IL FONDO E LA FORMA. La semiosi, la semiotica, l'umano

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Collana del Dipartimento di Lingue e Letterature Straniere dell'UniversitĂ del Salento 43



Cosimo Caputo

Il fondo e la forma La semiosi, la semiotica, l’umano


Comitato scientifico: Renzo Pi. Hugarte (Università della Repubblica, Montevideo, Uruguay), David Lucking (Università del Salento, Lecce), Richard Nile (Murdoch University, Perth, Western Australia), Augusto Ponzio (Università di Bari), Alizia Romanovic (Università del Salento, Lecce), José Carlos Rovira Soler (Università di Alicante, Spagna), Giovanni Tateo (Università del Salento, Lecce) Comitato editoriale: Andrea Calì, Cosimo Caputo, Maria Renata Dolce, David Lucking, Diego Símini, Giovanni Tateo

ISBN 978-88-8232-778-1 2010 © PENSA MULTIMEDIA srl Lecce-Brescia 73100 Lecce - Via A.M. Caprioli 8 Tel 0832/230435 • fax: 0832/230896 info@pensamultimedia.it • www.pensamultimedia.it


Sommario

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Introduzione

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1. Intrichi segnici

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1. Nel segno del “non” 2. L’opposizione partecipativa non verbale/verbale 3. Sincretismo e catalizzazione 4. Simile/dissimile 5. Per una semiotica della cognizione

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2. Tutto il segnico umano è linguaggio

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1. La natura umana 2. L’uomo come “animale linguistico” 3. La linguistica come semiotica delle lingue o delle forme segniche verbali e non verbali 4. Una trascendentalità materiale: “il gioco del fantasticare” 5. L’imperfezione dell’immagine 6. Percezione e modellazione 7. Linguaggio e menzogna 8. Il linguaggio tra immagine e figura 9. L’«universale principo di formazione»

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3. Semiotica e senso dell’umano

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1. Logica del segno e logica della vita 2. La semiotica delle culture 3. La semiotica come simbolica 4. La gloria e il fardello dell’uomo 5. Semiosi, semiotica, metasemiotica

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6. Comunicazione e solitudine 7. Semiotica dell’essere 8. Animale semiotico

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4. La semiotica e la sua storia

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1. Passato e presente “sub specie semiotica” 2. Teoria e storiografia 3. Storiografia (e) sem(e)iotica 4. Semiotica e relazione 5. Segni verbali e segni non verbali, articolati e non articolati: l’eredità medievale 6. Semiotica cartesiana e semiotica non cartesiana

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5. Il Tractatus de signis di Jean Poinsot

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1. Semiotica vs logica 2. Un sintomo teorico della semiotica 3. La categoria della relazione e la categoria del segno 4. Animali, percezione e natura del segno

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6. Un manuale di semiotica del Cinquecento. Il De humana Physiognomonia di G. B. Della Porta

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1. La filosofia naturale come fisiognomica 2. La fisiognomica come semiotica 3. L’iconismo fisiognomico 4. Natura vs cultura 5. L’inferire fisiognomico

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Riferimenti bibliografici

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Indice dei nomi

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Introduzione

Il fondo e la forma è il titolo del primo paragrafo di un articolo di Roland Barthes sullo stile de Lo straniero di Albert Camus. Un bel testo – scrive qui Barthes – è come un’acqua marina; il suo colore deriva dal riflesso del fondo sulla superficie, ed è là che occorre passeggiare, non in cielo o negli abissi; bisogna ammettere che le idee stanno sempre più in alto o più in basso della linea delle parole, e questa terebrante oscillazione è fonte di sgomento; ma la linea delle parole è bella. Talvolta è bene non esplorare, limitarsi a questo dolce supporto delle parole. Lo stile de Lo straniero ha proprio qualcosa di marino: è una specie di sostanza neutra, ma un po’ vertiginosa a forza di monotonia, attraversata a volte da folgorazioni, ma soprattutto sottoposta alla presenza sottomarina di sabbie immobili che legano questo stile e gli danno colore (Barthes 1944, trad. it. p. 319).

Per Algirdas J. Greimas (1968, p. 75), Il fondo delle cose è costituito dal luogo dei fondamenti; vale a dire dall’episteme che deve giustificare l’attività metalinguistica dei linguisti, e ciò in due modi diversi: perché esso fornisce le categorie di base che rendono possibile l’esercizio del loro mestiere, e perché è di fatto lo scopo ultimo della loro esplorazione.

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Il fondo e la forma

Abbiamo accostato le parole di Barthes e quelle di Greimas perché pongono la questione delle premesse e del senso della teoria semiotica. È noto che entrambi si sono mossi nell’ambito teorico inaugurato dalla linguistica strutturale e che entrambi hanno preso le distanze da certa euforia scientista insita in quell’approccio, sottolineando la necessità per la semiotica di ritrovare – come dice Barthes (1968, trad. it. p. 51, cors. ns.) – una certa pulsione etica, una capacità di prendere posizione, nella misura in cui propone mezzi via via più concreti per analizzare le alienazioni del senso, le alienazioni attraverso il senso, giungendo così a una critica della società capitalista, ma andando in qualche modo più lontano, mettendo in discussione lo stesso uomo occidentale, così come viene definito dal suo uso dei segni.

Si deve pensare a «una responsabilità sociale, storica […] del senso» (ivi, p. 52) e «fornire strumenti d’analisi che permettano di rintracciare l’ideologia nelle forme, cioè proprio là dove in genere non la si cerca» (ivi, p. 54, cors. ns.). Greimas (1968, p. 75), per parte sua, fa notare che lo strutturalismo anche se è considerato a un tempo come una metodologia e un’epistemologia, implica non di meno, da parte di colui che lo esercita, tanto una “visione del mondo” coerente quanto una certa etica del sapere.

Non è sufficiente la potenza descrittiva di un apparato formale, il suo carattere logico-astratto per spiegare i fenomeni linguistici. Un grande linguista come Louis Hjelmslev, che tanta parte del suo lavoro ha dedicato alla costruzione di categorie interdefinite all’interno di un corpus coerente, ha molto insistito, al contempo, sul carattere “alogico” o “illogico” del linguaggio che sfugge ad ogni descrizione di tipo logico-matematico, basata sull’opposizione contraddittoria, per essere meglio descrivibile in una prospettiva partecipativa o sublogica. Accanto e in stretta connessione alla que8


Introduzione

stione della forma, la sua metodica antiseparatista pone la questione della sostanza semiolinguistica, ossia della presenza del sensibile nella forma, e della materialità delle lingue e del linguaggio. Senza adeguazione la a-realisticità della teoria non fa presa sulla realtà. Questi motivi stanno al fondo della valenza semiotica generale della Glossematica hjelmsleviana. La sola analisi della forma linguistica non riesce a spiegare le abitudini di pensiero, il sentimento linguistico. Se si ritiene, con Hjelmslev, che la forma semiolinguistica possa essere manifestata da molte sostanze semiotiche diventa possibile pertinentizzare nuovi campi semiotici (cfr. Caputo 2006b, 2010). «Non è dunque nell’opposizione [escludente, aggiungiamo] della forma e della sostanza, e neppure nella messa tra parentesi di quest’ultima, che potremo trovare la soluzione delle nostre difficoltà» (Greimas 1968, p. 79). Per avere un senso, una presa sulla realtà, la teoria del linguaggio deve saper cogliere la materialità degli oggetti semiotici, deve poter rendere conto, per dirla ancora con Barthes (1944, trad. it. p. 319), delle «incidenze del fondo sulla forma». Molto prima di Barthes e Greimas, Charles Morris (1946, trad. it. p. 209) scriveva che uno degli «scopi della teoria dei segni» è quello di sottrarre l’uomo «alle potenti forze» che tendono a ridurlo a «un burattino tirato di qua e di là dalle espressioni della comunicazione controllate socialmente» E ancora: Dalla nascita alla morte, da quando ci si sveglia al riposo, l’individuo è oggi soggetto a una continua pressione dei segni con cui altre persone cercano di raggiungere i propri scopi. Gli si dice quello che deve credere, che deve approvare o disapprovare, che deve fare o non fare. […] Grandi masse di individui ripetono ogni settimana ciò che è stato deciso a proposito delle loro credenze, acquistano cose che approvano perché si è mostrato loro che tali articoli sono usati da una bella ragazza o da uno “scienziato”, ripetono meccanicamente azioni che si è loro assicurato si debbano eseguire. Il comportamento diviene stereotipato, monotono, coercitivo e patologico (ivi, pp. 231-232).

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Il fondo e la forma

La supremazia totalitaria dei “media” ha oggi omologato ancor di più, rispetto agli anni in cui Morris scriveva queste parole, la variegata articolazione del mondo, dei linguaggi, delle culture, dell’economia, della politica, della religione. Il mondo è diventato un significante fine a se stesso, un mero dire che non costruisce relazioni sociali. Lo spettacolo della comunicazione genera sguardi indifferenziati, sordi ai rumori della vita reale; genera consumatori di stereotipi, cloni di personaggi mediatici. La comunicazione che oggi imperversa sui vari “media” è un organismo geneticamente modificato (OGM); essa produce solo valori di scambio, o meglio merci; è essa stessa merce. La comunicazione fa la merce, la merce fa il denaro, il denaro fa la lotta per altro denaro, fino alla guerra, che si fa anche sui e con i “media” che in questo circuito risultano sempre più armi di distrazione e di distruzione di massa. La comunicazione nasconde, consola, edulcora, eufemizza, sposta lo sguardo dal mondo alla sua evanescenza, dal reale all’irreale, sospende il dubbio che le cose possano stare altrimenti; da luogo di connessione, spazio comune, dialogo, diventa monologo, crea scollegamento, disconnessione, s-comunicazione. Scomunicare – scrive nel suo omonimo libro Gian Piero Jacobelli (2003, p. 13) – non significa, almeno in linea di principio, né tacere, né equivocare, né mentire, che restano comportamenti comunque collegati con la volontà di comunicare, sia pure in maniera condizionata e condizionante, di permanere in una relazione dialogica, se non dialettica, con l’interlocutore. Scomunicare significa giocare con i mezzi e i messaggi […] per non consentire repliche all’interlocutore che non siano di passivo e supino consenso e, soprattutto, per non consentirgli di sottrarsi alla comunicazione scomunicante.

In questo quadro, il momento comunicativo o segnico è costitutivo della realtà, non la sua mera rappresentazione. Si pensi al 10


Introduzione

ruolo che oggi hanno i sondaggi, che, perfettamente inseriti nella logica spettacolare della comunicazione-produzione, da strumenti di descrizione sono diventati strumenti di costruzione della realtà. I segni sono l’arma della competizione sociale, della lotta per il potere in un intreccio continuo di conflitti di segni, o di segni in conflitto, e di conflitti sui segni (forme di censura, distruzione di bandiere, di foto di leader politici o religiosi, mistificazione semantica delle parole e delle azioni proprie e di quelle altrui, falsi sondaggi). Guerre di segni ma anche segni di guerra, in cui l’agire serve prevalentemente a lanciare un messaggio più che a ottenere un vantaggio materiale immediato, e se nelle altre forme di conflitto semiotico si fanno cose con i segni, qui si fanno segni con le cose. Si comprende allora come la comunicazione sia oggi produzione di fatti materiali e immateriali e come la classe dominante sia quella classe che possiede il controllo della produzione, circolazione e interpretazione della comunicazione stessa. Ciò presuppone un mutamento del ruolo della comunicazione che non si esaurisce più «in un momento intermedio – lo scambio – fra produzione e consumo, ma investe, permea, l’intero sistema di produzione, sicché è possibile dire che il sistema della produzione coincide con il sistema della comunicazione» (Ponzio 1995, p. 13, ma cfr. anzitutto RossiLandi 1968, 1972). Chi controlla questo sistema ha l’egemonia e il potere effettivi. Bisogna dunque rifare le nostre mappe, pur nella consapevolezza che la critica e il disincanto della ragione non sono in grado di distruggere le illusioni più forti, quelle, ad esempio, di una felicità data dal possesso e dal consumo di beni effimeri. Illusioni per di più nocive perché impongono all’uomo di incrementare un’economia di rapina, di distruzione dell’ambiente, una civiltà di guerra, e di distogliere lo sguardo dalla condizione umana, dalla lotta per la vita che l’accompagna, dalla fragilità della sua stessa natura animale, dal suo essere intricata con la natura più in generale, quindi costantemente e costitutivamente esposta all’altro, a disposizione di altro. Per mappare la complessità del mondo della vita nel suo complesso e del mondo umano in particolare c’è bisogno di un approc11


Il fondo e la forma

cio globale che non sia fagocitante o imperialistico e che può venire solo da un approccio relazionale in cui i relata sono differenti (distinti) ma non indifferenti tra loro, sono cioè in dialogo, esposti l’uno all’altro, a render conto l’uno all’altro loro malgrado, senza alcuna indipendenza o chiusura monadica. Non c’è aspetto del mondo che non sia coinvolto nell’essere, nella vita degli altri aspetti. Soltanto una epistemologia delle relazioni e una semiotica basata su una metodica antiseparatista che includa la forma e la materia del segno, consente questo approccio globale. Oltre alla datità presente “qui e ora”, al pensiero artificiale, cosciente, appartiene all’ordine della semiotica anche il pensiero naturale, subcosciente, ciò che è assente o non presente ma che è parte costitutiva della tessitura dell’esistenza. La semiotica guarda così a ciò che eccede e resiste alla forma istituzionalizzata delle scienze, del pensiero, delle culture, della comunicazione; guarda alla “materia”. Il compito della semiotica diventa allora quello di pensare ciò che resta nascosto, di pensare il non detto dell’essere del segno, ovvero la materia del mondo, ciò che del mondo non è diventato ancora favola o non è stato ancora annichilito: un compito eticopolitico e una semiotica esistenziale, per adoperare l’espressione di Eero Tarasti (2009). Una scienza non può coincidere interamente con se stessa, pena la sua stessa fine, la sua atrofizzazione o la sua riduzione al sogno ineffettuale dell’astrazione e all’acquiescenza della riflessione, quindi una scienza che non pensa e non ascolta. Da dove proviene il “rigore scientifico”? Non certo da un rigore universale, assoluto, il che contrasta con la nozione stessa di scienza quale sapere umano, storico, aperto, critico, problematico, suscettibile di correzione sulla base di imput esterni, non formalizzati o non ancora scienza. Qui, nella consapevolezza dell’esposizione ad altro si giocano le questioni decisive non solo per l’esistenza ma anche per la conoscenza. Nel capitolo XXI del libro IV del Saggio sull’intelligenza umana, John Locke, dopo la Filosofia naturale, che considera il mondo in 12


Introduzione

se stesso, e l’Etica, che considera ciò che l’uomo deve fare, pone la Semiotica, che tematizza lo strumento e il come vengono conosciuti e comunicati la natura e il dover fare dell’uomo. In semiotica il “come” è l’interpretazione, lo “strumento” è il segno; loro comun denominatore è l’apertura ad altro. Una scienza che pensa non guarda solo ai “fenomeni”, guarda anche al “noumeno”, alle questioni fondamentali, vitali dell’umano; ascolta l’altro di sé e l’altro da sé. Una scienza dei segni che pensa guarda alle origini dei segni, al loro livello pre-paradigmatico, alla loro materia; comprende nel suo ambito il di più della forma del segno; assume, diremmo, lo stile di pensiero della fisiognomica; diventa semiotica fisiognomica, una semiotica, cioè, che ha lo sguardo teso a decifrare il senso nascosto o inintenzionale e a scrutare l’intrico che lega il mondo vegetale, animale e umano, che non separa il segno dal gesto, dal grido, dal mondo di Gaia, il che vuol dire che il linguaggio e il senso hanno un corpo e un volto, così come il corpo e il volto hanno un linguaggio La fisiognomica non mira solo alla ricerca di “segni” simili e comuni, al semplice “riconoscimento” della superficie delle configurazioni del mondo (volti, mani, zampe, voci, piante, animali, ecc.) e alla loro attribuzione a una classe generale, a una sindrome; essa, anche storicamente, è l’esercizio di un sapere indiziario, di un sapere dal basso, umile, non ufficiale. In quanto tale è una «“semeiotica” universale» (Vasoli 1990, p. 46) che della semiotica rivela la duplice tendenza volta da un lato «a stabilire, con un apparato categoriale “forte”, le costanti in grado di costruire tipologie e classi in cui catalogare gli oggetti analizzati», dall’altro è «orientata a individuare e, talvolta, a moltiplicare le differenze che costituiscono la singolarità di oggetti anche analoghi» (Magli 1995, p. 23). Possiamo dire che emerge una doppia accezione di fisiognomica: quella di legge di natura, legata a simboli univoci e trasparenti o a un simbolismo moralizzatore, e quella di conoscenza congetturale1 (cfr. cap. 6).

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Come precisa ancora Patrizia Magli (1995, pp. 21-22) nella sua ricerca storico-

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Il fondo e la forma

Per altro verso si potrebbe dire che tutta la semiotica è una fisiognomica del segno, tematizza cioè il volto del segno che è, contemporaneamente, forma e movimento, struttura fissa e mobile articolazione, figura e mimica. […] C’è una scrittura del volto, che è spazio, forma, figura, tratto fisso, simbolo, traccia permanente – e c’è una parola del volto, che è tempo, movimento, mimica, tratto mobile, stato d’animo, segno passeggero. […] Va detto però che per la fisiognomica spesso, anche se non sempre, molto più di quanto nell’uomo è corpo fa corpo: il linguaggio, anzitutto, come materia del dire e dello scrivere, e poi l’andatura, il vestiario, il comportamento, gli oggetti posseduti e così via (Gurisatti 1991, pp. 14-15).

Si pongono qui due temi: quello della temporalità del volto e quello della fisiognomica (in senso lato) del linguaggio e della semiosi.

semiotica, «Da phýsis (natura) e gnomon (giudice, interprete), la fisiognomica è “riconoscimento, interpretazione della natura”. In alcuni testi del Corpus Hippocraticum, il termine phýsis ha un duplice uso. Appare riferito sia alla costituzione individuale, sia alla “natura” in senso più generale. Questo duplice uso tuttavia non comporta una differenza sostanziale nel contenuto. […] Non è così però per quanto riguarda l’origine etimologica della seconda radice che compone il termine fisiognomica. Esiste infatti una sorta di controversia tra gli stessi cultori di questa scienza circa la derivazione da gnomon. Alcuni interpretano questo termine come onoma, vale a dire, “conoscenza”; altri invece nomos, “legge”. Si tratta di una controversia non da poco dal momento che rivela una duplice anima all’interno di questa scienza. L’antica medicina greca sembra infatti privilegiare l’aspetto di conoscenza. Anzi, un certo orientamento medico si fa continuamente scrupolo di segnalare l’incertezza che fatalmente è legata a una forma di sapere che si basa sull’osservazione di tracce, di sintomi, di indizi talvolta confusi e di difficile decifrazione. Ma da Aristotele in poi, in tutta la tradizione medievale fino all’Umanesimo, la fisiognomica non è phýsis e nomos». Così, ad esempio, in Ruggero Bacone, Pietro d’Abano, Giovan Battista Della Porta (ibid.).

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Introduzione

Quanto al primo tema bisogna ricordare che fin dall’Antichità, a partire dalla physiologhía ionica, la teoria degli umori «è strettamente legata alla fisiognomica e si costituisce come spiegazione di gran parte dei suoi princìpi» (Magli 1995, p. 53). Si arriva così a distinguere la fisiognomica, che si occupa dei tratti stabili dell’espressione, immutabili nel tempo, dalla patognomica, che si occupa dei tratti mobili, del movimento passionale che agita il volto o il corpo più in generale. La fisiognomica mostra il carattere nella sua staticità, annulla il particolare nell’universale, mentre la patognomica mostra il carattere in movimento, è interpretazione delle passioni, o, come diremmo nei termini di oggi, è semiotica delle passioni. Il secondo tema è invece legato alla corporeità della semiosi, del linguaggio, al fatto che così come c’è un linguaggio dei gesti c’è anche una gestualità del linguaggio. Il corpo è intrinseco al linguaggio, è il luogo a partire dal quale il linguaggio, la semiosi si costituisce. Si ritrova una bio-logica a base della semio-logica (cfr. Caputo 2000, 2003). Corpo e semiosi, verbale e non verbale si coappartengono, costituiscono un chiasma, ossia un viluppo, un intrico (cfr. cap. 1) di opposti indisgiungibili. Con Eric Landowski (2001, p. 61) diremmo che si tratta di «una problematica del corpo in quanto istanza discorsiva vivente, e del senso in quanto prodotto di una relazione intersomatica vissuta». Il segno viene così sottratto a una mera esistenza formale e astratta: non si può prescindere dalla considerazione dell’istanza materiale, dai cosiddetti fenomeni tensivi (passioni, esperienze sensoriali, somatiche). Il senso viene costruito dentro a situazioni viventi; esso è corporeità, ossia non realtà oggettiva (korper) bensì rete sensoriale, pulsionale, dimensione (intrico) instabile, multiplo (leib). Si prospetta una semantizzazione del corpo e una incarnazione del senso. Landowski rivendica – nell’intento di «prolungare una prospettiva di ricerca aperta […] da Greimas, intorno all’idea di una semiotica dell’azione e dell’interazione fra soggetti» (ivi, p. 74) – i «legami con la pesantezza della materia, compresa la forma organica» che le scienze umane hanno trascurato facendo del senso una realtà a se stante, coglibile soltanto dall’esterno. Un senso che 15


Il fondo e la forma

dipende piuttosto da istanze e competenze specifiche, designate come “cognitive” e che, senza essere necessariamente considerate immateriali o incorporee, evocano perlomeno, se così si può dire, una specie di materia sublimata e di corpo evanescente – puro sistema di neuroni – liberando quindi il senso da qualsiasi legame diretto con la carne viva dei soggetti. Si giunge così a una perfetta simmetria fra due modi complementari di suggellare, fra il “corpo” e il “senso”, una relazione di pura esteriorità reciproca: da un lato, quello delle scienze della natura, dei corpi concepiti come radicalmente slegati dal senso, dall’altro, quello delle discipline umanistiche o, poiché vengono definite anche così, delle “scienze dello spirito”, un’indagine centrata sulla problematica del senso, ma il cui senso, considerato come una pura produzione dell’intelletto […], si dà come fondamentalmente slegato dal corpo (ivi, p. 67).

Landowski si chiede come sostituire a questo dualismo «una prospettiva dialettica […] in cui l’intelligibile non sia più concepito, e nemmeno concepibile, indipendentemente dal sensibile» (ivi, p. 68). In qualche modo hanno risposto le tradizionali prospettive della semeiotica medica e della semiologia: per la prima la presenza di una malattia viene individuata «non per un modo particolare di sentirsi (male), ma dall’esterno», grazie alle sindromi, mentre la seconda non fa che estendere la sintomatologia oltre la patologia (ibid.). Si è costruito un vasto sapere enciclopedico, un ampio inventario di segni «relativo ai mille modi in cui, in funzione della diversità di ambiente e di circostanze, il corpo umano (o anche animale) diventa segno» (ivi, p. 69). A questo che egli chiama «spirito behaviorista» associa una sorta di scienza segnaletica relativa all’“espressione” fisiognomica delle passioni, fondata sull’idea che i “contenuti” della vita affettiva potrebbero essere ricondotti a un numero molto piccolo di stati d’animo elementari e stabili (la paura, la sorpresa, la gioia, la collera, il desiderio, la noia

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Introduzione

[…]) e, contemporaneamente, sul postulato che a ognuno di questi stati corrisponderebbero […] alcune mimiche, alcune posture, alcune espressioni facciali omologhe e a carattere univoco (ibid.).

A questo spirito appartiene la fisiognomica dellaportiana, come vedremo. A Landowski interessa, però, e in primo luogo, evidenziare non tanto il fare segno del corpo, il suo essere strumento semiotico, in cui si “parla” con il corpo «senza che tuttavia sia il corpo stesso a parlare», quale può essere «il braccio che si alza per fare segno di fermarsi, ma anche il rossore che sale al viso, si dice, “per esprimere” la vergogna, o ancora il gesto deittico del dito che mostra qualcosa, laggiù, a condizione, evidentemente, che non mostri se stesso nell’atto di mostrare», per accedere, «a partire dal corpo, a ciò che il corpo non è». A Landowski interessa, al contrario, evidenziare il fatto che «il nostro corpo non cessa mai di fare senso, di per se stesso e in se stesso» (ivi. pp. 69-71). Il fatto che i segni sono incarnati dice che sono segni opachi, non trasparenti e ogni loro espressione, verbale o non verbale, è portatrice di connotazioni (contenuti) proprie, che Landowski chiama «surplus di senso», eccedenza, che nessuna codificazione fisiognomica riesce a comprendere (ivi, pp. 71-72). Questo tacere, questa scrittura “avant la lettre”, questo senso ottuso, questo volto del corpo vivente è senza riferimento ad altro fuori di sé, è ri-velazione, nel doppio senso di togliere e rimettere il velo, esprimere e opacizzare l’espressione; è insomma quel che con Hjelmslev chiamiamo materia, ciò che è fuori della scienza del segno (semiologia) ma che manifesta il segno. Lo spirito antiseparatista della semiotica glossematica sostituisce al dualismo tra sensibile e intelligibile, mente e corpo, il loro intrico, alla logica dell’esclusione quella della partecipazione, la sublogica, che non è una logica inferiore quanto piuttosto una logica originaria, una logica del continuum in cui la rappresentazione, il costrutto semiotico, è parte di un comune flusso vitale (cfr. Caputo 1996, 2000, 2003, 2004, 2010).

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Il fondo e la forma

Liberata dalla concezione tramandata dei trattati ad essa dedicati nel corso dei secoli, la fisiognomica diventa in tal modo uno stile teorico della semiotica. La materialità, o se si vuole la corporeità, possiamo a questo punto dire con Landowski (2001, p.75), «diviene per il soggetto uno dei luoghi dell’emergenza stessa del senso, di un senso percepito indissociabilmente come configurazione intelligibile e come presenza sensibile». Questa semiotica supera la dicotomia segno (testo)/non segno (non testo), facendo del corpo il medium dell’esperienza, il luogo d’interconnessione che produce significati embodied. Una semiotica dell’esperienza: non solo di quella esistenziale, singola, sociale, storicamente situata, ma anche una semiotica dell’esperienza della vita chimico-fisica; essa infatti incontra oggi i risultati delle neuroscienze che supportano l’idea di una dimensione neurofisiologica della significazione, del comportamento2. Il filo che lega i vari capitoli di questo libro è il tema della continuità/discontinuità tra fondo e forma, natura e cultura, animale umano e animale non umano. Nei capitoli dedicati alla storia della semiotica non c’è nessuna ricerca di precursori ma, per così dire, l’intento di contribuire alla teoria, di ricostruire le riflessioni del passato non in funzione erudita e prettamente filologica bensì in funzione di un senso teorico a partire da precise questioni concettuali. Ad esempio, non si tratta soltanto di introdurre il lettore nel pensiero semiotico di Jean Poinsot o di Giovan Battista Della Porta, ma anche di introdurlo nel cuore di un problema teorico. Lecce, Università del Salento, aprile 2010

2 Oggi si spiegano in termini neurologici i fenomeni di sincronizzazione corporea. I “neuroni specchio” sono ritenuti in grado di guidare al contempo un’azione e pensare un atto potenziale. Si pensa che essi forniscano il correlato neurale dei processi di simulazione necessari alla comprensione della mente altrui.

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Introduzione

Nota I saggi qui raccolti riproducono (con i dovuti adattamenti editoriali e aggiornamenti bibliografici ) i testi pubblicati (salvo il primo, il quarto e il quinto) nelle sedi sotto indicate: a) Tutto il segnico umano è linguaggio, in Petrilli S. (a cura di), La filosofia del linguaggio come arte dell’ascolto, “Festchrift” per il 65° compleanno di Augusto Ponzio, Edizioni dal Sud, Bari 2007, pp. 131-160. b) Semiotica e senso dell’umano, in Spedicato M., Carlino L. (a cura di), Saperi dell’umano, paradigmi della storia, EdiPan, Galatina (Lecce) 2009, pp. 235-252. c) Un manuale di semiotica del Cinquecento. Il De humana Physiognomonia di Giovan Battista Della Porta, in Torrini M. (a cura di), Giovan Battista Della Porta nell’Europa del suo tempo, prefaz. di E. Garin, Guida, Napoli 1990, pp. 69-91; Atti del Convegno «Giovan Battista Della Porta», Vico Equense (Castello Giusso), 29 settembre – 3 ottobre 1986 (poi in www.gbdellaporta.it/archivio/caputo-c-il-qde-humanaphysiognomoniaq.html, 2009). Versioni precedenti erano già state presentate nell’estratto della ns. tesi di laurea G. B. Della Porta e il portorealismo nella storia della semiotica, in «Bollettino di Storia della Filosofia dell’Università di Lecce», vol. III, Milella, Lecce 1975 (stampa 1977), pp. 385-410 (poi in www.gbdellaporta.it/archivio/c-caputo-gbdella-porta-e-il-portorealismo.html, 2009), e in C. Caputo, La struttura del segno fisiognomico. G. B. Della Porta e l’universo culturale del Cinquecento, in «Il Protagora», XXII, IV s., 1, 1982, pp. 63-102 (poi in www.gbdellaporta.it/archivio/c-caputo-la-struttura-del-segno-fisiognomico.html, 2009). Questa riedizione è stata ampliata e riscritta in molte delle sue parti.

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