice Carabellese, Gabriele Rocca, Chiara Candelli, Donatella La Tegola, Jutta M. Birkhoff

Il ruolo borderline dellʼeducatore nelle comunità alloggio che ospitano adolescenti politraumatizzati psichici: note sullʼesperienza milanese Enrica Branchi, Adolfo Francia

Rassegna Italiana di Criminologia anno 41° (VI nuova serie) n. 2 /2012 - www.rassegnaitalianadicriminologia.it © Pensa MultiMedia Editore - ISSN 1121-1717 (print) - ISSN 2240-8053 (on line)


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ABBONAMENTI Enti: Italia e 80,00 - Estero e 120,00 Privati: Italia e 70,00 - Estero e 110,00 Soci SIC: Italia e 55,00 - Estero e 85,00 Singolo fascicolo e 20,00 Per i fascicoli arretrati sono validi i prezzi dellʼanno corrente Le richieste dʼabbonamento vanno indirizzae a: Licosa S.p.A. - Signora Laura Mori Via Duca di Calabria, 1/1 - 50125 Firenze Tel. +055 6483201 - Fax +055 641257 La rivista può essere acquistata nella sezione e-commerce del sito www.pensamultimedia.it ed è consultabile in rete allʼindirizzo web www.rassegnaitalianadicriminologia.it Le richieste per inserzioni pubblicitarie vanno indirizzate a Pensa MultiMedia Editore s.r.l. Via A.M. Caprioli, n. 8 - 73100 Lecce - Tel. 0832 230435 e-mail: info@pensamultimedia.it - www.pensamultimedia.it Stampa e grafica di copertina Gioffreda per Pensa MultiMedia Impaginazione ed editing Pensa MultiMedia © Copyright Pensa MultiMedia Editore s.r.l. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata Pensa MultiMedia s.r.l. C.C.I.A. 241468 Iscritta al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 11735 Registrazione presso il Tribunale di Milano n. 522 ISSN 1121-1717 (print) - ISSN 2240-8053 (on line) Finito di stampare nel mese di giugno 2012


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EDITORIAL

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SP.IN Genoa: a treatment model for released prisoners, parolees and their families Sandro Rivara, Ermanno Arreghini, Carlo Andrea Robotti, Valeria Franzoi

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The forensic patient in psychiatric residential facilities: a research in a Therapeutic Community Giovanni Fossa, Elisa Zanelli, Alfredo Verde

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From the re-educative to the restorative model: idea and applications Carlo Alberto Romano

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Pinelʼs chains: consideration on reflexivity in the field of criminology and forensic psychiatry Silvio Ciappi

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The management of sex offenders between mental disorders and recidivism risk. Treatment perspectives Felice Carabellese, Gabriele Rocca, Chiara Candelli, Donatella La Tegola, Jutta M. Birkhoff

Il ruolo borderline dellʼeducatore nelle comunità alloggio che ospitano adolescenti politraumatizzati psichici: note sullʼesperienza milanese Enrica Branchi, Adolfo Francia

Rassegna Italiana di Criminologia anno 41° (VI nuova serie) n. 2 /2012 - www.rassegnaitalianadicriminologia.it © Pensa MultiMedia Editore - ISSN 1121-1717 (print) - ISSN 2240-8053 (on line)


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Ricordo di Salvatore Luberto Nel ricordare un insigne Studioso, un illustre Professore, un Cattedratico prestigioso, è dai titoli accademici, dalle mete raggiunte che solitamente si comincia. Io voglio iniziare invece ricordando la persona, a volte rude ma sempre sincera, diretta e senza fronzoli, appassionata e severa. Non era facile essere amici di Salvatore Luberto ma era impossibile non volergli bene. Nel suo lavoro metteva una grande passione, l’età non aveva intaccato il suo entusiasmo, la volontà costruttiva, lo aveva solo reso un po’ meno tollerante. Solo pochi mesi prima della sua morte era ancora lì a costruire futuro, a sognare di metter su l’Osservatorio europeo della criminalità a San Marino, città da cui era stato “adottato” dopo aver lasciato l’Università di Modena, nel 2007. Era fatto così, Salvatore, sempre proteso a costruire qualcosa ma anche a protestare perché non tutto andava come avrebbe dovuto. Da quando ho l’onore di essere il Presidente della SIC non ho ricevuto da nessun altro tante sollecitazioni, perché Salvatore amava il lavoro che faceva, pretendeva che fosse fatto bene ma investiva anche affettivamente su progetti e persone. Non era facile stargli vicino ma non si poteva fare a meno di apprezzarne l’entusiasmo, la passione, l’onestà profonda verso i fruitori del suo lavoro, che fossero studenti, partecipanti ad un corso o iscritti ad un Convegno. Era poi un generoso. Non posso dimenticare quando, in un momento non facile per la SIC, mise se stesso al servizio della comunità criminologica spedendosi nell’organizzazione di due Convegni che hanno segnato la nostra recente storia, con un entusiasmo ammirevole, una forza che neppure dolorose vicende esistenziali avevano piegato. Portava dentro di sé la forza della sua terra, quella Calabria bella e aspra da cui si era mosso, studente, per laurearsi a Modena, in Medicina e Chirurgia, specializzarsi prima in Psichiatria e poi in Medicina Legale. Ha conosciuto per anni l’impegno concreto delle attività psichiatriche territoriali prima di dedicarsi all’Accademia, percorrendone tutti i gradini per divenire, nel ’90, Professore Ordinario di Antropologia criminale, quindi poi di Medicina legale. Per l’impegno profuso, la qualità del suo lavoro ha ottenuto grandi riconoscimenti nazionali ed internazionali. Direttore Dipartimentale, Coordinatore di Dottorato, Direttore delle Scuole di Specializzazione in Medicina legale e in Criminologia clinica, Coordinatore di ricerche europee, era punto di riferimento per l’intera comunità scientifica nazionale in ambito criminologico e psichiatrico forense. Da tanti anni, poi, era Vice Presidente della Società Italiana di Criminologia. Di lui, semplicemente, non si poteva fare a meno. La Sua era una presenza sempre attiva, partecipe, perché sentiva la Società Italiana di Criminologia come la “sua” Società. Se c’era bisogno di qualcosa, Salvatore non si negava mai, rispondeva sempre presente. Voglio ricordare così Salvatore Luberto. Come Studioso di grande valore, Criminologo a tutto tondo, persona per bene, intellettualmente onesta, dura e buona. Ci mancherà davvero. ROBERTO CATANESI


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EDITORIALE Il ruolo borderline dellʼeducatore nelle comunità alloggio che ospitano adolescenti politraumatizzati psichici: note sullʼesperienza milanese di Enrica Branchi1 e Adolfo Francia2

Corre un vento gelido sulle comunità educative di Milano. Gli educatori sono stati chiamati sempre più a svolgere funzioni borderline. Scopo di questo articolo è quello di cercare di spiegare come e perché. Nel corso del lavoro facciamo riferimento a comunità residenziali che accolgono adolescenti in grave crisi e spesso politraumatizzati. Una constatazione.Tutta la fantasia delle persone preposte ed occuparsi del disagio giovanile più grave è stata dispiegata, indirizzata, rivolta verso l’invenzione, nel senso etimologico di “ritrovamento”, d’iniziative che non prevedessero la residenzialità, costosa e non in linea con un certo indirizzo gestionale. È certamente il bisogno ad aguzzare l’ingegno. Ce lo dobbiamo dire chiaramente: la residenzialità è stata messa da parte soprattutto per motivi economici. Una delle giustificazioni per legittimare lo scopo economico è stata il superamento degli istituti, nonostante la realtà comunitaria non coincidesse affatto con quella degli Istituti. Gli Istituti sono parenti stretti delle istituzioni totali mentre le comunità, quelle vere, sane e ben costruite, non certo quelle rappresentate dal riciclaggio degli Istituti, sono figlie, a volte inconsapevoli, della concezione democratica della gestione del disagio, nata in Inghilterra con Tom Main e Maxwell Jones. Questa la premessa, anche se ci rendiamo conto che il discorso sui minorenni politraumatizzati è certamente molto più complesso ed articolato dI come lo abbiamo presentato. I minori formano, infatti, una categoria complessa, costituita da molteplici realtà, non certo da porre in un unico calderone. Ci sono i neonati abbandonati o maltrattati che non devono stare in comunità. Ci sono i bambini altrettanto abbandonati e maltrattati, necessitanti di una famiglia, preferibilmente. Ci sono, infine, gli adolescenti in crisi i quali si possono avvalere dell’intervento della comunità. Quelli abusati e gravemente maltrattati, privi di riferimenti familiari protettivi, non possono fare a meno della comunità. Una nuova categoria di disagio adolescenziale è rappresentata, inoltre, dai fallimenti delle adozioni e dai pluriaffidi. La realtà adolescenziale presentata è ben viva nel milanese ed è affrontata quasi esclusivamente dai centri di eccellenza psicoterapica. La realtà di questo nuovo disagio è sottovalutata perché emersa in modo strisciante, senza punte di emergenza. Nonostante ciò presenta il

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Pedagogista. Ordinario di Criminologia – Facoltà di Giurisprudenza – Università degli Studi dell’Insubria – Sede di Como.

Editoriale

carico di un disagio, per non dire di una patologia, di difficile soluzione. Alcuni adolescenti presentano problemi connessi con l’acquisizione della responsabilità penale, fatto tutt’altro che rilevante per valutarne l’avvio su un percorso educativo o su un percorso terapeutico. Certamente l’iter dell’adolescente-problema può esordire con tentativi di incentrare su di sé l’attenzione attraverso il consumo di sostanze, o di alcol e su ciò imbastire l’inizio di un percorso che lo conduce a contatto con la realtà del sistema penale. In questi casi, il tanto sbandierato modello “una famiglia per tutti” scricchiola e vacilla. I problemi d’identità di tali adolescenti vengono posti in secondo piano rispetto a quelli emergenti dalla necessità di fornire loro un supporto logistico, una terapia psichiatrica, una stabilizzazione relazionale. I bambini necessitano prima di accudimento e poi di educazione, gli adolescenti prima di educazione e poi di accudimento, intendendo per accudimento la soddisfazione dei loro bisogni materiali. In altre parole, se al bambino basta la certezza emotiva di essere al centro di un processo educativo-affettivo, l’adolescente, per provare a smorzare la carica di oppositività di cui è dotato, necessita di una situazione emotivo-affettiva estremamente diversa. Riassumendo ed ulteriormente semplificando, il bambino disagiato necessita prima di un accudimento e di un intervento affettivi tout court, mentre l’adolescente, che vede dilatati gli spazi sociali a sua disposizione, necessita di una serie di interventi articolati che non si possono limitare, quanto meno in prima battuta, all’accanimento affettivo di una famiglia affidataria da cui il ribelle scappa, memore del fallimento della propria. Il bambino richiede un intervento affettivo che lo coinvolga e lo catturi, mentre per l’adolescente si rivela utile, all’atto dell’allontanamento familiare, godere del “tiepidino” di una affettività erogabile in un gruppo di convivenza comunitaria. L’adolescenza, come ben sappiamo, è una condizione particolare di scontro, di conflitto, di presa di distanza da un affetto fatto di fisicità, di legame stretto. L’adolescente normale è colui che sogna lo scioglimento di tutti i legami, soprattutto con le figure che hanno contribuito in modo primario ed essenziale alla formazione della sua identità. Anche genitori buoni, autorevoli e normalmente affettivi si trovano di fronte all’oppositività, alla scarsa tolleranza dei legami affettivi e della fisicità dei genitori. La risposta alla richiesta di manifestazioni concrete di affetto da parte dei genitori stessi è scontrosa, fugace, sgradita. Se poi i ragazzi hanno vissuto un’infanzia catastrofica, la realtà si rivela ben più pesante perché quegli stessi ragazzi

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Enrica Branchi, Adolfo Francia hanno in sé l’ambivalenza di fondo della coesistenza del bisogno del distacco e dell’attaccamento negato. L’adolescente che ha avuto può, infatti, prendere le distanze da ciò che ha interiorizzato. Quello che non ha avuto sente paradossalmente la necessità di prendere le distanze da qualcosa che non ha avuto e di cui sente il bisogno. Di qui l’importanza della situazione comunitaria rispetto ad altre soluzioni. Naturalmente, la risposta comunitaria è, a sua volta, articolata. Gli adolescenti possono usufruire di comunità educative, il cui scopo è sopperire ad un disagio socioeducativo, e/o di comunità terapeutiche che dovrebbero rappresentare una risposta sanitaria a un disagio psichico difficilmente individuabile.Tutto ciò sulla carta, come si suol dire, perché esiste una realtà borderline che costringe gli educatori delle comunità educative a profondersi in sforzi che trasformano i loro interventi, a seconda delle necessità, da educativi a sanitari e viceversa. Ciò premesso, daremo uno sguardo alla realtà milanese e a quelle comunità che da anni si sono fatte carico di ragazzi e ragazze con esperienze traumatiche multiple, prima fra tutte l’esperienza di avere avuto fornitori di cure (genitori, insegnanti, ecc.) incapaci di soddisfare i loro bisogni fondamentali di crescita. Una decina d’anni orsono uno di noi ha iniziato ad occuparsi di ragazzine vittime di abuso sessuale. In questi anni ha lavorato in un’équipe di giovani educatori mossi da un entusiasmo tale da reggere con dedizione una comunità che per scelta, consapevole e non, ha accolto, per un lungo periodo, utenti portatori di esperienze traumatiche multiple. In quegli anni, avidi di informazioni o meglio utopisticamente bisognosi di istruzioni per l’uso, i componenti l’équipe ricercavano l’apporto dei più noti esperti di abuso e maltrattamento in Milano, per acquisire ed applicare, per queste adolescenti, un modello, possibilmente già sperimentato, di “comunità tutelare”, termine allora molto in voga, coniato in opposizione agli Istituti, considerati entità puramente custodiali. In una giungla di corsi di perfezionamento, master di vario livello, seminari, giornate di studio e supervisioni, l’équipe ha progressivamente acquisito nozioni su cosa succeda nel corpo e nella psiche dei minorenni quando la “matrice traumatica” si impossessa della storia di un adolescente e mina il suo diritto a crescere. Non si è però appreso solo dalle succitate fonti, ma anche, e ben di più, dalle “ustioni” giudiziarie, prodotte dagli errori su come e quando attivare una segnalazione o una denuncia per reati che espongono l’educatore, in quanto depositario della confidenza della vittima d’abuso, e il minore stesso, a percorsi giudiziari interminabili e rischiosi. Le comunità per adolescenti come quelle di cui stiamo parlando si sono quindi avvalse, nella formazione e nell’operatività, di esperienze ben collaudate di comunità residenziali per bambini maltrattati, di esperienze di lavoro di rete, di centri superspecializzati, di supervisione clinica da parte di “abusologi” o della consulenza di giuristi (che si stavano formando a una nuova professionalità) esperti in materia. Alla luce dell’esperienza acquisita, nessun modello operativo pareva, tuttavia, pensato e sperimentato sul target degli utenti adolescenti che approdavano alla struttura di cui sopra. L’integrazione con i servizi della rete disponibili sul territorio milanese diventava, alla luce di tali modelli teorici, problematica. In sintesi, ci si convinse che, almeno sul territorio milanese, dalla fine degli anni ’90 ad oggi, gli educatori di comunità alloggio per adolescenti, si fossero inventati, sulla loro pelle (e a volte, purtroppo, anche sulla pelle degli utenti) un modello (più o meno esplicitato) di presa in carico di adolescenti po-

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litraumatizzati. Pensiamo che in altri territori metropolitani si sia fatto altrettanto. All’inizio del secondo decennio del secolo, guadagnata con fatica tale professionalità, cosa si richiede agli educatori delle comunità per adolescenti politraumatizzati? A Milano, la rete dei servizi, compreso il Tribunale, che tipo di aspettative ripone su tale offerta? Se dieci anni fa accogliere un adolescente gravemente maltrattato era compito di poche comunità, oggi, con i noti tagli ai bilanci del sociale, si rischia di veder confluire la richiesta di intervento su tale tipologia di utenza in progetti educativi, economicamente snelli (affidi, centri diurni, educatori domiciliari, educativa di strada, ecc.), in base al principio che la rete del residenziale è diventata troppo onerosa. La voce dell’adolescente diventa così attutita, per certi versi inascoltata, fino a quando qualcuno non esagera nella pretesa di attenzione compiendo gesti realmente irreparabili, reati gravi come l’omicidio. Allora la macchina del dispendio economico si mette in moto per tacitare l’opinione pubblica ora inquieta, prima soltanto distratta perché doveva tollerare solo un po’ di droga, un po’ di sesso trasgressivo, qualche piercing e così via. Per contro, nelle comunità educative per adolescenti, si rischia, per la crisi finanziaria che sembra avere colpito le istituzioni locali, di veder confluire sempre più casi di competenza sanitaria (ovviamente ai costi di retta e agli standard dell’educativo). Ci piacerebbe avviare una riflessione che, nel tempo, potrebbe portarci a definire una buona prassi di gestione al limite tra l’educativo e il terapeutico e, guarda caso, il termine “limite” ci riporta semanticamente alla patologia borderline, denominazione decisamente abusata, tanto da non essere considerata una vera e propria diagnosi, ma un’etichetta posticcia da apporsi a quegli adolescenti che faticano a rimanere nelle lasse mura dell’educativo. Nella letteratura sul maltrattamento il termine “minore” trova un’equazione implicita, a volte, anche esplicita, coll termine “bambino”. Tale equazione porta completamente fuori rotta gli educatori che si occupano di adolescenti; l’osservazione può sembrare banale, ma, a nostro avviso, fondamentale: per anni il mondo dell’educazione (educatori e ragazzi) è rimasto prigioniero della “matrice traumatica”, fondata su una malcompresa interpretazione del concetto di coazione a ripetere, come se il trauma rappresentasse una ferita insanabile, un punto di non ritorno. Un’ulcera, non una ferita cicatrizzabile. La cura tardiva del trauma in fase adolescenziale, per molti clinici, sembra essere un’avventura destinata al fallimento.Tale considerazione rappresenta una scommessa persa in partenza per cui sembra non valere la pena intraprendere cure costose. Sembra essere sufficiente confinare i nostri adolescenti senza speranza in contesti di scarsa professionalità ove confluiscono problematiche di ogni tipo: un po’ di tossicodipendenza, una spolverata di devianza, qualche disturbo alimentare e qualche tentato suicidio. L’elenco potrebbe essere anche più lungo, ma crediamo il concetto sia chiaro. Alla luce di quanto sopra, è, a nostro parere, indispensabile distinguere tra il bambino abusato e maltrattato e l’adolescente nelle medesime condizioni. Come si può pensare, infatti, di proporre, nascondendosi dietro il termine “minori” tout court, percorsi di riparazione univoci per bambini e per bambini alti un metro e ottanta, con il piercing sulla lingua e la parlata da scaricatore del porto o per lolite politraumatizzate con le fattezze da mangiatrici di uomini?

Editoriale


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Editoriale Quando sentiamo parlare di affido familiare come alternativa al “ricovero” in comunità (è ancora “ricovero” il termine in uso nei documenti ufficiali) ci chiediamo perché sulle locandine dei metrò nelle campagne affidi si vedano foto di bimbi bambolotto e non foto di languidi bambinoni coperti di tatuaggi casalinghi. Eppure le politiche sociali, appellandosi al buon senso comune, propongono l’affido familiare come alternativa auspicabile a quella che gli enti preposti chiamano “istituzionalizzazione” anche per i ragazzi politraumatizzati, dimenticandosi che essi stessi sono spesso figli traumatizzati da progetti di affido o adozioni fallite. Gli adolescenti di cui parliamo una famiglia non se la possono emotivamente permettere, pena l’ennesimo trauma inferto da progetti basati sull’ignoranza della fisiologia psichica di tali soggetti. Anche sull’affido familiare di bambini politraumatizzati ci sarebbe da ridire, ma non è questa la sede per affrontare tale problema. È noto che gli adolescenti (come peraltro gli educatori) non nutrano grande simpatia per le sedute dallo psicologo, eppure, quando in comunità non se ne può più dei nostri “mattocchi”, siamo pronti ad invocare la bacchetta magica della terapia, sia essa farmacologica o psicologica. È tipico degli educatori, ed in ciò ricordano un po’ i loro adolescenti, invocare ed idealizzare, a tratti, l’intervento terapeutico, e a tratti, considerare invece il ragazzo come “la nostra creatura”, rivendicando il primato della relazione educativa sulla presa in carico terapeutico-sanitaria. D’altro canto chi ha mai avuto il piacere di leggere un illuminante saggio sul maltrattamento scritto da un educatore? Per vero qualche intervento c’è stato, ma gli educatori, di solito, sono troppo impegnati a vivere esperienze borderline per rifletterci sopra. Gli educatori svolgono un lavoro faticosissimo, ansiogeno e scarsamente retribuito. Con il loro “sapere debole” sono tuttavia gli unici a cimentarsi con ragazzi che disorientano i professionisti della certezza, ragazzi che non reggono le psicoterapie pur avendone estrema necessità, ragazzi che stanno molto male, ma non così tanto male da meritarsi l’occhio diagnostico di un neuropsichiatra, ragazzi costretti, come tentativo d’autoterapia, ad avvicinarsi alla droga o al mondo della devianza pur di guadagnarsi un’etichetta identitaria posticcia, quasi sempre impropria, per ottenere ascolto, visibilità, fors’anche, chissà quando, cura. Questi ragazzi, portatori di un mondo d’incertezze, lasciano trasparire una sola evidenza: a casa, in quella casa, spesso teatro dei noti traumi, non possono (per il Tribunale “non devono”) più stare ed eccoli, loro malgrado, nelle criticatissime comunità. Anche l’educatore, dunque, secondo noi, è un soggetto del sapere e dell’agire borderline, un professionista in grado di formulare un progetto educativo che, nell’adolescente politraumatizzato, deve necessariamente tenere conto della presenza di gravi disturbi relazionali (che si manifestano con tratti istrionici, antisociali e/o depressivi che deve, bontà sua, riconoscere),

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blocchi cognitivi e disturbi collegabili alla sfera sessuale (inibizioni, promiscuità, sessualità coatta). La sfida dell’educatore è porsi come prestatore di cura “attento e supportivo”, seguendo Racamier, senza cedere al rischio di una relazione dipendenza/dominio indotta dalla necessità, da parte dell’adolescente, di un appoggio, passando alternativamente da una posizione passiva (“sono disperato e ho bisogno”) a una di dominio (“ti devo controllare”). Quanto detto significa necessariamente prevedere la comunità terapeutica e l’accesso a cure psichiatriche per l’adolescente politraumatizzato? La risposta non può che essere interlocutoria. La casistica di trattamenti sanitari obbligatori dalle comunità per adolescenti parla di individui che, in ragione della loro età e plasticità, vivono perennemente il rischio di scompenso. L’affermazione non confligge con la “prudenza diagnostica” affermata dei neuropsichiatri infantili.Anche l’educatore confida nella prudenza diagnostica in quanto i fenomeni patognomonici di una grave patologia psichiatrica, nell’adolescente, possono manifestarsi come fenomeni transitori. Non solo. Spesso le diagnosi in soggetti adolescenti abbracciano più quadri clinici. Compito dell’educatore è saper fare un passo indietro ovvero un passo avanti verso il bisogno terapeutico del ragazzo affidatogli. L’allarme scatta nel momento in cui: - l’adolescente in crisi porta costantemente, nel quotidiano, il sintomo e l’agito sostituisce totalmente la parola; - l’adolescente in crisi mostra maggiore necessità delle nonregole rispetto alle regole, perché solo attraverso la regressione mostra di tollerare il malessere, il dolore derivante da un trauma rispetto al quale riesce a sopravvivere solo prendendo emotivamente e spesso cognitivamente le distanze (la comunità terapeutica lascia esprimere liberamente il sintomo); - la comunità educativa non riesce più a rendere un senso al dolore: “…fidati e affidati, perché le cose cambieranno…” sono parole che paralizzano per paura di ricadere nell’abbandono. In termini tecnici, nel momento in cui non si riesce più ad infondere la speranza che la matrice traumatica non comprometterà irrimediabilmente il domani, che l’adolescente non sarà più vittima della coazione a ripetere, quando, in altre parole, gli sarà preclusa la dimensione del futuro. Quando l’adolescente vive il suo dolore come ineluttabile e fine a se stesso, senza mai intravedere un momento di ristoro, è arrivato forse anche il momento della farmacoterapia. La posizione è contestata. Ma quando il dolore fisico si fa insopportabile non è diritto del paziente chiederne l’attenuazione? Perché al dolore psichico dell’adolescente non viene attribuita pari dignità? - infine, quando la supervisione dedicata alle comunità educative non è più sufficiente a controllare il controtransfert degli operatori, così fortemente sollecitato dalla frequenza degli agiti. In tali casi, diventano necessarie sia la supervisione clinica che la supervisione metodologica gerarchizzata, tipica delle comunità terapeutiche.

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