anno I | n. 2 | dicembre 2013
Italian Journal of Special Education for Inclusion Rivista ufficiale della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SI.Pe.S.)
anno I | n. 2 | dicembre 2013
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DIRETTORE RESPONSABILE
Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) COmITATO SCIENTIFICO
Pilar Arnaiz Sánchez (Universidad de Murcia, Spagna) Serenella Besio (Università della Valle D’Aosta) Roberta Caldin (Università di Bologna) Andrea Canevaro (Università di Bologna) Lucia Chiappetta Cajola (Università Roma Tre) Lucio Cottini (Università di Udine) Piero Crispiani (Università di Macerata) Armando Curatola (Università di Messina) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) Anna maria Favorini (Università Roma Tre) Carlo Fratini (Università di Firenze) Francesco Gatto (Università di Messina) maura Gelati (Università Milano Bicocca) Karen Guldberg (University of Birmingham, GB) Elias Kourkoutas (Università di Rethymno, Creta) Dario Ianes (Università di Bolzano) Franco Larocca (Università di Verona) michele mainardi (SUPSI, Svizzera) margherita merucci (Università Cattolica de Lyon, Francia) Pilar Orero (Universitat Autònoma de Barcelona, Spagna) marisa Pavone (Università di Torino) Eric Plaisance (Università Paris V, Parigi, Francia) Béla Pukánszky (University of Budapest, Ungheria) Robert Roche Olivar (Universidad de Barcelona, Spagna) marina Santi (Università di Padova) Joel Santos (Universidade de Lisboa) maurizio Sibilio (Università di Salerno) Darja Zorc-maver (University of Ljubljana, Slovenia) BOARD
Fabio Bocci (Università Roma Tre) Roberta Caldin (Università di Bologna) Lucio Cottini (Università di Udine) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) COmITATO DI REDAZIONE
mauro Carboni (Università del Foro Italico, Roma) Catia Giaconi (Università di Macerata) Annalisa morganti (Università di Perugia) Stefania Pinnelli (Università del Salento, Lecce) marina Santi (Università di Padova) Tamara Zappaterra (Università di Firenze)
indice /summary
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Editoriale / LUIGI D’ALOnzO I. RIFLESSIONE TEORICA
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VALERIO RUSSO Le nuove frontiere della salute e la manipolabilità dell’essere umano: una questione aperta
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MIChELE MAInARDI En deçà de la zone proximale de développement (ZPD): l’apport de la «défectologie moderne» aux pédagogies scolaires
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CARLOS SkLIAR La cuestión de las diferencias en educación: interpretaciones pedagógicas, filosóficas y literarias
II REvISIONE SISTEmATICA 51
DAnIELE FEDELI Cyber-bullismo e cyber-vittimizzazione in Italia: aspetti epidemiologici ed evolutivi
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RAFFAELLA BIAGIOLI Nursery school, families and diversity III. ESITI DI RICERCA
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LUIGI D’ALOnzO, SILVIA MAGGIOLInI, ELEnA zAnFROnI “Gli alunni a scuola sono sempre più difficili?” Esiti di una ricerca sulla complessità di gestione della classe nella percezione degli insegnanti
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FRAnCESCA nARDò Il potenziamento della lingua scritta in bambini stranieri: una ricerca
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PAOLA AIELLO, DIAnA CARMELA DI GEnnARO, STEFAnO DI TORE, MAURIzIO SIBILIO Dislessia e complessità didattica della lingua inglese nei contesti scolastici italiani: proposta di un approccio multisensoriale ed interattivo
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FELICE COROnA, CARLA COzzARELLI Il modellaggio: una forma di apprendimento semplessa per acquisire “nuove” abilità
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ALESSIA CInOTTI, FRAnCESCA MARIA CORSI L’educare dei padri con figli/e disabili. Riflessioni pedagogiche e progetto di ricerca
Iv. ALTRI TEmI
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SAMI BAShA Christian Inclusion in Educational and Economical Development in Palestine. Socio-Cultural and Economical Challenges in a Context of Conflict
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FRAnCESCO zAMBOTTI IX Convegno Internazionale “La Qualità dell’Integrazione Scolastica e Sociale”: passi avanti verso una scuola più inclusiva
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Recensioni
Editoriale /
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La crisi economica galoppante non cessa di far vedere i suoi effetti. I suoi tentacoli raggiungono tutti i settori della nostra economia e di conseguenza i governi si sentono in dovere di correre ai ripari per cercare di arginare una situazione davvero preoccupante. I tagli alla spesa pubblica sono stati notevoli e le conseguenze negative non si sono fatte attendere soprattutto nei confronti dei disabili. Dai dati sappiamo che il reddito netto familiare medio delle famiglie con almeno una persona con disabilità in Italia era, nel 2006, pari a 30.923 Euro rispetto ai 33.509 Euro della media delle famiglie (ISTAT, 2009)1 e nel 2007 il 23,4% delle famiglie con almeno una persona con disabilità era a rischio povertà (ISTAT, 2009)2; il 39,9% di queste famiglie dichiarava di non riuscire ad affrontare una spesa imprevista. Sappiamo che il sistema sociale, il welfare italiano, mentre è particolarmente attivo sul piano pensionistico e sanitario, stenta a decollare sul piano della tutela per coloro che non hanno lavoro e vivono problematiche importanti capaci di limitare la loro capacità di inserimento sociale. Tutto ciò assume notevoli conseguenze in campo extrascolastico per i disabili. Gli enti locali hanno la responsabilità di programmare sostegno e prospettive sociali, assistenziali e lavorative per le persone con deficit; di solito elargiscono fondi a operative o associazioni che organizzano attività assistenziali (case famiglia, centri diurni socio assistenziali, centri occupazionali, centri per l’autonomia) volte a dare risposte di qualità alle persone non autosufficienti. Il grande problema che vivono attualmente queste associazioni è la mancanza di risorse sufficienti per di aiutare davvero le persone con problemi. I continui tagli che molte amministrazioni locali scelgono di effettuare sui servizi al cittadino incidono notevolmente sulla vita dei disabili. Il caso eclatante è la “spesa unica” a favore del cittadino disabile, ossia, l’elargizione di un’unica quota che permette l’accesso ad un solo servizio (la casa famiglia o la cooperativa di lavoro o il centro diurno ecc.). Di conseguenza il disabile che accede ad un servizio è impossibilitato a richiederne altri, ad esempio, un ragazzo con deficit intellettivo non potrà frequentare una cooperativa di lavoro dove impiegare il suo tempo con attività idonee e stimolanti perché la sua quota è già stata destinata ad un servizio se egli è inserito in una struttura protetta. Questo ragazzo dovrà trascorrere il suo tempo su un divano in casa famiglia perché non può essere accettato in una cooperativa di lavoro protetta finanziata dall’ente pubblico. Le cooperative sociali solo-disabili in Italia sono il 26,6% sul totale delle cooperative, quelle di tipo B sono il 42,3% del totale delle cooperative dello stesso tipo (ISTAT, 2005)3. Sul totale delle risorse umane impegnate nelle cooperative sociali di tipo A con utenza solo-disabili il 76,4% è costituito da personale retribuito e il
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Indagine sulle condizioni di vita (EU-SILC)(ISTAT 2009). Ibidem. Rilevazione delle Cooperative sociali (ISTAT, 2005).
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21,6% da volontari (ISTAT, 2005)4. Il grave rischio è che queste cooperative non riescano più a sopportare i costi derivate da un impegno poco visibile ma nello stesso tempo di enorme importanza per la dignità della persona con deficit. Da una recente ricerca ISTAT5 in Italia risultano attivi al dicembre 2011, 12.033 presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari, la cui utenza varia da anziani non autosufficienti a giovani con meno di 18 anni, il cui principale motivo di ricovero è legato a disabilità e a patologie psichiatriche. Tali servizi offrono accoglienza abitativa, ospitalità, assistenza, vita comunitaria a un’utenza molto eterogenea non solo per età, ma anche per provenienza sociale e culturale e per tipologie di difficoltà. Oltre il 70% di questi servizi accolgono anziani non autosufficienti con prestazioni sanitarie di livello medio-alto: cura ed assistenza, accompagnamento in età molto avanzate (oltre 85 anni), mantenimento di prestazioni adeguate (cure mediche ed infermieristiche quotidiane, trattamenti di recupero funzionale, somministrazione di terapie, supporto delle funzioni vitali – ventilazione e nutrizione assistita, trattamento di stati vegetativi o coma prolungato, malattie neurodegenerative), che richiedono personale preparato dal punto di vista sia tecnico sia umano. Le rimanenti realtà accolgono adulti e minori con problemi di alcool dipendenza, di tossicodipendenza, con disabilità e patologie mentali, coinvolti in procedure penali o in custodia alternativa, in situazioni di disagio sociale. Tali tipologie di strutture sono maggiormente impegnate in percorsi terapeutico – riabilitativi ed educativo – pedagogici orientati al recupero del danno funzionale e della disabilità, della promozione dell’autonomia, dell’indipendenza ed autodeterminazione e della qualità della vita in collaborazione, per quanto possibile, con le famiglie. I maggiori problemi di tali strutture sono legati alla gestione della quotidianità affinché non sia presenta solo la cura medica ed infermieristica, ma anche quella educativa e rieducativa, di accoglienza e di accompagnamento in percorsi personalizzati di emancipazione ed inclusione sociale. La vita della persona disabile non può esaurirsi a scuola, come per chiunque altro. La situazione scolastica italiana per l’allievo con disabilità non è omogenea. Vi sono contesti educativi scolastici dove si vive un’entusiasmante esperienza inclusiva ed altri in cui il disabile non viene rispettato nelle sue esigenze. Riscontriamo contesti socio ambientali che operano molto bene, con dedizione, programmazione unitaria degli interventi, cooperazione con i servizi extrascolastici che si occupano dell’allievo, forte coinvolgimento delle famiglie, ma verifichiamo, purtroppo spesso, come in altri ambiti ciò non succede, anzi le esperienze educativo-didattiche paiono esclusive, emarginanti e poco rispettose dei diritti dell’allievo con deficit. La linea di demarcazione fra il lavorare bene sul piano inclusivo ed il lavorare male corre su due direttive: la competenza e l’intenzionalità. Per quanto riguarda la competenza registriamo ancora dopo oltre quarant’anni di esperienze integrative grande inadeguatezza fra gli operatori scolastici, insegnanti e dirigenti. D’altronde come potrebbe essere altrimenti se la formazione iniziale dei docenti italiani non prevede un congruo numero di crediti formativi sulle tematiche pedagogico speciali. La nuova normativa sulla formazione degli insegnanti, in parte, 4 5
Ibidem. ISTAT, I presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari, 2013
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ha cercato di mettere mano a questa incongruenza evidente: nelle nuove lauree per accedere all’insegnamento per la formazione degli insegnanti di scuola primaria sono programmati 32 crediti su questioni legate all’inclusione; tuttavia sono previsti appena 6 crediti per la formazione dei docenti di scuola secondaria superiore. Senza competenza non è possibile arrivare a nessun risultato positivo, ma anche quando l’esperienza e la preparazione degli insegnanti sono adeguate emerge l’altro importante aspetto: il desiderio, la voglia, la motivazione che portano all’intenzionalità educativa, la sola capace di energizzare l’impegno educativo a volte assai frustrante ed incolore dell’insegnante. La scuola in tutto il mondo sta vivendo una profonda crisi, i sistemi scolastici pubblici e privati sono in una situazione di sofferenza ovunque; in particolare il sistema scolastico italiano non riesce a sopportare positivamente le sfide che questa società impone6: • la sfida dell’eccellenza: le indagini PISA e da ultimo le indagini TIMS testimoniano la nostra arretratezza; • le sfide sociali e culturali atte a ridurre le discriminazioni sociali rispetto all’istruzione: le indagini ci dicono che la distanza fra i ceti in termini di risultati formativi raggiunti non sta diminuendo, ma è sempre più ampia. La scuola italiana sta fallendo quindi anche sul piano dell’equità; • la sfida del benessere educativo: da un’indagine UnICEF7 sul benessere educativo dell’istruzione, l’Italia si colloca al 21° posto, con disuguaglianze che portano il nostro Paese al di sopra della media dei Paesi OCSE.
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Da uno studio pubblicato da Eurostat8 che compara la spesa pubblica nel 2011: l’Italia ha speso l’1,1% del Pil contro una media del 2,2%, anche la Grecia che investe l’1,2% della propria economia ha fatto meglio. Siamo al penultimo posto (questa volta davanti alla Grecia) nella spesa per l’istruzione: l’8,5% Pil con il 10,9% dell’Unione europea. In cultura spendono tutti più di noi dalla Germania (1,8% del Pil) alla Francia (2,5%) fino al Regno Unito al 2,1%. D’altronde arretratezza, diseguaglianza, mancato benessere paiono essere la logica conseguenza dei mancati investimenti: da quanto tempo non si investe, anzi si tolgono le risorse alla scuola? Ancora: da quanti anni il messaggio che inviamo agli insegnanti è questo: “Adeguati! Le risorse non ci sono e quindi il problema in classe è tuo! non pensare di avere aiuti esterni, perché la prospettiva futura sulle risorse a disposizione è negativa. non sognare di entrare in un contesto formativo istituzionale dove trovare appoggi da parte di specialisti competenti che respirano l’aria della tua scuola e della tua classe. non sperare di trovare supporti da parte dei dirigenti sempre più coinvolti in faccende amministrative burocratiche e sempre meno capaci, visto i carichi di lavoro, di essere vicini ai docenti!” Emerge una preoccupante solitudine degli insegnanti di fronte ai problemi educativi, solitudine 6 7 8
n. Bottani, Requiem per la scuola, Il Mulino, Bologna, 2013. Centre de recherce Innocenti, Les enfants laissés pour compte. Tableau de classement des inégalités de bien-être entre les enfants des pays riches, Firenze, Unicef, 2012, Bilancio Innocenti 9. Eurostat, General government expenditure in 2011, Issue number 9/2013, 4.04.14.
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che si scontra violentemente con problemi scolastici in aumento. Le classi sono sempre più difficili e chi si occupa oramai da anni di gestione della classe, chi ha contatti con gli insegnanti in tutta Italia nel tentativo di dare una speranza pratico operativo al lavoro duro e difficile in classe dei docenti credendo che una via d’uscita importante a questa crisi sia la corretta conduzione dell’esperienza educativo didattica in aula, sa che la realtà sta letteralmente esplodendo. non si possono lasciare soli gli insegnanti in classi così difficili.
La nostra rivista nella prima sezione sulla riflessione teorica ospita gli articoli di Valerio Russo sulle nuove frontiere della salute e la manipolabilità dell’essere umano, di Michele Mainardi sull’apporto de la «défectologie moderne» aux pédagogies scolaires, di Carlos Skliar sulla cuestión de las diferencias en educación: interpretaciones pedagógicas, filosóficas y literarias. nella seconda sezione ospitiamo i lavori di Daniele Fedeli sul Cyber-bullismo e cyber-vittimizzazione in Italia: aspetti epidemiologici ed evolutivi e di Raffaella Biagioli sul problema Nursery school, families and diversity. nella terza sezione dedicata alle ricerche empiriche sono inserite le ricerche: “Gli alunni a scuola sono sempre più difficili?”. Esiti di una ricerca sulla complessità di gestione della classe nella percezione degli insegnanti, condotta dal CeDisMa, Centro studi sulla disabilità e marginalità; il potenziamento della lingua scritta in bambini stranieri: una ricerca intervento di Francesca nardò; Dislessia e complessità didattica della lingua inglese nei contesti scolastici italiani: proposta di un approccio multisensoriale ed interattivo, di Paola Aiello, Diana Carmela Di Gennaro, Stefano Di Tore, Maurizio Sibilio; il modellaggio: una forma di apprendimento semplessa per acquisire “nuove” abilità, Felice Corona, Carla Cozzarelli; l’educare dei padri con figli/e disabili. Riflessioni pedagogiche e progetto di ricerca Alessia Cinotti, Francesca Maria Corsi. nella quarta sezione ospitiamo le riflessioni di Sami Basha su Christian Inclusion in Educational and Economical Development in Palestine. Socio-Cultural and Economical Challenges in a Context of Conflict e di Francesco zambotti sugli esiti del IX Convegno Internazionale “dell’Integrazione Scolastica e Sociale”: passi avanti verso una scuola più inclusive. Infine la rivista propone un lavoro di recensione di Fabio Bocci.
Il tempo natalizio non si è ancora concluso e questo secondo numero dell’Italian Journal of Special Education for Inclusion esce proprio in questo periodo che per tutti, credenti e non credenti, è certamente speciale. Vorrei concludere con queste parole di Madre Teresa di Calcutta: È natale ogni volta che sorridi a un fratello e gli tendi la mano. È natale ogni volta che rimani in silenzio per ascoltare l’altro. È natale ogni volta che non accetti quei principi che relegano gli oppressi ai margini della società.
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È natale ogni volta che speri con quelli che disperano nella povertà fisica e spirituale. È natale ogni volta che riconosci con umiltà i tuoi limiti e la tua debolezza. È natale ogni volta che permetti al Signore di rinascere per donarlo agli altri.
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Le nuove frontiere della salute e la manipolabilità dell’essere umano: una questione aperta
Keywords: Capability approach, Eugenics, Enhancement, Health care, Human Genome Project, ICF
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Il Progetto Genoma ha consentito la mappatura dell’intera sequenza genomica umana, con importanti conseguenze a livello teorico ed applicativo. Il raggiungimento di un simile traguardo ha aperto una nuova fase diagnostica e terapeutica, alla base della quale la genetica può fornire nuovi strumenti per la cura o per la creazione ex novo dell’essere umano. Attraverso una breve descrizione del percorso storico dell’eugenetica, il seguente articolo si propone di mettere in relazione tale disciplina con l’epoca genomica e l’approccio capacitazionale. Lo scopo ultimo sarà l’analisi dei cambiamenti avvenuti in seno alla stessa idea di salute, nell’ottica della manipolazione eudemonistica e della società del benessere. C’è ancora posto per lo sviluppo umano nella visione contemporanea del potenziamento genetico? The Human Genome Project has enabled the mapping of the human genome sequence, with important theoretical and practical consequences. The achievement of such a goal has opened a new diagnostic and therapeutic phase. In this scenario, genetics can provide health care tools and the basis for a creation from scratch of the human being. Through a brief description of the historical path of eugenics, this article aims at relating this discipline with the genomic era and the Capability approach. The final objective of this paper will be the analysis of the changes occurred to the concept of health within the context of eudaimonistic manipulation and welfare society. Is there still room for human development in the vision of eugenics enhancement?
abstract
Valerio Russo / Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”/ valeriorusso.mailbox@gmail.com
I. Riflessione teorica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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Introduzione L’era genomica e le nuove frontiere della cura
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È trascorso oltre un decennio dal completamento del Progetto Genoma Umano, eppure l’era genomica è da considerarsi ancora ai suoi inizi. Di fatto, il sequenziamento del DNA umano ha prodotto una vera e propria rivoluzione nel campo delle biotecnologie, legate allo sfruttamento dell’ingegneria genetica. Contestualmente alla possibilità di individuare la locazione cromosomica dei geni e le loro specifiche funzioni, per l’uomo si è aperta una fase conoscitiva senza precedenti riguardo il funzionamento della vita. Come è facile immaginare, tale incremento del sapere non è rimasto confinato al solo livello teorico, bensì ha dato i suoi risultati più importanti nelle applicazioni che coinvolgono la stessa dotazione genetica delle persone. Nello specifico, l’identificazione delle alterazioni genetiche responsabili dello sviluppo di malattie ereditarie, potrebbe aprire la strada a nuovi metodi diagnostici e terapeutici. Un salto di qualità in termini di prevenzione e nuovi metodi di cura, dunque, ma non solo. Occupandosi delle malattie prima ancora che esse possano manifestarsi, la medicina assume sempre più un carattere predittivo. Una medicina genomica i cui progressi sono caratterizzati dall’affermarsi della terapia genica e delle cure farmaceutiche, strutturate sui genotipi individuali. In modo particolare, gli sviluppi che interessano la terapia genica permetteranno la rimozione e sostituzione dei cosiddetti “geni difettosi”. Sin da subito appare chiaro quanto questo modus operandi possa andare ben oltre l’approccio terapeutico. Di fatto, la terapia genica costituisce una delle numerose vie verso l’affermazione della manipolazione genetica, passando dalla correzione del “negativo” alla produzione del “positivo” genetico. Entrando nella fase genomica, l’umanità ha aggiunto un tassello fondamentale al compimento della bio-rivoluzione. Attraverso l’uso dei progressi messi in campo dallo sviluppo tecnologico e dal sequenziamento genomico, l’uomo ha definito una nuova cesura storica caratterizzata dalla svolta biotecnologica. All’interno di questo panorama l’umanità stessa è in grado di dirigere la propria evoluzione. La casualità naturale, così come il fato biologico, rappresenterebbe l’aspetto di un’umanità pregressa. Al contrario, la svolta biotecnologica pone l’uomo fuori dal percorso naturale, dando l’impulso ad un’evoluzione geneticamente potenziata. In questo modo, egli si è elevato a demiurgo che plasma se stesso (la natura interna) ed il mondo in cui abita (la natura esteriore). Tuttavia, questa nuova condizione crea le premesse per una riflessione etica che si interroghi sulle sfide che il futuro genetico pone all’orizzonte. Sebbene le prospettive aperte dall’ingegneria genetica consegnino nelle mani dell’umanità un potere inimmaginabile, occorre prendere atto che gli esiti potenziali di questo potere restano un’incognita. Come sostiene Blumenberg: «Come contemporanei siamo in certo qual modo ciechi per ciò che costituisce lo spirito del tempo, benché esso ci domini» (Blumenberg, 1984, p.371). Da un lato l’aspirazione che guarda all’umanità secondo modelli di perfezione, risveglia l’inquietudine legata alle terribili conseguenze prodotte dall’istituzionalizzazione eugenetica del Terzo Reich. Dall’altro, pur escludendo l’ipotesi che tali I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
esiti possano tornare a verificarsi, porre la natura -inclusa quella interna all’uomo- nell’ottica della leggibilità, produce un mutamento nella stessa visione del mondo e dell’umanità. Di fatto, l’affermazione di un modello umano filtrato dalle lenti della perfezione genetica, conduce irrimediabilmente a quello che Baudrillard definisce «il principio dell’uomo integrale» (Baudrillard, 2005, p.6). In quest’ottica, i cosiddetti geni-malattia costituiscono l’incarnazione di un “male” che va sradicato geneticamente al fine di raggiungere la perfezione. Tuttavia, tale aspirazione implica una schizofrenia dell’uomo contemporaneo, all’insegna di una scissione tra meta ideale e situazione attuale. Infatti, nonostante l’uomo abbia assunto il ruolo di creatore, attraverso la manipolazione genetica, egli tratta se stesso come oggetto. Il risultato sarà un “uomo nuovo”, indefinitamente superiore rispetto alla sua stessa prestazione di uomo-creatore. Da ciò si può evincere come il protagonista di questo processo non sia l’uomo, che in quanto progetto è semplice oggetto manipolabile, mentre, come creatore resta sempre indietro rispetto al suo stesso progetto. Vera protagonista è, invece, l’idea di perfezione. In un certo senso, l’idealità genetica rischia di divorare l’idea stessa di essere umano. Quest’ultimo, infatti, resta prigioniero di quell’asincronizzazione delineata da Günther Anders tra ciò che egli è e ciò che è effettivamente in grado di produrre (Anders, 1956). Nello specifico, applicando la riflessione del filosofo tedesco alla svolta biotecnologica, emergerebbe una nuova configurazione del dislivello o, per dirla con le parole di Rodotà, uno «scarto netto tra innovazione tecnologica e capacità di risposta sociale» (Rodotà, 1989, p. 41). Tale risposta si è andata formando sulla base dei valori e delle categorie interpretative plasmati contestualmente al percorso evolutivo dell’uomo. Di conseguenza, non si può evitare l’effetto dirompente che la bio-rivoluzione ha avuto sulla stessa realtà sociale. In primo luogo, i nuovi itinerari di cura e gli standard genetici di qualità hanno profondamente modificato i desideri umani. Ciò ha comportato un cambiamento delle stesse prestazioni richieste al sistema sociale da parte degli individui. Conseguentemente, si è andata configurando una nuova agenda dei diritti: non solo le persone chiedono di poter beneficiare dei trattamenti genetici, al tempo stesso, esse necessitano di nuovi diritti per proteggersi dall’invasività della tecnica. Come si vedrà all’interno del presente articolo, un caso importante è costituito dalla tutela dei dati genetici, la cui diffusione potrebbe generare una nuova frontiera di discriminazioni lavorative ed assicurative. In secondo luogo, l’innovazione genetica ha posto le premesse per il surclassamento dei valori tradizionali: primo tra tutti l’integrità genetica dell’uomo. Di fatto, la manipolabilità del genoma umano costituisce una realtà senza precedenti, con la quale nessun sistema di valori si era mai dovuto misurare. Non solo l’uomo diviene sondabile e descrivibile in ogni sua parte, ma grazie alle biotecnologie la ri-produzione può lasciare il posto alla produzione. Proprio la produzione genetica degli uomini potrebbe dar luogo a preoccupanti diseguaglianze sociali. Consentendo, ad esempio, la regolamentazione delle pratiche genetiche attraverso il libero mercato, si rischierebbe una divisione tra coloro che possono usufruire di tali pratiche e coloro che ne resterebbero fuori. Nello specifico, la discriminazione elevata a sistema all’interno del film futuristico GATTACA (Niccol, 1997) non sarebbe più semplice frutto dell’immaginazione. Il mondo si strutturerebbe secondo una nuova divisione delle classi: da una lato anno I | n. 2 | 2013
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prenderebbe posto la «nuova stirpe» (Harris, 1992, p. 268), mentre dall’altro i “nati da geni errati”. D’altra parte, non c’è bisogno di ricorrere a scenari fantascientifici, i quali presuppongono un’estensione delle pratiche genetiche su vasta scala. Già il panorama attuale propone delle questioni altamente problematiche. Basta guardare allo scarto irreversibile tra colui che manipola e chi viene manipolato all’interno della disamina habermasiana (Habermas, 2001). Di fatto, ammettere la manipolazione da parte di terzi, pone gli individui in uno stato di dipendenza che non può essere rifiutata. Questo stato di cose compromette irrimediabilmente quell’eguaglianza che è alla base dei rapporti interumani. Quell’uguaglianza che, in ultima analisi, costituisce il requisito di ogni ordinamento giuridico.
1. Eugenetica: evoluzione e percorso storico
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Con il termine “eugenics”, Francis Galton intendeva delineare quella scienza che, giovandosi dello studio delle dinamiche dell’ereditarietà genetica, si prefigge di favorire e sviluppare le qualità innate di una razza per trarne il massimo beneficio (Galton, 1901). Tale definizione, risalente alla seconda metà dell’ Ottocento, ebbe una diffusione ed un impatto crescenti lungo tutto l’arco del Novecento. Si è già fatto riferimento al percorso eugenetico adottato dalla Germania del Terzo Reich; l’Aktion T4, con il suo programma di eliminazione dei tarati, ne costituisce probabilmente l’esempio più significativo. Al tempo stesso, si deve sottolineare la grande diffusione che la teoria eugenica aveva registrato oltreoceano. Di fatto, su un piano cronologico anteriore ai fatti della Germania nazionalsocialista, si collocano le campagne di sterilizzazione forzata messe in atto dagli Stati Uniti. La prima legge in materia fu approvata nel 1907 dallo Stato dell’Indiana, all’interno del quale la sterilizzazione forzata veniva applicata ai criminali abituali, ai malati mentali ed agli strati più bassi della popolazione. Successivamente alla sentenza Buck v. Bell.1 del 1927, furono ventinove gli Stati che scelsero di adottare pratiche di sterilizzazione forzata e, alla fine degli anni Settanta, ammontava a circa 65.000 il totale degli americani sterilizzati. In seguito agli eventi drammatici legati alla seconda guerra mondiale, l’eugenetica di matrice razziale e nazionalista subì una battuta d’arresto. Nello specifico, fu soprattutto l’ideologia genetica istituzionalizzata a venire meno. Ciò, unitamente alle scoperte scientifiche, ha contribuito al cambiamento che ha caratterizzato l’eugenetica negli ultimi anni. Di fatto, quest’ultima ha attraversato un vero e proprio percorso “evolutivo”. Prima tappa di tale cambiamento è rappresentata dall’eugenetica per il libero mercato. Nonostante quest’ultima sia ancora orientata al miglioramento degli individui e della società in cui vivono, l’abbandono di ogni mezzo coercitivo costituisce una sostanziale differenza rispetto all’eugenetica di stampo tradizionale. 1
Nella sentenza redatta dal giudice Oliver Wendel Holmes, la Corte stabiliva che una legge che consentiva la sterilizzazione obbligatoria degli inadatti, inclusi i tarati mentali, «per la protezione e la salute dello Stato», non violava la clausola del XIV emendamento circa la privazione di libertà (due process clause) invocata dalla difesa.
I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
Un ulteriore volto dell’eugenetica è quello emerso negli ultimi anni. Ad esso va associata la svolta del controllo in vitro, realizzatasi nel 1978. Di fatto, questa data è considerata un vero e proprio spartiacque per la genetica molecolare, giacché segna la nascita di Louise Browne, prima figlia della provetta. A partire da questo momento, la possibilità del controllo in vitro ha progressivamente ampliato l’orizzonte degli interventi di ingegneria applicati al codice genetico umano. Conseguenze immediate si sono avute sia sul piano dell’eugenetica negativa, che su quello dell’eugenetica positiva. Gli strumenti messi a disposizione dalla genetica hanno reso possibile una «diagnosi che non è più solo prenatale, ma addirittura di preimpianto (cioè sull’embrione prodotto in vitro prima del trasferimento in utero)» (Semplici, 2007, p. 81). Ciò non comporta solo un passo in più nel processo di selezione, ma anche nella possibilità di intervenire sull’embrione stesso, ora pienamente a disposizione dell’aspetto positivo dell’eugenetica, attuato mediante la progettazione genetica. È questo il territorio dell’eugenetica liberale. La base sostanziale dell’eugenetica liberale è costituita proprio da quell’accrescimento delle scelte riproduttive, che ha permesso ad ogni individuo di selezionare i caratteri desiderati per la propria discendenza. Una vera e propria metamorfosi, dunque, avvenuta in seno alla stessa eugenetica. Se l’antica eugenetica era caratterizzata dal tentativo autoritario di produrre gli individui secondo un unico stampo e l’eugenetica per il libero mercato ha aperto la via all’abbandono di ogni presupposto coercitivo, «il segno distintivo della nuova eugenetica liberale è costituito dalla neutralità dello Stato» (Agar, 1998, p. 137). Non più un’eugenetica che mira alla limitazione della libertà procreativa per assumerne il controllo, bensì un’eugenetica fondata sulla radicale estensione di tale libertà. All’interno di quest’ottica, l’eugenetica liberale sembrerebbe fornire quelle misure atte alla rimozione dei limiti individuali, cosicché tutti possano concorrere alla realizzazione dei propri traguardi all’interno della società. Se da un lato tali presupposti si fondano sulla promozione del bagaglio di valori dei singoli, i quali possono scegliere quali caratteristiche selezionare nella discendenza, dall’altro appare importante analizzare il ruolo dell’eugenetica come strumento di massimizzazione della felicità in un’ottica eudemonistica.
2. Libertà riproduttiva tra manipolazione eudemonistica e cornice sociale. Diverse concezioni di “Bene”
All’interno della manipolazione eudemonistica rientrano tutte le scelte dei genitori volte ad intervenire sul corredo genetico del nascituro, in una prospettiva strettamente individuale di calcolo dei benefici. Provvedere affinché il proprio figlio sia dotato di tutta una serie di caratteristiche che possano avvantaggiarlo nella sua futura autorealizzazione, costituisce certamente una risorsa per il conseguimento della sua felicità personale. Al tempo stesso, sebbene un individuo provvisto delle migliori caratteristiche genetiche apporterà in primis un vantaggio a se stesso, esso costituirà anche un valido elemento per la società in cui vive. Di fatto, se da un lato la società contemporanea annovera tra i suoi compiti principali quello di fornire il massimo anno I | n. 2 | 2013
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benessere agli individui che la compongono, non si può negare che le azioni di questi ultimi costituiscano una componente fondamentale nella determinazione della società stessa. Posto l’incremento del benessere come traguardo comune, occorrerà ammettere la possibilità di una diversa concezione dei singoli in merito al concetto stesso di “bene”. Una differenza di prospettive propria del tessuto sociale, che trova il suo campo di verifica nelle scelte dei singoli individui. A titolo esemplificativo basterà ricordare il caso che nel 2002 fece la sua comparsa tra le pagine del Washington Post, aprendo una nuova frontiera di dibattito sulla riproduzione assistita. Nello specifico, una coppia del Maryland di giovani donne non udenti, Sharon Duchesneau e Candy McCullough, decise di ricorrere alla riproduzione assistita per avere un figlio, preferibilmente sordo come loro. Attraverso l’utilizzo dello sperma di un donatore appartenente ad una famiglia sorda da cinque generazioni, la coppia diede alla luce il piccolo Gauvin, sordo dalla nascita. Il fatto che le donne avessero deliberatamente scelto di far nascere il figlio in una condizione di disabilità, rappresentò l’argomento centrale delle polemiche che sorsero all’interno dell’opinione pubblica. Soprattutto in un tipo di società in cui i genitori fanno il possibile per evitare alla propria prole malattie ed handicap, tale decisione apparve come l’aberrazione di “un’eugenetica al contrario”. Tuttavia, quest’idea non era affatto condivisa dalla coppia del Maryland. Orgogliose rappresentanti della “deaf culture”, all’interno della quale operano come terapiste, esse volevano condividere con il proprio figlio la loro cultura di appartenenza. Per le due donne, infatti, la sordità rappresenta un tratto distintivo della personalità piuttosto che un fattore di disabilità. «essere sordi è semplicemente uno stile di vita. Ci sentiamo completi quanto chi ha un udito normale e vogliamo condividere con i nostri figli i lati più belli della nostra comunità di non udenti –il senso di appartenenza ed il tenerci in contatto. Siamo veramente convinti di vivere, in quanto sordi, un’esistenza ricca» (Sandel, 2007).
Dati questi presupposti, la coppia Duchesneau-McCullough desiderava solamente realizzare il bene per il proprio figlio. Probabilmente vivere una vita da udente in una comunità di audiolesi non sarebbe tornato a vantaggio di Gauvin. Al contrario egli avrebbe vissuto una vita da diverso, una potenziale condizione di svantaggio. A tal proposito, l’approccio utilizzato dalle due donne sarebbe lo stesso di molte altre coppie che ricorrono all’ingegneria genetica: cercare di definire le caratteristiche della prole secondo le proprie aspettative. Se da un lato è vero che i genitori sono liberi di orientare le proprie scelte genetiche verso la prospettiva da essi ritenuta migliore per il nascituro, dall’altro essi non possono esimersi da un confronto con quei parametri oggettivi condivisi dalla società. Esisterebbe, dunque, un criterio univoco per determinare il bene degli individui all’interno di una società? E quanto influisce quest’ultima sulle scelte –in questo caso genetiche- degli individui? Per rispondere a queste domande, appare interessante un confronto con un annuncio apparso non molto tempo prima sulle pagine dell’Harvard Crimson, pubblicato da una coppia infeconda alla ricerca di donatrici di ovuli. Fin qui il caso semI. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
brerebbe rientrare in quella gamma di trattamenti per la sterilità messi in campo dalla procreazione assistita. Se non fosse per una richiesta che accompagnava l’inserzione. Le donatrici dovevano rispondere a dei canoni ben definiti: fisico slanciato e atletico, un trascorso familiare libero da malattie ed un punteggio allo Scholastic Aptitude Test (SAT) di 1400 o superiore. Per una donatrice che rispettasse tali requisiti, la coppia era disposta ad offrire un compenso di 50.000 dollari. Ad una prima analisi, anche questa coppia non avrebbe fatto altro che decidere in anticipo quali fossero le caratteristiche essenziali per il proprio figlio. Tuttavia, differentemente dal caso di Gauvin, quest’ultimo non generò particolare scalpore. Senza dubbio la ragione principale per la quale i due casi appaiono distinguibili risiede nella trasmissibilità di alcuni caratteri rispetto ad altri. Di fatto, se il gene CX26 è responsabile della sordità autosomica recessiva nell’80% dei casi, ancora non è stato pienamente chiarificato l’impatto di un probabile gene dell’intelligenza. Ciò dipende soprattutto dal fatto che l’intelligenza, così come la statura, sono caratteristiche multifattoriali, ossia frutto dell’interazione di vari geni. Di conseguenza, il primo caso appare più minaccioso perché più concreto, basato sulle rigide leggi mendeliane. Su tutt’altro piano si collocherebbe la questione sul motivo per il quale la scelta di uno specifico tratto genetico possa incontrare il consenso o la neutralità d’opinioni, mentre l’altra genererà prevalentemente un forte dissenso. Quale differenza intercorre tra una coppia che sceglie di avere un figlio sordo ed un’altra che lo desideri biondo oppure alto, cosicché possa giocare a basket? La risposta più immediata consisterebbe in una netta separazione degli esiti ottenuti mediante la manipolazione genetica della prole. Da una parte tutti gli interventi sui tratti distintivi dell’identità, in un’ottica di beneficio del nascituro o concernenti ai canoni di bellezza, sarebbero da considerarsi irrilevanti. Dall’altra l’idea che alcuni tratti genetici, seppure intesi come tratti dell’identità, non sarebbero altro che vere e proprie condizioni di disabilità. Nello specifico, la scelta della sordità come caratteristica identitaria può essere suscettibile di critica secondo due prospettive. La prima, decisamente più utilitaristico-consequenzialista, chiama in causa il concetto di “caratteristiche moralmente indifferenti” introducibili nell’uomo attraverso la manipolazione genetica. Questo termine implica l’assenza di effetti che influiscano sulla vita dell’individuo, con particolare esclusione di quelli negativi. Si pensi all’altezza, così come al colore dei capelli e degli occhi. Non solo tali tratti genetici sarebbero moralmente indifferenti, ma avrebbero il vantaggio di intercettare quei canoni condivisi di salute e bellezza desiderabili per ogni essere umano. Punto fondamentale di tale argomentazione consisterebbe nel non compromettere l’esistenza dell’individuo, lasciandolo libero di percorrere le sue scelte di vita. Dei prodromi di tale posizione possono essere rintracciati nelle parole di Stuart Mill: «Lo stesso fatto di causare l’esistenza di un essere umano è una delle azioni che comportano più responsabilità nell’intero arco della vita umana. Assumersi questa responsabilità –dare una vita che può essere una sciagura o una fortuna-, senza che l’essere che riceva la vita abbia almeno le normali possibilità di condurre un’esistenza desiderabile è un delitto contro di lui» (Mill, 2009, p. 129).
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La seconda argomentazione critica, invece, poggia le sue basi sul concetto di “disfunzione”, il quale può essere totalmente slegato dalla prospettiva utilitaristico-consequenzialista precedentemente descritta. Mutuato dal linguaggio della psicologia2, con il termine “disfunzione” si intende un funzionamento scarso o inadeguato di un apparato fisico o di un’abilità psichica. Infatti, nell’attuale concezione della psicologia, ogni organo o apparato fisico e ogni abilità o capacità psichica sono intesi come sani se una loro funzione contribuisce alla qualità della vita dell’individuo e della società di appartenenza (Pacciolla, 2006). Quindi l’occhio o l’orecchio (così come tutti gli altri apparati fisici e le abilità psichiche) hanno una funzione che contribuisce al benessere dell’individuo e della società. Di conseguenza il mancato (o limitato) funzionamento (a causa di un problema organico o psichico) costituisce una limitazione alla qualità della vita personale e sociale. In questo caso, “funzionare” significa in primis assolvere al ruolo preposto dalla natura. Soprattutto nel caso dell’essere umano, ogni parte ha la funzione di farlo sopravvivere e di migliorare la qualità della sua vita personale e sociale. Per questo motivo il funzionamento si diagnostica in varie aree: cognitiva, emotiva, relazionale, lavorativa e del controllo dell’impulso. Alla luce del concetto di “disfunzione”, la sordità non può essere definita un tratto “moralmente irrilevante”. Questo perché, la sua piena espressione genetica determinerebbe una limitazione delle capacità generalmente riconosciute come necessarie al normale svolgimento della vita di ogni individuo. È importante, a questo punto, notare come la critica alla sordità non sia incentrata esclusivamente sull’aspetto sociale (variabile da una società all’altra), ma anche su quello individuale, che esiste nella sua dualità di singolarità ed interrelazionalità.
3. La salute: strumenti di classificazione ed analisi delle sue componenti essenziali. Dall’ICIDH all’ ICF
Il DSM ha provveduto ad esplicitare la coppia funzione/disfunzione dal punto di vista diagnostico delle principali aree di espressione della persona. Tale binomio costituisce uno dei punti di riferimento riguardo al tema della salute. Al tempo stesso, occorre formulare un linguaggio unificato che possa descrivere le componenti della salute e gli aspetti ad essa correlati. Ciò al fine di creare un adeguato strumento di comunicazione in materia di salute ed assistenza sanitaria. A tale scopo, strumenti fondamentali appaiono le iniziative adottate in questo campo dalla WHO (World Health Organization). Un primo approccio si è avuto nel 1980 con l’ICIDH (International Classification of Impairment, Disabilities and Handicaps). L’importanza di questo documento risiede nella distinzione tra menomazione-disabilità-handicap. Proprio questa tripartizione viene utilizzata nell’ambito di una classificazione della persona a seguito di una menomazione, intesa come estensione di uno stato patologico a carico di una struttura o funzione, psicologica, fisiologica o anatomica. 2
È uno dei meta-criteri per individuare e classificare le varie diagnosi attraverso il Diagnosis and Statistical Manual (DSM).
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Tale perdita o anormalità può essere inquadrata secondo due aspetti: la disabilità e l’handicap. Il primo rappresenta l’oggettivazione stessa della malattia nel suo effettivo scostamento, per eccesso o per difetto, nella realizzazione dei compiti e nell’espressione dei comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso. Il secondo, invece, costituisce la discrepanza tra l’efficienza propria dell’individuo e le aspettative del contesto in cui esso vive. In quanto tale, l’handicap rappresenta l’aspetto sociale della menomazione. Nonostante le linee guida fornite dall’ICIDH, quest’ultimo presentava diversi limiti. Primo tra tutti il fatto che la sequenza menomazione-disabilità-handicap si concentrerebbe esclusivamente sui fattori patologici, senza sottolineare l’importanza ambientale nella determinazione della salute. Inoltre, i tre indicatori dell’ICIDH presenterebbero un inquadramento statico dell’individuo, considerato esclusivamente sulla base dell’aspetto morboso. Di tali limiti si è tentato un superamento con l’ICIDH-2 del 1997. In particolare, quest’ultimo ha tentato una sostituzione dei tre termini con degli indicatori neutri, utili ad una classificazione che non faccia riferimento alla persona esclusivamente in termini di “difficoltà”. Nello specifico, è stata utilizzata una classificazione su tre livelli: Funzioni e Strutture, Attività, Partecipazione. Ciò senza escludere l’influenza dei fattori ambientali (includendo sia l’ambiente più vicino alla persona, sia quello più lontano) e dei fattori personali (correlati alle caratteristiche individuali). Fattori che verranno presi in considerazione maggiore dall’ICF. Finora, i due modelli proposti hanno sempre avuto come sfondo l’eziologia delle malattie e le conseguenze ad esse correlate, al fine di fornire una diagnosi della patologia. Al contrario, l’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) del 2001 si basa su un’impostazione sostanzialmente diversa. Proprio in virtù di tale impostazione, l’ICF può integrare la precedente classificazione ed, al tempo stesso, tracciare un sentiero d’indagine radicalmente nuovo. Di fatto, l’ICF non è incentrata sugli aspetti patologici e sulla loro classifciazione, ma sull’analisi del concetto stesso di salute e dei suoi aspetti essenziali. Ciò avviene mediante un approccio multi-prospettico, testimoniato dalla divisione in due parti: Funzionamento e Disabilità (comprende Funzioni e strutture corporee, Attività e Partecipazione) e Fattori Contestuali (ambientali e personali). In tal senso, l’ICF non rappresenta uno strumento di classificazione, bensì si propone di inquadrare la situazione di ogni individuo esclusivamente in relazione al concetto di salute ed alle sue componenti fondamentali, prescindendo da quelle che non siano ad essa strettamente correlate (es: razza, religione, cultura, ecc...). Ciò implica una considerazione dinamica del rapporto tra le componenti della salute ed i fattori ambientali e personali. Al centro dell’ICF, dunque, non sono più le menomazioni, bensì le funzioni, con riferimento diretto all’aspetto fisiologico delle strutture corporee3. Secondo tale prospettiva, la definizione stessa di salute cambierebbe radical3
Questo perché le menomazioni non sempre si identificano con una privazione delle funzioni in toto. Un esempio è quello del diabete congenito: un individuo che nasca con tale malattia, finché tenuto sotto controllo farmacologico non subirà danno alle funzioni nei termini dell’attività. Non si può dire lo stesso per quel che riguarda il suo grado di partecipazione. Esso, infatti, potrebbe soffrire a livello sociale per la dieta imposta dalla sua condizione.
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mente: non più un concetto basato sull’assenza di malattia, bensì una salute connessa al benessere psico-fisico. Non più una definizione strettamente medicobiologica, quindi, ma soprattutto sociale. Diretta conseguenza è la visione della persona in una prospettiva del tutto anti-riduzionista. Di fatto, quest’ultima non è più identificata con la sua malattia, ma è il risultato di un’insieme di forze che ne determinano le funzioni, inclusi –e questa volta in modo determinante- i fattori ambientali. Con l’ICF, dunque, si passa definitivamente da un approccio individuale ed organicistico ad uno socio-relazionale.
4. Le capabilities e la tutela della vita buona all’interno della società
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L’aspetto socio-relazionale introdotto dall’ICF ha contribuito in modo sostanziale a mettere in rilievo l’importanza del contesto (ambientale e sociale) per la salute e la vita del singolo individuo. Alla luce di tale prospettiva, appare interessante esaminare come le capacità dei singoli si coniughino con le opportunità offerte dalla rete sociale. Ciò al fine di determinare le possibilità di azione e di realizzazione dell’individuo all’interno del quadro sociale. La società offre a tutti i suoi membri uguale protezione ed opportunità di realizzazione? Oppure essa è il luogo di ineguaglianze e differenze? Tale questione, costituisce il principale tema della giustizia, in particolare nel suo rapporto con la fruizione del benessere sociale da parte dei membri della società. Proprio tale rapporto, rende la giustizia un campo d’importanza fondamentale per la società umana, che sovente è divenuto vero e proprio luogo di conflitto tra quelle teorie che costantemente tornano a confrontarsi su cosa sia giusto fare. In particolare, due tra queste: l’utilitarismo e la giustizia come equità di matrice rawlsiana, sono la rappresentazione di poli radicalmente opposti e dagli esiti contrastanti. Mentre la prima propone una giustizia unicamente incentrata sulla massimizzazione della felicità per il maggior numero di persone, la seconda si fa portatrice di una visione che tiene conto delle possibili disparità degli individui ai blocchi di partenza. Ciò attraverso strumenti teorici come il principio di differenza ed il velo di ignoranza, quali vie per un’equa distribuzione dei beni primari. Una “terza via” rispetto a questi due approcci può essere identificata nel contributo apportato dal nobel per l’economia, Amartya Sen. Di fatto, se da un lato la visione utilitarista comporterebbe una svalutazione dei caratteri della persona, riducendola a mera variabile all’interno di una somma che ha come risultato l’utilità. Dall’altro, l’eguaglianza della teoria rawlsiana non terrebbe conto delle rispettive individualità e, in definitiva, della diversità umana. Ciò è ravvisabile soprattutto prendendo in esame la stessa variabile cui Rawls dedica tanta attenzione: i beni primari (Rawls, 1971). Come afferma lo stesso Sen, l’approccio basato sui beni primari soffrirebbe di un «handicap feticistico legato ai beni, ed anche se l’elenco di tali beni è stilato in modo ampio ed in inclusivo, includendo diritti, libertà, opportunità, reddito, salute e le basi sociali del rispetto, esso è ancora fortemente connesso con ciò che queste cose possono fare per gli esseri umani» (Sen, 1980). I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
Nello specifico, secondo l’economista indiano un’eguale distribuzione dei beni primari mancherebbe di prendere in considerazione la diversità degli esseri umani. In tal senso, l’eguaglianza distributiva non corrisponderà proporzionalmente ad una piena libertà di realizzazione dei singoli individui. Non solo ognuno avrà una diversa idea di realizzazione circa se stesso, in molti casi le condizioni di vita individuali richiederanno necessità che implicano un’assistenza maggiore e differenziata4. Ne consegue che le risorse, e nello specifico i beni primari, non presenteranno un valore univoco e sempre valido. Piuttosto tale valore sarà strettamente legato alla possibilità da parte dell’individuo di convertire queste ultime in ciò che per egli ha valore o, come si vedrà a breve, in funzionamenti. Tale posizione trova il suo terreno nell’approccio capacitazionale (Capability approach), elaborato dallo stesso Sen, dove il funzionamento e le capacitazioni (capabilities) vengono esaminati come concetti chiave all’interno dello sviluppo umano. Il primo dei due corrisponde a ciò che una persona può desiderare in base ad una propria scala valoriale (si va dai funzionamenti più elementari come il nutrimento, a quelli più complessi riguardanti la partecipazione sociale dell’individuo). Contemporaneamente, con il termine capacitazioni Sen intende l’insieme di cose che una persona è in grado di fare o essere, inclusa la libertà che essa ha di conseguire un una qualsiasi combinazione di funzionamenti (Nussbaum, Sen, 1993). Proprio questi ultimi, nel loro effettivo compimento, costituiscono un aspetto sostanziale della libertà di ogni individuo ed uno strumento fondamentale ai fini della valutazione della vita di quest’ultimo all’interno della società. Di fatto, il valore di un insieme di capacitazioni rappresenta l’effettiva libertà che una persona ha di vivere una vita apprezzabile nei termini dei funzionamenti che ad essa si rendono disponibili. Al tempo stesso, proprio dall’espansione delle capacitazioni dipende lo sviluppo economico. Ciò significa che l’approccio capacitazionale valuterà le politiche adottate da una società ed i cambiamenti da questa introdotti in base all’impatto sulle capacitazioni delle persone e sui rispettivi funzionamenti. Si può dunque tracciare una lista di capacitazioni fondamentali, cui una società che si dica equa dovrebbe porre particolare attenzione? Sen non si esprime in modo definitivo al riguardo. Se da una parte, egli afferma, si possa tracciare un sottoinsieme di capacitazioni cruciali associate alle necessità basilari dell’uomo (es: salute, nutrimento, educazione, protezione). Dall’altra tale sottoinsieme non esaurirà la portata delle capacitazioni, ma servirà solo come orientamento al fine di definire situazioni di gravi deprivazioni ed urgenze morali (Sen, 1987). Proprio questa declinazione delle capacitazioni nei termini della sopravvivenza, tipica dei paesi in via di sviluppo, mette in rilievo la variabilità delle capacitazioni in relazione all’ambiente circostante ed al contesto sociale. Nel caso di una paese industrializzato, infatti, l’analisi sulla vita buona si 4
A tal proposito, appare opportuno sottolineare quanto siano elementi determinanti nel processo di differenziazione individuale l’ambiente in cui le persone vivono, così come le malattie che possono colpirle. Entrambi gli aspetti possono intaccare in modo determinante l’interrelazionalità o la capacitazione dell’individuo. Si potrà dare lo stesso numero di risorse a due persone, ma la loro capacitazione nel convertirle in funzionamenti sarà differente e costituirà un elemento di differenza.
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concentrerà su quelle capacitazioni che non hanno nulla a che vedere con la sopravvivenza. Per questi motivi, una lista delle capacitazioni rappresenta agli occhi di Sen il frutto di un’emanazione puramente teorica, che non terrebbe conto della valutazione e della partecipazione pubblica (Sen, 2004). Al contrario, secondo Sen, sono le persone direttamente coinvolte a dover decidere quale valore debba essere scelto. Ciò, come anticipato, non dipenderà esclusivamente dalla loro psicologia individuale, ma includerà elementi di influenza come i contesti in cui esse vivono, le differenze ambientali, le differenze di clima sociale e le differenze di tipo relazionale all’interno della comunità di cui gli individui fanno parte. Di conseguenza, il senso di appartenenza alla comunità è una risorsa importante nella determinazione della vita individuale. Inoltre, l’analisi di Sen implica la possibilità di un trade-off delle capacitazioni, a seconda delle esigenze individuali e del contesto. Tale prospettiva, unitamente all’assenza di una lista delle capacitazioni, ha spesso esposto l’approccio capacitazionale di Sen a critiche di relativismo. In particolare, sorgono domande circa la componente attiva del contesto sociale. In che misura quest’ultimo può determinare le funzioni essenziali della vita di coloro che ne fanno parte? Oppure, tornando al caso Duchesneau e McCullough: può la deaf culture, dal punto di vista dell’identità di una comunità, costituire luogo di verità circa la definizione dell’identità dei singoli? In verità, l’approccio seniano alle capacitazioni non si smarrisce in un relativismo territoriale. Al contrario, Sen afferma che la «segregazione comunitaria» è frutto di una visione del mondo che non conduce alla promozione della giustizia. Il contesto sociale, così come la comunità, costituisce sì un elemento importante, ma occorre in ogni caso evitare un’assolutizzazione di tale aspetto. Un “effetto nicchia” del contesto, tale da inquadrare l’individuo esclusivamente come membro di un gruppo particolare, equivarrebbe alla negazione della libertà individuale di concepire se stessi. Il ruolo ed il peso attribuito ad ogni capacitazione sarà piuttosto il prodotto di quel processo di valutazione pubblica, orientato al perseguimento della giustizia. Tale valutazione, alla cui base sta la dimensione interrelazionale, poggia su due pilastri imprescindibili. Da una parte l’identità dei singoli individui, che precede e supera il gruppo di cui ognuno fa parte. Dall’altra la razionalità che, nella sua accezione orientata alla giustizia, diviene ragionevolezza. Motivo chiave per una valutazione imparziale, che conduca ad accogliere il punto di vista esterno nella discussione riguardo a ciò che è giusto. Un contributo importante all’approccio capacitazionale è quello di Martha Nussbaum, la quale distingue tre tipi di capacitazioni: fondamentali, interne e combinate5. Tale diversificazione costituisce un aspetto importante nella disamina della filosofa statunitense, orientata ad elaborare una teoria della giustizia basata sulla dignità umana. Sin da subito, emergono le prime differenze rispetto alla riflessione di Amartya Sen, fondata invece sull’incremento della libertà indi5
Le capacitazioni fondamentali costituiscono l’innata datazione degli individui, necessaria al loro sviluppo; le capacitazioni interne sono la combinazione delle capacitazioni fondamentali e dell’ambiente circostante; le capacitazioni combinate rappresentano il risultato delle capacitazioni interne e delle condizioni esterne idonee per l’esercizio delle funzioni necessarie.
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viduale. Ne deriva che l’approccio capacitazionale seniano, orientato nella direzione dello sviluppo normativo, è strettamente correlato con la fattività dei miglioramenti pratici. Nell’analisi di Sen, infatti, la relazione tra le capacitazioni diviene oggetto delle scelte politiche. Differentemente, l’approccio della Nussbaum si ispira ad un perfezionismo di tipo aristotelico. Quest’ultima non considera le capacitazioni nell’ottica strumentale di un incremento del benessere, bensì al fine di un incremento della soglia di giustizia all’interno delle società. Proprio a partire da questa differenza, la Nussbaum ritiene di grande importanza la demarcazione tra le capacitazioni moralmente rilevanti e quelle moralmente irrilevanti. Tale presupposto, costituisce la base per l’elaborazione di una lista essenziale delle capacitazioni (Nussbaum, 2011). Una lista che contribuisce ad una valutazione oggettiva con cui i funzionamenti possono essere catalogati al fine di determinare il concetto di vita buona. La lista della Nussbaum si compone di dieci punti: Vita (degna di essere vissuta); Salute fisica (include alimentazione ed abitazione adeguate); Integrità fisica (tutela del corpo da aggressioni e violenze); Sensi, immaginazione e pensiero (tutela di tali capacità nell’uso attivo e sociale); Emozioni (tutela dello sviluppo emotivo); Ragion pratica (tutela dell’uso libero della ragione); Unione (include l’interazione sociale e le basi per il rispetto di sé); Altre Specie (relazione rispetto al mondo naturale); Gioco (nel suo valore umano); Controllo sul proprio ambiente (disponibilità di spazi politici e materiali per azioni in società). L’elenco provvede ad isolare quelle facoltà che possono essere poste alla base di ogni vita umana. Di fatto, ognuna di esse appare necessaria affinché la vita umana non si impoverisca al punto tale che la stessa dignità risulti compromessa. Nell’approccio della Nussbaum, dunque, le capacitazioni non sono considerate come mezzi per le mete successive, bensì fanno riferimento al valore in sé di ogni essere umano. Secondo questa prospettiva, prima ancora della società, della comunità o dei gruppi, viene la persona con le proprie capacitazioni. In quanto tali, esse devono costituire la base dei diritti, la soglia minima ed inalienabile che i governi di ogni nazione dovrebbero garantire ai loro cittadini. In definitiva, l’accesso alle capacitazioni rappresenta un requisito essenziale della dignità umana e della giustizia. Tuttavia, sottolinea la Nussbaum, ciò non significa che una vita mancante in una qualsiasi di queste capacitazioni, a causa di una deprivazione esterna o di una scelta individuale, sia per questo meno dignitosa rispetto alla vita umana. A tal proposito, si rende necessaria una sostanziale distinzione tra la deprivazione e la scelta all’interno della dimensione capacitazionale. Si prenda il caso di un individuo la cui condizione sia distante dallo standard di nutrimento adeguato (Salute Fisica). Da una parte tale condizione potrebbe essere determinata dalla società in cui esso vive e, nello specifico, rappresentare un fallimento di quest’ultima nella tutela dei diritti fondamentali. Dall’altra un nutrimento inferiore allo standard potrebbe rientrare tra le scelte dell’individuo stesso, orientate secondo uno stile di vita ascetico. Un’ulteriore diversificazione, implicita e tuttavia necessaria nell’epoca dell’eugenetica liberale, è quella tra le scelte del singolo e quelle che altri operano su di lui mediante l’ingegneria genetica. Di fatto, questa seconda categoria costituisce un nodo essenziale della società in cui i genitori possono determinare il corredo genetico del figlio. In un simile scenario, la lista elaborata dalla Nussbaum costituisce una soglia anno I | n. 2 | 2013
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di cui la manipolabilità genetica deve tenere conto. L’integrità dei dieci punti di tale lista corrisponde, infatti, al rispetto della dignità del nascituro. Caso esemplificativo sarà, ancora una volta, quello riguardante la deaf culture. Sebbene la coppia Duchesneau-McCullough abbia operato in vista del bene per il proprio figlio, appare immediato il contrasto tra la loro concezione di bene e la capacitazione riuardante i sensi della persona. Seguendo la prima, esse hanno compiuto una violazione nei confronti della dotazione capacitazionale del figlio. Al contrario, la centralità delle capacitazioni implica sempre una scelta in favore di esse, nel pieno rispetto della dignità umana. In nessun caso, infatti, un tratto della personalità, per quanto fondamentale all’interno di una comunità, potrà costituire motivo di negazione delle capacitazioni fondamentali. A questo punto, una domanda affatto scontata sarebbe quella che s’interroghi sulla liceità della manipolazione orientata al ristabilimento di capacitazioni fondamentali compromesse o al potenziamento delle stesse. Se, ad esempio, una modifica nel corredo genetico del nascituro lo portasse a sviluppare una resistenza alle malattie, non costituirebbe questa un effettivo miglioramento dell’integrità fisica?
5. Le capacitazioni nell’ottica dell’enhancement. Sviluppo o potenziamento umano?
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Oltre all’utilità nella valutazione del benessere e nell’allocazione delle risorse all’interno della società, l’approccio capacitazionale ha trovato ampio impiego nella promozione della dignità umana. Come visto in precedenza, garantire a tutti il possesso delle capacitazioni fondamentali, costituisce un passo decisivo nella salvaguardia di tale dignità e, conseguentemente, un requisito fondamentale dello sviluppo umano. Al tempo stesso, la possibilità d’intervento sulle capacitazioni stesse, rappresenterebbe un contributo senza precedenti alla promozione attiva di tale sviluppo. Proprio questa opportunità è divenuta sempre più tangibile nell’era genomica. Di fatto, la lettura del codice genetico permette di delineare il genotipo dell’individuo, identificando i geni alterati e le eventuali predisposizioni allo sviluppo di malattie genetiche. In tal modo, è possibile definire sin da subito se alle tare genetiche corrisponda la compromissione di alcune capacitazioni fondamentali e le relative terapie attuabili. Conseguentemente, la relazione tra la genetica e le capacitazioni rappresenterà un elemento importante all’interno dello sviluppo umano. Tale aspetto emerge soprattutto se si tengono presenti due fattori. Il primo riguarda il ruolo fondamentale assunto dalla cura della salute nell’approccio capacitazionale. Da una parte, nella disamina di Amartya Sen, tale aspetto costituisce un’opportunità per la promozione della libertà individuale. Dall’altra Martha Nussbaum considera la cura della salute come uno dei dieci punti indispensabili per la dignità umana. Analogamente, il secondo fattore coincide con l’importanza acquisita negli ultimi anni dalla ricerca genetica nello sviluppo di terapie per la cura degli individui. Ciò permetterebbe di concludere che se la salute è una componente essenziale dello sviluppo umano e la genetica può produrre un incremento della salute, allora la genetica è funzionale allo stesso sviluppo umano. I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
Di fatto, la terapia genetica e la partecipazione degli individui alla ricerche genetiche possono influire in modo determinante sulla capacitazione degli stessi, correggendo la loro dotazione genetica o individuando cure mirate per ogni genotipo6. L’ingegneria genetica come fonte di eguaglianza, dunque. Un’ingegneria genetica che, laddove sia necessario, provvederà ad intervenire eliminando le tare genetiche degli individui, consentendo a tutti un’uguale posizione ai blocchi di partenza e la libertà di perseguire i propri obiettivi. D’altra parte, non si possono trascurare le obiezioni di matrice etica che l’epoca genomica porta con sé. Se da un lato l’analisi condotta sui dati genetici consentirà progressi nella ricerca e diagnosi sempre più mirate, dall’altro non può essere trascurato il legame che i dati genetici hanno con la persona. In particolare, le informazioni che essi possono dare circa il loro possessore non riguardano solo lo stato attuale delle cose, ma offrono la possibilità di spaziare sull’intero arco di vita di quest’ultimo. In questo senso, i materiali biologici contengono l’identità genetica di un individuo e possono tracciare una storia genetico-clinica della sua famiglia biologica. Proprio in virtù della natura particolarmente sensibile di questi dati (UNESCO, 2003), la loro raccolta solleva problemi relativi alla privacy ed alla confidenzialità. Le modalità di trattamento dei dati genetici da parte di terzi sono oggetto costante del dibattito etico e scientifico. Questo perché una diffusione incontrollata di tali dati rappresenterebbe un grave problema, con esiti potenzialmente discriminatori nei settori sociale, lavorativo ed assicurativo. Un simile uso dei dati genetici sfocerebbe in esiti diametralmente opposti rispetto all’idea, presentata poco sopra, di un’ingegneria genetica portatrice di uguaglianza sociale. Di fatto, gli individui oggetto di discriminazione genetica subirebbero delle pesanti limitazioni nella loro capacità di realizzare i funzionamenti. S’immagini una situazione in cui le principali compagnie assicurative abbiano libero accesso ai dati genetici degli individui. Esse potrebbero decidere di concedere o rifiutare l’assicurazione sulla base delle tare ereditarie e, soprattutto, delle predisposizioni genetiche individuali. Ciò equivarrebbe ad un’estromissione dalla copertura sanitaria di tutti coloro il cui “futuro genetico” potrebbe riservare ingenti spese sanitarie7. Nella Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti umani, l’UNESCO riconosce il ruolo chiave giocato dal genoma umano nelle ricerche e nelle appli6
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Una particolare attenzione meritano la farmacogenetica e la farmacogenomica; chiara rappresentazione dell’evoluzione del settore farmacologico in relazione alle ultime conquiste genomiche. La differenza principale tra le due è costituita dall’ambito d’indagine. Mentre la prima circoscrive tale ambito ai geni coinvolti nella risposta al farmaco, la seconda lo estende all’intero genoma, delineando la variabilità di risposta al farmaco in base ai fattori genetici ereditari. Proprio lo studio della relazione tra le molecole dei farmaci e la risposta del patrimonio genetico, costituisce un aspetto importante della cura, permettendo di determinare l’efficacia dei farmaci ed una maggiore personalizzazione delle cure. Inoltre, non sarebbe affatto sbagliato chiedersi in che misura la conoscenza del proprio genoma costituisca per l’individuo una benedizione o, viceversa, una maledizione. Sapere in anticipo la propria predisposizione circa lo sviluppo di alcune malattie è senza dubbio un vantaggio ai fini terapeutici. Tuttavia, occorre considerare quanto questo sapere possa stravolgere la vita dello stesso individuo, vissuta nell’ottica costante della malattia. Ciò vale oltremisura per quelle malattie per le quali non si dispone ancora di cure efficaci.
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cazioni per il miglioramento della salute individuale e dell’umanità. Parimenti, afferma la necessità ed il dovere di ogni ricerca di rispettare la dignità ed i diritti dell’uomo. Una diretta traduzione di tali principi è rappresentata dall’ articolo 1 della stessa Dichiarazione, che definisce il genoma umano come «patrimonio dell’umanità» (UNESCO, 1997). Fin qui il discorso sulla genetica in relazione alle capacitazioni si è svolto secondo un’ottica orientata allo sviluppo umano. Da un lato le ricerche sul genoma, dall’altro il ricorso alla terapia genetica per il ripristino delle facoltà fondamentali compromesse, rappresentano la manifestazione strettamente terapeutica della genetica. Ma cosa accade quando l’ingegneria genetica si presenta come passaggio dallo sviluppo umano (inteso come libertà), alla garanzia di dignità (espressa nel possesso di tutte le capacitazioni fondamentali), arrivando, infine, alla realizzazione dell’eccellenza? Cosa accade quando la soglia minima di dignità, garantita dal possesso delle capacitazioni, si sposta verso il potenziamento di queste ultime? Un simile approdo costituisce la linea di demarcazione tra l’intervento strettamente terapeutico e quello orientato al miglioramento. Getta le basi per il superamento dello sviluppo umano (raggiungimento di un livello minimo di capacitazioni) in favore del potenziamento umano (massimizzazione del livello delle capacitazioni). E, in definitiva, celebra l’incontro tra l’eugenetica liberale e le capacitazioni umane. Nello specifico, la manipolazione genetica inaugurerebbe una nuova fase di potenziamento dell’autonomia e delle scelte individuali all’interno dell’evoluzione umana. La resistenza alle malattie, una maggiore intelligenza o il possesso di sensi più sviluppati rappresenterebbero un’estensione delle capacitazioni, tale da consentire all’individuo l’apertura di nuovi percorsi in termini di funzionamenti. In tal senso, la vita buona non andrebbe più considerata in base alla dicotomia vicinanza/lontananza tra lo stato attuale delle capacitazioni e quello ideale. Al contrario, essa mirerebbe a plasmare l’ideale stesso di capacitazione rendendolo attuale. In quest’ottica, dalle forti connotazioni transumaniste, la dignità umana non sarebbe più costituita dal mantenimento della dotazione originaria, ma dal pieno potenziale che ognuno può realizzare. A fronte di questo «paternalismo sui generis» (Habermas, 2002, p. 65), le capacitazioni non potranno essere considerate qualcosa di fisso ed immutabile. Il continuo progresso scientifico si accompagnerà ad un cambiamento degli standard, delle norme e degli scopi. Inoltre, tali capacitazioni potrebbero divenire il risultato di una scelta genetica totalmente arbitraria. A tal proposito, una questione interessante sarebbe quella derivante dalla liberalizzazione genetica e, dunque, dall’assenza di limiti alla manipolabilità umana. Potrebbero, in tal modo, affermasi capacitazioni prima impensate, definendo un nuovo concetto di soglia per la dignità umana. Si giungerebbe, dunque, alla realizzazione del superumano, nell’ottica dell’allevamento umano di matrice genetica? Oppure, in uno di questi salti evolutivi, potrebbe celarsi il rischio reale per il quale all’incremento smisurato dei funzionamenti individuali corrisponda una mortificazione dell’essere umano? Da un lato il timore per la totale affermazione di un “uomo nuovo”, frutto di una propulsione scientista e del mero calcolo eugenetico, appare infondato. Se non altro per il fatto che la valutazione pubblica, descritta da Sen, costituirà sempre un banco di prova che ha il suo nucleo nella ragionevolezza umana. Dall’altro, I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
occorrerà prendere atto di un potenziale mutamento degli orizzonti sociali. Di fatto, la società della liberalizzazione dell’eugenetica sarà caratterizzata da una forte asimmetria relazionale. Questo perché l’individuo manipolato geneticamente è sottratto al processo naturale «ugualmente cieco davanti a tutti, anche quando premia qualcuno a differenza di altri» (Semplici, 2007, p. 156) Egli è il frutto del progetto di terzi, privato del poter dire-di-no e della possibilità di riscattare la sua disuguaglianza. In tal senso, l’assonanza instauratasi tra l’eugenetica liberale e la necessità della società progressista rischia di condurre l’essere umano alla soglia di una china scivolosa, dove prende corpo il parco umano di Sloterdijk (2001). In un simile scenario, l’allevamento genetico umano potrebbe produrre due esiti paralleli e, tuttavia, connessi: il potenziamento delle capacitazioni umane e la fine dell’autonomia individuale.
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I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
En deçà de la zone proximale de développement (ZPD): l’apport de la «défectologie moderne» aux pédagogies scolaires1
The zone of proximal development (ZPD) has been defined as the distance between the actual developmental level as determined by independent problem solving and the level of potential development as determined through problem solving under adult guidance, or in collaboration with more capable peers. Modern pedagogies and didactics have to reserve more attention to the study of the influencing factors of the emergency of ZPD within the context of home, school, and community in order to effectively apply the ecological paradigma on the study of the development of developmentally disabled pupils and in pedagogical and didactical praxis.
abstract
Michele Mainardi / Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana - Locarno-CH - michele.mainardi@supsi.ch
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Keywords: Disabilities, Zone of proximal development, special education
I. Riflessione teorica 1
Versione adattata della comunicazione “L’apport de la défectologie moderne aux pédagogies: en deçà de la zone proximale de développement (ZPD)” presentata al 5° Seminario Internazionale "Vygotski" sul tema Vygotski et l’école: apports et limites d’un modèle théorique pour penser l’éducation et la formation (IUFM d’Aquitane, Université de Bordeaux IV, Université Victor Segalen Bordeaux 2), Bordeaux, 20 octobre, 2012. In: Bernié, J.P. et M.Brossard (2013) Vygotski et l'école. Presses Universitaire de Bordeaux. Pubblicazione autorizzata.
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1. Vygotskij à l’école
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L’oeuvre de Vygotskij, dans plupart des pédagogies scolaires d’aujourd’hui, est essentiellement reconduite à deux leçons majeures : celle de la ZPD et celle de l’étayage de fonctions interactives de tutelle. La première – La/(Les) zone(s) proximale(s) de développement – concerne la gamme du potentiel de chaque personne vis-à-vis d’un apprentissage nouveau à l’intérieur de l’environnement social dans lequel il se déroule. Cette capacité potentielle est mise en jeu lorsque l’apprentissage est facilité par une personne ayant une plus grande expertise. L’apprentissage qui profite d’une médiation active et qualifiée crée les conditions chez l’enfant – en partant de l’environnement – pour toute une série d’influences dialectiques à la base de processus de développement. Ces influences réciproques ne se produisent que dans le cadre de situations d’expérience – d’occasions d’action, de communication et de collaboration – qui ne se produisent d’abord que dans ce cadre interpersonnel, mais qui deviendront après coups une conquête propre de l’enfant. C’est à l’intérieur de zones proximales de développement, dans la collaboration et la confrontation sociale que l’on développe et on apprend à exploiter les outils psychologiques – mais non seulement- à notre disposition. – « Dans cette zone, et en collaboration avec l’adulte, l’enfant pourra plus facilement acquérir ce qu’il ne serait pas capable de faire s’il est livré à lui-même » – (Ivic, 1994, p. 802). La deuxième – L’étayage de fonctions interactives de tutelle – se réfère à l’intensité et à la modulation des pas entrepris pour réduire le degré de liberté de situations d’expérience de sorte à faciliter chez l’enfant (l’apprenant) le passage de ce qu’il sait faire en collaboration avec quelqu’un, à ce qu’il sait faire tout seul. Les fonctions interactives de tutelle et tant que facteur constructif du développement, sont multiples : les démonstrations, les exemples, les questionnements faisant appel à la réflexion, le contrôle actif des contingences contextuelles, la prédisposition de situations et d’occasions d’apprentissage ciblées, la collaboration directe au cours d’activités copartagées, … . La notion d’étayage des fonctions de tutelle intéresse les ajustements, nécessaires, provisoires et dynamiques mis en jeu par le tuteur – en fonctions de son rôle et de ses attentes à l’intérieur de contextes et de situations donnéespar rapport à un interlocuteur, aux comportements et/ou au développement, aux apprentissages et aux progrès ce dernier.
Fascinées par l’intérêt des retombées didactiques des apports de la notion de ZPD et de l’étayage de fonctions interactives de tutelle, les pédagogies scolaires (les praxis scolaires d’éducation et de formation) sembleraient avoir négligé ou avoir eue de la peine à s’accommoder d’autres dimensions véhiculées par l’œuvre de Vygotskij. Notamment, celles « en deçà de la zone proximale de développement », c’est-à-dire, les facteurs d’influence sur le développement et les apprentissages liés à la qualité inclusive et expérientielle, à l’accessibilité et à l’amicalité de l’univers physique et sociale de l’élève.
I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
2. En deçà de la ZPD
Les pédagogies spécialisées ont fait et elles font de leurs capacités d’accessibilisation des contextes et d’intervention sur des différents facteurs d’influence en jeu dans les situations (qui se produisent à l’intérieur des différentes niches éducatives et/ou de vie qui incluent une personne avec des incapacités de développement, ou plus particulièrement une personne avec des déficits intellectuels) une de leurs principales raisons d’être. Cela se traduit, dans les faits, en formes d’attentions plus ou moins spéciales et plus ou moins coïncidentes avec des lieux spéciaux. La prise de conscience que les termes de « déficit » et de « handicap » ne sont pas des synonymes mais qu’ils concernent des phénomènes distincts, est un aspect central de l’évolution de la conception de la défectologie moderne, depuis Vygotskij jusqu’à nos jours (cfr.: Lambert, 1986 ; Fougeyrollas, 1998 ; Canevaro, 1999 ; Caldin, 2001 ; Gardou, 2005). Cette évolution alimente la conception actuelle des notions de handicap, d’incapacité et de déficit, et donne forme et substance à l’idée que l’impossibilité d’accéder à une partie de l’univers d’expérience potentiel est également du ressort de l’exclusion et que, par conséquent, la possibilité de développer des capacités doit faire face non seulement à une caractéristique personnelle, le déficit, mais aussi et surtout à « l’accumulation additionnelle de difficultés ». (Vygotskij, 1931, in Barisnikov et Petitpierre, 1994, p. 142).
3. Le déficit et l’accumulation additionnelle de difficulté
Seguin (1846), préfigurant la pensée de Vygotskij, affirmait que le contexte de vie institutionnelle des personnes qu’on appelait alors des idiots, était à la fois le moule et l’expression de leur condition. Un moule et une expression sociale et physique, culturellement et historiquement déterminés dont même la pédagogie, sous ses différentes vestes et pratiques, est un produit. La situation de handicap, à la fois résultat et facteur dynamique d’influence à l’intérieur de l’interaction réciproque passée et future entre un individu et son environnement, en est un autre. Revenir en deçà de la ZPD, en amont de formes d’étayage plus ou moins ciblées, signifie prêter de l’attention à l’absence de neutralité qualitative des contextes et des situations ; à la possibilité d’une « accumulation additionnelle de difficultés » ; aux lieux et aux formes de manifestation et d’expression du moule et de ses produits2. 2
Quelques unes de ces formes de manifestation et d’expression: l’accessibilité des situations et des contextes d’expérience et de collaboration et la qualité de ces dernières ; - les apprentissages antécédents à l’occasion d’expérience et les situations passées et présentes, de manière proactive, sont à la base des zones proximales, des motivations en jeu à l’intérieur de nouvelles situations d’expérience et de développement. - le développement de la pensée est directement tributaire de l’appropriation de l’héritage cul-
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À ce propos, lors de sa discussion des travaux de Vygotskij, Ivic affirme que – “ toute réflexion critique sur la théorie vygotskienne doit partir de l’absence de critique des institutions et des ‘outils’ sociaux et culturels. Fasciné par les apports constructifs de la société et de la culture, Vygotskij n’est pas vraiment parvenu à développer une analyse critique, dans le sens moderne du terme, de ces institutions.» – (Ivic, 1994, p. 801). Vygotskij dans l’œuvre « Défectologie et déficience mentale » est tout de même très explicite quant à l’influence du milieu sur le développement de l’enfant avec des déficits intellectuels. Il écrit : – « J e dois encore tirer une conclusion pédagogique. Il est indispensable dans l’immédiat de prêter attention à un autre facteur, à l’influence du milieu dans le développement de l’enfant arriéré. C’est pourquoi il faut étudier la question de l’accumulation additionnelle de difficultés dans le cas de l’arriération mentale. » – (Vygotskij, 1931, in Barinsnikov et Petitpierre, op. cit., p. 142). Cette manière d’approcher le handicap et de se confronter aux possibles facteurs environnementaux d’influence à l’intérieur de contextes et de situations, a porté progressivement, dès nos jours, à l’idée de personne « en situation de handicap ». Aujourd’hui le handicap a cessé (progressivement et probablement définitivement) d’être conçu en tant que caractéristique individuelle, pour être finalement reconnus en tant que produit dynamique du concours, à un moment donné de l’histoire d’une personne et d’un environnement, des différents facteurs d’influence en jeu dans les situations et les contextes (cfr. Rioux, 1997 e Barral 2007).
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4. La situation de handicap et les handicap de situations: pour une pédagogie inclusive – « Les difficulté d’interprétation du développement de l’enfant arriéré viennent de ce que l’on considère l’arriération comme un état, et non comme un processus » – affirmait Vygotskij en 1931 (op. cit., p. 121).
L’idée de « situation de handicap » est une accommodation significative d’un modèle interprétatif du handicap qui a porté au développement et à la diffusion d’une nouvelle culture du handicap (cfr. : la Classification internationale du fonctionnement du handicap et de la santé: CIF/OMS, 2001 ; le Processus de production du handicap: PPH/Fougeyrollas, 2001).Cependant, en termes pédagogiques ce concept ne nous satisfait pas pleinement : – « Cette désignation sous-entend qu’il faille considérer la personne ayant une incapacité ou une déficience constamment dans une situation nécessairement handicapante. Or, dans la perspective éducative que nous adoptons, une situation doit par définition être considéré dynamique. (…) Une situation est composée de toutes les relations concrètes qui, à un instant
turel et des attentes de l’univers physique et sociale -passé et actuel- de la personne, vis-àvis de ses possibilités et des possibles facteurs d’influence sur son développement .
I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
donné, unissent un sujet ou un groupe au contexte dans lequel il doit vivre et réagir (Minaire, 1978). (…) Nous préférons donc, dans ce cadre, la notion de handicap de situation à celle de situation de handicap car elle fournit les ingrédients de l’interaction éducative. » – (Mainardi, 2010, p. 89).
Il y a, en effet, autant de possibilités de se trouver face à des handicaps de situation qu’il y a de situations. L’éducation doit prêter attention à la situation de handicap dans la mesure où elle s’occupe de « l’accumulation additionnelle de difficultés », c’est-à-dire, des différent facteurs d’influence responsables des handicap de situations qui, à un moment donné (à l’intérieur de contextes, de situations et de faits de la vie spécifiques) entravent la qualité de l’expérience souhaitée, par rapport à celle d’autrui, pour la personne avec des incapacités de développement.
L’attention accordée au phénomène d’accumulation additionnelle de difficultés (Mainardi, 2010, p.124) impose de: 1. caractériser davantage l’enfant avec des incapacités de développement et ce notamment en ce qui concerne les caractéristiques personnelles mises en jeu à l’intérieur des interactions avec son environnement; 2. bien décrire le(s) contexte(s) spécifique(s) avec le(s)quel(s) l’enfant interagit et qui détermine(ent) les situations afin de faciliter la définition et la mise en œuvre d’une intervention éducative spécialisée et inclusive : une intervention individualisée et singularisée par rapport à l’individu et au(x) contexte(s). Ce deuxième aspect renvoie à l’ensemble des variables du contexte (Mainardi et Lambert, 1984). Par rapport à une situation d’école, par exemple, cela équivaudrait à examiner le contexte de classe, y compris les caractéristiques du milieu, des variables de l’enseignant et de la pratique de l’enseignement. L’examen de ces facteurs peut conduire à l’identification de caractéristiques instigatrices du développement chez l’enseignant (Sontag,1996, p.338) 3. considérer la nature des perceptions à la base des interactions de l’enfant avec des incapacités de développement chez les personnes significatives qui constituent son entourage (les parents et les autres membres de la famille, les proches, les éducateurs,…). La perception des facteurs d’influence est un élément qualificatif du handicap de situation qui peut exercer des influences significatives à court, moyen ou long terme, sur l’une ou l’autre des occasions d’interaction et sur leur appréciation de la part du milieu (Lambert, 1991 et 2002 ; Lanners et al., 2003) 4. approcher les niches écologiques spécifiques à un individu et à un environnement en ayant à l’esprit qu’elles sont également tributaires du macro système particulier dans lequel elles sont inscrites. Un modèle analytique du handicap de situation qui a la prétention de visualiser l’ensemble des vecteurs en jeu à l’intérieur des situations et des contextes ne peut se passer de cette dimension au même titre qu’il ne peut pas faire l’impasse sur les autres plans d’incidence des contextes et de leurs interrelations sur ces mêmes situations. Ivic, à propos de l’œuvre initiée par Vygotskij, continuait en écrivant : – « L’analyse critique des institutions et des agents socioculturels, y compris une critique des institutions scolaires, pourrait contribuer à déterminer les conditions dans lesquelles les ‘outils et instruments’ socioculturels devien-
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nent les facteurs formateurs du développement » – (Ivic, op. cit.).
Ce type d’étude trouve une assise intéressante à l’intérieur de l’écologie du développement humain de Bronfenbrenner (1979 ; plus tard définie « bio-écologie du développement humain » in Bronfenbrenner et Ceci, 1994). Selon cette perspective, l’étude du développement est à concevoir en tant qu’étude de produit de systèmes environnementaux complexes et hiérarchiques . L’approche considère l’ensemble des possibles facteurs d’influence, personnels et environnementaux, qui, à un moment donné de l’histoire d’un sujet et de contextes déterminés, agissent de concours dans la détermination des qualités des situations. Ces différents facteurs dʼinfluence, au cours du temps, déterminent le présent et le développement dʼun sujet (cognitif, de compétences sociales et du tempérament). Pour Bronfenbrenner les interactions entre un sujet et son environnement son uniques et pour accentuer la singularité de chaque cadre spécifique il crée une notion qui bien illustre cette condition particulière. Il parle de « niche écologique » (Bronfenbrenner,1992).
5. L’étude des niches écologiques en pédagogie scolaire
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Lʼétude des niches écologiques chez les sujets avec des incapacités de développement ainsi que l’étude des facteurs instigateurs du développement chez le sujet et le cadre environnementale, sont, selon Sontag, les traits les plus dignes d’intérêt et plus riches en potentialité des études de Bronfenbrenner dans ce secteur (Sontag, 1996, p. 323). Pour cet auteur, les niches écologiques -« sont des régions spécifiques du milieu qui sont spécialement favorables ou défavorables au développement d’un individu avec des caractéristiques personnelles particulières » (Bronfenbrenner, 1992, p.194, cité in Sontag, op. cit., p. 323, notre traduction). À notre avis (Mainardi, 2010, p. 56) – Il s’agit d’une notion qui force à porter lʼattention sur un individu, avec ses caractéristiques dʼunicité et de singularité, qui interagit avec un contexte environnemental unique et singulier lui aussi. Ce constat est déterminant sur le plan de lʼopérationnalisation des concepts. Il demande à connaître lʼensemble des facteurs spécifiques en jeu dans lʼinteraction, d’essayer de comprendre, de l’intérieur, ceux qui influencent davantage le développement et parmi ceux-ci, les facteurs qui seraient susceptibles dʼêtre pris en considération à lʼintérieur dʼune relation éducative ou dʼaccompagnement» –.
Un complément significatif aux travaux de Bronfenbrenner est celui fourni par les travaux de Gibson et Normann. Par rapport à Bronfenbrenner qui sʼintéresse surtout aux caractéristiques des interactions sociales à lʼintérieur dʼun environnement, les deux auteurs se concentrent davantage sur lʼincidence des contextes physiques sur les comportements des personnes. Gibson (1979), à lʼintérieur de la psychologie de la perception, élabore le concept d’affordance qui, dans son acception la plus générale, concerne la qualité dʼun objet ou dʼun environnement dʼinviter un individu à produire une action. I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
L’affordance intéresse toutes les actions possibles (avec un objet ou dans un environnement), objectivement mesurables et indépendantes de la capacité dʼun individu de les reconnaître, mais en tout cas en relation avec cet individu et ses capacités. Une évolution du concept, celle qui justifie notre attention à lʼintérieur de ce cadre, est celle de « perceived affordance » (Normann, 1988), c’est-à-dire, la capacité dʼinviter à lʼaction en tant que fonction des possibilités dʼactions pouvant être perçues par un individu. L’affordance est, selon Normann, subjectivement ressentie/perçue et subjectivement recueillie. En dʼautres termes, cette propriété n’appartient ni à lʼobjet lui-même ni à la personne. Lʼaffordance se constitue entre ces deux entités, elle est pour ainsi dire une propriété distribuée, inscrite dans lʼobjet (ou le contexte) mais uniquement potentielle face à un individu. C’est une qualité dʼun objet ou dʼun contexte, mais elle nʼest effective que lorsque un individu peut percevoir cette invitation. Pour retourner au cœurs de notre intervention, l’apport de la défectologie moderne aux pédagogies, l’approche éducative de la situation de handicap doit s’accommoder de l’affirmation de Vygotskij selon laquelle – « Distinguer les signes primaires des signes secondaires a une énorme importance en pédagogie et est en liaison étroite avec les buts scolaires. En effet, à conditions égales, pour traiter l’arriération mentale, il est plus facile de supprimer, à l’aide de l’action pédagogique, les produits apparus plus tard, et qui sont moins liés à la cause de base du phénomène. Si vous avez réussi à prouver scientifiquement que le complexe de symptômes existant n’est pas de premier ordre, mais de second, troisième, quatrième ou cinquième ordre, etc. … vous avez montré que vous avez cerné le noyau modifiable par l’action pédagogique, à savoir ce qui peut, dans des conditions identiques, être éliminé d’autant plus facilement qu’il est éloigné de la cause primaire. » – Vygotskij, 1931, in Barisnikov et Petitpierre, 1994, p. 143.)
6. En deçà de la zone proximale de développement en éducation et en pédagogie scolaire: la formation de zones proximales
Le développement de l’intelligence de chacun est sous la primauté de l’apprentissage sociale et sous l’emprise des facteurs d’influence en jeu à l’intérieur des contextes et des situations où les groupes et les tuteurs, déclarés ou pas, évoluent. Les contextes et les situations, hier comme aujourd’hui, sont « à la fois le moule et l’expression » de la condition des personnes avec des incapacités de développement, de leur inclusion sociale et des nos attentions, culturelles, politiques, pédagogiques et scolaires. La pédagogie, au même temps spéciale et inclusive (Mainardi, 2010), doit considérer avec attention les apports des approches écologiques du développement individuel. Vygotskij, peu avant sa mort, affirme : – « le trait fondamental de l’ap-
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prentissage consiste en la formation d’une zone proximale de développement. L’apprentissage donne donc naissance, réveille et anime chez l’enfant (ndr. avec ou sans incapacités de développement) toute une série de processus de développement internes qui, à un moment donné, ne lui sont accessibles que dans le cadre de la communication avec l’adulte et de la collaboration avec les camarades, mais qui, une fois intériorisés, deviendront une conquête propre de l’enfant. (…) un moment constitutif essentiel du développement des caractéristiques humaines, non naturelles, acquises au cours du développement historique. » – (Vygotskij, 1934, in Schneuwly et Bronckart, 1985, p.112).
Dans ces paroles de Vygotskij il y a un grand potentiel concernant l’accessibilisation à priori des situations d’apprentissage et d’autres facteurs instigateurs du développement chez la personne avec des incapacités de développement, qu’il faut absolument (en tant que professionnels de l’éducation) prendre davantage en considération.
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La cuestión de las diferencias en educación: interpretaciones pedagógicas, filosóficas y literarias
Carlos Skliar /
It has become customary to talk about the differences as if they were essential attribute of certain subjects or certain peculiar identities. Educational scenarios that proclaim notions such as equality, inclusion and diversity assume a position of proximity / distance with respect to the unique experience of being in relationship between differences. His readings are crossed by strong components standardization and legal regulation. So: What reading can be present at the time of thinking the multiplicity of differences within Education? A philosophical and literary reading that allows, perhaps, go beyond faded images that confuse the differences with subjects thought of as different and, perhaps, reveal the complexity and randomness of actions and educational experiences.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key Words: Differences, Pedagogy, Philosophy, Literature.
abstract
Investigador del Área de Educación de la Facultad Latinoamericana de Ciencias Sociales, CONICET/FLACSO-Argentina / skliar@flacso.org.ar
I. Riflessione teorica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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Introducción
De acuerdo a su origen latino la palabra ‘diferencia’ – differentia,ae, dissimilit, distinctus – sugiere, al mismo tiempo: separación, disimilitud, desemejanza, distancia, distinción, distinto, discrepancia. Hay en los escenarios educativos una indecisión o una confusión que se origina en el instante en que las diferencias se hacen presentes y son nombradas. Ocurre que en el acto mismo de enunciar la diferencia sobreviene una derivación hacia otra pronunciación totalmente diferente: los ´diferentes’, haciendo alusión a todos aquellos que no pueden ser vistos, ni pensados, ni sentidos, ni al fin educados, en virtud de esa curiosa y repetida percepción de lo homogéneo – homogeneidad de lenguas, de aprendizajes, de cuerpos, de comportamientos y, así, hasta el infinito –. En síntesis: parece ser que lo que existe al interior de la palabra diferencia es un conjunto siempre indeterminado, siempre impreciso, de sujetos definidos como diferentes. Puede que sea necesaria la pregunta: ¿qué es la diferencia?, pero a poco que entramos en ella, aparece una doble encrucijada: o bien son los diferentes o, bien se trata de una cuestión de identidad. Veiga-Neto da a entender que cualquier pregunta directa sobre la diferencia es mucho menos interesante de lo que aparenta ser:
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En primer lugar, una pregunta como “¿cuál es la diferencia?” remite a la vieja pregunta “¿qué es eso?”, revelando así el encantamiento en que nos dejamos aprisionar por el propio lenguaje con que lidiamos y contestamos preguntas. En segundo lugar, por ser radicalmente contingentes, las formas de vida no se repiten y están cambiando constantemente, de modo que tal vez lo máximo que se pueda decir sea simplemente: la diferencia es el nombre que damos a la relación entre dos o más entidades – cosas, fenómenos, conceptos, etc. – en un mundo cuya disposición es radicalmente anisotrópica. De este modo, la diferencia está ahí (Veiga-Neto, 2009, p. 122).
La diferencia está ahí: entre, no ‘en’ – en una cosa, en un fenónemo, en un concepto, en un sujeto particular –. La traducción que traiciona el sentido relacional de la diferencia a un sujeto definido como diferente puede ser llamada de diferencialismo. La descripción que se hace del sujeto diferente jamás coincide con nadie, no hay allí transparencia, sino prejuicio: los diferentes serían los incapaces a capacitar, los incompletos a completar, los carentes a dotar, los salvajes a civilizar, los excluidos a incluir, etc. La imagen del diferencialismo se vuelve, así, bien nítida: no es otra cosa que un dedo que apunta directamente a lo que cree que falta, a lo que entiende como ausencia, a lo que supone como desvío, a lo que se configura como anormal. ¿Cómo pensar la diferencia evitando su deslizamiento hacia los sujetos diferentes y sin caer en la trampa que nos tiende el diferencialismo?
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1. La lectura pedagógica de las diferencias
Como se mencionara anteriormente el origen latino de la palabra diferencia indica una cualidad o un accidente por el cual algo se distingue de otra cosa. Expresa variedad entre cosas de una misma especie. Sugiere una controversia, disensión u oposición de dos o más personas entre sí. Aplicado a la danza y a la música sugiere una diversa modulación, o un movimiento, que se hace en el instrumento, o con el cuerpo, bajo un mismo compás. En su acepción matemática significa resto, el resultado de la operación de restar. ¿Y en educación: cual es el sentido que ha asumido o del que se ha apropiado la diferencia? La respuesta es taxativa, casi sin matices: la diferencia se ha vuelto diversidad. Los significados latinos de la palabra diverso, diversidad, son sorprendentes para la buena conciencia del léxico – técnica, jurídica, económica y moralmente – actualmente en vigencia: diverso proviene de ‘opuesto’, ‘enemigo’, ‘alejado’. Opuesto al ‘nosotros’, es decir: enemigo de la idea de igualdad y de normalidad; aquello que está alejado del sendero por el que todos transitamos. Nuestro deber educativo – político, cultural –: reconducir a los alejados al sendero correcto, hacerlos transitar por el mismo camino que pisamos a diario. Hay aquí una alteración de sentidos provocado por el pasaje de la diferencia a la diversidad, lo que nos plantea cuatro interrogantes: 1. ¿En qué sentido es posible afirmar que la diversidad configura por sí misma y en sí misma un discurso más o menos completo, más o menos esclarecedor y más o menos revelador acerca del otro, de la alteridad? O dicho de otro modo: ¿diversidad está, acaso, en el lugar de alteridad?; 2. ¿Qué sugiere esa identificación recurrente que se efectúa entre diversidad y pobreza, desigualdad, marginación, sexualidades, extranjería, generaciones, razas, clases sociales, y, un poco más recientemente, su notorio apego a la discapacidad?; 3. ¿Qué grado de sinonimia o antinomia puede pensarse entre la diversidad con la diferencia? 4. Y, por último: ¿En qué medida el anuncio y el enunciado de diversidad ofrece una perspectiva de cambio pedagógico? Da la sensación que hablar de la diversidad se ha convertido en una suerte de recitado que apunta insistentemente hacia ‘otros extraños’, en tanto mero ejercicio descriptivo de una determinada exterioridad compulsiva: así, ‘ellos’ son los diversos, ‘ellos’ poseen atributos que hay que remarcar y denotar como ‘diversidad’. Si la palabra diversidad no contribuye a borrar de una vez esa violenta frontera que separa el ‘nosotros’ del ‘ellos’, estaría yendo entonces en la dirección opuesta, esto es, haciendo de la diversidad un extraño y peligroso exceso de alteridad, de una ‘alteridad fuera de la alteridad’ o bien: de una ‘alteridad todavía más allá de la alteridad’. ¿Qué otra cosa podremos decir de la diversidad si no que, en efecto, ‘hay diversidad’? ¿Qué más hay aparte del dato descriptivo, un golpe de ojos, la memoria presente y evidente que sabe todo el tiempo de las enormes y continuas variaciones humanas que habitamos y nos habitan? ¿Qué mas suponer más allá y más acá de la evidencia que todo escenario humano muestra su diversidad? Tal vez fue Lefevbre, en su Manifiesto diferencialista, uno de los primeros en percibir la necesidad de marcar enfáticamente la distinción entre diversidad y diferencia: anno I | n. 2 | 2013
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¿Y la diversidad? No va más allá de una verificación. No capta el paso de la originalidad que pretende ser sustancial y que se cree esencial a la diferencia, a través de las pruebas que esperan todo aquello que proviene de la naturaleza. La palabra ‘diversidad’ se acomoda a cualquier cosa: guijarros, minerales, niños, flores, vestidos, mujeres. Permite describir, prohíbe la operación metafísica a través de la cual los árboles diversos se identifican a la idea de árbol, los diversos frutos a la idea de fruto, etc., pero su competencia no va más allí (Lefebvre, 1972, p. 45).
La opción que consiste en sostener la idea de diversidad es menos atractiva, más publicable pero mucho más decepcionante: la fabricación, la invención de una hipotética e imposible lista que ejemplifique y tipifique la diversidad en todas sus versiones y variaciones. En ese caso habrá siempre seis, siete u ocho ejemplos para dar: diversidad de raza, sexo, generación, edad, género, religión, aprendizaje, lenguas, y enseguida, como un bostezo, como una exhalación desanimada y extenuada, ese profundo, solitario y salvador etcétera que ya no puede ni sabe cómo seguir enumerando la diversidad. Tal vez el etcétera sea el límite último de la diversidad y a partir de allí comience la alteridad incognoscible, la alteridad per se, el nacimiento de ese otro que, como decía Lévinas, se retira en su misterio, con su misterio:
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Lo absolutamente Otro, es el Otro. No se enumera conmigo. La colectividad en la que digo ‘tú’ o ‘nosotros’ no es un plural de ‘yo’. Yo, tú, no son aquí individuos de un concepto común. Ni la posesión, ni la unidad del número, ni la unidad del concepto, me incorporan al Otro. Ausencia de patria común que hace del Otro el extranjero; el extranjero que perturba el ‘en nuestra casa’. Pero extranjero quiere decir también libre. Sobre él no puedo poder (Lévinas, 1977, p. 17).
En el transcurso de dos años escolares (2007-2009) hemos realizado una conversación grupal con maestras y maestros de la Ciudad de Buenos Aires, pertenecientes a los tres tipos de institución existentes en el sistema educativo: escuelas especiales, escuelas de recuperación y escuelas regulares. Las conversaciones tomaron lugar cada quince días, fueron filmadas y el material de cada encuentro fue puesto en común para una siguiente conversación. Si lo que proponíamos era poner en cuestión las diferencias y conversar sobre ello, el problema rápidamente giró hacia la cuestión de la inclusión y la convivencia escolar, como si algo de las diferencias configurase por sí mismo una dimensión de exclusión y de dificultad para construir vínculos. Las preguntas iniciales que animaron el contenido de las conversaciones en los primeros encuentros fueron: ¿qué recorridos, qué caminos, qué trayectorias, qué relatos les son dados a pensar en relación a la educación inclusiva y la convivencia educativa? ¿Cuáles textos, cuál literatura, cuáles materiales se configuran como específicos y les están disponibles? ¿Qué relación se hace o se procura hacer con respecto a la necesidad de cambios educativos: reformas, tradiciones, paradigmas, transformación de sí mismo, transformación de los otros? ¿Qué decisiones y cuáles responsabilidades se ponen en juego? Estas preguntas fueron cambiando su fisonomía y comenzaron a surgir, enseguida, otras bien diferentes. Por ejemplo: ¿La necesidad de pensar la inclusión I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
proviene desde fuera, desde el exterior, desde una configuración disciplinar alejada, que quiere transformarse insistentemente en una novedad? ¿No habría que decir, acaso, que ese acercamiento, esa cercanía a la inclusión educativa y a la convivencia habla por sí misma de una proximidad determinada por la escena educativa en sí? ¿No es en esa escena, justamente, donde se producen los encuentros y los desencuentros, los conflictos y las pasiones, las incógnitas, la afectividad y la desidia, el cuidado y la falta de cuidado al otro? ¿No es allí mismo donde se percibe la singularidad, la alteridad, la diferencia, la diversidad y la multiplicidad de los aprendizajes, la necesidad de una relación determinada por el “entre nosotros”, la hospitalidad y la hostilidad, el lugar mismo donde ocurre eso que llamamos de “saber” y de “experiencia” educativa? ¿Hace falta el apartado inclusivo, la temática y las palabras inclusión y convivencia, una formación específicamente inclusiva, un lenguaje inclusivo, un currículum inclusivo para la diversidad? ¿Cómo se incluye la – noción, idea, experiencia, tema, definición, presentación, discusión, intención, materialidad, política, práctica – de la inclusión y la convivencia en educación? Aquello que nos interesa retratar aquí se concentra exactamente en estas transformaciones de las preguntas iniciales en otras por completo diferentes, que denotan una discusión interesante, que sintetizamos en tres cuestiones principales: a) el problema acerca del origen de la idea de inclusión y la convivencia – pura exterioridad y/o pura interioridad – ; b) el carácter “escenográfico” con que los educadores miran sus experiencias educativas y, sobre todo; c) la transformación de una pregunta formulada como ¿qué pasa con la inclusión -la convivencia, la diferencia, etcétera-?, hacia otra bien distinta: ¿qué nos pasa con la inclusión -con la convivencia, la diferencia, etcétera-? Ese cambio de acento es, sin dudas, un cambio de posición en la conversación, pues no remite ni se interesa demasiado con una categoría, con un concepto, con una definición, un axioma; más bien busca y quiere saber algo acerca de nuestra experiencia y nuestra relación con todo ello, pretende escuchar la intimidad y la interioridad, saber a qué nos resuena, qué ecos nos provoca. En el transcurso de nuestras conversaciones con los educadores, la idea de inclusión fue moviéndose desde una fórmula plagada de condiciones -por lo general atribuidas a ciertas características de las regulaciones legales, de los alumnos y de sus familias- hacia una noción emparentada con la atención, la disponibilidad, la receptividad, en fin, la hospitalidad. Este cambio de percepción es trascendente, no sólo porque remite a una ética singular e institucional -que consiste en el hospedar a todo otro, a cualquier otro, a otro cualquiera-, sino además porque involucra una responsabilidad, una respuesta, y no simplemente el establecimiento de una virtud personal o la existencia de una práctica pedagógica mecanicista o de una fórmula apenas jurídica; en síntesis: responsabilidad u obligación para con el Prójimo que no viene de la Ley, sino que ésta vendría de ellas en lo que la hace irreductible a cualesquiera formas de legalidad mediante las que necesariamente se busca regularizarla proclamándola enteramente como la excepción o lo extraordinario que no se enuncia en ningún lenguaje ya formulado (Blanchot, 1999, p. 104).
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2. La lectura literaria de las diferencias
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Diferencia es una palabra que ya venimos pronunciando desde hace tiempo, antes, mucho antes, que se transformara en una palabra-objeto, en una palabra-política, en una palabra-pedagógica, en una palabra-cultural, en una palabra-sin nadie-dentro y sin nadie-del-otro-lado. Pronunciamos esa palabra a partir de algunos indicios filosóficos a partir de los cuales nos fue posible entender la diferencia más allá y más acá de sus vaivenes pedagógicos. “El hombre es un animal que juzga”, decía Nietzsche (1976, p. 173). Y la traición a la diferencia resume toda la cobardía de los hombres, toda su incapacidad por estar en el mundo entre otros, toda esa ignorancia resumida en el arrojar un nombre y esconder la lengua. “Yo lo conozco, dijo él orgulloso antes de empezar con su difamación”, escribe Elías Canetti (2005, p. 98). Y ese es el orgullo mayúsculo de los especialistas: conocer y difamar; atribuir esencias y escaparse a los reductos conceptuales de lo mismo; distanciarse hasta volverse indiferentes. Son los que se enojan toda el tiempo con la alteridad del otro y medicalizan, separan y juntan a voluntad, encierran por dentro y por fuera: “Todo hombre que ha decidido que otro es un imbécil o una mala persona se enfada cuando el otro demuestra que no lo es”, dice Nietzsche (2001, p. 37). Suponer diferencia en unos pero no en otros resulta de un largo ejercicio de violencia. Usar el lenguaje para atrapar, para enclaustrar, para agraviar, para denostar, para empequeñecer, desvirtúa al lenguaje pero, sobre todo, a la relación, a la vida. Como ya fue dicho, la diferencia no es un sujeto sino una relación. Cuando la diferencia se vuelve sujeto hay allí una acusación falsa y sin testigos, plagada de discursos autorizados, renovados, siempre actuales, siempre vigilantes y tensos, que acusan al otro por ser lo que no debería ser. Ahora bien: ¿cómo sería posible una lectura literaria que abriera las compuertas a otros sentidos de la diferencia, una lectura no conceptual, no utilitaria, no evaluable ni olvidable inmediatamente después de ser leída? En el contexto de un seminario de posgrado2 hemos considerado la posibilidad de pensar estas cuestiones bajo la siguiente pregunta: ¿Habrá un lenguaje que posibilite nombrar y pensar en lo borroso, lo violento, lo perturbador, lo cegador, lo trágico, lo incierto, lo injusto, lo ambiguo, lo indefinible, lo misterioso, etcétera, más allá de las habituales definiciones sociológicas, antropológicas y pedagógicas? Al lado de la bibliografía oficial añadimos, mezclada, confundida con ella, otro material compuesto por tres novelas del escritor sudafricano J.M. Coetzee -La edad de hierro (edición española de 2002), Vida y época de Michael K (ibídem, 2006) y Esperando a los bárbaros (ibídem, 2003). ¿Qué nos enseñan -es decir: qué muestran, qué sentidos ofrecen- estas novelas para aquello que venimos discutiendo aquí? En La edad de hierro una anciana –profesora de filosofía, ya jubilada, que vive sola y enferma a la espera de la visita de una hija- ve desde su ventana la 2
Hago referencia aquí al Seminario de posgrado “Políticas Culturales” dictado al interior de la Maestría en Comunicación y Cultura, de la Facultad de Ciencias Sociales, Universidad de Buenos Aires, durante el período 2006-2012.
I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
llegada amenazante de un vagabundo; su deseo inmediato es el de quitárselo de la vista, una primitiva necesidad que la hace llamar a las autoridades para que “hagan algo con él”. O, un poco más tarde –cuando percibe que es imposible hacer desaparecer de su mirada al vagabundo- la intención por aproximarse, ofreciéndole trabajos inútiles, casi esclavos. Incluirlo para apaciguar su propio temor por lo desconocido, sentirse en el derecho de opinar sobre la vida del otro: El olor más desagradable viene de sus zapatos y sus pies. Necesita calcetines. Necesita zapatos nuevos. Necesita darse un baño. Necesita un baño diario. Necesita ropa interior limpia. Necesita una cama, necesita un techo sobre su cabeza, necesita tres comidas al día, necesita dinero en el banco. Demasiado que dar (Coetzee, 2002, p. 47).
Aquí, en estas páginas, ese llamar a las cosas por su nombre nada tiene que ver con la exclusión o con la inclusión: se trata de una necesidad por conversar, de usar las palabras para poder estar juntos. Pero no de cualquier manera: no hay un único modo de estar juntos, estar juntos no significa estar a gusto ¿a quién se le ocurriría semejante idea? En el encuentro subrepticio entre la anciana y el vagabundo, es el vagabundo el que siempre lleva las de perder, porque es el diferente: el diferente para una mirada fija y obsesiva, para una mirada adormecida. Si lo vemos de lejos el vagabundo es una amenaza, un peligro, una alteridad para expulsar de nuestra atmósfera de supuesta tranquilidad. Si lo vemos de cerca, lo único que deseamos es que sea uno de los nuestros, un semejante. Allí no hay relación. Pero si conversamos, si entramos en una relación que no tenga el ánimo de hacer del otro una amenaza primitiva o un insulso semejante, quizá la diferencia valga la pena, quizá la diferencia sea lo que mejor narre lo humano. Y para eso tenemos que tener tiempo. No formas de nombrar: tiempo. No mejores o peores etiquetas: tiempo. Porque cuando no hay tiempo, hay norma. Cuando no hay tiempo, juzgamos. Cuando no hay tiempo, la palabra es la proclamación del exilio del otro, su indigno confinamiento: Lo cierto es que, si tuviéramos tiempo para hablar, todos nos declararíamos excepciones. Porque todos somos casos especiales. Todos merecemos el beneficio de la duda. Pero, a veces, no hay tiempo para escuchar con tanta atención, para tantas excepciones, para tanta compasión. No hay tiempo, así que nos dejamos guiar por la norma. Y es una lástima enorme, la más grande de todas (Coetzee, 2002, p. 94)
Si no hay tiempo, dijimos, no hay conversación, no hay existencia, no hay presente, no hay relación, no hay diferencia. Lo contrario de la conversación, de la existencia, del presente, de la relación, de la diferencia: la falta de tiempo, es decir, la tiranía de la normalidad, la condena de lo normal. Como lo expresa de un modo único Philippe Claudel en su novela Almas grises: (...) Pero me decía que había tiempo. Ésa es la gran estupidez del ser humano, decirse siempre que hay tiempo, que podrá hacer esto o lo otro mañana, dentro de tres días, el año que viene, dos horas más tarde... Y luego todo se muere, y nos vemos siguiendo ataúdes, lo que no facilita la conversación (Claudel, 2008, p. 37).
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Decir la diferencia, sí. Escuchar la diferencia. Tener tiempo. El mundo es una inmensa circunferencia agujereada por las excepciones. Y hay demasiadas palabras para ocultar su derrame, las aguas que no se embalsan, los sonidos disfónicos, el caminar rengo, las espaldas vencidas, el aprendizaje curvo, la memoria azarosa, el cuerpo desatento, los oídos mudos, los ojos que miran en una dirección que no conocemos. Igualdad, equidad, diversidad, anormalidad, discapacidad, necesidad, deficiencia, diferencia, desatención, retraso, inmadurez, autismo. El hartazgo del lenguaje que humilla, del lenguaje hipócrita. Quizá se trate del mismo hartazgo que siente y padece, página a página, Michel k, aquel personaje de labio leporino de Coetzee. Lo primero que advirtió la comadrona en Michael k cuando lo ayudó a salir del vientre de su madre y entrar en el mundo fue su labio leporino. El labio se enroscaba como un caracol, la aleta izquierda de la nariz estaba entreabierta. Le ocultó el niño a la madre durante un instante, abrió la boca diminuta con la punta de los dedos, y dio gracias al ver el paladar completo. A la madre le dijo: -Debería alegrarse, traen suerte al hogar (Coetzee, 2006, p. 9).
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En Vida y época de Michael K. el escritor sudafricano Coetzee hace atravesar a Michael –a quien marca física y mentalmente como un ser distinto- por toda una Sudáfrica en guerras, cuya única voluntad es la de esparcir las cenizas de su madre para, enseguida, realizar su viaje de inadvertencias, de ansiado anonimato. Michael k se esconde una y mil veces y no logra cumplir con su deseo de no ser perturbado; él preferiría no conversar con nadie, pero es interrumpido por infinitas preguntas, infinitas inquisiciones. Prefiere la soledad, pero siempre hay alguien más que le dirá qué hacer y qué no hacer, cómo ser y cómo no ser. Se trata, entonces, una metáfora sobre la imposibilidad del quitarse, del preferir no estar y no poderlo, una pesadilla interminable donde nadie parece querer dejarlo en paz. Michael se vuelve un don nadie que está perseguido por incógnitas que otros no pueden soportar para sí; es un ser sin nombre al que nadie dejará de nombrar insistentemente: Quiero conocer tu historia –escribirá el médico de un internado-. Quiero saber por qué precisamente tú te has visto envuelto en la guerra, una guerra en la que no tienes sitio. No eres un soldado, Michael, eres una figura cómica, un payaso, un monigote (…) No podemos hacer nada aquí para reeducarte (…) ¿Y para qué te vamos a reeducar? ¿Para trenzar cestas? ¿Para cortar césped? Eres un insecto palo (…) ¿Por qué abandonaste los matorrales, Michael? Ese era tu sitio. Deberías haberte quedado toda la vida colgado de un arbusto insignificante, en un rincón tranquilo de un jardín oscuro (Coetzee, 2006, pp. 155-156).
El desprecio por Michael k es evidente. Como si el ser diferente fuera sinónimo de sobra, de desperdicio. Como si el diferente no pudiera vivir entre los hombres y debiera quitarse de la vista del mundo. Como si fuera imposible enseñarle algo al diferente. Diferente que ya es considerado como ser-muerto y, a la vez, una presencia insoportable que nos hace testigos involuntarios de otros I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
modos de lenguaje, de comportamiento, de aprendizaje, de vida. Y será el mismo médico del internado quien, al fin, logre describir éticamente a Michael k. Una manera de hacer justicia con aquel que no pretende transformarse en otro diferente al que es, que no desea ni ser mejor ni peor: Soy el único que ve en ti el alma singular que eres (…) Te veo como un alma humana imposible de clasificar, un alma que ha tenido la bendición de no ser contaminada por doctrinas ni por la historia, un alma que nueve las alas en ese sarcófago rígido (…) Eres el último de tu especie, un resto de épocas pasadas (ibídem, p. 158).
Si en La edad de hierro se nos enseña sobre todo la existencia de un relación directa entre tiempo y norma y la disolución de la idea de que las relaciones sólo pueden plantearse bajo el binomio de la exclusión-inclusión; si en Vida y época de Michael K lo que surge, entre otras cosas, es la incapacidad nuestra por percibir la singularidad de otro y someterlo siempre al control y la vigilancia, en Esperando a los bárbaros surge la posibilidad de pensar la diferencia entre el lenguaje de la conversación entre diferencias y el lenguaje jurídico que pretende, hoy, regular todo contacto, todo vínculo de alteridad. En la novela, un juez, ya casi anciano y algo cansado, reside en el juzgado de una pequeña ciudad. Más allá de los muros del poblado, un largo desierto donde se dice que habitan los bárbaros. Todo allí está organizado en función de esa amenaza: las casas con rejas, la cárcel del juzgado preparada para futuras y ciertas reclusiones, polícias entrenados para resistir la invasión y un creciente militarismo en ciernes. Los bárbaros no han sido vistos jamás, pero se cuenta de ellos, se habla de su peligro, de su amenaza. El mito de la existencia de los bárbados ha pasado de generación en generación y el miedo es aquello que hace respirar a la ciudad. La idea de la presencia de los bárbaros impide, por un lado, una vida normal. Pero por otro lado habilita la materialidad de toda una serie de instituciones de estado. ¿Existirán los bárbaros, de verdad? La novela de John Maxwell Coetzee deja abierta la sospecha. Quizá no existan y nunca existieron. Pero ya el mito, la ficción y, sobre todo la ley, se han convertido en pura cotidianeidad. Y habrá que sostener el relato desde las instituciones hasta las últimas consecuencias. Lo cierto es que la novela no trata sobre los bárbaros, sino sobre aquellos que esperan a los bárbaros, lo que es muy diferente. La verdad no es sobre los bárbaros, sino sobre el creciente dolor de la existencia durante la inmensa espera del supuesto enemigo, como lo dice el personaje del juez: “El dolor es la verdad, todo lo demás está sujeto a duda” (Coetzee, 2007, p. 15). Habría que pensar si es posible evitar o eludir esa obsesión tan actual por la supremacía del lenguaje jurídico y su progresivo refinamiento; ese lenguaje que está ahí, justamente para legislar el orden de las relaciones de convivencia, de alteridad y de diferencia con tal fuerza de ley, que ya parecería no existir otra relación posible que la de uno consigo mismo o, en el mejor de los casos, de uno con otros demasiados próximos, fatalmente parecidos, sospechosamente vueltos semejantes. resulta al menos curiosa la imagen que se ha establecido acerca de la convivencia entre diferencias, sobre todo en ciertos ámbitos plagados de jergoceo juanno I | n. 2 | 2013
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rídico, como aquella que debe acatar sin más ciertas reglas –no siempre formuladas o apenas sí entredichas- que instalan de una vez la idea de una supuesta empatía, calma y no-conflictividad. La insistencia de la razón jurídica, aún en su parco pero comprensible utilitarismo y por su intención de traducir algunos fragmentos de la vastedad de las relaciones de convivencia, no puede ser sino una desembocadura estrecha donde se prende y aprehende el movimiento inasible de lo humano; movimiento que, entonces, comienza a aquietarse, a estancarse. Lo político de la convivencia queda, como dice Jean-Luc Nancy, irremediablemente partido en dos: “(…) Por un lado la abstracción formal del derecho que (…) ‘da derecho’ (…) a toda particularidad y toda relación” (Nancy, 2006, p. 63). En efecto, da la sensación que ese derecho no tiene derecho a otra cosa, no puede pretender otro sentido, a no ser, claro está: (…) que el derecho mismo trate de erigirse como origen o fundamento, bajo los casos de una Ley absoluta” (Ibídem). Si la razón jurídica se configura con antelación y en anteposición a los lenguajes de la convivencia, su vitalidad quedaría subordinada y sepultada a unas pocas fórmulas atiborradas de prescripciones, excepciones y obligaciones. Sin embargo, el saber experiencial de la relación parece decir otra cosa bien diferente: que su contingencia original está cimentada en la vulnerabilidad, el conflicto, la fragilidad, el desencuentro, la perturbación, la alteración, la interrupción, lo finito, la hospitalidad, lo intocable, la hostilidad, lo otro, su misterio, la irreductibilidad. De esa tensión entre razón jurídica y saber relacional, pareciera ser que la norma defiende su norma en el mismo momento en que pretende iniciar su mandato y todo parece ocurrir como si alguien, antes de afectar o de sentirse afectado por un otro, deba hacerse la pregunta obligada acerca del derecho por sentirse de ese modo y justificar, con primordial anticipación, si con ello no se lesiona, no se hiere o si se violenta algún principio (jurídico) de la individualidad. La eficacia de la razón jurídica alcanza, así, su mayor plenitud y su más ansiado anhelo: en la pregunta por el derecho y en las obligaciones de la convivencia está la diseminación misma de la norma; la aplicación de una norma que, como dice Giorgio Agamben: “No está en modo alguno contenida en ella, ni tampoco puede ser deducida de ella, porque de haber sido así, no habría sido necesario crear todo el imponente edificio del derecho procesal” (Agamben, 2005, p. 83).
3. Conclusiones
Me desviaré por un momento de los argumentos pedagógicos, filosóficos o literarios, para volver a pensar la cuestión de la diferencia como relación. Durante el año 1945 casi 750.000 personas con discapacidad habían sido aniquiladas por el régimen nazi. Me estremezco imaginando detalles de esa solución final. Y no puedo quitar mis ojos de una fotografía de aquella época. En ella, al interior de un blanco-negro casi sepulcral, se pueden ver cinco prisioneros de Auschwitz. Podrían ser cualquiera. Pero no lo son, nadie lo es. ¿Cómo hacemos para volver legible las cifras espantosas de muertes que hoy conocemos? Esas cinco personas, cinco prisioneros con discapacidad, están con el cuerpo inclinado, desvencijado, aturdido. Miran y no miran a la cámara que los retratará. Con sus pijamas
I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
rayados toman una pose desconcertada, inquieta, desesperada. Uno de ellos es sostenido por otros dos que están a su lado. Sus rostros son los de la descompostura. ¿Cuánto tiempo faltará para que sean asesinados? ¿Por cuáles sucios experimentos habrían pasado? ¿Qué nombres tenían, de dónde eran, qué vida habrían llevado hasta aquí? ¿De qué se les acusaba? Pregunto: ¿qué viene después de la aniquilación, qué hay después de identificar un cierto tipo de cuerpos que enseguida, más tarde o más temprano, serán condenados a distintas muertes –la muerte común, la muerte del experimento, la muerte del exterminio, la muerte de la disgregación, la muerte del exilio-? ¿Cómo sería posible plantearse acaso una reconciliación con lo humano? De siglos de deshecho, de siglos de encierro, de siglos de separación y de siglos de exposición burlesca provienen las personas con las cuales hoy se quisiera la conciliación. Si no estamos presentes ninguna percepción ni ninguna relación de y entre diferencias se pueden hacer posibles. ¿Pero qué significa estar presentes sino estar atentos, escuchar abiertos a la conversación, pero también estar tensos, algo desnudos e intolerantes con eso que nos pasa en el presente? Estar presentes podría significar que nuestra presencia –es decir: nuestro cuerpo- siente, padece; que esa presencia no puede postergarse ni hacia atrás ni hacia delante: se trata de un aquí y un ahora que podría ser ancho y largo pero que no puede ser ni antes ni después; que estar presente supone la debilidad o la fragilidad de un “yo” centrado en sí mismo, egoísta, encerrado; que la presencia es presencia plural, presencia entre varios, entre muchos, entre cualquiera, entre desconocidos; que, también, otra presencia entra en la nuestra, a veces hace nido, otras veces atropella, otras tantas pasa desapercibida y otras se vuelve, casi por azar, presencia esencial. Estar entre diferencias es, siguiendo una metáfora, estar entre desconocidos. Decía Elías Canetti (1980, p. 173): “Lo más importante es hablar con desconocidos. Pero hay que ingeniárselas para que ellos hablen, y el papel de uno es hacerles hablar. Cuando esto resulta imposible, ha empezado la muerte”. Los desconocidos encarnan una verdad posible, aparente, sencilla, que está quizá en la punta de nuestra lengua. Lo contrario de aquellos que nos imponen su voz, la sobreponen a toda costa, exponen su punto de vista como si se tratara en efecto del mundo en sí mismo, nos retuercen con su estridencia, con ese barullo y tumulto de palabras que de tanto sonar ya no suenan ni resuenan. Los nombres que atribuimos a otros nunca se dirigen a los otros. Los damos, pero no se los damos. No los ofrecemos: los instalamos. Son nombres que nombran a los demás pero que no los llaman. No los convocan a venir, sino a quedarse quietos. Ninguna definición ha cambiado radicalmente una relación. Son nombres para usar entre pares y para volver a separar, una y otra vez, a los supuestos impares.
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Referencias bibliográficas
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I. Riflessione teorica (a. incontro con la storia; b. questioni epistemologiche)
Cyber-bullismo e cyber-vittimizzazione in Italia: aspetti epidemiologici ed evolutivi
Keywords: Cyber bullying, Bullying, Aggressiveness, Conduct disorder, Cyberspace
Š Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Cyber-bullying is the use of the information and communication technologies to harm or harass other people, in a deliberate and repeated manner. However, investigators have yet to reach a consensus on how to define this problem: so, it is not surprising that rates of cyber bullying show considerable variability. In secondary school the prevalence ranges from 10% to 20%. The purpose of the present study is to investigate the prevalence of bullying, cyber-bullying and victimization among boys and girls and by age in Italy. Cross-sectional self-report surveys including items on cyber-victimization were obtained from representative samples of 11-14 year students (N = 2079). The present study found that 6% of student was victimized in virtual worlds; also, high correlations were found between physical and virtual aggressive behavior.
abstract
Daniele Fedeli / UniversitĂ degli Studi di Udine / daniele.fedeli@uniud.it
II. Revisione sistematica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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1. Definizione e caratteristiche del cyberbullismo
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Nel corso degli ultimi dieci anni, prima nei paesi anglofoni e poi anche in altri paesi europei tra cui l’Italia, il fenomeno del bullismo si è rapidamente e drammaticamente diffuso dagli ambienti fisici (scuola, palestra, ecc.) al cyberspazio ed ai mondi virtuali: online communities, chatrooms, ecc. (Shariff, 2004; 2008; Thomas, 2006). Talvolta, la velocità di comparsa di questo fenomeno ha indotto ad assumere come schema di riferimento interpretativo i modelli ed i piani d’azione sviluppati negli ultimi trent’anni per il bullismo in presenza. Tuttavia, un’operazione di questo tipo non sembra giustificabile a livello concettuale, trattandosi di due fenomeni solo parzialmente sovrapponibili sul piano strutturale e relazionale: ad esempio, il cyber bullismo trascende tutti i vincoli spazio-temporali propri del bullismo in presenza (Erdur-Baker, 2009; Patchin, Hinduja, 2006), in quanto non è più necessaria né la contiguità spaziale (rappresentata dal fatto che bullo e vittima si trovano nello stesso ambiente fisico) né la simultaneità temporale. In questo modo, allora, i luoghi pericolosi diventano pressoché infiniti, al pari degli ambienti virtuali che può frequentare un adolescente, rendendo complessa la prevenzione del fenomeno e la protezione dei soggetti a rischio di vittimizzazione (Huesmann, 2007). “Il cyberbullismo consiste nell’utilizzo intenzionale, sistematico, pianificato e competente degli aspetti tecnici e/o delle dimensioni sociali della rete per procurare un danno ad uno o più soggetti, che non attuano efficaci strategie di contrasto” (Fedeli, 2011, p.40). La definizione evidenzia le due fondamentali componenti in cui si sostanzia il bullismo elettronico: da un lato, l’infrastruttura tecnologia dell’ambiente online, in quanto il bullo può sfruttare le potenzialità tecniche di uno strumento o di un ambiente virtuale per molestare e intimidire la vittima; dall’altro lato, la comunità sociale dell’ambiente virtuale, tramite la manipolazione dei rapporti all’interno di una online community in modo tale da denigrare l’immagine sociale della vittima. In maniera estremamente schematica, possiamo elencare le principali forme di cyber bullismo (Fedeli, 2011): 1) diffamazione online, 2) harassment e cyberstalking, 3) ostracismo sociale, 4) diffusione di informazioni personali (outing), 5) furto d’identità (masquerade), 6) photoshopping, videoposting ed happy-slapping. Ma quali sono gli elementi di somiglianza e di differenza rispetto al corrispettivo in presenza, ossia al bullismo ‘faccia a faccia’ (F2F)? Possiamo rappresentare schematicamente gli elementi nella tabella seguente:
II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
TAB.1. CYBER BULLISMO E BULLISMO: UN CONFRONTO Bullismo tradizionale
Cyber bullismo
Ripetitività dell’atto aggressivo compiuto dal bullo.
Ripetitività della possibilità di umiliazione sperimentata dalla vittima.
Differenza di potere
Fondata sul diverso potere sociale tra bullo e vittima.
Fondata sulla capacità del bullo di mascherare la propria identità.
Fenomeno di gruppo
Gruppo di complici stabile e strutturato.
Formazione spesso spontanea di gang online intorno all’atto aggressivo.
Mancata autodifesa
Imputabile alla paura di ritorsioni sociali.
Imputabile alla centralità della rete nella formazione dell’identità individuale.
Presenza di osservatori
Limitata dalla prossimità spaziale e temporale.
Praticamente illimitata.
Possibilità di fuga
Possibilità di fuga e di riparo nell’ambiente domestico.
Impossibilità di fuga, in virtù dell’invasività dei mezzi informatici .
Consapevolezza
Adeguata consapevolezza del danno inflitto, in base ai feedback mimici e non verbali della vittima.
Ridotta consapevolezza del danno prodotto, a causa dell’assenza di feedback non verbali segnalanti la sofferenza della vittima.
Permanenza
Relativa transitorietà degli atti di bullismo: il pugno, l’insulto, ecc.
Forte permanenza degli atti di cyber bullismo: l’e-mail offensiva, il sito diffamatorio, ecc.
Facilità
Relativo impegno ed assunzione di rischio nel compiere l’atto di bullismo in presenza.
Elevata facilità nel compiere l’atto di cyber bullismo nascondendosi dietro lo schermo del proprio computer.
Interconnessione
Ridotta interconnessione tra ambienti di vita e possibilità di contenere il bullismo.
Forte interconnessione tra ambienti virtuali e rapidità di diffusione del cyber bullismo.
Ripetitività
Tab.1. Cyber bullismo e bullismo: un confronto
Dalla lettura della tabella, è evidente come il cyber bullismo presenti delle caratteristiche che lo rendono, almeno sul piano teorico, maggiormente pericoloso e pervasivo delle condotte in presenza. I dati empirici sembrano confermare tale tendenza.
2. Tassi di prevalenza del cyber bullismo
Le ricerche fino ad oggi condotte, soprattutto nei paesi anglofoni, evidenziano tassi di prevalenza compresi tra il 10% ed il 20%, mentre i tassi di vittimizzazione risultano più elevati, tra il 10% ed il 35% (Aricak et alii, 2008; Slonje, Smith, 2008; Vandebosch, Van Cleemput, 2009). Inoltre, le evidenze disponibili suggeriscono con forza che si tratta di un problema in rapidissima evoluzione, con un incremento di oltre il 50% degli episodi di cyber bullismo nel corso dell’ultimo decenanno I | n. 2 | 2013
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nio (Wolak, Mitchell, Finkelhor, 2007; CDC, 2008). In generale, si possono compiere una serie di riflessioni: – i dati sono molto eterogenei, evidenziando la difficoltà di ricerche epidemiologiche in questo settore; – la percentuale delle vittime è nettamente superiore a quella degli aggressori; – il fenomeno del cyber bullismo non è affatto trascurabile, riguardando mediamente un soggetto su quattro in età scolare.
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In realtà, i dati raccolti potrebbero risultare sottostimati; infatti alcune ricerche evidenziano un sostanziale incremento nei tassi di prevalenza quando i questionari utilizzati presentano specifici atti di prevaricazione online, come ad esempio, “quanto spesso nel corso degli ultimi tre mesi sei stato minacciato o insultato via e-mail?” oppure “ti è mai capitato che qualcuno diffondesse su internet delle voci su di te o tue informazioni personali?” (Williams, Guerra, 2007). Viceversa, domande generiche del tipo “sei mai stato vittima di atti di cyber bullismo?” riportano frequenze maggiormente limitate. Questa discrepanza di dati può essere spiegata in vari modi: in primo luogo, è ipotizzabile che l’indeterminatezza del termine ‘cyber bullismo’ si ripercuota sulla consapevolezza dei rispondenti di aver realmente subito atti di bullismo elettronico; è anche possibile che i ragazzi intervistati nelle varie indagini abbiano un differente concetto di cyber bullismo e soprattutto presentino un elevata soglia di tolleranza, per cui molti comportamenti che l’adulto considera forme di aggressività vengono invece derubricate dai giovani cybernauti a semplici scherzi o a limitate esperienze di disagio interpersonale, non attribuendo loro lo status di ‘bullismo’. Infine, è probabile che i due tipi di quesiti, quelli molto specifici e quelli più generali, indaghino in realtà fenomeni diversi.
3. Differenze di genere e d’età
Un aspetto rilevante nell’analisi del fenomeno riguarda le differenze di genere; infatti, in riferimento al bullismo tradizionale, si è sviluppato un ampio dibattito ed un altrettanto ricco filone di ricerca sulle diverse manifestazioni delle condotte aggressive nei maschi e nelle femmine. Il quadro emerso è piuttosto chiaro, sebbene in evoluzione: i maschi tendono a compiere maggiormente atti di bullismo fisico, mentre nel caso della ragazze vi sarebbe un maggiore ricorso a forme verbali e relazionali. In particolare, quel tipo di bullismo estremamente subdolo e pernicioso rappresentato dal ‘sabotaggio sociale’, ossia il progressivo isolamento ed ostracismo relazionale della vittima, troverebbe una forte rappresentazione nel genere femminile per due ordini di ragioni: in primo luogo, le ragazze si sviluppano più precocemente sul piano verbale, disponendo pertanto di un repertorio di abilità fondamentali per manipolare e rompere i rapporti sociali della vittima designata. In secondo luogo, le reti di amicizia femminili tendono ad essere generalmente più circoscritte e fondate sulla condivisione e sull’intimità: di conseguenza, la rottura di un rapporto amicale si rivela maggiormente dannosa rispetto al caso dei ragazzi, che tendono a formare gruppi medio-grandi costituiti intorno allo svolgimento di attività prevalentemente fisiche.
II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
Nel caso del cyber bullismo, la fotografia è meno chiara. Tendenzialmente, gli studiosi ritengono che le caratteristiche del bullismo elettronico si adattino meglio al funzionamento socio-cognitivo delle ragazze per varie ragioni (Hinduja, Patchin, 2009; Kowalski, Limber, 2007): – il più precoce sviluppo verbale femminile consente di sfruttare con maggiore efficacia il canale testuale su cui si basano molti atti di cyber bullismo; – gli atti di prevaricazione online coinvolgono maggiormente dimensioni sociali piuttosto che fisiche, come ad esempio la diffusione di informazioni denigratorie sulla vittima, l’esclusione da attività sociali online, ecc.; – tradizionalmente, le bambine sono state educate ad un maggior controllo dei propri comportamenti aggressivi, che potrebbero trovare pertanto in internet uno sfogo, in virtù dell’anonimato che la comunicazione online permette; – infine, la possibilità di assumere identità virtuali diverse consentirebbe alle ragazze di compiere atti fortemente aggressivi, senza preoccuparsi dell’immagine di se stesse e delle percezioni altrui.
In definitiva, queste riflessioni indurrebbero a considerare il cyber bullismo una forma indiretta e sociale, che ha sempre mostrato una maggiore incidenza nel sesso femminile. In realtà, però, il quadro che emerge dai dati fino ad oggi raccolti risulta maggiormente complesso ed articolato: infatti, le ricerche mostrano una più forte incidenza della vittimizzazione online nel genere femminile, mentre nel ruolo di cyber bulli si assiste ad un equilibrio tra i due sessi o addirittura ad una prevalenza maschile (Lenhart, 2007; Slonje, Smith, 2008). A sua volta, Erdur-Baker (2009) riporta una maggiore incidenza maschile del cyber bullismo, sia nel ruolo di vittima che in quello di bullo. Una fotografia assolutamente comparabile viene offerta da Li (2007), con una prevalenza maschile sia come cyber bulli (21,9%) sia come vittime (31,2%) rispetto alle ragazze (13,4% e 26,3%). Come spiegare dati così contraddittori? Le riflessioni precedentemente compiute sull’ipotizzata predisposizione femminile al cyber bullismo risultano infondate? Molto probabilmente hanno una loro validità, ma è necessario considerare alcuni elementi ulteriori: – innanzitutto, non possiamo equiparare in modo semplicistico il cyber bullismo al bullismo relazionale che si manifesta nei rapporti in presenza. Infatti, nel caso del bullismo elettronico, le relazioni sono mediate dal mezzo informatico, che in qualche modo le depersonalizza, alterandone il grado di intimità; – in secondo luogo, l’analisi deve essere condotta tendendo presente la doppia natura del cyber bullismo, ossia il suo estrinsecarsi in attività sociali (chattare, condividere immagini, costruire conoscenza, ecc.) tramite l’utilizzo del mezzo informatico. Se da un lato l’aspetto intrinsecamente relazionale sembra essere maggiormente confacente allo sviluppo femminile, dall’altro lato lo strumento tecnologico, per una serie di condizionamenti culturali, potrebbe avere ancora un maggior appeal per i ragazzi, permettendo loro lo sviluppo di relazioni non dirette ma mediate e quindi più impersonali; – il terzo elemento di riflessione riguarda la necessità di articolare maggiormente il cyber bullismo nelle sue differenti manifestazioni: invio di mail minacciose, diffusione di informazioni riservate e denigratorie, furto d’identità, ostracismo nelle comunità virtuali, ecc. Di conseguenza, è possibile che il genere sessuale incida differentemente a seconda del tipo studiato: ad esempio, avrebbe una maggiore diffusione maschile il videoposting, ossia riprendere anno I | n. 2 | 2013
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con un videofonino un compagno in situazioni imbarazzanti e poi diffondere il video su internet; viceversa, le ragazze sarebbero maggiormente vittime di harassment elettronico, tramite l’invio di e-mail o di sms con contenuti intimidatori; – infine, è sempre necessario considerare che i tassi di prevalenza risentono direttamente dalla disponibilità dei rispondenti a riportare gli episodi sperimentati.
Rispetto alla variabile ‘età’ i trend evidenziati nel caso del bullismo tradizionale appaiono abbastanza chiari: con l’aumentare dell’età diminuisce globalmente il numero di soggetti che compiono atti di bullismo, sebbene possa incrementare la gravità di queste azioni. Nel caso del cyber bullismo, il trend evolutivo sembra essere opposto a quello tradizionale ed in questo caso la concordanza tra studiosi è particolarmente elevata. In specifico, gli atti di cyber bullismo aumentano durante il periodo scolare, con i tassi più elevati nel periodo adolescenziale, con un ampliamento anche nelle forme e negli strumenti tecnologici utilizzati per aggredire (Slonje & Smith, 2008). Come spiegare una tendenza esattamente inversa rispetto al bullismo faccia a faccia? Un ruolo centrale sembra giocato ovviamente dal fatto che i ragazzi più grandi dispongono di un maggior numero di strumenti informatici (netbook, i-phone, ecc.), li utilizzano in maniera autonoma rispetto al controllo genitoriale e spesso fuori dall’ambiente domestico e, infine, posseggono più elevate competenze informatiche utili per compiere atti di prevaricazione elettronica.
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4. Sovrapposizione tra bullismo F2F e cyber bullismo
L’obiettivo di alcune indagini epidemiologiche è stato quello di indagare il grado di sovrapposizione tra il bullismo in presenza e quello virtuale. I dati, come prevedibile, non sono del tutto coerenti. Ad esempio, Hinduja e Patchin (2009) e Erdur-Baker, (2009) hanno rilevato un tasso di sovrapposizione tra bulli e cyber bulli pari al 51,6%, mentre la correlazione tra essere vittime in presenza ed esserlo in rete sarebbe di circa il 42,4% (r = .52, p < 0.01). Lo studio delle correlazioni tra ruoli ha mostrato altri dati interessanti: infatti, non solamente le vittime, ma anche i bulli in presenza avrebbero un maggior rischio di cyber vittimizzazione. In altre parole, un ragazzo che compie atti di bullismo presenta una probabilità doppia di diventare cyber vittima rispetto a coetanei non coinvolti in fenomeni aggressivi in presenza (Vandebosch, Van Cleemput, 2009): viene così evidenziata una fluidità dei ruoli, che contraddice invece la cristallizzazione tipica del bullismo tradizionale.
5. La ricerca: dati epidemiologici del fenomeno in Italia
La presente ricerca, partendo dall’analisi della letteratura internazionale esistente, cerca di fornire alcune risposte ad una serie di interrogativi riguardanti il fenomeno del cyber bullismo e della cyber vittimizzazione nel nostro paese.
II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
6.1. Obiettivi
Sono stati individuati i seguenti obiettivi esplorativi: – stimare i tassi di prevalenza del cyber bullismo e della vittimizzazione online nella realtà italiana, confrontandoli con il loro corrispettivo in presenza; – analizzare i trend rispetto a variabili anagrafiche quali il sesso e l’età; – approfondire le aree di sovrapposizione tra ruolo di bullo e di vittima in presenza ed in ambienti virtuali; – discutere alcune dinamiche interne al fenomeno. 6.2. Il campione
Il campione indagato è costituito da 2.079 studenti di età compresa tra 11 e 14 anni (m=12,8; sd=1,04), con una distribuzione per età sufficientemente prossima alla normale (con ridotti indici di skewness [0,176] e di curtosi [-0,260]) ed una rappresentazione equilibrata tra differenti aree geografiche. Omogenea anche la distribuzione per genere, con il 51,8% (n=1076) di sesso maschile e il 48,2% (n=1003) di sesso femminile. 6.3. Strumenti
Ai fini della presente ricerca, sono stati predisposti due specifici questionari di tipo self-report, somministrati in forma anonima ed in modalità individuale, a seguito di una breve introduzione volta a definire il concetto di bullismo e cyber bullismo. Il questionario sul bullismo si articola in tre sezioni: 1) dati anagrafici (sesso ed età); 2) l’esperienza diretta del bullismo; 3) le idee possedute dallo studente rispetto al fenomeno. Il questionario sul cyber bullismo si compone invece di 18 items, suddivisi in quattro sezioni: 1) dati anagrafici (sesso ed età); 2) modalità di navigazione in rete; 3) fruizione di social network; 4) esperienza di cyber bullismo subito.
6.4. Analisi dei dati
Il primo dato raccolto riguarda il tasso di prevalenza assoluto del bullismo (15,8%, n=328) e del cyber bullismo (6,1%, n=125): il primo dato risulta sostanzialmente in linea con le indagini condotte in paesi anglofoni o nordeuropei, mentre la percentuale del bullismo elettronico è leggermente più contenuta, probabilmente in virtù di una minore diffusione ed efficienza nel nostro paese di tecnologie digitali e di connessioni rapide. Scomponendo il dato per genere, otteniamo la seguente distribuzione:
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Dal grafico si nota in entrambi i casi una leggera prevalenza maschile, che tuttavia risulta statisticamente non significativa sia nel caso del bullismo in presenza [χ²=2,229, df=1, p n.s.] sia per quanto riguarda il cyberbullismo [χ²=2,370, df=1, p n.s.]. Per quanto riguarda la tipologia di atti subiti, la tabella mostra i dati globali e stratificati per genere: TABELLA 2. TIPI DI CYBER VITTIMIZZAZIONE
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Globale
Maschi
Femmine
Online harrassment e cyberstalking
44,9%
43,1%
47,3%
Diffamazione online e outing
22,8%
23,6%
21,8%
Furto di credenziali (masquerade)
21,3%
16,7%
27,3%
Ostracismo online
11,0%
16,7%
3,6%
È interessante notare come rispetto alle due più frequenti forme di cyber vittimizzazione non si riscontrino differenze significative di genere, mentre si notano delle diversità per quanto riguarda il furto di credenziali (cui sono maggiormente esposte le ragazze) e l’ostracismo sociale (che invece presenta un’incidenza prevalentemente maschile). È probabile che il maggior rischio maschile di isolamento sociale online sia imputabile al fatto che i ragazzi frequentano ambienti virtuali allargati (e non ristretti a cerchie di amici selezionati), al pari di quanto si registra per le dinamiche relazionali in presenza. Particolarmente interessante è invece il dato riguardante l’andamento evolutivo, come evidenziato nel grafico seguente:
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Il grafico mostra chiaramente tendenze opposte tra il bullismo in presenza e quello online: mentre il primo fenomeno presenta una riduzione statisticamente significativa con il progredire delle fasce d’età [χ²=17,075, df=3, p<0,01], il cyberbullismo manifesta una sostanziale stabilità o addirittura un leggero incremento di prevalenza nelle età adolescenziali, sebbene statisticamente non significativo [χ²=4,903, df=3, p n.s.]. Il dato si rivela particolarmente preoccupante nel momento in cui lo incrociamo con due altre considerazioni di tipo strettamente educativo e sociale: da un lato, la minore disponibilità degli adolescenti a riferire all’adulto eventuali atti di cyberbullismo subito, dall’altro lato la loro fruizione di un maggior numero di strumenti tecnologici tramite cui poter agire o subire atti di prevaricazione virtuale. Per quanto riguarda il tasso di sovrapposizione tra bullismo F2F e cyber, i dati sono ancor più stringenti: il coefficiente di correlazione Tau di Kendall1 risulta essere altamente significativo [τ=0,146, <0,01], evidenziando come le vittime di bullismo in presenza presentino un maggior rischio di vittimizzazione anche online. In altre parole, mentre la prevalenza assoluta di cybervittimizzazione è pari al 6,1%, gli studenti che hanno subito atti di bullismo faccia a faccia presentano un rischio più che doppio (13,9%) di subire atti di prevaricazione virtuale. Tale dato conferma l’ampia sovrapposizione tra le due varianti del bullismo; al contempo, però, bisogna anche considerare il dato inverso. In altre parole, tra gli studenti che non hanno mai subito atti di bullismo in presenza, il 4,5% riferisce di essere stato vittima di cyberbullismo: si tratta sicuramente di un dato più contenuto rispetto alla prevalenza assoluta, ma comunque segnala una nuova area di fragilità online. Nella presente ricerca è stata poi dedicata particolare attenzione ad evidenziare il possibile ruolo di alcune dinamiche nell’utilizzo delle nuove tecnologie: ad esempio, il numero di ore trascorse in rete mostra qualche rapporto col rischio di cybervittimizzazione? Ed il tipo di attività virtuale? La prima domanda trova risposta nel grafico seguente: 1
Si è optato per il coefficiente di Kendall, rispetto al classico r di Spearman, in quanto più robusto dal punto di vista psicometrico in presenza di dati non parametrici.
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Anche in questo caso abbiamo un dato altamente significativo [χ²=45,072, df=5, p<0,01], che mostra come i rischi più elevati siano correlati alle attività a maggior tasso di socializzazione/interazione (come le chatrooms) o caratterizzate da forti livelli di disvelamento personale (come nel caso dei profili su social network o di blog). In entrambi i casi, infatti, il cybernauta diffonde spesso in rete informazioni personali, che possono essere sfruttate da possibili aggressori. È interessante tuttavia notare il dato maggiormente contenuto dei giochi online: si tratta spesso di attività fortemente socializzate, in quanto il soggetto interagisce con compagni di gioco sparsi in giro per il mondo. Tuttavia, il fatto che tale attività correli in modo ridotto col rischio di cybervittimizzazione potrebbe rimandare al differente atteggiamento (ludico piuttosto che strettamente relazionale) con cui il giovane navigatore si avvicina ad essa. Il rilievo dei social network diviene ancor più evidente quando disarticoliamo il tasso assoluto di prevalenza del cyberbulII. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
lismo in base al possedere o meno un profilo personale su Facebook o altro social: mentre coloro che hanno un profilo personale presentano un rischio di cybervittimizzazione pari a 11,0% (quasi il doppio di quello assoluto), l’assenza di un profilo personale riduce il rischio addirittura all’1%. È evidente come tale evidenza non debba implicare una condanna acritica dei social network, che assumono invece un ruolo importante nei processi di crescita e di costruzione identitaria dei nativi digitali: in realtà, la variabile critica sembra essere giocata da quell’atteggiamento di eccessivo disvelamente personale, ampiamente analizzato in altra sede (Fedeli, 2011). Se infatti indaghiamo in modo più approfondito il tipo di costruzione del profilo personale, notiamo che coloro che caricano foto personali sul proprio profilo presentano un rischio di cybervittimizzazione pari all’11,3% (rispetto al 9,4% di coloro che non caricano fotografie); ancora, quanti inseriscono altre informazioni personali, come la scuola frequentata o la città di residenza, lamentano un rischio del 12,3%, rispetto al 9,1% di quanti non svelano tali dati; infine, i navigatori che utilizzano il profilo per raccontare esperienze personali (come ad esempio quelle legate alla vita sentimentale) hanno un rischio di vittimizzazione del 15,8% rispetto agli altri (9,3%). Nel complesso allora il rischio di cybervittimizzazione aumenta in modo significativo quando si accompagna ad un maggior atteggiamento di disvelamento personale in rete. Non solo gli aspetti di costruzione interna del profilo sembrano incidere, ma anche le modalità di rapporto tra mondo online e realtà in presenza: così, ad esempio, i ragazzi che condividono almeno in parte con gli adulti di riferimento il proprio profilo Facebook presentano un rischio di cybervittimizzazione del 10,1%, che sale invece al 13,7% quando non avviene alcuna forma di dialogo. Due ultimi dati meritano particolare attenzione ai fini della comprensione del fenomeno e di possibili interventi educativi. In primo luogo, nella maggioranza dei casi (58,3%) la vittima non conosce l’aggressore, percentuale che sale addirittura al 63,6% se consideramo solamente i maschi (contro il 50,9% delle ragazze): si tratta di un dato sicuramente preoccupante, in quanto la pericolosità del cyberbullismo e la sua dannosità emozionale si correlano strettamente proprio al carattere di anonimato, che da un lato favorisce l’atto da parte del cyberbullo e dall’altro lato aumenta il senso di minaccia esperito dalla vittima. Infine, quali sono le risposte attuate dalla vittima? Il grafico illustra l’andamento nel campione globale: +, +,-./0&1234&52&,6-72482&5699-&:;<6,=2>?-& -./0&1234&52&,6-72482&5699-&:;<6,=2>?-& '$"# '!"# &$"# &!"# %$"# %!"# $"# !"#
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Il dato immediatamente rilevante (e senza differenze significative di genere) riguarda la percentale particolarmente elevata (34%) di coloro che non attuano nessun tipo di risposa: le motivazioni addotte dai rispondenti sono state sostanzialmente di due tipi. Da un lato, alcuni considerano l’atto di prevaricazione subito (dalla email offensiva alla denigrazione online) un evento sostanzialmente normale e quindi accettabile in ambienti virtuali; dall’altro lato, alcuni ragazzi preferiscono subire in silenzio temendo che i genitori possano intervenire con approcci punitivi, consistenti ad esempio nel vietare ulteriori navigazioni online. Questa spiegazione si collega immediatamente al secondo dato signficativo del grafico, ossia la ridotta percentuale (20%) di coloro che cercano aiuto dagli adulti: genitori, insegnanti, ecc. Si tratta di un’evidenza ancor più allarmante di quanto avviene nel bullismo in presenza, in cui si stima che i tassi di denuncia all’adulto non superino il 25-30% (Fedeli, 2007), confermando così come il cyberbullismo rischi di essere un fenomeno ancor più sommerso del suo corrispettivo in presenza.
6.5. Discussione
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Nel complesso, i dati raccolti evidenziano trend in parte sovrapponibili a quelli osservati in altri paesi, con alcuni elementi di sicuro interesse ai fini della predisposizione di interveni educativi: – in primo luogo, il tasso globale di cybervittimizzazione è ancor ridotto rispetto a quello del bullismo in presenza, ma comunque non trascurabile, riguardando circa il 6% del campione, il che significa avere mediamente una cybervittima in ciascuna classe. Ricordiamo che per cybervittimizzazione non intendiamo una prevaricazione isolata (come potrebbe accadere nel ricevere una singola email minacciosa) ma una condizione stabile e cronica di vittimizzazione e di denigrazione che la vittima subisce senza aver la forza di cercare aiuto e con profonde rispercussioni sul suo benessere sociale ed emotivo; – non si registrano differenze di genere statisticamente significative e generalizzate, segnalando come il cyberbullismo sia un fenomeno comune ad entrambi i sessi; – dal punto di vista evolutivo, si vede un trend opposto rispetto al bullismo in presenza. Infatti, mentre quest’ultimo tende a recedere con l’avanzare dell’età (testimoniando anche una crescente capacità di autodifesa delle vittime), il cyberbullismo si mantiente stabile o addirittura mostra dei leggeri incrementi in adolescenza; – pur evidenziando un’ampia area di sovrapposizione tra bullismo F2F e cybebullismo, esiste una percentuale non trascurabile di ragazzi che subiscono solamente cybervittimizzazione, sottolineando quindi come la rete possa creare nuove aree di fragilità in età evolutiva; – i maggiori rischi di cybervittimizzazione sembrano sperimentati dai cybernauti che trascorrono un maggior numero di ore online e che, soprattutto, danno luogo a comportamenti di disvelamento personale in ambienti virtuali ad alto tasso di socializzazione non controllata (come i social network); – infine, ancor più che nel bullismo in presenza,il fenomeno online tende a rimanere un fenomeno ampiamente sommerso, considerato il ridotto tasso di denuncia agli adulti di riferimento. II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
7. Ipotesi per un modello esplicativo
I dati sulla crescente incidenza del cyberbullismo sollecitano lo sviluppo di modelli esplicativi in grado di spiegare il fenomeno nelle sue peculiarità: come abbiamo brevemente discusso nella prima parte dell’articolo e come confermato da un’ampia letteratura internazionale (Patchin & Hinduja, 2006), infatti, gli ambienti virtuali della rete incidono sulle dinamiche proprie del fenomeno. Un modello adeguato, partendo dai dai ricavati dall’indagine presentata nella pagine precedenti, deve allora fondarsi sull’interazione tra dinamiche relazionali proprie del cyberspazio, da un lato, e caratteristiche cognitivo-emotive individuali, dall’altro, mostrando come tra le due categorie vi siano influenze reciproche. In specifico, i dati raccolti pongono al centro dell’attenzione una variabile critica, rappresentata dal grado di disvelamento personale che mostra correlazioni altamente significative con il rischio di cyberbullismo, caratterizzandolo in modo specifico rispetto al suo corrispettivo in presenza, nel quale invece assumono un ruolo esplicativo centrale altre variabili individuali e relazionali, come ad esempio la differenza di potere tra bullo e vittima (che invece nel bullismo elettronico tende a sfumare considerata spesso l’assenza di conoscenza tra i due protagonisti del fenomeno) e la condizione di isolamento sociale della vittima. I dati mostrano come il disvelamento, da un punto di vista prettamente statistico, sia il risultato di alcune modalità di fruizione della rete (come ad esempio il numero di ore di navigazione o il grado di competenze informatiche e pertanto la percezione di sicurezza), determinando un elevato rischio di fragilità e quindi di vittimizzazione online. Da un punto di vista invece dinamico-relazionale, il disvelamento sembra rimandare ad altre due dimensioni specifiche: – i processi di disinibizione comportamentale, in virtù dei quali il soggetto mostra carenti abilità di autoregolazione delle proprie condotte in base all’anticipazione di possibile effetti a lungo termine; – i processi di normalizzazione, in virtù dei quali il soggetto percepisce come normative condotte ampiamente diffuse negli ambienti (anche virtuali) frequentati e nei quali tende a concentrare la propria esperienza identitaria e relazionale. L’ipotesi di un modello che parta dai dati epidemiologici raccolti può pertanto assumere come suo perno centrale il tema del disvelamento, come mostrato nella figura seguente: Caratteristiche del cyberspazio
Disvelamento personale e rischio di cyberbullismo / cybervittimizzazione
Caratteristiche individuali
Iniziamo l’analisi delle caratteristiche relazionali e contestuali del cyberspazio, per approfondire successivamente il modo in cui esse interagiscano con particolari dinamiche individuali, aumentando il rischio di devianza online.
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7.1. I can’t see you – you can’t see me: la disinibizione nel cyberspazio
Una serie di caratteristiche proprie della comunicazione online esercita un importante effetto disinibitorio sui comportamenti individuali, con due possibili esiti (Suler, 2004): 1. disinibizione benigna: la riduzione dei processi inibitori induce talvolta le persone a rivelare ed a prendere consapevolezza di aspetti intimi di sé, come ad esempio paure, desideri, bisogni, esperienze, ecc.; 2. disinibizione tossica: la disinibizione può mostrare un pericoloso risvolto della medaglia, liberando comportamenti aggressivi e violenti che invece restano inibiti nei rapporti in presenza.
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La direzione positiva o negativa dei processi disinibitori dipenderà ovviamente da una serie di variabili individuali (le caratteristiche temperamentali, eventuali disturbi emotivi, ecc.) e contestuali (ad esempio, la presenza o meno di altri cybernauti devianti). La disinibizione tossica, considerata uno dei principali fattori di rischio nell’insorgenza di comportamenti di cyberbullismo, viene favorita da sei dimensioni fondamentali del cyberspazio (Suler, 2004; Willard, 2004): 1. anonimato: la possibilità di nascondere la propria identità o di mascherarla in modo fittizio consente al soggetto di non assumersi la responsabilità diretta delle proprie azioni devianti, che non vengono considerate parte della propria personalità. Si verifica cioè una dissociazione tra il comportamento aggressivo e l’identità individuale, evitando così di sperimentare alcuna forma di dissonanza; 2. invisibilità: il cybernauta può rimanere completamente invisibile nella comunicazione online. Il fatto di non sentirsi osservato toglie al soggetto qualsiasi preoccupazione relativa alla propria apparenza e ciò disinibisce comportamenti altrimenti controllati; 3. asincronicità: terza dimensione è rappresentata dal fatto che in numerosi strumenti online (ad esempio l’e-mail o i forum) tra l’invio di un messaggio e la ricezione di una risposta intercorre un intervallo di tempo. Questo permette al soggetto di produrre messaggi anche molto offensivi, in quanto non riceve un feedback immediato: anzi ha il tempo di fuggire rapidamente dal luogo virtuale nel quale ha commesso l’atto aggressivo verbale; 4. sovrapposizione psicologica: in alcuni ambienti virtuali, come ad esempio le chatrooms, si manifesta uno specifico fenomeno caratterizzato da una sorta di fusione psicologica tra il soggetto e l’interlocutore. L’assenza di segnali non e paraverbali infatti induce il cybernauta ad attribuire ai messaggi scritti altrui delle caratteristiche proprie (ad esempio, le parole scritte risuonano nella sua mente con il suo tono di voce). Questa sorta di fusione psicologica ovviamente fa sfumare l’identità dell’altro come persona reale e ciò favorisce ancor più la disinibizione di atti aggressivi; 5. dissociazione immaginativa: una conseguenza diretta del punto precedente consiste nel percepire ogni comunicazione ed ogni episodio online come un gioco, in una specie di videogame. La presenza di un carattere ludico ovviamente favorisce l’emergere anche di condotte devianti, la cui percezione di pericolosità risulta in tal modo ridotta o addirittura annullata; 6. livellamento dell’autorità: il cyberspazio viene considerato da molti un luogo II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
di democrazia, in cui lo status sociale offline viene livellato a favore dell’emergere di scambi comunicativi maggiormente ugualitari. Senza entrare in una discussione di tipo sociologico o filosofico, questo livellamento si pone talvolta all’origine di comportamenti di cyberbullismo diretti contro le figure adulte, come ad esempio gli insegnanti (Shariff, 2008). Inoltre, l’azzeramento dell’autorità riduce ancor più il timore di interventi sanzionatori.
L’incontro tra queste dimensioni proprie del cyberspazio ed alcuni fattori di rischio individuali favorisce allora l’emergenza di comportamenti di cyberbullismo, che altrimenti non troverebbero espressione nei rapporti faccia a faccia. Questo processo avviene essenzialmente attraverso due stadi psicologici ben precisi: – de-individuazione: in primo luogo, elementi come l’anonimato o la dissociazione immaginativa producono una de-individuazione sia del soggetto agente che dell’interlocutore online, ossia della potenziale vittima, che viene percepita come meno reale, quindi non riportabile ad un’individualità specifica; – disinibizione: la de-individuazione favorisce la disinibizione comportamentale a due livelli distinti: da un lato, libera un’aggressività estemporanea ed emozionale, reattiva agli stimoli ambientali presenti in rete. Ad esempio, il giovane cybernauta può dar luogo impulsivamente ad un’azione di flaming in risposta ad un messaggio o ad un commento in chat avvertito come derisorio. Dall’altro lato, però, online può essere disinibita un’azione aggressiva attentamente pianificata offline ma non attuata nei rapporti faccia a faccia, a causa di vincoli sociali non presenti in rete.
Ovviamente, non possiamo assumere queste dimensioni proprie del cyberspazio come fattori deterministici secondo un modello unilineare, ma dobbiamo considerarle in interazione con alcune variabili individuali, che favoriscono il rischio di condotte aggressive. 7.2. Le difficoltà frontali
Un tema ampiamente trattato in ambito educativo per analizzare le condizioni caratterizzate da disregolazione comportamentale (disturbi della condotta, iperattività, ecc.) rimanda alle compromissioni cosiddette ‘frontali’, ossia le possibili alterazioni a carico di quelle funzioni superiori e quindi di circuiti neurali frontosottocorticali che in condizioni di normalità svolgono una serie di fondamentali compiti di guida del comportamento umano, racchiusi sotto l’espressione di ‘funzioni esecutive’: pianificazione delle azioni dirette ad un obiettivo; focalizzazione dell’attenzione sugli stimoli rilevanti ed inibizione degli stimoli o dei comportamenti irrilevanti; regolazione dell’attivazione emozionale, ecc. (per una rassegna si veda Stuss & Knight, 2002). Come sottolinea Russell Barkley (2012), uno dei massimi studiosi di funzioni esecutive a livello internazionale, alla base di tutto il funzionamento esecutivo vi sarebbe l’inibizione cognitiva e comportamentale, dalla cui efficacia ed efficienza dipenderebbero tutte le altre abilità complesse, come ad esempio la memoria di lavoro, il ragionamento, la pianificazione, l’autoregolazione emotiva e motivazionale, ecc. Eventuali compromissioni in questa fondamentale funzione esecutiva avrebbero effetti a livello emotivo (con la comparsa
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di condizioni di forte disregolazione) e comportamentale (con condotte irruente e spesso aggressive): l’insieme di queste alterazioni è stato racchiuso nell’espressione ‘sindrome da disinibizione comportamentale’(Litvan, 2001), la cui caratteristica principale sarebbe rappresentata da una scissione tra la sfera emozionale e quella razionale, con una compromissione specifica nell’adeguamento a norme sociali pur comprese cognitivamente (Damasio, 1994). A livello sintomatologico, il disturbo si articola in due poli principali (Grossi & Trojano, 2005): 1. impulsività e perseverazione. Il soggetto risulta incapace di inibire l’aggressività e di modificare i propri comportamenti in base ai risultati delle azioni precedentemente emesse, a ciò accompagnandosi la difficoltà a ritardare le gratificazioni immediate; 2. violazione delle norme sociali formali ed informali, con comparsa di comportamenti inappropriati al contesto.
Adottando un modello interattivo, possiamo ipotizzare allora che alcune caratteristiche del cyberspazio possano acuire le difficoltà di soggetti con ridotta funzionalità frontale, aumentando così il rischio di comportamenti devianti online. Nella tabella seguente, vengono presentate tali sinergie: TABELLA 3. CARATTERISTICHE ‘FRONTALI’ E ‘VIRTUALI’
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Caratteristiche dei soggetti con difficoltà frontali
Caratteristiche della comunicazione online e degli ambienti virtuali
Ridotta consapevolezza e rispetto delle norme sociali formali e informali
Estrema fluidità delle norme informali proprie degli ambienti virtuali
Reattività immediata a stimolazioni contestuali, soprattutto in presenza di overload percettivo e attentivo
Rapidità e sovraccarico di stimolazioni multisensoriali
Limitata empatia e difficoltà di autoregolazione emozionale Incapacità a prevedere le conseguenze delle proprie azioni
Assenza di segnali mimici dell’interlocutore necessari per comprendere il suo stato emotivo Transitorietà delle relazioni online ed assenza del canale non verbale
In definitiva, l’assenza dei segnali mimici dell’interlocutore online e la relativa destrutturazione degli ambienti virtuali, in cui le norme sociali sono fluide, rinforzano le caratteristiche proprie delle difficoltà frontali, determinando uno stile cognitivo e comportamentale impulsivo ed orientato al presente, ossia incapace di rappresentarsi mentalmente le conseguenze delle proprie azioni ed i possibili danni emotivi sofferti da altri. In questo contesto, allora, il rischio di condotte di cyberbullismo diviene estremamente elevato, in quanto l’aggressore non sperimenta le conseguenze a lungo termine delle proprie azioni. È evidente come un tale modello richiederà ulteriori conferme empiriche e sperimentali; al contempo però consente di fornire una cornice concettale ai dati fin qui disponibili, evitando due rischi speculari: da un lato, quello di adottare visioni semplicistiche di demonizzazione della rete, dall’altro però quello di sotto-
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valutare la specificità degli ambient virtuali e del modo in cui essi tendano a stressare o esaltare specifiche difficoltà individuali e relazionali.
8. Conclusione: quali prospettve future?
I dati epidemiologici, oltre ad una funzione conoscitiva, hanno il fondamentale compito di guidare gli interventi educativi più efficaci per affrontare un problema. Analizzando allora le evidenze raccolte nella presente ricerca e nella letteratura internazionale, sembrano possibili due prospettive di lavoro importanti e promettenti. Partiamo dalla sovrapposizione tra i due fenomeni (F2F e online): si è visto che nel caso delle vittime, i tassi di correlazione sembrano essere contenuti, con una percentuale non trascurabile che subisce atti di prevaricazione solamente online (CDC, 2008). Come anticipato nell’analisi dei dati, è possibile che la rete crei nuovi rischi di vittimizzazione e nuove fragilità. In altri termini, soggetti che in presenza hanno sviluppato repertori di abilità o reti amicali in grado di proteggerli da atti di bullismo potrebbero ritrovarsi maggiormente impreparati negli ambienti virtuali, rischiando di diventare cyber vittime. Di conseguenza, allora, sarà critico lo studio delle dimensioni proprie del cyberspazio in grado incrementare la vulnerabilità individuale al cyber bullismo, aprendo innovative prospettive di ricerca. La seconda riflessione parte invece dalla correlazione diretta tra numero di ore passate in rete e rischio di vittimizzazione. Questo dato è stato spesso arricchito da un’altra evidenzia, apparentemente paradossale, in virtù della quale si ritroverebbe una relazione direttamente proporzionale tra il grado di competenza informatica, anche rispetto alla conoscenze di misure di sicurezza online, ed il rischio di subire atti di cyber bullismo. La risposta a questo apparente paradosso potrebbe risiedere in un artificioso innalzamento del senso di autoefficacia del giovane cybernauta: in altre parole, alcuni ragazzi, convinti di sapersi muovere nel mondo digitale in virtù di abilità informatiche anche avanzate, trascorrono in rete molte ore al giorno impegnati in varie attività ad alto tasso di socializzazione e di disvelamento (chattare, modificare il proprio profilo Facebook, ecc.), esponendosi così ancor più al rischio di vittimizzazione. Laddove tale dato venisse confermato da ulteriori ricerche, porrebbe una sfida fondamentale agli attuali approcci di media education, basati prevalentemente sull’insegnamento di misure di sicurezza online.
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II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
Nursery school, families and diversity
Keywords: Educational institutions, families, social support, cooperation, disability.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
This paper describes the complementarity among nursery school and family. Each educational perspective oriented towards early childhood comes from the concept of the child as a subject with his/her own identity and characteristics, as well as the beneficiary of education. The early educational intervention is fundamental for the solicitation of motor, cognitive and linguistic child capabilities which, if properly encouraged, in a prosperous and stimulating environment, allow the start of a psychophysical harmonious evolution, adequate to the social and environmental requests. Educational institutions become therefore a meeting and exchange place for partners interested in achieving a priority goal: children’s education and appraisal. Several researches explain and highlight the importance of an early education, made of affective and cognitive solicitation and motivation. It is then essential to promote parental participation within the life of the nursery school, so that children gain awareness and confidence in their own capabilities. The approach of the researches which focus on families with disable children highlights how the cooperation strategy with the teachers puts into action strategies aiming at recovering personal abilities, and improves the relationship between parents and their children.
abstract
Raffaella Biagioli / Università di Firenze / raffaella.biagioli@unifi-it
II. Revisione sistematica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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1. The childhood recognition in the housing policy
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Italian educational policies come out from a long path towards the acknowledgment of the childhood as a basic moment for the life of a human being. And it is just this exactly path, no matter how long and difficult, that made possible the creation of nursery schools first and later other kind of educational services, which all together represent the so-called “early childhood” and contributed to the child vision and definition in the collective imaginary. The story of the nursery school as educational and social service is characterized by the slow evolution of what Ariès calls “childhood feeling” and the importance given to the physical, psychological, social and emotional child development. Thanks to the advancement of several theories on the evolutionary age, together with an increasingly conscious will of child education, a path became definite, which went far beyond the mere social utility of the nursery school, leading up to the recognition of child as a unique person, author of his/her own destiny, and at the same time, as individual in need of a physic and relational milieu, to be stimulated and comfortable. The development of the nursery school as a social and public service has been of course conditioned by economic and political choices; often people thought that small children should have their experiences just inside the family, underestimating the educational intervention out of the native environment. Such ideology takes advantage of the family worries’, as well as of the interpretation, taken to the extreme, of the “separation shock” asserted in Bowlby important dependence theory (1989), which highlights the sufferings coming from the separation. It is also true that such researches, published in Italy in the 70s, are related to total separation, typical of the children life in hospital and crèches (orphanage), and not partial as that of the nursery school. Even if the dependence theory, on the one hand, contributed to the mistrust towards multiple reference figures, on the other hand we must give great credit to it, as it introduced to the relational and reference point mode, in order to offer to the child a context respectful of the primary but also enlarged relationships (Mantovani, Restuccia Saitta, Bove, 2000, p. 35). The entry of the nursery school as a social public service comes with the law n. 1044/1971, in which the Government entrusts the Municipality and the family the management of the service, and gives to the Italian Regions the planning; in the 90s, moreover, the increasing demand by the families produced an increase in the variety, together with a deeper awareness, of the children needs as main subjects of the supply. Many academics of the childhood development give specific attention the children socialization process. Among those stands out Schaffer (1984), who highlights the interactive-cognitive development characteristic, underlining the fact that the relation among mother and child is to be enclosed in a systemic perspective, considering that it grows in a given environment, with all the different characters playing in it. Therefore, the origin of the child progression cannot be connected just to the mother-child relation, but has to go back to the whole spectrum of relations which he develops within the family, and, in wider terms, to the relation created with all those people, with whom the child gets in touch, starting from his/her peers. The nursery school is integrated in such framework as a care context which can be considered corresponding to the family one, and II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
that enables parents and educators to follow a complex and integrated educational project. It was Urie Brofenbrenner (1986) that proposed the ecological theory of the human development, according to which the relationships among teachers and parents were effective not only for school achievements, but also for the long duration of positive achievements in the path of socio-emotional and cognitive development of the boy/girl. Such theory changed the pedagogical perspective on parental involvement, to be promoted and supported also for facilities such the nursery schools. Thanks to the law n. 285/97 the basis for the facility improvement has been certainly laid down: the innovative feature lies in the fact that they think themselves in close cooperation with one another, using administrative obligation in order to formalize agreements and projects in a harmonic perspective, so that they become complying and not, as often happens, conflicting. Such law created a framework in which all the facilities can be properly developed, whether they are addressed to wealthy people, or to people in economical, social or cultural disadvantage. The nursery school begins to be organized according to the “pedagogy relationship” theory, taking on the epithet of “relations place”, that means a meeting and exchange space for the people who live in it. The social development of the child gains a wider meaning, that is the development by the child of his/her own identity, which depends on the connections that he/she will be able to create with him/her-self and with the others, and also on the conception that he/she will internalize of those relationships. In this way, the nursery school will become an emotional box, with the function of consolidating the different experiences.
2. The complementarity among nursery school and family
Each educational perspective oriented towards early childhood comes from the concept of the child as a subject with his/her own identity and characteristics, as well as the beneficiary of education. Nowadays children live in a society where advertisement, consumption, television and everyday life impose a model based on eternal youth, expressed through the look, the anxiety of being successful, visible and rich enough to satisfy advertising-driven needs, or collect ephemeral appeal objects. Understanding the negative aspects of society and family, and addressing them with a critique, represents the first step towards the recovery of an ethic centered on human being dignity and importance, and more specifically, dignity and importance of the child; it means starting from a critical view in order to face the problems and to identify the family as main environment for childhood education and formation: it is necessary to invest on family and on parents’ competences, giving value to their ability in finding inside themselves the instruments to create substantial connections with their children. Family is a complex and structured system, present in every recognized social system and can be defined as a cooperation unit based on cohabitation, which aims at providing its members with development as well as physical and socioeconomical protection, emotional steadiness and help in the difficult moments. It develops by one’s decision of sharing a part of life with somebody else. The development of the different roles and rules of relationships grows in the time through a mutual influence, starting from the birth family or other couples’ exanno I | n. 2 | 2013
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periences, believes system and expectations towards marriage, that have a strong influence on the way of thinking and of being wife and husband. Couples develop a common life structuring, where the individual starting condition are mutually shaped up, modified and strengthened through the time by their shared experience (Walsh, 1999). A fundamental moment in the life of a couple is the birth of children, which represents in every family a big news and a great change. Prior balance breaks up and the couple has to find a new one (Sorrentino, 2006, p.31). The new family is a nuclear and post-nuclea and is based on horizontal relationships; it is a nonauthoritarian family, which invests on children and their education, and consider proximity and communication as fundamental; it is based on a balanced relationship among the spouses, on the capability to listen to the other, on the support and on the empathy. The transformations which occurred in family relationships contributed to the creation of a process in which individual members have got a wider freedom in comparison with the previous generations, but they live in situations of great frailty and isolation; so, once they access an enlarged social framework such as the nursery school, they reveal all their difficulties, due to the lack of self-confidence in their potential and capabilities (Gigli, 2007). The nursery school keeps adjusting to the needs of a family that changes. Educators receive often messages (more or less explicit) which highlight such sense of incompetence towards one’s role, often fostered by social isolation, that increases anxiety and concern. Educational institutions become therefore a meeting and exchange place for partners interested in achieving a priority goal: children’s education and appraisal. Several researches explain and highlight the importance of an early education, made of affective and cognitive solicitation and motivation (Zappaterra, 2010). The early educational intervention is fundamental for the solicitation of motor, cognitive and linguistic child capabilities, which, if properly encouraged, in a prosperous and stimulating environment, allow the start of a psychophysical harmonious evolution, adequate to the social and environmental requests. Thus arises the complementarity among nursery school and family, which doesn’t express anymore with institutional structures of social management, but is characterized by an intense participation, even emotional, to the experience lived by the children. Educators are asked to do a serious job, in order to build, together with the families, that confidence role which is necessary to start outgoing strategies, aiming at recovering confidence in one’s own abilities, which represents a very important part of the creation of good relationship among parents and children. It is then essential to promote parental participation within the life of the nursery school, so that children gain awareness and confidence in their own capabilities.
3. Parents facing disability
The life of families with disable children is a complex circumstance, which can hardly be connected to one-way interpretative patterns or family typology. Every past is unique and totally personal, and therefore there can be several different adaptive reactions regarding the same disability. Each parental couple, waiting II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
for the birth of their child, experiences deep and rich emotions, full of dreams and expectations; they create their idea of child, projecting their own wishes, which are unconscious most of the times. In fact, the more child’s image appears to be coherent with parents’ expectations, the more child will be accepted and recognized as son/daughter, since the parents look forward at finding a correspondence between the dreamt images and the real ones. During the pregnancy, parents, but above all the mother (who lives a faster parenthood process in comparison with the father), are led to dream of their child, representing him/her in a perfect dimension, not at all responding to reality: usually, it is a heterogeneous idea, made up of oneself, the partner, the beloved people, and, if there are, also other own children. The fictional creation of a child that complies to the parents’ dreams and expectations, and the burst on the scene of a real child that doesn’t respond to the desired one causes a narcissistic wound and a great pain. The perfect child myth is a common dream, that lies beneath the fear of having a disable child (Gargiulo, 1987, p. 10). When, by contrast, the parents discover that the dreamt child is affected by disabilities, they enter a circuit of distressing, frustrating and tragic experiences. The process that launches and strengthens the children’s representation, in the disability situations, is likely to turn out to be mono-directional, and often the disable child appear as a sick person or a child to be protected (Caldin, Casarotto, Zaltron, 2009). The myth of the beautiful and healthy child falls down, and is replaced by anguish, due to owns guilty feelings: it is a instinctive reaction, that comes out from a wrong evaluation of the surrounding situation, and finds breeding ground in self-critical personalities. Besides all the regular readjustments and difficulties which come along with the birth of every child, such situation carries along a wound to one’s individuality, originated by the procreation of an inadequate child, who constantly stimulates and renews a deep guilt feeling with his/her physical and real status (Galanti, 2001, p. 142). In the event of the birth of a disable child, such feeling of big responsibility can be identified in both parents, although to a greater extent in the mother, and originates from the fear of having to protect him/her all the time, without the certainty that he/she will become independent and capable one day. Such destructive and self-punishing feelings involve not only the couple, but the all family system, compromising it. The birth of a disable child requires a distressing transformation process to the family group: rethinking the family system, and reformulating the individual and shared expectations, rethinking also future expectations (Mannucci, 2005, pp.27-28). Parental crisis has repercussions on the couple, that often isolates from the world, causing an internal fracture. The reaction to the disability results from several aspects: the feelings that the disability provokes in the two parents (as individual and as a couple); the quality of the pre-existing relationship; the influence exerted by the social and cultural environment. The diagnosis, therefore, carries along a strong pain, caused by the narcissistic wound and depressive disturbs of the mother in front of the real child, different from what she ideally expected (lebovici, Soulé, 1972). Suddenly, the parents have to coop with a deep crisis and the loss of self-esteem, feeling totally powerless. This situation fosters anger and frustration, creating a vicious cycle where the child behaviours, unsuitable with parents’ expectations, provoke parental reactions, characterized by the alternation of reactions that can be apprehensive and overprotective, or punishing and refusing (Fratini, 1997, p. 126). The anno I | n. 2 | 2013
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family system is then forced to reconsider the internal and external organization, where parental role needs new expertise, competences to be developed and, of course, support. The period of the child rearing represents a fundamental moment in the adult life, characterized by two important psychological events: the parents’ desire of feeling competent and useful (which is essential to strengthen and confirm their experience of successful adults) is fulfilled, and children find in such interaction, the foundation of their psychology and the cornerstone of their existence. The relationship between the couple obviously affects the quality of the parenthood. The parents have to meet and face, in their imaginary, the specter of disability and the role of the expert. The latter, on the one hand can contain and control the family distress, and on the other hand, is bound to inform, as much as possible, on the effects and the chances of disability recovering. Predicting the evolution of a disable child is not always possible, as well as it is not possible to suppose someone else’s evolution. The development of a disable child is definitely anomalous, and differs from every benchmark or indicator of the so called “normal” evolution steps. The parents, therefore, are bound to attend a different kind of progress, that, although not satisfying, they have to get to respect and accept. Becoming aware of such situation, surely complex for the necessary imaginary rearrangement, will convince the parents on the importance of acknowledging every child equal rights and suitable opportunities, irrespective of the kind of disability (D’Alonzo, 2008).
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4. Social support for the families’ well-being
The support for the family is definitely one of the most effective strategies to put in action, so that the family can find again self-confidence, in order to go on closely, leading in this way to the consequent promotion of the child well-being. The cognitive and emotional reorganization of the couple will surely benefit the child. Although these parents could undergo stressing situations, some studies tried to highlight also the existence of positive aspects connected with the experience of living with a disable child, however demanding this can be. Certainly, one of these positive aspects is the development of a feeling of personal growth, nevertheless achievable only through analysis and identification of suffered loss. (Soresi, 2007). The huge fracture between the desired child and the real one is often likely to cause a depression to the mother, who can hardly be overcome without the help of the partner or the wider family group. The reaction of the family is another element that can affect the personal overall development. The study method of families with disable children has been enriched during the time. The first researches used to highlight only the negative effect on the family, particularly on the mother. Progressively, the research focus has been widened, going from a tragic point of view to a more optimistic vision, that takes into account also other family members. Today the researches highlight how the family of the disable person, although facing many problems, is not doomed to undergo a crisis and fall apart, but can survive, adjusting to the situation and, sometimes, benefiting from it (Ianes, Celi, Cramerotti, 2003). Unconditional love of the parents for disable children is not so easily predictable as that for “normal” children: disable children have to gain the love of their parents, and the response of parII. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
ents who succeed in overcoming the sorrow is extremely important for the elaboration of a real him/her-self by the child, making way for an achievable path of happiness for the family and of independence for the future of the child (Trisciuzzi, Zappaterra, Bichi, 2006, p. 10). Every child, and all the more a disable child, has got his/her own way to face the world and the surrounding environment, giving his/her own explanation of it, developing explanation and positive or negative imaginary, and creating relationships; all these elements will be essential in order to find his/her personal way of knowledge, that cannot be standard, but will be characterized by achievements, interruptions, pauses and restarts (Caldin,Gajo, 2002). The framework becomes therefore a basic landmark for the development of the relationships (with people, both adults and children, places and raw materials) in a mutual connection that, while growing, creates the right context for the relationship between the different experiences. The context thus represents the integration element for the several aspects of educational path: using the impulse that it offers, it is possible to build up an integration path, producing educational and didactic activities. A disable child can be seen as a freeze of life history for his/her parents, who expect endless parental tasks. The impossibility of experiencing amusement gaps with only adults, for instance, or the impossibility to enjoy a short vacation due to the difficulty of leaving a teenager or young adult alone, as not capable of looking after him/herself, in lack of educators who assume directly the responsibility of his/her care, can cause incurable fractures in the couple, that doesn’t find the possibility to renovate. The family education tends to a perspective based on mutual attention, comparison, empathy, mutual understanding, so that the person can find him/herself the right answers to his/her questions. The parents’ thinking and acting have to be supported by a coalition involving other parents, children, teachers, social and health services, all bound to undertake clear and coherent joint responsibilities; an alliance that enables parents to regain their ability to make plans for their own children. Consequently, also the gaze given to the diversity changes, in particular the subject regarding the integration of disable children, which brings all the educational agencies to face the need of rethinking the whole arrangement of pedagogical structures and interventions, in order to welcoming all the children, who are different for needs and improvement levels. In this view, we recall the theory of the Russian psychologist Vygotskij (1980), who sees the development of a disable child not as a pathological development, but as a different development, that means, a development in a different way, through another path and with other means. The empathy practice concerns what Winnicott (1968) calls “mirror purpose”: according to this theory, the nursery school educator plays an important part in shaping the child self-image. The role of the adult working in the nursery school is characterized by a strong and essential feature: it is pedagogical, thus aiming at letting the child grow up in a game of input, supervision of activities, and practices were the main aspect is the incentive and the development supervision. The project of a facility for the little ones laid the foundations for the examination of children’s rhythm and timing, allowing educators to get ready to listen to their needs and their care in case of problems. Children diversity is appreciated as an opportunity of learning, exchanging and opening to the new aspects of experience (Catarsi, 2008). The organization of meeting with parents, the preparation of the setting and the day-schedule has to be made bearing in anno I | n. 2 | 2013
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mind the integration as common background to the educational action. Cooperation among educational group, family and public services will make possible finding personalized and adequate solutions: childhood services thus become relational, social and learning contexts for children and adults, where the parents’ participation and empowerment are stimulated; they will become contexts with an added value on the educational level, that is a background where traditional knowledge, feminine and familiar, match the knowledge of the other parents and of the educators, who aim not only at promoting the children development, but also at creating a support opportunity and, in a certain way, family education.
References
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II. Revisione sistematica (a. meta-analisi; b. Evidence Based Education)
“Gli alunni a scuola sono sempre più difficili?” Esiti di una ricerca sulla complessità di gestione della classe nella percezione degli insegnanti
Keywords: classroom management, teachers’ perception, students, management difficulties
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Nowadays many teachers believe that the role of teaching and educating youth has become more difficult than in the past. There is a widespread belief that pupils are “badly behaved” and they are unable to deal with the educational experience, the cognitive rhythms and the respect of social norms: indeed the teacher has a great responsibility and s/he plays an important role in the scholastic success. The present research starts from these considerations and its aim is understanding, through the identification of specific indicators, the challenges perceived in the daily classroom management by teachers belonging to different schools levels (from kindergarten to secondary schools). The research was carried out from September 2012 to May 2013 and the methodology used in this study allowed the researches to reach a statistically significant sample of teachers (750) from different Italian schools, in order to allow an easy and direct participation. The data analysis and results have clearly pointed out the increasing complexity of the teacher’s role and the relational dynamics involved in the process of teaching-learning.
abstract
Luigi d’Alonzo / Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano / luigi.dalonzo@unicatt.it Silvia Maggiolini / Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano / silvia.maggiolini@unicatt.it Elena Zanfroni / Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano / elena.zanfroni@unicatt.it
III. Esiti di ricerca Luigi d’Alonzo è autore dell’Introduzione; Silvia Maggiolini è autrice dei paragrafi 1. e 2; Elena Za froni è autrice del paragrafo 3. e delle Conclusioni.
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Introduzione
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Tra le molteplici sfide che l’attuale sistema scolastico è chiamato ad affrontare, emerge la sensazione, condivisa da molti addetti ai lavori, di una crescente difficoltà sperimentata dal corpo docente nel riuscire ad educare ed insegnare alle nuove generazioni. Vi è una diffusa convinzione che ai nostri giorni molti ragazzi siano “educati male”, e, rispetto al passato, manifestino una maggiore fragilità nell’adempiere agli impegni didattici, nel sostenere i ritmi cognitivi e nel rispettare le norme che sono alla base della convivenza sociale. Le ricerche documentano come un numero consistente di studenti fatichi «a riconoscere alla scuola il ruolo educativo e formativo che le è proprio […] Tali difficoltà si traducono in ritardi, abbandoni, interruzioni di percorso, oppure nelle differenti espressioni di disagio, più o meno conclamato ed agito, dalle forme di prevaricazione, aggressione, bullismo ad un generale e più sommerso malessere giovanile» (d’Alonzo, Maggiolini, 2013). Anche i dati statistici a disposizione confermano tale tendenza (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, 2010). Nelle scuole Secondarie di I grado, nel primo e nel secondo anno, il numero dei ragazzi bocciati aumenta dal 4,2% dell’a.s. 2008/2009 al 4,3% dell’a.s. 2010/2011. Rispetto allo stesso anno scolastico, nelle scuole Secondarie di II grado la percentuale di studenti non ammessi alla classe successiva passa dal 10,9% al 11,4%. Nelle scuole Primarie, invece, tale percentuale rimane sostanzialmente costante. Le differenze più rilevanti si riscontrano nelle fasi di passaggio da un ordine di scuola all’altro. Dal 4,4% di alunni in ritardo, al V anno della scuola Primaria, si passa al 7,8% della classe iniziale della Secondaria di I grado, e dall’11,5% relativo al III anno della fine del ciclo, si arriva a più del doppio (23,1%) nella I classe del ciclo successivo. Questi sono solo alcuni dati dai quali occorre prendere le mosse per continuare ad indagare le difficoltà vissute dalla scuola italiana. La ricerca “La percezione degli insegnanti: gli alunni a scuola sono sempre più difficili?” si sviluppa a partire da tali riflessioni, allo scopo di comprendere, attraverso la voce diretta dei docenti, le trasformazioni in atto e conferire dunque oggettività e valore scientifico ad una sensazione ormai da tempo avvertita.
1. Il disegno di ricerca
L’indagine, condotta dal Centro Studi e Ricerche sulla Disabilità e la Marginalità (CeDisMa) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, si è svolta da settembre 2012 a maggio 2013, coinvolgendo un campione di 754 docenti afferenti a vari ordini e gradi scolastici di alcune province italiane, secondo la seguente distribuzione: 64% scuola Primaria, 24% Secondaria di I grado, 9% Secondaria di II grado, 3% scuola dell’Infanzia. Nel dettaglio, la ricerca ha conosciuto la partecipazione di cinque istituti scolastici della Lombardia, uno del Veneto, uno dell’Emilia-Romagna ed uno della Sicilia. Le ragioni che sono alla base di tale strutturazione possono essere rintracciate nell’esplicita richiesta avanzata da tali III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
scuole di uno specifico percorso di aggiornamento sulle tematiche inerenti alla gestione della classe. Si è ritenuto quindi opportuno fare leva sulla sensibilità e sull’esigenza formativa manifestata dagli stessi docenti e Dirigenti scolastici al fine di poter acquisire elementi chiari ed oggettivi, attorno ai quali iniziare a delineare ambiti di riflessione. La realizzazione del progetto ha conosciuto le seguenti tappe operative:
a. Ricognizione sullo stato dell’arte: analisi della letteratura pedagogica relativa alla complessità di gestione della classe scolastica; b. Definizione degli obiettivi e delle aree di interesse; c. Costruzione di uno strumento idoneo al conseguimento delle finalità di ricerca; d. Somministrazione del questionario; e. Raccolta e analisi dei dati.
La metodologia di lavoro ed il relativo strumento di indagine sono stati ideati in relazione alle finalità generali della ricerca: raggiungere un campione statisticamente significativo, consentendo loro una facile ed immediata partecipazione. Attraverso l’individuazione di specifici indicatori, strutturati all’interno di un questionario, composto da 21 domande, di cui 16 a risposta chiusa e 5 a risposta multipla, la ricerca ha inteso conoscere la percezione di docenti relativa alle difficoltà sperimentate in aula nella gestione quotidiana degli alunni. In particolare, si è voluto comprendere in quale misura gli insegnanti avessero rilevato cambiamenti significativi rispetto al passato, nelle modalità relazionali e comportamentali agite dai ragazzi. Allo scopo di consentire un reale confronto tra la realtà attuale e le esperienze degli anni precedenti, è stato ritenuto opportuno individuare alcuni parametri temporali di riferimento (5, 10, 15, 20 anni fa). I dati raccolti sono stati infine elaborati mediante una griglia strutturata che ha consentito l’analisi e la comparazione di un ampio numero di informazioni, rendendone inoltre possibile una lettura critica.
2. Analisi dei dati
Le risposte fornite ai primi due items del questionario (Quanti anni di servizio a scuola ha alle spalle? e È un insegnante di scuola dell’Infanzia, scuola Primaria, Secondaria di I grado, Secondaria di II grado?) offrono un’interessante fotografia del campione di indagine. Nel dettaglio, è possibile affermare che la maggior parte dei docenti (82%) è in servizio da oltre 10 anni. Scorporando il dato complessivo si evince che il 43% insegna da oltre 20 anni ed il 39% da 10 a 20 anni (19% da 10 a 15 anni e 20% da 15 a 20 anni). Il restante 4% svolge la professione da meno di 5 anni. Analizzando tale rilievo in rapporto all’ordine scolastico, emerge come la percentuale dei docenti con esperienza ultraventennale, nella scuola dell’Infanzia, Primaria e Secondaria di I grado sia di gran lunga più rappresentativa rispetto alle altre fasce considerate (da 15 a 20 anni; da 10 a 15 anni; da 5 a 10 anni;
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LUIgI D’ALoNzo, SILVIA MAggIoLINI, ELENA zANfRoNI
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meno di 5 anni). La scuola Secondaria di II grado registra, invece, una più equa distribuzione dei partecipanti (fig.1).
Fig. 1 Anni di servizio nella scuola suddivisi per ordini scolastici
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Come si evince dai dati raccolti, in generale, i docenti che hanno aderito alla ricerca possono vantare, in grande maggioranza, una significativa esperienza professionale. Questo aspetto risulta essere di notevole rilevanza ai fini dell’indagine, volta specificatamente a cogliere elementi di differenza rispetto al passato. È interessante inoltre osservare come le caratteristiche di tale campione ricalchino uno spaccato della realtà scolastica del nostro Paese. Secondo quanto espresso da un Rapporto di ricerca della fondazione Agnelli (Rapporto di ricerca, 2009), l’età media del docente italiano è piuttosto elevata in relazione a quella dei colleghi europei1. È stato quindi chiesto di indicare, ipotizzando una composizione tipica della classe, il numero di alunni totali e suddivisi in: allievi con disabilità, con disturbo specifico dell’apprendimento (d’ora in poi DSA), stranieri, con problematiche personali ed educative marcate, “male-educati”, ansiosi, “pigri”, “scansafatiche”, “eccellenti” sul piano degli apprendimenti. Sulla base delle risposte fornite, è stata effettuata, per ciascun ordine di scuola, una media ponderata dalla quale si può ricavare la seguente fotografia. Il numero totale degli alunni per classe è pari a 23 nella scuola dell’Infanzia, 21 nella Primaria, 22 nella Secondaria di I grado e 26 nella Secondaria di II grado, così distribuiti (Tab.1)
1
Tra i docenti di ruolo è pari a 50 anni, con un’oscillazione tra i 47 anni delle Primarie e i 51 delle Secondarie di I grado. La quota di insegnanti di oltre 50 anni supera il 55%. Negli altri Paesi europei il corpo docente è più giovane: nel Regno Unito i docenti oltre 50 anni sono il 32%, in francia il 30% e in Spagna il 28%. Solo la germania, con il 47% di insegnanti ultra50enni, si avvicina all’Italia.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Tab.1 Valori relativi agli alunni presenti in classe
Dall’analisi dei dati raccolti è possibile individuare una tendenza che evidenzia in particolare l’incremento, negli ordini di scuola superiori, di alunni ansiosi, “pigri”, “scansafatiche”, di quelli “male-educati” e di coloro che presentano problematiche personali. Si riscontra invece un dato discontinuo in relazione agli studenti con disabilità, stranieri ed “eccellenti”. Infine, i ragazzi con certificazione di DSA crescono in percentuale costante lungo il percorso scolastico. Addentrandosi nel cuore della ricerca, alla domanda “Gli alunni a scuola sono sempre più difficili?”, la quasi totalità del campione (90%) risponde in modo affermativo ed evidenzia come la tendenza in atto sia rappresentata da un incremento delle difficoltà che i ragazzi manifestano a scuola. In particolare, come facilmente prevedibile, sono soprattutto gli insegnanti con più anni di servizio (più di 2 anni e tra 15 e 20 anni) a percepire il cambiamento degli alunni. La percentuale delle risposte affermative a tale domanda, inoltre, risulta essere sostanzialmente omogenea nei vari ordini scolastici, con una lieve predominanza della scuola Primaria (93%). Si è, quindi, voluto comprendere, attraverso la formulazione di un quesito specifico, le modalità con le quali il disagio si esprime. osservando il trend a livello generale, emerge come il principale mutamento percepito dal corpo insegnante di tutti gli ordini scolastici sia riferito al comportamento irrispettoso verso le regole (68%), seguito dalla fragilità emotiva (54%), dalla disattenzione (48%) e dall’irrequietezza (44%). Un numero minore non rileva cambiamenti significativi nel comportamento verso i compagni e gli insegnanti (22%). Alla mancata osservanza delle norme che regolano la vita sociale è possibile dunque ricondurre, secondo quando riferito dai docenti, il principale fattore alla base delle difficoltà di gestione dei propri allievi. A breve distanza (14 punti percentuali), segue la percezione che i ragazzi siano sempre più deboli, insicuri e fragili sul piano emotivo e, pertanto, anche meno capaci di far fronte alle sfide della realtà scolastica. Meno rilevanti, a livello statistico, paiono essere invece le ragioni legate ad un comportamento irrispettoso verso le altre persone, siano esse adulti, insegnanti o amici. Infine, all’interno dell’item “altro” vengono raccolte ulteriori affermazioni quali la capacità di memoria, il rapporto con la famiglia e la creatività. Analizzando le risposte fornite per ciascun ordine di scuola, si possono individuare alcune peculiarità e differenze rispetto alla tendenza generale. anno I | n. 2 | 2013
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In particolare, nella scuola dell’Infanzia, permane al primo posto la percezione di un comportamento irrispettoso verso le regole (68%) seguita a distanza dall’irrequietezza degli alunni (47%) e quindi dal comportamento irrispettoso verso gli adulti (42%). I dati relativi alla scuola Primaria confermano come il “mancato rispetto delle regole” rappresenti anche per tali docenti l’aspetto più rilevante del cambiamento percepito nei propri alunni. Accanto a tale item, si registrano, con valori percentuali sostanzialmente equiparabili, la fragilità emotiva, la disattenzione e l’irrequietezza. Degni di nota sono i quadri che emergono, infine, dalle risposte fornite dai docenti della scuola Secondaria di I e II grado, che sono concordi nell’individuare i cambiamenti più importanti degli allievi: il comportamento irrispettoso verso le regole, la demotivazione all’apprendimento e la fragilità emotiva. occorre inoltre osservare come l’aspetto relativo alla scarsa motivazione degli alunni acquisti, in tali ordini scolastici, particolare valore rispetto ai cicli precedenti (rispettivamente 49% nella Secondaria di I grado e 56% nella Secondaria di II grado). Esaminando i dati in relazione all’anzianità di servizio del docente, si rileva, per tutti gli item considerati, una notevole discrepanza tra i due valori estremi (meno di 5 anni e più di 20 anni di insegnamento). Tale gap si traduce nella tendenza, da parte di coloro che hanno maggiore esperienza professionale, a percepire cambiamenti più netti rispetto al passato. La distanza percentuale tra le risposte fornite dagli insegnanti in servizio da meno di 5 anni e coloro che invece hanno alle spalle più di 20 anni di docenza è più marcata negli aspetti inerenti la fragilità emotiva, il comportamento irrispettoso verso le regole e la scarsa tenuta (fig. 2).
Fig. 2 Differenza nelle risposte tra docenti con meno di 5 anni e più di 20 anni di esperienza
Ma come erano gli alunni di cinque, dieci, quindici e venti anni fa? Il questionario ha indagato la percezione degli insegnanti al fine di cogliere le differenze tra gli alunni di oggi e quelli degli anni passati. Più precisamente, si è voluto comprendere quali difficoltà o comportamenti problematici risultino essere più accentuati ai nostri giorni, analizzandoli in relazione ad alcuni parametri temporali. III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Diviene pertanto interessante osservare i cambiamenti più rilevanti che si sono verificati nel tempo, in relazione a differenti aspetti: comportamento verso le regole, i compagni, gli adulti e gli insegnanti, capacità di superare emotivamente le difficoltà, capacità di attenzione, tranquillità, motivazione all’apprendimento, tenuta sul lavoro, vivacità nella partecipazione. Per poter raggiungere tale obiettivo, si è ritenuto opportuno operare una scelta di metodo volta a differenziare i valori relativi alle differenti fasce del campione: docenti con più di 20 anni di esperienza, e che, pertanto, hanno potuto rispondere a tutte le domande, docenti con esperienza compresa tra 10 e 20 anni (le due fasce 10-15 anni e 15-20 anni sono state considerate insieme), ed infine, docenti con esperienza dai 5 anni ai 10 anni2. Dall’analisi dei dati ne deriva un quadro che può essere così sintetizzato. I docenti con più di 20 anni di servizio ritengono che i principali cambiamenti siano ascrivibili soprattutto al comportamento degli alunni nei confronti delle regole (26 punti percentuali tra ciò che accadeva 20 e 5 anni fa). Seguono, in ordine decrescente, il comportamento verso gli insegnanti e gli adulti in generale, e la motivazione verso l’apprendimento. In relazione a tali dimensioni, i docenti denunciano, dunque, una tendenza in negativo rispetto agli anni passati. Di minor rilevanza risultano invece le differenze sul piano della vivacità nella partecipazione e della capacità di attenzione. All’estremo opposto, anche i docenti che svolgono tale professione da 5-10 anni segnalano, quale fondamentale differenza rispetto a ciò che accadeva nelle classi di cinque anni fa, il comportamento degli alunni nei confronti delle norme (34% del totale degli insegnanti afferenti a tale fascia), seguiti dalla capacità di attenzione (32%) e dalla motivazione all’apprendimento (31%). Infine, i docenti che sono in servizio da 10 a 20 anni si discostano parzialmente dai giudizi espressi dagli altri colleghi. Le risposte ottenute, infatti, sottolineano come le differenze più eclatanti siano osservabili soprattutto nel passaggio da 10 a 5 anni fa (in particolare, nel comportamento verso le regole). Si registra invece una distanza percentuale di minor rilievo tra i valori relativi a 15 e a 10 anni fa. Per alcuni item, in particolare, si verifica persino una tendenza opposta rispetto a quanto osservato nei grafici precedenti. È il caso della vivacità nella partecipazione, dimensione per la quale gli studenti di oggi appaiono positivamente cambiati rispetto ai compagni di 15 anni fa.
Interessanti spunti di riflessione possono essere inoltre ricavati dal confronto delle risposte fornite alle domande All’inizio dell’anno quanto tempo occorreva all’insegnante per creare un adeguato clima di classe funzionale all’apprendimento? e Ora quanto tempo occorre all’insegnante per creare un adeguato clima di classe funzionale all’apprendimento? Se 20 anni fa, il 77% dei docenti dedicava una/due settimane di lavoro per impostare un adeguato clima di classe (42% una settimana; 35% due settimane), nel tempo tale valore è andato modificandosi sino a raggiungere, 5 anni fa, la soglia di un mese (45%). Anche la percentuale di insegnanti che impiegano due o
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I docenti in servizio da meno di 5 anni non hanno potuto rispondere alla domanda “5 anni fa, in che cosa gli alunni erano differenti rispetto al passato?”
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tre mesi è cresciuta, passando dal 4% di 20 anni fa al 13% di 5 anni fa. In modo trasversale ai vari ordini di scuola ed indipendentemente dagli anni di esperienza professionale, la maggioranza dei docenti ritiene che, ai nostri giorni, siano necessari tra uno e due mesi per riuscire a creare un adeguato clima di classe (con la sola eccezione della scuola dell’Infanzia, i cui valori si distribuiscono tra gli item “un mese” e “due settimane”). Il trend che ne deriva pone in rilievo un evidente incremento, negli anni, del tempo necessario per riuscire a strutturare un contesto d’aula opportuno alla didattica (espresso in media delle settimane) (fig. 3). Il grafico 4 illustra nel dettaglio la tendenza nei differenti ordini scolastici (fig. 4).
84 Fig. 3 Trend temporale relativo al tempo necessario, all’inizio dell’anno, per creare un adeguato clima di classe
Fig. 4 Trend temporale relativo al tempo necessario, all’inizio dell’anno, per creare un adeguato clima di classe (Suddivisione per ordini scolastici)
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
La ricerca ha inteso inoltre comprendere il tempo necessario, all’inizio di una nuova ora di lezione, per impostare un adeguato clima di classe. Si può osservare, al riguardo, come 20 anni fa occorressero, mediamente, circa 5 minuti per impostare un buon clima di classe all’inizio di ogni ora; per raggiungere tale obiettivo, 5 anni fa, invece, i docenti impiegavano tra 10 e 15 minuti. oggi, il 45% dei docenti ritiene siano necessari 15 minuti per ottenere un buon clima di classe, ed il 37% 10 minuti. Il trend generale evidenzia dunque, anche in questo caso, come il numero dei minuti necessari per impostare un positivo clima di classe all’inizio di ogni nuova lezione sia andato negli anni sempre più aumentando in tutti gli ordini di scuola (fig. 5). Solo la scuola dell’Infanzia si caratterizza per un andamento discontinuo nel tempo (fig. 6).
85 Fig. 5 Trend temporale relativo al tempo necessario, all’inizio della lezione, per creare un adeguato clima di classe
Fig. 6 Trend temporale relativo al tempo necessario, all’inizio della lezione, per creare un adeguato clima di classe (Suddivisione per ordini scolastici)
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È stato infine chiesto ai docenti di valutare, mediamente, la distanza esistente tra le cosiddette “eccellenze”, ossia gli studenti particolarmente brillanti e meritevoli sul piano degli apprendimenti, ed il resto della classe. Secondo la maggior parte del campione (56%) sussisterebbe un discreto distacco che, negli anni, è andato aumentando.
3. Discussione
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L’analisi dei dati raccolti nell’indagine offre lo spunto per un’attenta riflessione attorno alla crescente complessità del ruolo docente e delle dinamiche relazionali che intervengono nel processo di insegnamento-apprendimento. Una prima ed interessante osservazione può essere condotta in relazione all’esperienza professionale. In modo trasversale ai vari ordini di scuola, la percentuale di insegnanti che sono in servizio da oltre venti anni risulta essere abbastanza elevata. Questo dato ci consente di ipotizzare, in riferimento alla scuola dell’Infanzia e alla scuola Primaria, la presenza sia di docenti con specifico titolo di studio (Laurea in Scienze della formazione Primaria), sia di coloro che invece risultano abilitati attraverso il solo diploma di maturità magistrale. A denunciare le difficoltà derivanti da una crescente complessità nella conduzione del gruppo classe, vi sono dunque anche coloro che hanno potuto acquisire, attraverso un percorso formativo accademico, una più puntuale specializzazione professionale. Queste sia pur brevi considerazioni pongono in evidenza la rilevanza che la formazione in servizio viene ad assumere, soprattutto se pensata alla luce delle molteplici trasformazioni sociali e culturali che la scuola italiana sta vivendo. All’interno di tale cornice, per tentare di offrire possibili risposte operative alle esigenze avvertite da un numero sempre maggiore di docenti di fronte all’acuirsi della sfida educativa, si può ricondurre l’attivazione su tutto il territorio nazionale di Master Universitari, promossi dal MIUR e specificatamente ideati per l’acquisizione di nuove e più mirate competenze3. Prendendo in esame la strutturazione delle classi per ciascun ordine di scuola e la tipologia di alunni in esse presenti possono essere avanzate ulteriori riflessioni. In particolare, si può osservare come il numero degli alunni con DSA, “maleeducati” e “pigri, ansiosi e scansafatiche” tenda ad aumentare nei livelli scolastici più elevati, quello degli alunni con disabilità e degli “eccellenti” segua un andamento più discontinuo, mentre gli allievi stranieri siano maggiormente concentrati nella scuola dell’Infanzia, nella Primaria e nella Secondaria di I grado. Quest’ultimo rilievo risulta essere in linea con i più recenti dati ministeriali (Miur, Report a.s. 2011/2012). La grande maggioranza del campione partecipante all’indagine è concorde inoltre nel ritenere che la realtà delle classi scolastiche abbia conosciuto notevoli 3
Nell'A.A. 2012/2013 è stato attivato il Master in "Didattica e psicopedagogia per i disturbi specifici di apprendimento". Nell'A.A. 2013/2014 hanno preso avvio in alcune un università italiane, in aggiunta alla seconda edizione del suddetto Master, ulteriori percorsi accademici di Alta formazione, tra i quali i Master in "Didattica e psicopedagogia per alunni con Disturbo dello spettro autistico", "Didattica e psicopedagogia per gli alunni con Disabilità Intellettive".
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
trasformazioni, anche in relazione alla difficoltà nella gestione di alunni percepiti come “problematici”. Si rende tuttavia necessaria, al riguardo, una disamina approfondita delle dinamiche e delle questioni in atto per evitare di incorrere in affermazioni sterili ed esenti da una reale volontà di analisi pedagogica. L’acuirsi delle criticità che contraddistinguono il contesto scolastico attuale rappresenta un dato di fatto, ravvisabile non solo dagli attori del sistema e dai differenti professionisti che in esso operano ma anche dalla stessa opinione pubblica. Ad una diffusa e condivisa sensazione di un crescente disagio vissuto anche dal corpo docente, nel garantire risposte di valore alle sfide educative delle nuove generazioni, si aggiungono i numerosi episodi di cronaca che di volta in volta portano alla ribalta problemi e quesiti che rimangono insoluti e che sono il segnale di un diffuso malessere giovanile. La ricerca in oggetto sembra confermare che gli alunni a scuola siano sempre più difficili da gestire; per poter meglio comprendere tale affermazione, si potrebbe analizzare inoltre la trasformazione avvenuta nell’organizzazione scolastica, a partire dagli anni Settanta, in particolare dopo l’approvazione della legge n.517/1977. Da quel momento si è infatti fatta strada l’idea di una scuola che fosse davvero aperta a tutti. Ma l’integrazione degli alunni disabili ha portato con sé numerose difficoltà a livello sia didattico sia relazionale e gestionale: da un lato, si è delineata la necessità di una maggiore preparazione dei docenti e del conseguente sviluppo di nuove competenze, dall’altro l’esigenza di una nuova organizzazione dei tempi e degli spazi scolastici (aule di classe, aule di sostegno) e dell’inserimento nel team docente di nuove figure educative (insegnante di sostegno, assistente educativo, assistente alla comunicazione). A tale proposito, si comprende, pertanto, come l’unitarietà di intenti sia necessariamente diventata il traguardo auspicabile della scuola di oggi proprio per il numero sempre maggiore di persone che lavorano con e per il bambino. Un aspetto di grande rilevanza, che emerge dalla ricerca, ed in particolare dalle risposte dei docenti con più di 20 anni di esperienza professionale, è il comportamento irrispettoso verso le regole da parte degli alunni di oggi o la totale assenza di esse. La causa di ciò potrebbe essere addotta al presupposto che la regola sia intesa, da molti adulti, come una limitazione della libertà, un divieto, un atteggiamento negativo; in realtà, definire principi orientativi significa, invece, costituire dei confini entro i quali ciascun soggetto possa sentirsi davvero libero ed autonomo. La definizione di una regola educativa diventa, pertanto, indice della capacità, prima dei genitori e poi degli educatori, di offrire uno spazio chiaro di limiti, entro cui si possano, però, realizzare delle azioni di libertà; essa definisce un campo di azioni possibili e un campo di azioni impossibili; deve però essere chiara, sostenibile e condivisa dalla rete cui appartiene il minore (Novara, 2005). Quando si sente dire “quel bambino non sta alle regole” bisognerebbe essere in grado di indagare quanto esse siano esplicite all’interno del suo contesto di vita e quanto gli adulti di riferimento le condividano e le rispettino. I risultati conseguiti da tale indagine dimostrano come, accanto alla difficoltà di definire regole univoche e condivise, conseguenza del relativismo culturale, da cui la società e quindi la scuola sono caratterizzate, debba essere considerata anche l’estensione delle richieste sociali verso lo stesso sistema scolastico.
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Conclusioni
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La complessità che caratterizza il sistema scolastico sembra, oggi, essere meno ancorata alle difficoltà oggettive derivanti, per esempio, dalla condizione di disabilità di un alunno e dalla realizzazione di processi di integrazione, quanto piuttosto ad una pluralità ed eterogeneità di problematiche, più o meno evidenti ed espresse. Nell’affrontare i disagi dei ragazzi, la scuola si confronta con bambini, adolescenti e adulti il cui statuto sociale è profondamente mutato. Essa si trova a svolgere funzioni intrinsecamente molto differenti: oltre a quelle tradizionali, didattiche e formative, le sono attribuite anche quelle educative in senso stretto. Interessante a questo proposito, l’interpretazione di gauchet che, quando si interroga sulle difficoltà inedite, e per certi versi crescenti, che l’impresa educativa incontra nella società contemporanea, sottolinea che “a cambiare sono gli esseri ai quali la scuola si rivolge” (gauchet, 2010, p.17). Tali difficoltà vengono definite “sorprendenti” se si considera che l’importanza della formazione non è mai stata così riconosciuta e che la domanda globale di educazione non è mai stata così forte. A cambiare sono i destinatari cui la scuola si rivolge; secondo l’antropologo francese, si assiste ad una vera e propria “ricomposizione dell’infanzia e della giovinezza” che scuote il sistema educativo e che “genera esigenze alle quali il sistema stesso non è preparato a rispondere, a modificare il senso dell’insegnamento agli occhi di chi ne è il beneficiario cambiandone l’identità e le prospettive esistenziali”. Muovendo da tali considerazioni la ricerca realizzata ha voluto dare voce proprio a coloro che sperimentano tale complessità nel lavoro quotidiano, per cercare di comprendere se ed in quale misura il compito educativo della scuola possa essersi trasformato nel tempo e quali siano i bisogni emergenti a cui cercare di dare risposta nei percorsi di formazione degli insegnanti. L’obiettivo non è stato certo quello di fornire né un quadro esaustivo della realtà scolastica attuale né tantomeno risposte definitive, quanto piuttosto di acquisire nuovi elementi da indagare e approfondire per sostenere in modo coerente gli insegnanti e, accanto a loro, le famiglie nel difficile compito di educare le nuove generazioni, in bilico tra il progresso dell’era digitale e l’impoverimento culturale del relativismo etico.
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Il potenziamento della lingua scritta in bambini stranieri: una ricerca
Keywords: linguistic training, cognitive appraisal, foreign students, L2, socio-cultural disavantages.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
This work shows the application of an educational training, inspired to the training “Let’s understand each other- from the sign- to the written Italian language” (“Capiamoci- dalla lingua dei segni italiana alla lingua italiana scritta”) by Baldi, Giorgetti e Pelizzari (2008), and it addresses who teach or work within the educational area. It is aimed at improving linguistic ability and involved a sample of foreign children ( N = 21), who were recently introduced into the Primary Italian school and put into a course of basic linguistic literacy. First of all, the research reports data from a screening on the level of the learning ability and of cognitive functioning. This allows to obtain some information about the child’s abilities and it permits to have a clearer picture of the initial situation, in order to intervene on his difficulties in a more specific and productive way. The sample has been divided into two subgroups ( Group 1: experimental; Group 2: control) and only the experimental group has been presented with the training related to the linguistic improvement of the written language. The two subgroups have been given didactical tests to evaluate some basic abilities for the acquisition of a second language. The results of the pre and post training underline the efficacy of the training in relation to the listening, written and reading tests.
abstract
Francesca Nardò / Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano / 1francesca_nardo@tiscali.it
III. Esiti di ricerca
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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1. Gli obiettivi della ricerca
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La scuola primaria italiana si trova sempre più spesso impegnata a seguire bambini non italofoni che nel loro percorso migratorio hanno iniziato a costruire il loro sistema linguistico e le loro abilità cognitive in lingua madre. Per questi giovani alunni, il mantenimento della lingua madre è assicurato solo all’interno dell’ambiente familiare o della comunità d’appartenenza e spesso solo in forma orale. Gli studi più recenti della linguistica acquisizionale evidenziano come il rapporto tra L1 e le altre lingue non debba essere considerato come la coesistenza di due sistemi linguistici separati. Le due lingue costituiscono, invece, un sistema di abilità comuni. Di Lucca e Masiero (2005) utilizzano la metafora di un iceberg: «le competenze di un plurilingue assomigliano a un iceberg: in superficie, si notano due blocchi separati, la L1 e la L2; eppure, sott’acqua, si vede che si tratta di un blocco unico, costituito da tutte le competenze e abilità comuni, che vengono facilmente trasferite da una lingua all’altra (ad esempio, la capacità di riassumere, raccontare, risolvere problemi, classificare, astrarre). Quindi se un apprendente ha già interiorizzato tali strategie linguistico-cognitive in lingua materna, queste sono trasferibili anche in L2». Ne consegue che interrompere bruscamente l’apprendimento della lingua materna può comportare difficoltà maggiori nello sviluppo cognitivo dell’individuo-studente, difficoltà che si ripercuoteranno anche sull’acquisizione della seconda lingua. E’ in base a tali considerazioni che il linguista canadese Jim Cummins (1984) promuove l’istruzione bilingue, basandosi anche su numerose ricerche condotte nell’ambito delle neuroscienze cognitive, che dimostrano come questo modello dia esiti scolastici superiori sia nella L1 che nella L2. Secondo questa prospettiva un soggetto che ha acquisito più lingue durante la prima e la seconda infanzia, ossia entro i primi sette/otto anni di vita, ha un accesso tendenzialmente diretto ai sub-sistemi neuro-funzionali che processano le lingue acquisite (Spivey, Marian, 1999; Schulpen et al., 2003). Ciò significa che l’input di tutte le lingue padroneggiate viene percepito, analizzato e processato direttamente da sub-sistemi specifici per ciascuna di esse, senza incorrere in fenomeni di traduzione. Alcuni recenti esperimenti nel campo delle neuroscienze cognitive applicate all’acquisizione linguistica hanno tuttavia messo in luce la possibilità che nei soggetti che apprendono una seconda lingua allo scadere dei periodi critici si verifichino mutamenti neurobiologici importanti determinati dalla prolungata attivazione dei sub-sistemi neurali specifici per la seconda lingua. Secondo queste ricerche sono possibili fenomeni di “convergenza” tra le aree che processano la lingua materna e quelle che elaborano la seconda lingua (Gullberg, Indefrey, 2006). In altre parole, inizialmente le aree cerebrali deputate all’elaborazione del codice in via di apprendimento sarebbero diverse da quelle che processano la lingua materna. In un secondo momento, grazie ad alcuni fattori quali la frequenza d’uso e la motivazione connessa all’apprendimento, può accadere che le aree specifiche per la seconda lingua convergano verso quelle della lingua materna. È ipotizzabile pertanto che anche in età adulta, in corrispondenza ai fenomeni di convergenza, sia possibile pervenire ad un accesso diretto ai subsistemi neuro-funzionali che processano tutte le lingue acquisite. Attualmente la maggior parte degli studiosi del settore sembra convenire sulII. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
l’esistenza di un sistema lessicale-concettuale tripartito, che comprenderebbe due magazzini distinti per il lessico rispettivamente della prima e della seconda lingua, ed un sistema concettuale unico per entrambi i codici (Brauer, in Healy, Bourne, 1998; Pavlenko, in Fabbro, 2002; Abel, 2003). I magazzini lessicali sarebbero inoltre connessi direttamente al sistema concettuale, rappresentato bilateralmente nel cervello. Il quadro neurobiologico descritto consente di formulare alcune linee guida generali per l’insegnamento della lingua materna, seconda e straniera. Condizione imprescindibile alla realizzabilità delle riflessioni proposte è il coinvolgimento emotivo dell’allievo. I progressi nell’acquisizione di una L2 sono legati a variabili soggettive e oggettive. Secondo la teoria della valutazione emotiva dell’input definita Stimulus Appraisal Theory (Schumann, 1999; 2004), l’allievo giudica l’input rapportandolo sempre ai propri desideri e bisogni. Non sempre questi ultimi, però, coincidono con gli obiettivi e i contenuti che l’insegnante seleziona per l’attività didattica; si può creare cioè un divario tra bisogni oggettivi (carenze linguistiche, necessità di rafforzamento di alcune abilità, difficoltà nel metodo di studio, ecc.) che l’insegnante individua nelle prime fasi di avvio di un corso, e bisogni soggettivi, legati invece sia agli interessi degli alunni sia alla loro percezione circa le proprie competenze linguistiche e non. Queste considerazioni mettono in evidenza l’importanza di una valutazione delle competenze in grado di attestare, in diverse fasi dell’anno scolastico, i livelli di apprendimento raggiunti dalla classe nel suo complesso e dai suoi singoli componenti. In questa sezione del lavoro ci si propone di illustrare i risultati di una ricercaintervento, condotta su un gruppo di ventuno allievi stranieri frequentanti la scuola primaria dell’Istituto Comprensivo “A. Moro” di Corbetta. La particolarità di questo istituto consiste nella sua collocazione nell’ambito di un territorio caratterizzato da rilevanti flussi migratori di stranieri, attratti dalle possibilità di impiego nell’area metropolitana milanese e dai minori costi degli alloggi. L’Istituto “A. Moro”, costituito da scuole statali dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado, contava nel 2010 una popolazione scolastica straniera pari al 15% (66 su 1374 alunni). In sensibile aumento, inoltre, è il numero degli alunni stranieri di recente e recentissima immigrazione, provenienti da Paesi europei ed extraeuropei. Nella scuola primaria, il numero degli iscritti stranieri era ancora più consistente, dal momento che essi raggiungevano il 22,9% delle presenze complessive (19 su 83). Questa rilevante presenza straniera è caratterizzata, dal punto di vista sociale, da una provenienza familiare e da motivazioni di insediamento molto diverse. Accanto ai figli di lavoratori stranieri del settore secondario e terziario, vi sono alunni che provengono dai sei campi Rom ubicati nel territorio di Corbetta e alunni cosiddetti “itineranti”, vale a dire bambini figli di giostrai che per tempi anche lunghi stazionano nel comune in occasione di determinate festività. Questa presenza di un’ampia popolazione di bambini stranieri ha favorito il progressivo perfezionamento, nel contesto dell’Istituto di Corbetta, di un approccio accogliente e interculturale fondato su prassi didattiche dirette a favorire un’integrazione naturale, pur nel riconoscimento e nella valorizzazione delle rispettive culture di provenienza. L’obiettivo pedagogico dell’Istituto, infatti, è quello di promuovere atteggiamenti di rispetto, tolleranza, fiducia e accettazione dell’altro. La ricerca ha inteso valutare l’efficacia di un training didattico, valutando i di poanno I | n. 2 | 2013
FRANCESCA NARDò
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tenziamento linguistico sia in forma collettiva che individuale. Questa verifica appare necessaria per rimodulare i contenuti dell’insegnamento e gli interventi di sostegno personali, allo scopo di rinforzare le abilità ricettive e produttive del discente. L’interesse per questo specifico ambito di ricerca va messo in relazione con la mia attività di insegnante e con le esigenze, più volte avvertite, di disporre di uno strumento di verifica agile e attendibile. Se infatti la valutazione delle dinamiche emotive e motivazionali dell’input (la cui attivazione positiva rappresenta un prerequisito dell’apprendimento) è affidata alla sensibilità dell’insegnante, la verifica delle competenze linguistiche concretamente acquisite deve essere affidata a uno strumento empirico di valutazione. In particolare è stata effettuata una prova collettiva, da tutta la classe, per evitare le condizioni di stress prolungato che sono legate, ad esempio, a un’interrogazione di fronte all’intera classe, un’attività che potrebbe minare l’autostima e il senso di sicurezza dell’allievo.
2. Metodo
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Hanno preso parte alla ricerca-intervento ventuno alunni non italofoni frequentanti la scuola primaria dell’Istituto Comprensivo Statale “A. Moro” di Corbetta. Si tratta di alunni di recentissima immissione nella scuola italiana e che hanno partecipato, al momento della ricerca, ad un corso di prima alfabetizzazione linguistica presso la stessa scuola primaria, corso da me seguito in qualità di insegnante facilitatrice dell’insegnamento dell’Italiano come seconda lingua. Tale profilo è previsto dal MIUR che predispone ogni anno scolastico dei progetti volti a favorire l’integrazione alunniricerca, stranieri e nomadi nei diversi ordini e gradi scolastici. Ai fini didella sono stati individuati due sottogruppi: un gruppo Ai fini della ricerca, sono stati individuati due sottogruppi: un gruppo speris mentale e un gruppo di controllo. L’assegnazione dei bambini a uno dei due gruppi è avvenuta in maniera randomizzata. I Il gruppo sperimentale è composto di 10 bambini (5 maschi e 5 femmine), aventi un’età media in mesi pari a 104,8 (d.s. = 19,36). Il gruppo di controllo è composto di 11 bambini (7 maschi e 4 femmine), con età media in mesi pari a 109 (d.s. = 24,97). 1° 2° 3° 4° 5°
Totale
Gr. sperimentale
Gr. controllo
2
3
3 2 0 3
10
2 1 1 4
11
Tab. 1: Distribuzione dei partecipanti in relazione alla classe frequentata
La distribuzione per classe dei due gruppi di alunni risulta sostanzialmente equilibrata dal punto di vista dell’entità delle presenze per ciascuna classe frequentata. (tab.1). II. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
3. Gli strumenti utilizzati
La verifica delle competenze linguistiche del campione è stata condotta mediante l’utilizzo di una pluralità di strumenti di valutazione. Il passo preliminare è consistito nella somministrazione, durante la fase di pre- e post- test, agli alunni di alcune prove di ingresso di italiano L2, elaborate dal Comune di Padova nell’ambito del progetto di Integrazione scolastica degli alunni stranieri. Il kit si configura come un vero e proprio test linguistico e ha uno scopo esclusivamente diagnostico. Questa prima fase di verifica, però, non ha avuto lo scopo di valutare il livello di competenza linguistico-comunicativa degli allievi, ma solo di fornire informazioni generali per introdurre le altre prove e per formulare eventuali interventi di sostegno linguistico personalizzato. In particolare, le prove di ingresso sono state ideate per valutare la competenza linguistica di allievi di lingua madre e cultura diversa e con un diverso livello di scolarizzazione. Il kit di prove comprende le Prove d’ingresso per le classi 1a e 2a della scuola primaria e le Prove d’ingresso per le classi 3a, 4a e 5a della scuola primaria. Le prove sono articolate sulla base delle quattro abilità di base e si suddividono in prove: di ascolto, di produzione orale, di lettura, di produzione scritta. Il pacchetto di prove comprende prove di tipo strutturato, semi-strutturato o non strutturato, con l’uso molto frequente di immagini per aiutare gli alunni a non bloccarsi in partenza davanti a un codice linguistico poco noto e per limitare al minimo il ricorso alla lingua scritta quando non è questa ad essere oggetto di verifica. La progettazione di ciascuna prova ha tenuto presenti una serie di parametri come i livelli di accessibilità da parte degli alunni e quelli di economicità di somministrazione e valutazione da parte degli insegnanti. Va rilevato come queste prove presentino il vantaggio di essere illustrate con particolare rigore e semplicità. L’attenzione nella stesura delle indicazioni è giustificata dal fatto che la variabile dell’arbitrarietà di somministrazione deve incidere il meno possibile sui risultati. Nelle avvertenze generali vengono date indicazioni precise sul modo in cui è opportuno condurre la prove, mentre nelle indicazioni per le singole prove sono fornite istruzioni minuziose sulle consegne da dare. Come si è detto, il materiale è congegnato in modo tale da presentare una serie di figure di facile individuazione. Il kit utilizza prove di ascolto e di associazione visiva, in esercizi di accoppiamento tra parole e immagine, in esercizi di completamento di parole di uso corrente e di redazione di frasi associate ad immagini. Tutte le prove devono essere svolte individualmente. Il primo item è considerato di prova e non viene valutato, anche se esso deve fare in modo che l’allievo capisca bene quello che deve fare. L’assegnazione e l’elaborazione dei punteggi consente di individuare tre livelli di competenza: buona, sufficiente e insufficiente. Ad esempio, la prova di apertura, denominata “Ascolto” prevede che l’alunno indichi l’immagine dopo averne ascoltato il suono. La prova di produzione orale prevede che l’alunno ripeta la frase, risponda alle domande e guardi l’immagine descrivendo che cosa vede. La prova di lettura consiste nell’unire la parola scritta alla sua immagine.
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Successivamente si è proceduto all’applicazione di una batteria di prove di competenza linguistica sul campione di ventuno alunni. Gli strumenti utilizzati sono consistiti nei test PRCR-2 (Cornoldi, Miato,Poli e Molin, 2009) e CPM, Matrici Colorate di Raven (John Carlyle Raven,1938;1965) Le prove PRCR-2 costituiscono una versione aggiornata e standardizzata delle prove PRCR ideate e presentate da Cornoldi, Miato, Molin e Poli nel quadro di un programma per la promozione delle abilità di lettura e scrittura. Le prove sono state ideate per l’esame degli alunni della scuola materna e dei primi due anni della scuola primaria e per la diagnosi di casi con difficoltà di apprendimento fino alla quinta classe. Per acquisire una migliore conoscenza delle capacità di lettoscrittura del bambino e permettere un intervento di supporto, gli autori hanno previsto una batteria di prove-criterio che esamina, in maniera molto semplice e rapida, il livello di possesso di abilità cognitive generali e prerequisiti specifici, che sono alla base dell’apprendimento della lettura e della scrittura. I “prerequisiti” sono abilità cognitive che si riferiscono ad una specifica area di competenze che il soggetto deve possedere perchè l’apprendimento si compia con successo. Il test si propone di misurare due tipologie di abilità: a) i “prerequisiti generali” (o di base) all’apprendimento della lettura e della scrittura; b) i “prerequisiti specifici”, vale a dire quelle componenti delle abilità generali di base che sono legate in particolar modo alla lettura e alla scrittura: Il test si articola, quindi, nelle sei aree che indagano i prerequisiti coinvolti nell’apprendimento della lettura e della scrittura, quali: – la capacità di analisi visiva degli stimoli; – la capacità di seguire l’orientamento del testo da sinistra a destra; – la capacità di discriminare i suoni che costituiscono la parola e di mantenerli in memoria il tempo necessario per leggerli o scriverli; – la capacità di creare un’integrazione fra gli stimoli visivi e uditivi; – la capacità di costruire quello che viene chiamato lessico mentale, che permette al lettore di riconoscere le parole nella loro interezza. La batteria di prove incluse nelle sei aree può essere somministrata anche dall’insegnante privo di una particolare competenza. Una parte delle prove deve essere proposta individualmente, un’altra parte può essere somministrata collettivamente. La registrazione delle risposte errate permette di individuare il tipo di errore più frequente. La prova ha, quindi, una funzione diagnostica, in quanto suggerisce specifici ambiti di intervento didattico per ridurre la frequenza di errori. Come detto sopra l’acquisizione di una seconda lingua porta infatti alla creazione di un sistema modulare complesso in cui le due competenze sono accostate e L1 tende a veicolare suggerimenti lessicali e morfosintattici che possono determinare errori e difficoltà di comprensione. Le prove PRCR-2 utilizzate nella ricerca sono state: – l’AV3 (riconoscimento di lettere); – l’SD1 (denominazione di oggetti); – l’SD3 (riconoscimento di due lettere); – l’SD4 (ricerca di sequenza di lettere); – il DUR 1 (ripetizione di parole senza senso); – il DUR 2 (analisi e segmentazione fonetica); II. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
– il MUSFU 1b (span di sillabe); – l’IVU 2 /GV1 (lettura di parole non parole). Al campione di ventuno alunni sono state proposte le matrici colorate di Raven. Le matrici sono costituite da tre serie di matrici o figure, per complessivi 36 item, che richiedono la soluzione di problemi visuo-spaziali attraverso processi di pensiero percettivo-analogico e logico-astratto. Più in particolare, in ogni scheda viene richiesto di completare una serie di figure con quella mancante scegliendo tra diverse alternative per completare in modo appropriato il modello presentato. Esse permettono, quindi, di valutare la capacità di individuare un’organizzazione sistematica in configurazioni grafiche complesse. Ogni gruppo di item diventa sempre più difficile, richiedendo una sempre più elevata capacità di analisi, codifica, interpretazione e comprensione degli item. Le figure modello comprendono dei motivi grafici che si modificano da sinistra a destra secondo una certa logica, e dall’alto verso il basso secondo un’altra. L’alunno deve comprendere queste logiche e applicarle per arrivare alla soluzione. I test richiedono quindi di analizzare, costruire ed integrare fra loro una serie di concetti. Poiché i risultati dipendono, in misura minore di quanto non avvenga per altri reattivi, dal fattore educativo, le matrici di Raven sono uno strumento utile per valutare l’efficienza intellettiva anche in casi di difficoltà linguistica. Attraverso questa prova è possibile comprendere la maturazione intellettiva dell’alunno rispetto a cinque livelli progressivi di elaborazione: – I livello: capire il concetto di uguaglianza o differenza (discriminazione di forme uguali o diverse); – II livello: saper cogliere l’orientamento delle configurazioni; – III livello: saper cogliere analogie dei cambiamenti; – IV livello: capacità di analizzare il tutto nelle singole parti costituenti; – V livello: percezione figure astratte (sia come forme prese singolarmente sia come parti di un tutto). Infine è stata condotta una verifica mediante post-test, orientata a monitorare il miglioramento e l’efficacia dell’insegnamento in atto. Per questa verifica conclusiva si sono utilizzati gli stessi test impiegati nella fase introduttiva della ricerca, vale a dire i test di ingresso mediante esercizi di associazione tra immagini e produzione scritta. La prova, nelle sue diverse articolazioni, ha avuto la durata di 60 minuti. Le registrazioni delle consegne delle prove sono state proposte al bambino insieme agli item di esempio. Una volta verificata la comprensione delle consegne si è proceduto con la prova vera e propria. Gli strumenti utilizzati e somministrati nella fase di pre e post test sono stati i medesimi, ovvero le prove contenute nel kit elaborato dal comune di Padova nell’ambito del Progetto id integrazione scolastica degli alunni stranieri. (Debetto, Peccianti, 2008).
4. Descrizione del training
Durante il trattamento è stato utilizzato il programma didattico interattivo intitolato “ Tutti per uno, una lingua per tutti”, ispirato al software “Capiamoci” realizzato da Pier Luigi Baldi, Marisa Giorgetti, e Moira Pelizzari (2008). Il software anno I | n. 2 | 2013
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si pone la finalità di accompagnare i bambini affetti da sordità all’uso scritto della lingua italiana con gradualità, utilizzando la Lingua dei Segni Italiana (LIS) come “ponte” per l’apprendimento. La scelta di utilizzare i medesimi principi audio-visivi nell’ambito di un potenziamento linguistico per alunni stranieri di recentissima immissione nella scuola italiana deriva dall’esigenza di fornire le strumentalità di base ai discenti in maniera strutturata che non può prescindere, almeno in una prima fase di alfabetizzazione linguistica, dall’adozione di un metodo orale che riconosca molta importanza all’allenamento acustico e all’abbinamento della parola all’oggetto che essa indica, attraverso l’associazione del termine e la relativa immagine. I bambini stranieri di recentissima immissione nella scuola italiana sono paragonabili, almeno in una prima fase di alfabetizzazione linguistica, ai bambini sordi. Senza un linguaggio adeguato alle necessità del bambino sordo, così come al bambino non italofono, sono negati i rapporti con gli altri e di conseguenza possono essere compromessi lo sviluppo cognitivo e la formazione personale del bambino stesso (Caselli et al., 1994). Le agenzie educative quali la famiglia, la scuola e le strutture extrascolastiche che si trovano a dover affrontare l’educazione di un bambino sordo o non italofono spesso non sono preparate ad una comunicazione che non sia strettamente verbale. Poiché nella nostra cultura i bambini entrano precocemente in contatto con la scrittura, gli alunni si trovano a misurarsi assai spesso con problemi di comunicazione anche nel linguaggio scritto: lo scrivere è un’attività complessa, che richiede l’integrazione di competenze cognitive generali (percezione, memoria, ecc.), oltre che una pratica sociale. Il training è stato condotto nel laboratorio linguistico dell’Istituto ed ha coinvolto il gruppo sperimentale del campione iniziale (N = 21), mentre il gruppo di controllo seguiva la programmazione didattica della classe in cui era inserito. Per il trattamento linguistico sono stati utilizzati gli elementi di base (articoli, nomi e verbi di frequenza d’uso di immaginabilità elevate) ed alcune strutture morfosintattiche, ampliando in tal modo il lessico di ciascun discente. La scelta dei contenuti deriva anche dall’impostazione ludica; i discenti sono stati sottoposti al trattamento in modalità collettiva, con l’ausilio di un video proiettore e di una lavagna interattiva multimediale. I discenti erano stimolati nella visualizzazione dell’immagine e della relativa associazione del simbolo grafico e fonetico (immagine-parola). Ciò rispecchia due distinte fasi del processo di apprendimento: – fase di addestramento, in cui il discente è esposto per i nomi e per i verbi all’associazione tra l’immagine figurativa, la corrispondente parola scritta e corrispondente stimolo fonemico acustico. Tutti i nomi e i verbi sono scritti in stampato maiuscolo. – fase di attivazione, che coincide con il momento di auto-apprendimento del discente in cui si richiede a ciascuno di mettere alla prova quanto appreso, attraverso l’utilizzo dell’area-gioco del programma per verificare le conoscenze acquisiste. Il programma è articolato in quattro Unità didattiche tematiche che offrono la possibilità al singolo di acquisire, in primis, una varietà lessicale relativa ai vari contesti di vita del discente e di consolidare poi le abilità di base per l’acquisizione di una lingua straniera.
II. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
5. Risultati
Tra il gruppo sperimentale e il gruppo di controllo non si evidenziano differenze gruppo sperimentale e il gruppo di controllo non si evidenziano significativeTra peril quanto riguarda le prove di screening PRCR2 e CPM, come riportatod nella tabella seguente. Infatti, tutti i Test di Student con 19 gradi di libertà Infatti, tutti i Test di Student con 19 gradi di mostrano un p value maggiore del valore soglia di 0,05. l
Gruppo
Gruppo di controllo
sperimentale Media 2,70
AV3 (n. err.) (riconoscimento di lettere)
9,30
SD1 (n.err.) (denominazione di oggetti)
182,40
SD1 (t in sec.)
208,10
SD3 (t.in secondi) (riconoscim. di due lettere)
6,60
SD3 (n.Err.)
291,70
SD4 (t in sec.) (ricerca di sequenza di lettere) SD4 (n.err.)
DUR1 (n.err) (ripetizione di parole senza senso)
DUR 2 (n.err) (analisi e segmentazione fonetica) SPAN (sillabe)
4,10 7,60 6,20 4,10
6,10
errori GV1
,00
errori IVU 2
21,40
TotCPM
Deviazio ne std.
Media
5,376
6,91
1,636
111,511 68,514 2,271
131,773 2,885 2,459 1,687 1,101
1,449 ,000
7,792
Deviazio
t
p
1,293
1,803
,087
1,307
,207
ne std.
1,55
3,477
126,82
82,526
177,27
55,547
5,91
2,166
218,00
77,931
3,64
1,690
6,18
2,714
5,36
1,567
5,27
1,737
5,27
1,618
,00
,000
24,45
9,278
(df = 19) 1,222 1,137 ,714
1,578 ,455
1,250 1,178
-1,825 1,229 ,000
-0,81
,237 ,269 ,484 ,131 ,654 ,226 ,253 ,084
,234
1,00 ,427
Tab. 2: PRCR2 e CPM: Medie e variabilità dei punteggi riportati dai due gruppi e significatività delle differenze
Si presentano i risultati delle prove riferite somministrazione fasi preriferite alla alla somministrazione delle delle fasi pre(T1) e (post- training (T2), in cui si è ottenuta la significatività dell’interazione tempo (T1 vs T2) x Gruppo (Sperimentale vs Controllo), applicando un’ANOVA mista, con un fattore ripetuto (Tempo) e uno indipendente (Gruppo). Prova A1: ASCOLTA E SCEGLI L’IMMAGINE GIUSTA
Emerge un’interazione significativa tempo * gruppo (F1,19 = 6,57, p = 0,019) per cui mentre il gruppo sperimentale riduce gli errori, il gruppo di controllo li aumenta Fig. 1). Non ci sono altri fattori significativi. 2
1,5
1,6
1
0
1,3
1,27
0,5
T1
1,82
Tempi
Sperimentale
T2 Controllo
Fig. 1: Prova A1 Interazione*Gruppo:media degli errori
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99
Questa prova di ascolto richiedeva una capacità di percepire con precisione l’emissione fonetica nelle sue corrette articolazioni, mettendo in atto un’associazione con la figura riprodotta. L’esito di questa prova dipende dal livello di concentrazione degli alunni, oltre che dalle loro capacità di memorizzazione dei fonemi. Prova B3: GUARDA LE IMMAGINI E DESCRIVI COSA VEDI
Per quanto riguarda il punteggio di errore alla prova B3, emerge un’interazione significativa tempo * gruppo (F1,19 = 13.01, p = 0,002) (Fig.2), per cui mentre il gruppo sperimentale dimezza il numero di errori, il gruppo di controllo rimane sostanzialmente stabile. La significatività del fattore tempo (F1,19 = 13.01, p = 0,002) è da attribuirsi quindi soltanto all’apporto del gruppo sperimentale.
4 3,5 3 2,5 2 1,5 1 0,5 0
100
3,4
2,45
T1
2,45
1,7
Tempi
Sperimentale
T2 Controllo
Fig. 2: Prova B3 Interazione*Gruppo: media degli errori
In questo caso l’allievo era chiamato ad osservare una scena scolastica animata e a “dare un nome” ai soggetti e agli oggetti visualizzati. Se le prove precedenti richiedevano sostanzialmente l’attivazione della memoria sensoriale, qui era in gioco la memoria di lavoro, in quanto si richiedeva di nominare persone ed oggetti. Il gruppo sperimentale, ha dimostrato di sapere capitalizzare meglio questo tipo di memoria funzionale. Prova C1: UNISCI PAROLE E IMMAGINE GIUSTA
Per quanto riguarda il punteggio di errore alla prova C1, emerge un’interazione significativa tempo * gruppo (F1,19 = 5,02, p = 0,037) (Fig.3) per cui mentre il gruppo sperimentale migliora la propria prestazione, il gruppo di controllo aumenta il numero di errori. Non ci sono altri fattori significativi.
II. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
2
1,63
1,5
1,7364
1,3227
1,12
1
0,5
0
T1
Tempi
Sperimentale
T2 Controllo
Fig. 3: Prova C1 Interazione*Gruppo:media degli errori
Trattandosi di una prova che richiedeva di associare una parola a una figura, il gruppo sperimentale ha conseguito un risultato migliore nell’utilizzazione di questo tipo di memoria associativa. In particolare, questa capacità di abbinamento risulta utile quale primo livello di un’associazione che progressivamente assume un grado sempre maggiore di astrazione. Prova C3: UNISCI PAROLE E IMMAGINE GIUSTA
Per quanto riguarda il punteggio di errore alla prova C3, emerge un’interazione significativa tempo * gruppo (F1,19 = 6,46, p = 0,02) (Fig.4) per cui mentre il gruppo sperimentale migliora la propria prestazione, il gruppo di controllo aumenta il numero di errori. Non ci sono altri fattori significativi.
2,5
1,8
2
1,5
2
1,2
1,55
1
0,5
0
T1
Tempi
Sperimentale
T2 Controllo
Fig. 4: Prova C3 Interazione*Gruppo: media degli errori
Il gruppo sperimentale è caratterizzato da una migliore prestazione associativa anche nella prova che richiedeva di abbinare una figura ad una frase. In questo caso il risultato è tanto più significativo in quanto la frase, per quanto semplice, illustrava un’azione in atto (“il papà guida la macchina”), richiedendo quindi una competenza linguistica maggiormente articolata. P
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Prova C4: LEGGI IL TESTO E SCEGLI L’IMMAGINE GIUSTA
Per quanto riguarda il punteggio di errore alla prova C4, emerge un’interazione significativa tempo * gruppo (F1,19 = 9,95, p = 0,005) per cui, mentre il gruppo sperimentale migliora la propria prestazione, il gruppo di controllo aumenta il numero di errori. Non ci sono altri fattori significativi.
I dati della prova confermano il miglioramento del gruppo sperimentale anche in relazione a richieste di abbinamento testo-figura maggiormente complesse dal punto di vista dell’articolazione linguistica (“il gatto di Luca gioca con il cane”).
2
1,5
1,6
1,73
1,27 1
1
0,5
0
T1
Tempi
Sperimentale
102
T2 Controllo
Fig. 5: Prova C4 Interazione*Gruppo: media degli errori
Prova D2: SCRIVI LA PAROLA GIUSTA SOTTO OGNI IMMAGINE
Questa prova è consistita in un semplice esercizio di attribuzione di un nome, attraverso un processo mnemonico di individuazione visiva di un oggetto. Per quanto riguarda il punteggio di errore alla prova D2, emerge un’interazione significativa tempo * gruppo (F1,19 = 18,59, p < .001) (Fig.6), per cui mentre il gruppo sperimentale annulla quasi il numero di errori, il gruppo di controllo ha un leggero peggioramento. La significatività del fattore tempo (F1,19 = 14,80, p = 0,001) è da attribuirsi quindi soltanto all’apporto del gruppo sperimentale.
3
2,5 2
2,5
1,73
1,5
1,82 0,9
1
0,5 0
T1
Tempi
Sperimentale
T2 Controllo
Fig. 6: Prova D2 Interazione*Gruppo: media degli errori
II. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Prova D3: SCRIVI E COMPLETA LE FRASI
Per quanto riguarda il punteggio di errore alla prova D3, emerge un’interazione significativa tempo * gruppo (F1,19 = 17,20, p = .001) (Fig.7), per cui mentre il gruppo sperimentale riduce notevolmente il numero di errori, il gruppo di controllo ha un leggero peggioramento. La significatività del fattore tempo (F1,19 = 4,92, p = 0,039) è da attribuirsi quindi soltanto all’apporto del gruppo sperimentale.
3
2,7
2,5
1,73
2
1,5
2,09
1,5
1
0,5 0
T1
Tempi
Sperimentale
T2 Controllo
Fig. F 7: Prova D3 Interazione*Gruppo: media degli errori
Il gruppo sperimentale ha dimostrato anche in questa prova, più complessa delle precedenti, una capacità di completare nominalmente e di articolare sintatticamente la frase. Prova D4: GUARDA LE IMMAGINI E SCRIVI UNA FRASE
Per quanto riguarda il punteggio di errore alla prova D4, emerge un’interazione significativa tempo * gruppo (F1,19 = 15,29, p = .001), per cui mentre il gruppo sperimentale riduce notevolmente il numero di errori, il gruppo di controllo ha un leggero peggioramento (Fig.8). Non ci sono altri fattori significativi.
3,5
3
3
2,5
2,09
1,9
2
1,5
2,64
1
0,5
0
T1
Tempi
Sperimentale
T2 Controllo
Fig. 8: Prova D4 Interazione*Gruppo: media degli errori
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L’ultima prova ha richiesto, da parte degli alunni, lo sforzo elaborativo più complesso, con esiti del tutto analoghi a quelli riscontrati in precedenza. Il gruppo sperimentale è caratterizzato da valori che attestano un significativo miglioramento nella capacità di elaborazione linguistica. Totale
In conclusione, è stato calcolato l’errore medio totale, sia della fase pre e post training, tenendo in considerazione tutte le prove somministrate. Si evince che l’interazione tempo*gruppo è significativa (Fig.9) (F1,19 = 24,595, p < 0,001), pertanto l’effetto del tempo, seppur significativo per un (F1,19 = 4,44, p= 0,049), dipende crucialmente dal campione considerato.
25 20 15
23,14
17,2
10
14,28
5 0
104
T1
20,78
Tempi
Sperimentale
T2 Controllo
Fig. 9: Totale dei punteggi Interazione*Gruppo: media degli errori
7. Conclusioni
Dai risultati ottenuti si possono ricavare rilevanti implicazioni educative. Gli obiettivi didattici contenuti nel programma di potenziamento linguistico proposto al gruppo sperimentale costituisce un percorso possibile di apprendimento/insegnamento del meccanismo della letto-scrittura dell’Italiano come seconda lingua. Lo sviluppo di una competenza lessicale di base costituisce un prerequisito essenziale per la realizzazione del percorso proposto. E’ necessario partire dai sostantivi e dai verbi conosciuti utilizzati nel linguaggio quotidiano, per poter passare ad una fase successiva di analisi e di apprendimento della lingua. Le attività didattiche presentate durante il trattamento si propongono di rinforzare e stimolare le abilità strumentali delle competenze linguistiche di un gruppo di alunni stranieri di recentissima immissione nella scuola primaria italiana. In particolare la ricerca ha inteso valutare l’efficacia di un training di potenziamento linguistico, valutando le abilità di base dell’apprendimento di una lingua come L2 pre e post trattamento. Alla luce dei risultati ottenuti dalla somministrazione delle prove PRCR-2 e CPM possiamo concludere che il campione oggetto d’indagine non presenta difficoltà cognitive e scolastiche generalizzate. Ai fini valutativi, questo dato è molto importante per un duplice ordine di fattori: II. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
– per mettere in discussione l’idea che i bambini stranieri presentino difficoltà nelle abilità generali e cognitive per eventuali carenze educative precedenti all’inserimento scolastico. – per suddividere il campione (N = 21) in due sottogruppi (gruppo sperimentale e di controllo) equivalenti. Le prove del pre- e post- training prevedevano la somministrazione, sia nella prima fase che nella fase di post-training di alcune schede per valutare le difficoltà di apprendimento di una LS riferite alle due macro-abilità di un parlante: ricettive e produttive. Le prove presentate limitavano il peso della variabile linguistica ,essendo composte di item verbali e prevedendo consegne intuitive e ricche di esempi. I risultati del pre-test evidenziano che gli alunni stranieri mostrano maggiori difficoltà nelle prove di lettura di parole e conseguentemente anche nella comprensione del testo rispetto ai coetanei italofoni. Questo dato riflette anche un’ampia variabilità individuale, in quanto occorre distinguere tra stranieri immigrati con scolarizzazione nel Paese di origine che presentano una maggiore influenza della lingua madre e difficoltà di adattamento al nuovo sistema educativo, e immigrati prima dell’inizio della scolarizzazione nel Paese di origine che invece presentano una minore influenza della lingua madre e maggiore facilità di integrazione nel gruppo classe. Globalmente il potenziamento linguistico proposto e a cui è stato sottoposto il campione sperimentale ha determinato risultati positivi nelle diverse aree di apprendimento di una lingua come L2. Ciò è dovuto al fatto che le sedute del training hanno seguito il medesimo percorso di apprendimento di una L2, ovvero promuovere in una prima fase di inserimento del discente le abilità ricettive, per poi gradualmente accompagnarlo ad “utilizzare” la lingua nel senso scolastico, ovvero per la comprensione dei testi e per lo studio delle discipline. Per sviluppare una comprensione profonda del testo bisogna sviluppare progetti mirati che devono prevedere una full immersion linguistica, una stimolazione motivazionale e attività specifiche. Questa ricerca presenta il limite della scarsa numerosità e rappresentatività del campione. Non si tratta quindi di dati generalizzabili, ma piuttosto di un tentativo di «fotografare» la situazione scolastica di alcuni bambini stranieri. Un altro limite riguarda la mancanza di dati su alcuni aspetti, ad esempio quelli motivazionali, fondamentali sia nell’apprendimento scolastico in generale, sia nella situazione degli alunni stranieri. I dati emersi da questa ricerca sono certamente preliminari, ma forniscono comunque un’esemplificazione di una proposta per la raccolta di informazioni su un argomento molto vasto e poco conosciuto, contribuendo alla strutturazione di percorsi linguistici definiti in grado di prevenire le eventuali difficoltà che possono ostacolare sia l’apprendimento della nuova lingua, sia l’acquisizione degli apprendimenti scolastici nei bambini stranieri.
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Riferimenti bibliografici
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II. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Dislessia e complessità didattica della lingua inglese nei contesti scolastici italiani: proposta di un approccio multisensoriale ed interattivo
Paola Aiello, Diana Carmela Di Gennaro, Stefano Di Tore, Maurizio Sibilio
Keywords: Dyslexia, English Language Learning, Multisensory Approaches, Interactivity, Natural Users Interfaces
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
In the National Guidelines of the Ministry of Education, Italian educational policy supports the importance of foreign language learning for all students. This goal is difficult to achieve for dyslexic students, particularly when the language of study has an opaque orthography such as the English language. For this reason, it is required that educational research identifies new teaching-learning strategies which, through personalized pathways, could enhance the potential of all students to promote their educational success. With this aim the proposal of the present work is to integrate the suggestions of multisensory teaching methods with the potential offered by interactive software in order to identify effective ways to deal with the complexity of English language learning for students with dyslexia. This work proposes an educational intervention that, by training specific language functions, provides an added value to the compensatory logic suggested by the Italian legislation on specific learning disabilities. The software, which is currently in the development phase, is proposed as a teaching-learning tool to adopt alternative didactic strategies that can create the basic conditions to overcome exemption measures when it is not strictly necessary.
abstract
Università degli Studi di Salerno / paiello@unisa.it / freya84@virgilio.it / stefano.ditore@gmail.com / msibilio@unisa.it
III. Esiti di ricerca Paola Aiello, è autore dell’articolo; Diana Carmela Di Gennaro, ha collaborato alla parte relativa agli“ Approcci multisensoriali per l’apprendimento della lingua inglese”; Stefano Di Tore, ha collaborato alla parte relativa alla “Progettazione e design di un software didattico interattivo per fronteggiare la complessità dell’apprendimento della lingua inglese nei soggetti dislessici”; Maurizio Sibilio, è Coordinatore Scientifico della Ricerca.
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Introduzione
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Nella prospettiva di una società necessariamente plurilingue e multiculturale, l’apprendimento delle lingue straniere si configura come elemento essenziale del percorso educativo, sollecitando in tal senso la promozione delle competenze linguistiche nelle politiche educative nazionali e sovranazionali. Con tali finalità il Consiglio d’Europa ha predisposto uno strumento che ha sintetizzato i risultati delle ricerche condotte a livello internazionale, producendo una classificazione dei livelli di competenza delle lingue straniere e definendone le caratteristiche e i contesti di applicazione. In particolare, il Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (CEFR) fornisce informazioni e consente la comparazione tra i vari contesti educativi europei al fine di uniformare i sistemi di validazione delle abilità e delle competenze linguistiche, demandando alla responsabilità di ogni Stato la definizione di linee guida per la strutturazione di percorsi di insegnamento-apprendimento delle lingue straniere, anche in risposta ai bisogni educativi speciali. In tale prospettiva si inseriscono le Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione del 2012, che pongono l’accento sugli aspetti comunicativi e motivazionali che caratterizzano l’apprendimento di una lingua straniera, in ragione della naturale attitudine degli studenti al “fare con la lingua”. Alla luce di questo orientamento la normativa italiana (D.M. 27 Dicembre 2012) suggerisce il ricorso a strategie che possano incrementare le potenziali abilità degli studenti e la predisposizione di percorsi individualizzati e personalizzati che favoriscano il successo formativo di tutti e ciascuno, all’interno di una prospettiva didattica inclusiva. Per quanto concerne l’insegnamento della lingua straniera nei contesti scolastici, le Indicazioni Ministeriali propongono la fruizione di materiali autentici, di tecnologie informatiche e lo sviluppo della transdisciplinarietà per promuovere un ampliamento delle cornici spaziali e temporali e l’acquisizione di nuove modalità di apprendimento linguistico attraverso la creazione di situazioni comunicative che favoriscano l’utilizzo della lingua in contesti ed ambiti differenti. Per quanto concerne i soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento, la legge 170 dell’ottobre 2010 e le successive Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento del 12 luglio 2011 suggeriscono strategie didattiche finalizzate ad amplificare le capacità cognitive, seppur talvolta indicando misure dispensative “espressione di atteggiamenti arrendevoli e di un agire didattico non sempre finalizzato a rispondere ai bisogni educativi speciali degli studenti con DSA” (Aiello, 2013, p. 60). Sarebbe auspicabile, infatti, il ricorso alle misure dispensative solo dopo aver adottato tutte le misure necessarie a creare le condizioni per favorire specifici apprendimenti ricorrendo ad una pluralità di strategie rese valide ed affidabili da una sperimentazione in ambito didattico scientificamente rigorosa. La stessa logica compensativa non sempre risponde all’esigenza di un esercizio costante di funzioni necessarie allo sviluppo di tutte le abilità linguistiche. L’uso in campo didattico di strumenti compensativi, ad esempio gli audiolibri, sebbene faciliti il compito di comprensione, rischia di non garantire il necessario esercizio delle funzioni necessarie per lo sviluppo dell’abilità di lettura. III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
In una logica di formazione globale, la realizzazione di un “progetto di vita” che contempli la dimensione interpersonale e comunicativa è, infatti, favorita dalla conoscenza di una lingua straniera. Il doveroso impegno verso il conseguimento di tali finalità stimola pertanto la ricerca didattica a realizzare progetti finalizzati alla definizione di contesti didattico-pedagogici coerenti con le politiche linguistiche raccomandate dal Consiglio d’Europa e dalla Unione Europea. Sebbene le Linee Guida evidenzino l’opportunità che “la scuola, in sede di orientamento o al momento di individuare quale lingua straniera privilegiare, informi la famiglia sull’opportunità di scegliere – ove possibile – una lingua che ha una trasparenza linguistica maggiore” (D.M. 12 luglio 2011), in realtà soltanto nella scuola secondaria di primo grado è possibile affiancare allo studio della lingua inglese l’insegnamento di altre lingue, limitate al francese, allo spagnolo e al tedesco. Nella scuola primaria e nella scuola secondaria di secondo grado, ad eccezione di alcuni indirizzi, infatti, l’unica lingua straniera insegnata è l’inglese. Pertanto, in assenza di una reale opportunità di scelta e in ragione della selezione operata a monte dai curriculi scolastici italiani, appare palese l’urgenza di individuare strategie in grado di amplificare le capacità cognitive, implicate nei processi di apprendimento di una lingua straniera con caratteristiche specifiche che generano non poche difficoltà per i soggetti con disturbi specifici dell’apprendimento. I documenti ministeriali, in particolare, invitano a dare maggiore rilievo all’aspetto comunicativo, valorizzando “la capacità di cogliere il senso generale del messaggio” (D.M. 12 luglio 2011) e, in fase di produzione, dando maggiore rilievo “alla capacità di farsi comprendere in modo chiaro, anche se non del tutto corretto grammaticalmente” (D.M. 12 luglio 2011). Se questo è vero, è altresì necessario non tralasciare l’esercizio di specifiche funzioni esecutive collegate alle abilità di scrittura e di lettura, in quanto la promozione di “un’autonomia sussidiaria” (Crispiani, 2011, p. 266), attraverso misure compensative e dispensative, tenderebbe ad escludere o a minimizzare il ricorso al testo scritto in lingua inglese, riproponendo logiche di esclusione da canali comunicativi che hanno una specifica finalità formativa (Aiello, 2013b).
1. Dislessia e apprendimento della lingua inglese
Il termine dislessia è stato coniato nel 1887 da Rudolf Berlin, un oftalmologo di Stoccarda, per descrivere una difficoltà nella lettura. Successivamente, James Hinshelwood, nel suo testo ‘’Congenital Word Blindness’’ (1917), affermò che la difficoltà risiedeva nella memoria visiva di lettere e parole e ne descrisse i sintomi, quali l’inversione delle lettere e le difficoltà di computazione e comprensione nella lettura. Nel 1925 il dottor Samuel T. Orton avanzò l’ipotesi di una sindrome non correlata a danni cerebrali che rendeva difficile l’acquisizione dell’abilità di lettura. La teoria di Orton (strephosymbolia) faceva riferimento a soggetti dislessici che avevano difficoltà nell’associazione della forma grafica delle parole con il rispettivo suono, osservando che i deficit relativi alla lettura non sembravano derivare direttamente da deficit visivi. Più tardi la collaborazione con la psicologa ed eduanno I | n. 2 | 2013
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catrice Anne Gillingham sfociò nell’elaborazione di un pionieristico intervento educativo basato sull’utilizzo di tecniche d’insegnamento multisensoriali. Gli studi condotti negli anni Quaranta e Cinquanta focalizzarono l’attenzione sul possibile conflitto tra l’azione di scanning degli occhi da destra a sinistra e l’esercizio volto all’acquisizione della lettura nella direzione opposta, fornendo un’interpretazione, ad esempio, della particolare abilità dimostrata dai dislessici nella lettura inversa (Kaufman, 1980). Negli anni Settanta si fece strada una nuova ipotesi, secondo la quale la dislessia poteva derivare da un deficit nella elaborazione fonologica o da una difficoltà nel riconoscimento dei singoli fonemi che compongono le parole. Tale ipotesi era supportata dal fatto che i soggetti dislessici presi a campione mostravano tutti una difficoltà nell’associazione tra suoni e lettere corrispondenti, mettendo in evidenza il ruolo centrale assunto dalla consapevolezza fonologica (Stein & Walsh, 1997). Agli inizi degli anni Ottanta gli studi condotti sul cervello di soggetti dislessici rilevarono differenze anatomiche nell’area cerebrale deputata al linguaggio. Tali ricerche, proseguite nel corso degli anni Novanta, rivelarono possibili anomalie nel sistema uditivo dei dislessici, supportando inoltre l’ipotesi di un difetto fonologico presente nell’emisfero sinistro del cervello (Galaburda et al., 1994). Lo sviluppo delle tecniche di neuroimaging in quegli anni, in effetti, diede un contributo decisivo alla ricerca sulla dislessia, arrivando ad identificare un’elaborazione fonologica disfunzionale nei soggetti dislessici nella regione perisilviana dell’emisfero sinistro (Paulesu et al., 2001; Eden & zeffiro, 1998). Gli studi più recenti, infine, da un lato sono alla ricerca di un legame tra la dislessia e le scoperte in campo neurologico e genetico (Puolakanaho et al., 2007), dall’altro mirano alla comparazione delle differenti tipologie di dislessia legate alle diverse difficoltà cognitive presenti nei soggetti dislessici (Heim et al., 2008). Il panorama teorico che fa da sfondo agli studi sulla dislessia si presenta estremamente variegato rispetto alle differenti prospettive di ricerca che lo hanno caratterizzato nel corso degli anni. Attualmente, per quanto concerne l’eziologia della dislessia evolutiva, la letteratura internazionale delinea varie teorie. La Cerebellum Theory sostiene un coinvolgimento di aree cerebellari nei compiti di lettura che si attivano in maniera differenziata in risposta a tasks fonologici e semantici, indicando un contributo anatomico cerebellare nei processi cognitivi implicati nella lettura, come evidenziato da studi di risonanza magnetica funzionale (Fulbright et al., 2010 [1999]). La Magnocellular Theory, che comprende tutti gli studi relativi alle implicazioni visuo-percettive, postula che la disfunzione magnocellulare non sia circoscritta però soltanto ai percorsi visivi ma che sia estesa a tutte le modalità di percezione (visiva, uditiva, tattile) (Livingstone et al.,1991; Lovegrove et al., 1990; Stein & Walsh, 1997). La lettura richiede, infatti, l’acquisizione di abilità ortografiche per il riconoscimento della forma visiva delle parole, condizione necessaria per accedere al significato. A ciò si associano competenze fonologiche per la conversione in suono di parole non familiari o già conosciute. Tale teoria ipotizza che un deficit nella velocità di naming possa essere indipendente da un deficit nel processamento fonologico (Stein, 2001). Un’ulteriore teoria è la Perceptual visual-noise exclusion hypothesis, che si III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
collega al medesimo filone di studi ed è supportata da ricerche che evidenziano nei soggetti dislessici difficoltà nel portare a termine tasks visivi in presenza di fattori di distrazione percettiva, difficoltà non presente in assenza di tali elementi. Sulla base dei risultati delle ricerche condotte su tasks di discriminazione visiva, i sostenitori di tale ipotesi affermano che le difficoltà correlate alla dislessia emergono a causa di una impossibilità da parte dei soggetti dislessici a filtrare contemporaneamente sia gli input visivi che altri input e, di conseguenza, a categorizzare le informazioni in modo da distinguere i dati sensoriali importanti da quelli poco rilevanti (Sperling et al., 2005). Da ulteriori studi su tale specifico tema, trae origine la Teoria del deficit fonologico, la quale ipotizza che i soggetti dislessici hanno una difficoltà specifica nei processi di rappresentazione, immagazzinamento e recupero delle unità fonologiche. Tale teoria si basa sull’assunto che l’acquisizione dell’abilità di lettura di un sistema alfabetico richieda in prima istanza l’acquisizione della corrispondenza tra grafemi e fonemi. Alternativa all’ipotesi del deficit fonologico, la Rapid auditory processing theory sostiene che il deficit principale risieda nella percezione di brevi o rapidi suoni, fenomeno che spiegherebbe il motivo per cui i dislessici incontrano difficoltà in svariati tasks uditivi, tra i quali la discriminazione della frequenza e la valutazione dell’ordine temporale. È naturale dedurre, a questo proposito, che le teorie che riconducono la dislessia ad una serie di funzioni implicate nei processi di letto-scrittura rendono il quadro estremamente complesso, in ragione di una pluralità di ipotesi che spesso si sovrappongono, senza peraltro procedere per esclusione. D’altro canto, però, è lecito supporre che tali teorie, appena accennate e senza alcuna pretesa di esaustività, così come hanno esercitato una notevole influenza sugli approcci terapeutici, rendendo il panorama degli interventi molto articolato (Tressoldi et al., 2003), abbiano una ricaduta importante anche in ambito didattico, sebbene la strutturazione di appositi trattamenti didattico-educativi personalizzati debba tener conto del funzionamento specifico del soggetto in formazione risultante dall’interazione di una pluralità di fattori non solo inerenti alle caratteristiche bio-strutturali collegate al disturbo5. Per quanto concerne l’apprendimento della lingua inglese, la questione va posta in termini differenti, ossia partendo dalle caratteristiche della lingua in relazione alla specificità del disturbo e recuperando teorie ed ipotesi che hanno guidato anche la ricerca didattica, nazionale ed internazionale, nella strutturazione di specifiche modalità di azioni didattiche rivelatesi efficaci in una pluralità di casi. Nell’ambito di questi specifici studi si è sviluppato, in particolare, un filone di ricerche sui bambini dislessici di nazionalità diverse che ha evidenziato che, nelle lin5
Il termine funzionamento rimanda al significato proposto nel sistema di Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), documento predisposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2001 al fine di fornire un’analisi multiprospettica dello stato di salute degli individui in relazione ai contesti di vita. L’ICF definisce il funzionamento di un individuo in un dominio specifico come “un’interazione o una relazione complessa fra la condizione di salute e i fattori contestuali (cioè i fattori ambientali e personali)” (OMS, Classificazione internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), 2001, p. 34).
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gue in cui la corrispondenza tra la dimensione grafica e quella fonetica è “trasparente”, l’incidenza delle difficoltà fonologiche derivanti dalla dislessia è minore (Wydell & Butterworth, 1999). A tale proposito, studi recenti hanno mostrato che, affinché il processo di codifica fonologica sia efficace, gli studenti dislessici hanno bisogno di trovare delle “grain sizes” condivise all’interno del sistema simbolico, ovvero nell’ortografia e nella fonologia della loro lingua, che permettano un “mapping” trasparente e non ambiguo tra i due ambiti (ziegler & Goswami, 2005). ziegler e Goswami (2005), in particolare, hanno condotto ricerche specifiche relative allo sviluppo dell’abilità di lettura nelle lingue, arrivando a proporre tre fattori che concorrono nell’acquisizione di tale processo. Il primo è l’availability di diverse unità fonologiche preesistenti alla lettura. Il secondo è il grado di consistency riscontrato nelle associazioni tra la dimensione fonetica e quella grafica. Il terzo è la granularity, per cui il numero di unità ortografiche da imparare è maggiore per accedere ad un sistema fonologico caratterizzato da una “bigger grain size”: “there are more words than there are syllables, more syllables than there are rimes, more rimes than there are graphemes, and more graphemes than there are letters”. Tale approccio, noto come Psycholinguistic Grain Size Theory ritiene, in definitiva, che la lettura dipenda dall’astrazione di mappature ottimali tra le unità grafiche e fonologiche della lingua e che l’organizzazione lessicale e le strategie di processamento caratteristiche delle abilità di lettura nelle diverse lingue siano fortemente influenzate dai limiti imposti dai differenti sistemi di scrittura. A questo punto appare necessaria un’ulteriore specificazione che riguarda le differenze tra acquisizione della lingua madre e apprendimento di una lingua straniera o seconda lingua. Per quanto concerne l’acquisizione della lingua madre, i bambini dislessici non presentano alcuna difficoltà in quanto il processo si realizza in modo semplice e inconsapevole, la difficoltà subentra nell’aspetto decifrativo della lettura (Morganti, 2008). Per quanto concerne una seconda lingua (L2), ossia una lingua da apprendere nel corso del percorso scolastico, lo sforzo cosciente richiesto dall’apprendimento ha importanti risvolti psicolinguistici, con evidenti ricadute sul processo di insegnamento-apprendimento. Ciò rimanda inevitabilmente alla distinzione operata dal linguista Krashen che chiarisce i meccanismi di base del processo di acquisizione “generally not consciously aware of the rules of the languages we have acquired. Instead, we have a ‘feel’ for the correctness. Grammatical sentences ‘sound’ right, or ‘feel’ have a ‘feel’ for the correctness. Grammatical sentences ‘sound’ right, or ‘feel’ right, and errors feel wrong, even if we do not consciously know what rule was violated” (Krashen, 1982, p. 10). L’acquisizione linguistica, dunque, è un processo inconscio, mentre l’apprendimento si riferisce ad un processo conscio “knowing the rules, being aware of them, and being able to talk about them. In nontechnical terms, learning is ‘knowing about’ a language, known to most people as ‘grammar’ or ‘rules’” (Krashen, 1982, p. 10). La letteratura scientifica attesta, in particolare, che per gli studenti dislessici l’apprendimento della L2 risulta particolarmente ostico (Downey, Snyder & Hill 2000; Ganschow, Sparks & Javorsky 1998; Kormos & Kontra 2008; Sparks et al., 2008). Agli studenti che iniziano lo studio dell’inglese come seconda lingua, in particolare, sono richieste abilità di codifica (produzione in forma scritta e orale) e decodifica (comprensione di forme scritte e orali), skills di processamento fonologico-ortografico ed una profonda motivazione che, nel caso dei dislessici, è limitata dai bassi livelli di performance percepita (Schneider & Crombie, 2003). III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
La consapevolezza fonologica, in particolare, si costruirebbe “along a continuum from shallow sensitivity of large phonological units to a deep awareness of small phonological units” (Anthony & Lonigan, 2004; Anthony et al., 2002; Anthony, Lonigan, Driscoll, Phillips & Burgess, 2003); la motivazione crescerebbe in rapporto alla valutazione degli stimoli offerti in base a criteri di novità, piacevolezza, pertinenza rispetto ai propri bisogni, realizzabilità così come suggerito dalla Stimulus Appraisal Theory (Schumann et al., 2004). A partire da tali premesse teoriche, dunque, appare fondamentale riflettere ed individuare percorsi di ricerca che, nella coerenza tra teoria e strategie di azione, rintraccino in metodologie rivelatesi efficaci in numerosi casi, i principi fondanti di un agire didattico che ne capitalizzi la valenza, proponendo modalità e strumenti diversificati per amplificarne l’efficacia. In particolare, sarebbe auspicabile che tali percorsi focalizzassero l’attenzione sulle abilità di letto-scrittura della lingua straniera, in ragione della funzionalità che queste assumono nel processo di apprendimento linguistico.
2. Gli approcci multisensoriali per l’apprendimento della lingua inglese
L’abilità di lettura rivela caratteristiche di complessità emergenti dal coinvolgimento e dall’interazione di una pluralità di domini cognitivi, rendendo pertanto qualsiasi tentativo di spiegazione monocausale del suo funzionamento una forma di riduzionismo. Ciononostante l’ancoraggio ad alcuni quadri teorici si giustifica sulla base delle evidenze maggiormente documentate che, nel caso dell’apprendimento della lingua inglese come L2, rivelano una marcata tendenza ad asserire che il riconoscimento della struttura delle parole può essere particolarmente utile per gli studenti dislessici impegnati in questo difficile compito. Il primo passo da compiere, dunque, verso una sempre maggiore consapevolezza fonologica e lessicale riguarda la realizzazione che le frasi sono composte da singole parole, a loro volta costituite da onset e rimes articolate in una sequenza di suoni (Nijakowska, 2010).
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Da tali premesse emergono interessanti suggestioni didattiche che inducono a ritenere di fondamentale importanza un agire che guidi verso la conoscenza dei pattern linguistici e dei processi di apprendimento per una più efficace ricognizione di strategie glottodidattiche appropriate. La lettura e lo spelling di intere parole appare più semplice quando gli studenti acquisiscono una maggiore consapevolezza fonologica, attraverso strategie di azione che aiutino a comprendere che le parole sono costituite da unità fonologiche separate, e che le lettere e i gruppi di lettere rappresentano dei suoni. Questa precondizione, necessaria per l’apprendimento di un numero di parole sempre maggiore, crea le condizioni per la realizzazione di forme di automatismo favorite da tecniche strutturate multisensoriali che facilitano la fluency, senza incorrere nella ripetizione di compiti poco stimolanti (Schneider & Crombie, 2003). Il principio fondante dell’approccio multisensoriale è che gli studenti percepiscono l’input linguistico mediante il ricorso a più di un canale sensoriale, facendo sì che si realizzi simultaneamente un’elaborazione visiva, uditiva e tattile-cinestetica dell’informazione: “to ‘see’, ‘hear’, and ‘doì (write) the language simultaneously might be the key that enhances a student’s ability to unlock or crack the code of a foreign language” (Sparks, Ganschow, Kenneweg & Miller, 1991; Sparks & Ganschow, 1991). Questo processo, che risulta utile in termini di apprendimento per tutti gli studenti, si rivela molto importante per gli studenti dislessici. Per tale ragione, risulta efficace nell’apprendimento la simultaneità del coinvolgimento di più canali percettivi (Nijakowska, 2008). In relazione all’approccio multisensoriale, un contributo fondamentale è stato offerto da Samuel T. Orton, il quale aveva già suggerito nei primi decenni del secolo scorso che l’insegnamento dei “fundamentals of phonic association with letter forms, both visually presented and reproduced in writing until the correct associations were built up” (Orton, 1925, p. 614) favorisce il processo di apprendimento linguistico. Il medico statunitense, insieme ad un gruppo di colleghi, aveva iniziato ad utilizzare l’approccio multisensoriale già intorno al 1920 al Mobile Mental Health Clinic in Iowa. Il suo lavoro era stato influenzato dal metodo cinestetico descritto da Grace Fernald e Helen Keller, spingendolo poi a sostenere che il rinforzo cinestesico e tattile delle associazioni visive e uditive poteva correggere la tendenza a confondere lettere simili e supportare il processo di transcodifica negli studenti dislessici. Sulla base delle teorie elaborate Samuel T. Orton, Anna Gillingham e Bessie Stillman crearono, nel 1936, un manuale didattico nel quale le tecniche multisensoriali venivano associate all’insegnamento della struttura dell’inglese scritto, inclusi i fonemi, i morfemi e le regole per lo spelling. Nel metodo Orton-Gillingham, elaborato a partire dalle ricerche condotte, il docente introduce gli elementi linguistici in maniera sistematica. Gli studenti iniziano a leggere e scrivere il suono delle lettere isolatamente. Soltanto dopo aver acquisito la padronanza dei singoli suoni, possono combinarli in sillabe e in seguito in parole (Gillingham & Stillman, 1997). Ogni qualvolta vengono introdotti nuovi elementi, gli studenti continuano a rivedere il materiale precedentemente appreso affinché ne risulti automatico l’utilizzo. Il vocabolario, la struttura sintattica e la comprensione della lettura vengono tutte approcciate in maniera strutturata, sequenziale e cumulativa. III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Il metodo Orton-Gillingham parte, in effetti, dal potenziamento della consapevolezza fonemica, relativa all’identificazione e manipolazione dei singoli fonemi (Krasowicz-Kupis, 2008) per cui ai bambini viene mostrata una carta con il simbolo di un suono che viene pronunciato lentamente e in modo chiaro dall’insegnante e poi ripetuto dal bambino. La corrispondenza fonema/grafema è il passaggio successivo. Le lettere vengono introdotte con una parola chiave. Quest’ultima deve sempre essere suggerita dagli allievi nel momento in cui viene introdotto un fonema, ad esempio quando la lettera “d” viene mostrata, i bambini dovrebbero rispondere con “dog”. L’uso di parole chiave è, infatti, un elemento centrale nel processo di apprendimento di una seconda lingua in quanto facilita la memorizzazione di parole nuove e problematiche (Cardona, 2004; 2010; Schneider & Crombie, 2003). Dopo aver introdotto la lettera associandola ad una parola chiave, l’insegnante la scrive lentamente, spiegandone la forma e l’orientamento. I bambini allora ricalcano la lettera muovendosi sulle linee dell’insegnante e, dopo aver tracciato la lettera, la copiano e la scrivono a memoria. Le carte di esercitazione devono essere presentate in modo da utilizzare il processo associativo. Tale processo faciliterebbe l’apprendimento di ciascun nuovo fonema, sollecitando l’associazione del simbolo visivo con la lettera e con il suono della lettera (Gillingham & Stillman, 1997). Scrivere e contemporaneamente pronunciare ad alta voce le lettere è un passaggio fondamentale del metodo Orton-Gillingham in quanto è un processo orientato a stabilire un’associazione visiva-uditiva-cinestetica. È, in effetti, uno spelling simultaneamente orale e scritto definito appunto programma SOS (Simultaneous Oral Spelling). Le abilità di letto-scrittura vengono, infatti, acquisite in modo più efficace se nel processo sono coinvolti più canali sensoriali, per cui, nell’imparare una lettera, viene stimolato il canale visivo vedendo la lettera scritta da altri; il canale uditivo viene sollecitato nel momento in cui se ne ascolta il suono pronunciato da noi stessi o da altri; la percezione tattile-motoria si attiva se si percepisce il movimento delle varie parti dell’apparato fonatorio coinvolte nell’articolazione del suono; si sollecita la memoria cinetica e visiva se si scrive o si forma la lettera percependo il movimento compiuto dalla mano (Kvilekval, 2007). Le caratteristiche comuni del metodo Orton-Gillingham e delle sue successive rielaborazioni sono pertanto rintracciabili nell’enfasi posta sui percorsi visivi, uditivi e cinestetici, nella progressione da concetti semplici a concetti più complessi e nell’insegnamento diretto (Vail, 1987). Alcune ricerche sembrano, infatti, sostenere che le abilità di lettura, spelling e identificazione delle parole siano notevolmente favorite dall’interazione con l’ambiente (Vellutino et al., 2004) e che il ricorso a più modalità sensoriali permetta l’attivazione di neuroni specifici (Shaywitz et al., 2003). L’informazione linguistica veicolata da canali sensoriali diversificati produrrebbe, dunque, stimoli maggiori (Nijakowska, 2008); in tal modo, lo studente dislessico avrebbe l’opportunità di elaborare più associazioni tra la struttura grafica delle parole, la loro pronuncia ed il loro significato. In effetti, il bambino dislessico, attraverso l’approccio multisensoriale, apprende a leggere e computare le parole ascoltandole, vedendole e pronunciandole e scrivendole poi su superfici differenti (carta, sabbia, pavimento etc); anno I | n. 2 | 2013
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l’utilizzo di forme e colori diversi, inoltre, favorisce la codifica e la memorizzazione dei contenuti linguistici appresi (Schneider & Crombie, 2003). Tali attività supportano il processo di automatizzazione, carente nei dislessici, e predispongono ambienti di apprendimento sereni e privi di fattori ansiogeni.
3. Progettazione e design di un software didattico interattivo per fronteggiare la complessità dell’apprendimento della lingua inglese nei soggetti dislessici
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I principi fondanti del metodo descritto indicano azioni didattiche la cui valenza è potenzialmente amplificabile attraverso l’impiego di strumenti tecnologici che, in presenza di studenti dislessici, possano rivelarsi particolarmente efficaci nell’apprendimento della lingua inglese. A tale proposito, confortati da una letteratura scientifica che suggerisce che l’impiego delle tecnologie può favorire l’acquisizione e lo sviluppo delle abilità di letto-scrittura (Gehrmann & Kinas, 2002; Wise et al., 2000) e che, in alcuni casi, si rivela efficace nel potenziamento della consapevolezza fonologica e delle abilità di decodifica e comprensione in presenza di difficoltà di lettura (Birsh, 2005), la proposta didattica accoglie le suggestioni emergenti da uno specifico filone di studi che propone l’uso di software interattivi come modalità didattica enattiva per la costruzione della conoscenza (Rossi, 2011) e contribuisce a sostenere una visione dell’apprendimento della lingua “in terms of sensorimotor interactions with an environment in which both the individual and the environment are modified” (Bottineau, 2010). In questo senso particolarmente interessanti appaiono le forme di “interazione enattiva” (Chow & Harrell, 2011) rese possibili dalle N.U.I.s (Natural User Interfaces). Le interfacce naturali, attraverso modalità di interazione che coinvolgono movimenti, tatto, voce e udito, mirano ad un uso efficace ed efficiente dei sensi al fine di rendere più naturale e coinvolgente l’interazione uomo-macchina. Le modalità di interazione offerte da questa tipologia di interfacce sembrano essere particolarmente attinenti ai metodi didattici multisensoriali prima descritti, poiché in grado di capitalizzare, nell’interazione, i vantaggi provenienti dall’utilizzo di canali sensoriali diversificati. La ricerca di forme di interazione uomo-macchina “naturali” sembra essere inoltre presente, da lungo tempo, all’interno della sperimentazione di tecnologie per la didattica della L2 in presenza di dislessia. Già dagli anni ’90 le tecnologie che in questo ambito sembrano essere maggiormente utilizzate sono (Elkind, 1998; Montali & Lewandowski, 1996; Birsh, 2005): – software per il Text-To-Speech; – software per riconoscimento vocale; Tali tecnologie rappresentano elementi caratterizzanti delle N.U.I.s. Prince (2006) e Birsh (2005) rintracciano nei seguenti fattori l’efficacia didattica di tali software: – la capacità di ridurre le componenti ansiogene; III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
– la possibilità di fornire feedback immediati; – la possibilità di offrire agli studenti dislessici l’opportunità “to combine features from software programs in creative ways to compensate for weaknesses” (Prince, 2006).
Per quanto riguarda il primo dei fattori elencati, le teorizzazioni proposte nell’ambito degli studi di linguistica sull’ipotesi del filtro affettivo (Krashen, 1982), supportate dagli studi di Scovel ed Horwitz che avevano definito l’ansia legata all’apprendimento di una seconda lingua come “a distinct complex of self-perceptions, beliefs, feelings, and behaviors related to classroom language learning arising from the uniqueness of the language learning process” (Horwitz et al., 1986, p. 128), evidenziano la necessità di un impiego di strumenti che possano, almeno in parte, essere riconosciuti come modalità efficaci per contrastarne gli effetti negativi. D’altro canto, il soggetto dislessico vive condizioni generatrici di stati ansiogeni legati ai livelli prestativi richiesti. Per quanto attiene alla possibilità di ricevere feedback immediati rispetto alle azioni compiute, i livelli motivazionali si innalzano grazie ad una continua regolazione del processo. La combinazione di software differenziati risponde all’esigenza di fronteggiare la complessità delle dinamiche cognitive coinvolte nel processi di letto-scrittura in L2 attraverso una modularità necessaria in ragione di configurazioni cognitive specifiche. A ciò appare lecito aggiungere il riconoscimento della valenza dell’integrazione di modalità iconiche, simboliche, cinestesiche ed analogiche nei processi di rappresentazione (Damiano, 1999) legati agli aspetti semantici del testo scritto. Partendo da queste premesse teoriche, il progetto di ricerca si propone di sperimentare strategie didattiche, che tengano conto dei principi fondanti dei metodi multisensoriali, capitalizzando le opportunità di apprendimento offerte da modalità videoludiche per rendere più coinvolgenti e motivanti le fasi di studio. Come sostenuto da Paul Gee (2007) questa tipologia di media, infatti, consente di sfruttare i vantaggi didattici offerti dal “learning-by-doing”, favorendo lo sviluppo di “competenze inferenziali (dedurre conclusioni non contenute nelle premesse da delle premesse date)” (Rivoltella, 2011, p. 70) e dei processi di automatizzazione, direttamente all’interno di sessioni di gioco. Attualmente è in fase di sviluppo un software didattico volto a promuovere l’apprendimento della lingua inglese, come seconda lingua, per studenti dislessici della scuola primaria italiana. Il software è progettato sulla base del modello didattico Orton-Gillingham, di cui intende riproporre, fatta salva una precedente fase di ergonomia digitale, le modalità di interazione e i task. La fase di design del software, che ha condotto a ritenere necessaria l’adozione di un’architettura modulare, è apparsa come una soluzione naturale in relazione alle modalità didattiche suggerite dal metodo Orton-Gillingham, che procedono gradualmente da concetti semplici a concetti più complessi. Il software è progettato per sfruttare le forme di interazione offerte da L.I.M. e Tablet; allo stato attuale il suo funzionamento è previsto solo su sistemi operativi Windows e Android, ed è in fase di studio la possibilità di dotarlo di interfacce naturali. anno I | n. 2 | 2013
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Il software è costituito da una batteria di moduli didattici finalizzati, ognuno, all’acquisizione e allo sviluppo di specifiche abilità linguistiche ed è suddiviso in due parti principali: – una parte dedicata allo svolgimento dei task, che sarà basata su forme di interazione coinvolgenti e motivanti tipiche dei videogiochi, a cui avranno accesso sia lo studente che il docente. – una parte dedicata al reporting, a cui può avere accesso il solo insegnante. Ogni modulo avrà un proprio report e registrerà dati e parametri differenti a seconda dei task presenti nel rispettivo modulo.
Il font utilizzato al suo interno è stato specificamente realizzato per facilitare il riconoscimento dei grafemi. In accordo con la letteratura scientifica in materia (Reid, 2004; Rello, 2013; Evett, 2005; Terepocki, 2002), si avvale di specifici parametri modificati per facilitare il riconoscimento dei grafemi, tra cui: – spaziatura aumentata; – presenza, nelle forme, di specifici elementi che ne determinano l’orientamento; – non sono presenti grafemi con forma uguale (ad es, le lettere come la p, q, b, d, che, in diversi font, sono rappresentate dallo stesso elemento grafico ruotato differentemente, divengono, all’interno del d-font, p,q,b,d); – ogni carattere è inserito all’interno di una gabbia per aiutare l’utente a distinguerlo dagli altri caratteri.
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Il font è stato realizzato in formato .ttf (TrueType Font), può essere utilizzato con applicazioni esterne (Word-processing software, browsers, etc) in modo indipendente dal software, ed è disponibile per il download presso l’indirizzo ww.labh.it/dfont. Alla fase di sviluppo del font è seguita una fase di design del primo modulo del software. Per rispondere all’esigenza di fronteggiare le difficoltà di apprendimento dovute al numero elevato di suoni presenti nella lingua inglese ed ai diversi modi di scrivere lo stesso suono (Kvilekval, 2011), il primo modulo è stato progettato per favorire l’associazione fonema/grafema, così come previsto dal metodo Orton-Gillingham. L’attività proposta nel modulo consiste nel mostrare a schermo una parola inglese e nel fornirne la pronuncia. In seguito vengono pronunciati i singoli fonemi che compongono la parola e all’utente è richiesto di identificare i grafemi corrispondenti (figura 1). Tale modalità di interazione è stata ideata in ragione della difficoltà degli studenti dislessici “to grasp intuitively that spoken words are composed of sound segments” (Sparks et al., 1991). Il passaggio ad un modulo successivo è consentito solo quando l’utente avrà completato, senza errori, una sequenza casuale di 40 associazioni tra fonemi e grafemi. Relativamente alla fase di reporting, il modulo registra ed esporta in formato .xml: – numero di tentativi; – numero di errori; III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
– – – –
numero di risposte corrette; percentuale di successo; percentuale di insuccesso; tempo della fase di gioco. La figura 1 riporta una schermata del modulo per l’esecuzione del compito. Attualmente sono in fase di progettazione altri moduli relativi allo spelling e alla scrittura.
119 Figura 1
Conclusioni
L’esigenza di fornire risposte adeguate ai bisogni educativi speciali emergenti dalle difficoltà di apprendimento di una lingua straniera, richiede di operare una scelta all’interno di un ricco repertorio di azioni didattiche possibili, senza peraltro indicare soluzioni che possano ritenersi necessarie e sufficienti a fronteggiare la complessità dei fattori che spesso limitano l’attività e la partecipazione sociale. In considerazione di una visione pedagogica che non deleghi alle tecnologie “il lavoro educativo basato sulla relazione e l’accompagnamento” (Falcinelli, 2013 p. 74), ma che ne valuti il potenziale formativo nella sua componente ludica, interattiva e multisensoriale, l’ipotesi progettuale proposta nel presente lavoro si inserisce all’interno di un approccio didattico-educativo orientato a superare la logica compensativa e ad amplificare le potenzialità individuali, nel pieno rispetto delle differenze soggettive. Nel caso specifico, la relazione educativa con l’alunno dislessico presuppone lo sviluppo di una didattica attenta ai ritmi e agli stili di apprendimento indivianno I | n. 2 | 2013
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duali, recependo le sollecitazioni emergenti dalle ricerche condotte sul tema ed in linea con le istanze delle politiche educative nazionali e sovranazionali. In tale prospettiva, il ricorso a software e strategie didattiche specifiche non è volto alla traduzione sul piano prassico di procedure prescrittive, ma si configura altresì come possibile supporto alle dinamiche formative, per cui, come stabilito dalle norme, è auspicabile che “le competenze pedagogiche speciali diventino patrimonio comune di tutti gli educatori e di tutti gli insegnanti” (d’Alonzo, 2012, p. 17), al fine di supportare e guidare con professionalità il percorso scolastico di tutti e ciascuno.
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III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Il modellaggio: una forma di apprendimento semplessa per acquisire “nuove” abilità
Keywords: transfer of learning, behavioral assessment, shaping, goal-behavior, target behavior
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The research is aimed to analyze a technique and a learning approach, in particular, based on the shaping of the behavioral responses able to face up simplex situations (Berthoz, 2011) linked to conditions of disability and SEN (Special Educational Needs). After having focused on the fundamental principles of behavior, it has been analyzed the concept of reinforcement. The reinforcement is the effect that follows a certain behavior, and that determines the probability that the behavior can be performed, so that it can be considered a necessary and sufficient condition to trigger the mechanisms of learning. In fact, a good methodology to individualize teaching should be based firstly on the construction of “new” skills, totally absent in a subject, starting from the reinforcement of behaviors that are similar to that ability and continuing to reinforce successive approximations of those behaviors. When a person with disability, or with mild to medium-severe difficulties is able to master an initial response, all the successive approximations to the target behavior are progressively reinforced.
abstract
Felice Corona / Università degli Studi di Salerno / fcorona@unisa.it Carla Cozzarelli / Università degli Studi di Salerno
III. Esiti di ricerca
Il paragrafo 1 è a cura di Felice Corona, il paragrafo 2 è a cura di Carla Cozzarelli.
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1. Il transfert di apprendimento e l’assessment comportamentale nel modellaggio
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L’apprendimento è strettamente connesso a tutte quelle modificazioni che intervengono rispetto ai comportamenti, alle idee ed alle conoscenze mediante l’esperienza, mutamenti che possono sortire effetti temporanei o invece effetti duraturi nel tempo. Nel corso degli anni numerose teorie riguardanti l’apprendimento hanno cercato di specificarne caratteristiche e funzioni. Nello specifico possiamo fare riferimento ad alcune, quali: l’imprinting, il condizionamento strumentale ed operante, l’apprendimento per osservazione e imitazione, nonché l’apprendimento cognitivo. La ricerca si è orientata però principalmente verso una tecnica ed un approccio apprenditivo, in particolare, derivanti dal modellamento delle risposte o shaping in grado di fronteggiare situazioni semplesse (Berthoz, 2011), legate a condizioni di disabilità ed ai BES (Sibilio, 2013). Canalizzare l’attenzione su questo aspetto implica che pur non smentendo le teorie menzionate ci si deve confrontare sul fatto che l’oggetto di studio e di indagine scientifica sia incentrato sì sul comportamento osservabile ma non prescindendo dal fenomeno mentale che da esso si genera. Infatti ogni comportamento produce conseguentemente un effetto che a sua volta implica delle conseguenze sull’individuo. Gli studi del comportamento sull’ambiente sono stati affrontati da Watson (Watson, 1913) e Thorndike (Thorndike, 1932) approfondendo gli aspetti e le implicazioni di una tipologia di apprendimento strumentale che permisero a Skinner (Skinner, 1953) di sviluppare la teoria del condizionamento operante fondata sul principio del rinforzo positivo e del rinforzo negativo ed in realtà il termine stesso di modellaggio (shaping) ha origine proprio da una modalità di approccio cognitivo-comportamentale. K. Lewin (Lewin 1951) aveva affrontato già, prima di Skinner, studi analoghi relativi alla relazione esistente tra l’individuo ed il contesto di riferimento, ritenendo che l’esistenza del singolo individuo non può essere considerata in maniera scissa rispetto alla società in cui tale esistenza viene condotta. Racchiudendo queste considerazioni in un’equazione incisiva, C = f, Comportamento = funzione della persona, dell’ambiente e della loro interazione. J. G. Kelly (George Kelly 1966), svilupperà successivamente la cosiddetta metafora ecologica per osservare i cambiamenti che avvengono nel corso della realizzazione e dell’attuazione di vari setting. Egli basa tale metafora su quattro principi fondamentali:l’interdipendenza; la ciclicità delle risorse; la successione e l’adattamento. Valida così un approccio socio-ecologico che si propone di analizzare l’impatto degli ambienti sia sociali che fisici sull’individuo che ne è parte integrante e sostiene che si condivide e si comprende tale interazione se si considerano vari fattori: l’interdipendenza tra i componenti costituenti un’unità sociale e la loro interazione dinamica nel tempo; la ciclicità delle risorse e la creazione di mediatori situazionali; la successione, l’attenzione a considerare le prospettive e le evoluzioni di un fenomeno in un contesto; ed infine la capacità di adattamento quale possibilità di creare alternative. III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Roger G. Barker (Barker 1968), perseguendo le idee sviluppate da Lewin, ha centrato le sue ricerche sul concetto di behavior setting o setting comportamentale, cercando di comprendere cosa accada all’interno di un setting, per far sì che il comportamento e l’ambiente sociale siano giudicati imprescindibili l’uno dall’altro; dalle sue deduzioni ne consegue che si verifichi una sorta di adattamento e corrispondenza tra il comportamento stesso e l’ambiente sociale ad esso strettamente connesso. Nel behaviour setting lo scopo è l’identificazione degli aspetti sistematici del comportamento che si riconducono alle specifiche situazioni in cui il comportamento si manifesta. Barker si sofferma sul behaviour episode, in cui l’interesse verte sulla registrazione dei comportamenti molari (Tolman, 1976) messi in atto da un soggetto, procedendo alla compilazione di specimen record. Lo specimen record è una forma di resoconto dettagliato utile per stilare una registrazione completa di comportamenti molari, quali essi si attuano spontaneamente in un contesto naturale. Viene quindi confermato il principio, espresso da Tolman, secondo il quale il comportamento deve essere molare e non molecolare, non deve limitarsi alle singole risposte muscolari o ghiandolari. Pertanto si deve tenere conto dello scopo e di alcuni processi intervenienti tra stimolo e risposta. Una analisi sperimentale ed applicata del comportamento, altrettanto valida ed efficace, si deve al modello funzionale ed applicativo di Bijou e Baer (Bijou e Baer,1978) che implementa l’analisi del comportamento lewiniana e skinneriana con principi dell’intercomportamentismo kantoriano (Kantor, 1959). Il modello è funzionale ciò vuol dire che il comportamento viene valutato in funzione di una serie di variabili indipendenti e del contesto in cui intercorrono. Ne consegue che esaminare un comportamento significa individuare le relazioni che si instaurano tra questo e le varie tipologie di stimoli che lo precedono e lo seguono all’interno di un setting; interazionale, in quanto si basa sulla relazione esistente tra soggetto e ambiente, e del carattere reciproco e bidirezionale di questa relazione; gerarchico-accumulativo considerato che sviluppo e apprendimento vengono studiati procedendo dal semplice al complesso, e che le abilità e le conoscenze accrescono in modo graduale, tenendo conto anche del patrimonio esperienziale pregresso; ecologico-contestuale che guarda ai comportamenti individuali collocandoli spazio-temporalmente; ed infine pedagogico e operativo, aspetto che per ogni ricerca educativa diventa fondamentale, ovvero che fonda l’analisi e l’intervento sul coinvolgimento dell’ambiente e del contesto. I comportamenti controllati dalle loro conseguenze, come accade nel caso del modello appena menzionato, sono definiti operanti, poiché le risposte operano sull’ambiente e sul contesto e fanno sorgere degli effetti (Skinner, 1953) legati alla ricerca attiva della soluzione a un compito. Gli operanti possono essere aumentati o ridotti in funzione degli eventi che li seguono secondo una legge definita dell’effetto. Esempi di comportamenti operanti possono essere: leggere, scrivere, camminare, sorridere. Le principali conseguenze sono tanto i rinforzi quanto le punizioni. Nel condizionamento operante avviene sia la generalizzazione secondo la quale il rinforzo dato ad un certo comportamento avrà effetto anche per comportamenti simili, che la discriminazione la quale porta a far sì che i soggetti vengano condizionati e che solo la risposta desiderata venga rinforzata. Dopo aver centrato i principi primari appartenenti al comportamento è altrettanto prioritario soffermarsi sul concetto di rinforzo. Il rinforzo è l’effetto che anno I | n. 2 | 2013
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segue un certo comportamento e che determina la probabilità che quel comportamento si metta in atto, se ne deduce che sia condizione necessaria e sufficiente per dare l’input affinché si inneschi il meccanismo d’apprendimento. La valenza del rinforzo prescinde dal fatto che i rinforzi si distinguano in positivi e negativi e che agiscano su bisogni di varia natura. Si distinguono infatti in primari e secondari. La modalità di somministrazione dei rinforzi può variare perché i rinforzi possono essere continui o intermittenti, parziali. La modalità di somministrazione del rinforzo è il primo criterio di indagine necessario a strutturare il modellaggio. Chiaramente tale tesi è supportata da verifiche ed algoritmi testati in tal senso quale ad esempio, l’algoritmo di valutazione del rinforzatore, Base Line, che misura e definisce il livello operazionale di vantaggio riscontrato attraverso l’introduzione di molteplici tipologie di rinforzo. Le dimensioni funzionali degli stimoli vengono acquisite e sottoposte a continui cambiamenti nel corso della storia interazionale propria di ciascun individuo, dipendono quindi dall’avvicendarsi e dal confluire delle interazioni individuo-ambiente nel corso della vicenda personale. Parlare delle funzioni di uno stimolo significa canalizzare l’attenzione verso le modalità di relazione fra gli stimoli ambientali ed il comportamento soggettivo ed individuale. Ne deriva che non tutti gli stimoli avranno funzioni/stimolo, che gli stimoli non hanno un’unica funzione, e che non tutti gli stimoli avranno sempre le stesse funzioni. Vi è però un altro fattore che influenza la relazione eventi/stimolo/organismo e ci riferiamo agli eventi situazionali o di contesto. ogni relazione stimolo/organismo ha luogo in un contesto, che si caratterizza come l’insieme di eventi specifici di quella particolare situazione. Il contesto influenza le interazioni che ivi hanno luogo, modificando la forza, il valore ed i requisiti delle funzioni particolari dello stimolo e della risposta implicati in quell’interazione. Solo partendo da queste premesse possiamo individuare obiettivi e funzioni del modellaggio o shaping utilizzato per rinforzare ogni risposta che si avvicina alla risposta desiderata. Si riprende parzialmente il principio di Premack (Premack, 2003), orientato al premiare a condizione che, e fondato sulla affermazione che un’attività piacevole può agire come rinforzo per un’attività spiacevole. La prima parte del principio di Premack afferma che un organismo mostra preferenze diversificate per eseguire differenti comportamenti. La seconda parte del principio di Premack afferma che un organismo compierà un comportamento diverso da quell’ambito finché non riesce a conquistare l’opportunità di eseguire il comportamento preferito. Gli stimoli sono giudicati rinforzanti quando permettono ad un particolare comportamento di manifestarsi, a questo si aggiunge la condizione imprescindibile che ogni organismo ha il proprio insieme di preferenze ad impegnarsi in un particolare comportamento. Individuate tali funzioni interviene una procedura, quale il modellamento delle risposte o modellaggio, mediante la quale si guida il soggetto nel raggiungere l’obiettivo principale cioè un comportamento richiesto, avvalendosi dei rinforzi. Esistono però delle funzioni di cui tenere conto per raggiungere tali finalità dato che gli esiti si ottengono per approssimazioni successive, per assessment comportamentali, dove ogni risposta, che presenta più modalità, viene rinforzata solo nel momento in cui si presenta in una determinata maniera, così si ottiene III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
una discriminazione; questo meccanismo viene ripetuto, cambiando di volta in volta il tipo di risposta da discriminare, fino ad arrivare a quella richiesta, che può rivelarsi molto lontana dalla prima. Fin dall’inizio bisogna stabilire gli step da affrontare, creando un rinforzo differenziale che si caratterizzi secondo un criterio variabile. Si intende così far acquisire ad una persona, che presenti, ad esempio, ritardo mentale, aDHD, disturbo pervasivo dello sviluppo o autismo, un determinato “nuovo” comportamento (Corona, Cozzarelli, 2013) che il soggetto non riesce ad attuare e svolgere grazie ad altre attività e ad altri stimoli, come l’imitazione. La ricerca si è posta la meta di valutare i risultati qualitativi riguardo agli esiti riscontrati sia a livello comportamentale che a livello relazionale. Infatti tale approccio aumenta notevolmente le possibilità di adeguare le aspettative degli individui a delle mete perseguibili evitando di produrre sentimenti negativi quali un senso di disagio o di frustrazione ed incentivando una serie di rinforzi reciproci positivi. D’alonzo (D’alonzo, 2012) evidenzia espressamente la significatività di questa tipologia di approccio nel libro riguardante la gestione del gruppo classe che viene individuata da lui quale fattore predominante per ciò che concerne l’influenza sull’apprendimento e sulla motivazione allo studio degli allievi. Gli altri fattori su cui si sofferma hanno una grande incidenza e sono equiparabili alla realizzazione di un buon assessment comportamentale, tra di essi, emergono: impostare una relazione positiva; stabilire chiare linee-guida comportamentali; adottare un approccio coinvolgente; sollecitare all’autogestione e all’autodisciplina; occuparsi del comportamento inadeguato; utilizzare messaggi rinforzati anche con l’aiuto della gestualità manuale. Di conseguenza è chiaro che la gestione della classe sottintende l’uso delle abilità comunicative e di metodi comportamentali che sollecitano gli studenti ad esaminare e correggere i loro comportamenti inappropriati. Il clima a cui fa spesso riferimento (D’alonzo, 2013) è il risultato dell’interazione di molti elementi, un sistema condiviso di significati e valori che si mutua in un contesto accogliente, positivo improntato alla valorizzazione delle identità individuali e di gruppo in grado di stimolare il desiderio di apprendere e favorire il processo educativo. L’ambiente viene inteso quindi non come sfondo entro il quale si svolge l’azione educativo-didattica, bensì condizione dalla quale non si può prescindere per costruire un buon progetto formativo. È stato sperimentato il vantaggio derivante dal porre l’individuo in condizioni ambientali, fisiche e contestuali tali da permettere l’acquisizione di “nuove” abilità, gradualmente, costruendo una relazione positiva che gli restituisca la percezione delle sue competenze e non delle sue incapacità nell’attuazione di un compito prefissato.
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2. Lo shaping ed il concatenamento come regolazione del comportamento
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Il metodo si incentra sulla suddivisione del comportamento desiderato in diverse unità di comportamento elementari, sulla sistematizzazione di queste unità di apprendimento in una struttura, procedendo a rinforzare ogni minimo comportamento che va nella direzione desiderata, ad esempio insegnare ad allacciarsi le scarpe piuttosto che a compiere azioni più complesse quali andare in bicicletta o, entrando in campo educativo, far vivere un’esperienza formativa scomponendola in vari focus di attenzione, ad esempio se si deve insegnare la letto-scrittura. Si scompone l’obiettivo primario in piccoli sotto-obiettivi rinforzando il soggetto ogni volta che riesce a raggiungere un traguardo in più. Si adotta il criterio del concatenamento secondo il quale ogni movimento è indirizzato dalle conseguenze che produce, per cui ognuna di queste diventa stimolo discriminativo per l’atto successivo, il completamento della prima azione funge da stimolo per la seconda e così di seguito avviene anche per le azioni seguenti. In effetti un buon metodo d’insegnamento individualizzato si volge espressamente verso la costruzione di “nuove” abilità del tutto assenti in un soggetto, iniziando a rinforzare comportamenti che si avvicinano a quell’abilità e continuando a rinforzare le approssimazioni successive di quei comportamenti. Esistono quindi riassumendo cinque fasi cruciali nell’avviare il processo di modellaggio: 1) scelta dell’obiettivo; 2) scelta del comportamento iniziale; 3) scelta dei rinforzatori; 4) rinforzamento del comportamento iniziale; 5) rinforzamento delle approssimazioni successive. Moos (Moos, 1974), riguardo alle fasi di un processo che implicasse l’osservazione dei comportamenti, quale potrebbe essere considerato, appunto, il modellaggio, di solito focalizzava l’attenzione sulle percezioni di coloro che partecipavano ad un particolare setting o di quelli che erano stati educati e formati al suo interno e individuava un profilo che identificasse l’opinione generale dei partecipanti circa l’atmosfera o il clima instauratisi nel setting. a tal fine costruiva delle scale statistico-valutative e dei questionari (Ways, Copes, Fes) appositi in grado di misurare il clima riscontrato in rapporto ai fattori fisici, organizzativi e interpersonali che caratterizzavano una determinata struttura, soffermandosi soprattutto sulla ricerca del clima emotivo. Il modello di Moos è indicativo ed esemplificativo di setting, quali quelli basati ad esempio sullo shaping ed il concatenamento, perché si fonda sul rapporto tra vissuti soggettivi e strutture organizzative, a differenza di Barker (Barker, 1968) che aveva analizzato le caratteristiche dei setting comportamentali indipendentemente dalle persone presenti. Mehrabian e Russel (1974), negli stessi anni in cui opera Moos, suggeriscono che la risposta emotiva generata dall’ambiente, da loro denominata risposta emozionale primaria, risulta essenziale per capire come le persone si comporteranno in un setting, in cui attivazione, o dominanza sono definibili quali risposte emotive primarie nei confronti dell’ambiente circostante. Il concetto di dominanza é peraltro funzionale ai meccanismi del concatenamento poiché strettamente connesso alla variabilità del comportamento ed alla libertà di scelta. III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
In seguito J. orford (1995), facendo riferimento alla nota equazione di Lewin, identifica quelli che dovrebbero esserne i requisiti che collegano le sfere dell’individuo e dell’ambiente sociale ed analizza l’interdipendenza tra comportamenti e benessere individuale da una parte e contesto sociale e ambiente dall’altra. Lo studio della motivazione, dell’intenzione e della volontà non possono essere eluse dallo studio della regolazione del comportamento e da sistemi come lo shaping ed il concatenamento. Il concetto di regolazione del comportamento assume un senso rispetto al rapporto dell’essere umano con l’ambiente; alla nozione stessa di comportamento; ed ai processi cognitivi che si attivano mediante questo interscambio. Questi passaggi imprescindibili sono riscontrabili, in parte, nel Modello di Meichembaum (Meichembaum, 1977) basato sull’autoistruzione verbale che consta appunto di cinque fasi: 1) il Modeling cognitivo che è appunto la fase che definisce il nostro campo di ricerca dato che è il passaggio nel quale l’insegnante spiega con esempi le autoistruzioni ad alta voce, mentre struttura egli stesso l’attività grazie alla quale l’alunno dovrà apprendere ed utilizzare le capacità di autoistruzione; 2) la guida esplicita: che consiste nel fatto che l’insegnante enunci ad alta voce le autoistruzioni, mentre lo studente effettua il compito; 3) l’autoistruzione esplicita derivante dal fatto che lo studente esegua il compito, riuscendo ad autoistruirsi ad alta voce; 4) l’autoistruzione ridotta per cui lo studente esegue il compito, autoistruendosi a voce sempre più bassa, fino ad arrivare alla 5) la fase dell’autoistruzione implicita, in cui lo studente porta a termine il compito usando una sorta di linguaggio interiore per dotarsi di tutte le varie istruzioni a compiere delle azioni. Meichembaum ha sottolineato la necessità di integrare il condizionamento operante includendo cognizioni sottostanti poiché il pensare ad alta voce e l’interiorizzazione delle affermazioni sono alla base dell’autocontrollo. L’approccio menzionato riflette e mostra forti corrispondenze con la tecnica dello shaping come regolazione del comportamento. Il risultato è consequenziale al transfert di apprendimento (Corona, Cozzarelli, 2008) instaurato che sortisce a sua volta degli effetti che un apprendimento determina verso uno che lo segue o lo precede nel tempo, ogni processo educativo si basa su fenomeni di transfert, di facilitazione, se un evento facilita l’acquisizione di un dato comportamento, di inibizione se invece ne ostacola l’acquisizione; esso inoltre può funzionare anche in modo retroattivo. Il comportamento di apprendimento però può anche essere frutto delle sole regole, attraverso cui si apprende anche senza provare le conseguenze dell’atto specifico. Essendo strettamente legato al linguaggio, esso è tipico degli esseri umani e progressivamente acquisito dal primo giorno di vita. osservare attraverso un modello competente che svolge un’azione può essere un aiuto molto efficace per l’apprendimento stesso di quell’azione. D’altronde un altro punto fermo è che ogni nostra abilità diventa significativa nel momento in cui è in parte generalizzata lì dove per generalizzazione delle abilità acquisite intendiamo quella capacità di emettere la stessa risposta anche per mezzo di stimoli diversi da quelli con i quali è avvenuto l’apprendimento. Si ottengono esiti che testimoniano grande efficacia in casi particolarmente difficili di bambini con la sindrome dell’iperattività, in fascia d’età, per esempio, dai 7 ai 9 anni. Lo studioso Martin a. Kozloff (Kozloff, 1991) insiste sulla significatività di inanno I | n. 2 | 2013
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segnare un comportamento in piccole tappe basti pensare ad un comportamento-meta che sviluppi abilità quali il guardare, l’ascoltare ed il muoversi; oppure modellare una intera area di abilità, partendo o dai comportamenti-meta, goal behavior, più semplici e procedendo verso quelli più difficili, estinguendo o riducendo i comportamenti inadeguati, target behavior. ovviamente per modellare un comportamento, cioè insegnarlo step by step, bisogna conoscere quali siano le tappe. Questo vuol dire che prima di iniziare un programma di apprendimento, si deve suddividere il comportamento-meta in una serie di tappe più piccole e più semplici. Una volta che si ha una idea reale delle tappe intermedie, si insegna un dato comportamento secondo le tappe individuate. Cominciando dalle tappe più semplici e procedendo verso quelle più elaborate, man mano che il soggetto acquista maggiore abilità. L’integrazione di particolari compiti per l’apprendimento di persone con disabilità è stato uno dei maggiori oggetti di studio anche da parte di Vaughn e Linan-Thompson (Vaughn e Linan-Thompson, 2004) sequenzializzando esempi e problemi per mantenere dei livelli di consapevolezza ed attenzione nonché di motivazione soddisfacenti e consoni alle esigenze riscontrate ed ai bisogni emersi. L’insegnante deve rappresentare un modello da imitare nel senso che occorre esplicitare qual è la maniera giusta di comportarsi di fronte a specifiche situazioni o richieste. Il Modellaggio si può realizzare in programmi molto semplici quali quelli relativi all’apprendimento di forme e colori o dell’autonomia personale; benché l’introduzione di questo metodo risulti essere altrettanto valido il in programmi più articolati che mirino all’acquisizione di abilità e comportamenti complessi, ad esempio acquisire l’autonomia sociale, tali canali non possono essere generati o attivati solo con l’aiuto delle parole, ma devono essere resi noti all’alunno in tutta la loro complessità. Quando la persona con disabilità, o con difficoltà lievi o medio-gravi è in grado di padroneggiare una risposta iniziale, si rinforzano progressivamente tutte le successive approssimazioni al comportamento finale. La risposta ottenuta dipenderà dalla gravità dei deficit della persona e dalla complessità dell’obiettivo da raggiungere (Matson e andrasik, 1983; Foxx, 1986). La tecnica dello shaping si rivela efficace in tante situazioni, a condizione che vengono rispettate alcune regole precise (Matson, 1990, Copeland et al., 2009). Bisogna scegliere un comportamento iniziale anche molto distante da quello finale, ma molto semplice e facilmente eseguibile dal soggetto, è chiaro che scegliere un comportamento iniziale complesso e contemporaneamente troppo vicino all’obiettivo espone il soggetto al rischio di fallire ed avvertire a pieno tale senso di fallimento. Inoltre quando si rinforzano i successivi comportamenti che sono più vicini a quello finale, bisogna sospendere il rinforzo per i passi precedenti. Tuttavia, non si può sottovalutare che se la distanza tra un comportamento e quello successivo è molto ampia, il soggetto potrebbe non essere in grado di compiere questo passaggio ed è in questi casi che diventa necessario aggiungere dei passi intermedi. D’altronde, se la distanza è troppo breve, si rischia di moltiplicare il numero dei passi intermedi e di allungare in modo spropositato la fase di apprendimento.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Il dato essenziale è che vengano rinforzati dei tentativi di imitazione sufficientemente adeguati al modello. Gli aiuti forniti dal modello, nel caso specifico parliamo dell’insegnante, sono utili nell’ambito degli apprendimenti scolastici utilizzando delle modalità proprie dell’autoistruzione verbale.
Riferimenti bibliografici
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L’educare dei padri con figli/e disabili. Riflessioni pedagogiche e progetto di ricerca
This paper illustrates some theoretical issues about the fatherhood and its transformations by examining definitions and descriptions of fathering within the educational filed. Starting from this background, the paper shows some questions underpinned of a research project about the role of the father in a family with a disabled son/daughter. Fathers influence the develop of their disabled child directly through their behaviour and attitudes. Focusing on fathers’ role, we try to reflect about “which roles do fathers play in family life today and which dimensions could characterize father’s educational functions?” in order to support, from an educational perspectives, fathers in their pathway with a disabled child.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Keywords: fathers, education, disability, educational functions, pathway
abstract
Alessia Cinotti / Università di Bologna / alessia.cinotti2@unibo.it Francesca Maria Corsi / Università Roma Tre / francescamaria.corsi@gmail.com
III. Esiti di ricerca
Il presente contributo, progettualmente condiviso dalle due autrici, è stato così stilato: paragrafi 1, 2, 3 e 4 da Francesca Maria Corsi e paragrafi 5, 6 e la bibliografia da Alessia Cinotti.
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Premessa
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Nel presente contributo illustreremo alcune questioni di fondo che sono alla base di un progetto di ricerca che ha come oggetto di indagine la figura del padre con un/una figlio/a disabile. In particolare, in questa sede, cercheremo di delineare quelli che sono i presupposti teorici e gli sfondi problematici all’interno del quale il gruppo di lavoro ha preso le mosse tracciando, altresì, gli aspetti metodologici attraverso i quali si articola la ricerca. Inizialmente, offriremo una breve cornice introduttiva che rimanda al tema più generale della funzione paterna nella società contemporanea. Per tale ragione, abbiamo deciso di riflettere su alcune questioni basilari che emergono dalla letteratura teorica di riferimento: avendo adottato la prospettiva pedagogica, ci è sembrato significativo iscrivere lo specifico del nostro contributo all’interno di una quadro di riferimento più ampio, in merito al ruolo che entrambi i genitori hanno per e nella crescita fisica e psicologica di un/una figlio/a. Proporremo, poi, una focalizzazione dell’analisi su alcuni aspetti riguardanti il nodo centrale del contributo, ossia il rapporto tra padre e figlio/a disabile, tenendo presente che: – a partire dalla metà degli anni ‘70 i ricercatori hanno cominciato a descrivere il padre con un/una figlio/a disabile al pari della madre; quest’ultima veniva sempre riconosciuta come l’unica figura di riferimento per studiare le ben note reazioni, paragonate ad un lutto, (Gardou, 2006) in seguito alla comunicazione della diagnosi del/della figlio/a. Le ricerche odierne, inoltre, dimostrano che quando i padri tentano di descriversi in modo diverso dal pater familias vengono percepiti come doppi, replicanti, quasi dei concorrenti delle madri, divenendo, così, dei “papà chioccia”; per contro, si afferma pure che la figura del padre, non incarnando più la funzione normativa, cessa automaticamente di esistere (Sausse, 2006); – dati tali presupposti, in un contesto quale quello della disabilità del/della figlio/a, il padre perviene ad una progressiva chiusura, in un ruolo prevalentemente curante e iper-protettivo che rischia di soffocare ogni possibile autonomia del/della figlio/a; – infine, rifletteremo su un nuovo modo di intendere la relazione d’aiuto per e con i padri, in modo da sostenerli nel delicato cammino di ricerca di un proprio ruolo volto al benessere del/della figlio/a, reputando che questo sia il primo passo verso un nuovo modo di concepire la paternità.
2. Brevi riferimenti teorici
Il periodo che stiamo vivendo ci appare sempre più caratterizzato dall’ “evaporazione” del padre, che altro non è che anche il tempo dell’evaporizzazione degli adulti (Recalcati, 2013). Ogni epoca ha avuto un’immagine paterna a cui far riferimento e, con l’evoluzione culturale e sociale, tale figura ha subito una trasformazione rispetto ai ruoli, alle aspettative e agli immaginari che a questa si attribuivano. Prima di approfondire il tema del padre nelle famiglie con figli/e disabili, facciamo qualche III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
breve cenno bibliografico per mettere a fuoco e riflettere sui modelli educativi attuali, nella società occidentale. La prima questione da porsi riguarda cos’è e come si evolve il concetto stesso di famiglia. Sicuramente la famiglia come nucleo sociale è stato da sempre al centro dello sviluppo umano, e ha svolto in esso una molteplicità di funzioni: luogo di sostentamento e di sicurezza ma, soprattutto, luogo di educazione privata, affettiva, relazionale e sociale. Senza dubbio, però, l’obiettivo principale che caratterizza la prima fase del ciclo di vita della famiglia è la costruzione dell’identità di coppia (Gambini, 2007). Le forme di relazione tra due persone, che costituiranno, in seguito, la famiglia, nascono fin dalle origini dell’uomo, come esigenza primariamente biologica, funzionale alla sopravvivenza della specie (Cambi, 2010). “La famiglia rimane, pertanto, il punto/momento storico, culturale, esistenziale, in cui la vita da meramente biologica, diventa umana” (Donati, 1991, p. 25). La famiglia, nella sua forma, può, infatti, mutare nel tempo e nelle culture, ma in essa non deve mai venir meno il dovere che la coppia genitoriale ha di fare in modo che ogni figlio/a diventi un adulto/a autonomo e responsabile (Zanfroni, 2005). Si dice che ogni figlio/a per poter arrivare, senza troppi problemi, alla condizione di “adulto/a”, debba nascere due volte. “Una prima volta dallo sguardo carico d’emozione della madre e una seconda volta dallo sguardo pieno di fierezza del padre. Dalla madre nascono i bambini, dal padre nascono gli uomini” (Saini, 2005, p. 70). La storia del padre, secondo Luigi Zoja, inizia dalle tribù, da quando l’umanità non aveva ancora abbandonato lo stato ominide. È la differenziazione dei ruoli tra maschio cacciatore e femmina occupata nella raccolta e nell’accudimento dei figli/e a istituire la civiltà, con la nascita del senso della casa, del ritorno al focolare. La curiosità e la voglia di esplorare del maschio sono limitate dal ritorno. L’uomo che fa ritorno al focolare domestico non è più semplicemente un maschio, ma un padre, capace di responsabilità, di accudimento, e quindi di adottare il figlio (Zoja, 2003). Di fatto però, il fiorire delle prime ricerche scientifiche, continue e articolate, sulla figura paterna si hanno solamente a partire dagli anni Settanta del secolo scorso. I primi studi mostravano i padri come figure distanti e periferiche nell’educazione infantile. Anche nella psicanalisi l’importanza del padre è stata riconosciuta solo con notevole ritardo: per Freud la madre e il bambino costituiscono un’unità, mentre la figura del padre emergerebbe solo al compimento del terzo anno di età del figlio/a (Gebauer, 2006). È in questo stadio di sviluppo del/della figlio/a, infatti, che emerge, in lui, un’autorità interiore idealmente riferibile tanto a un dio-padre quanto al padre personale o ad altre figure gerarchiche (Zoja, 2003). Melanie Klein (2012) ipotizza, invece, che il super Io si formi già nel primo anno di vita, all’interno del rapporto con il corpo della madre. Progressivamente, l’attenzione viene spostata dal padre alla madre, con la conseguenza che la figura paterna si riduce sempre più ad una sovrastruttura sociale. Il padre, inteso come colui che destruttura la diade e che permette il passaggio obbligato del/della figlio/a nella società, sembra aver perso questa funzione sociale. A tal proposito riportiamo la posizione di uno psicanalista francese, Bernard Muldworf, che riflette riguardo al fenomeno della violenza giovanile, adducendone come motivazione la crisi della paternità: anno I | n. 2 | 2013
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“Se c’è una “crisi” della paternità, le sue origini stanno proprio qui: il problema non sta nella presenza- presunta come coercitiva- del padre, ma piuttosto nella sua assenza. Questa assenza è tanto più sentita in quanto, per effetto di un’evoluzione a nostro giudizio positiva, la famiglia è divenuta nel corso dei secoli un ambiente di arricchimento affettivo e la funzione del padre è stata fortemente contrassegnata da un elevamento della sua portata affettiva. […] Gli uomini che lavorano non hanno il tempo di essere “padri”. […] E per ignoranza, ciecamente, o per illusione ideologica, si considera questa “abiura del padre” come effetto del rifiuto dei giovani a lasciarsi schiavizzare dai valori delle generazioni passate”. (Muldworf, 1968, pp. 172-174)
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Il padre non ricopre più il ruolo del detentore della legge della parola ma, con il cambiare della famiglia, è coinvolto in un radicale mutamento che lo sta trascinando vieppiù verso un ruolo affettivo, costituito da accudimento e cura nei confronti dei figli. E la ribellione che i giovani manifestano è il sintomo di un malessere dato dalla privazione paterna. Dal pensiero di Mitscherlich (1963) che esprimeva il timore di una società orizzontale, composta principalmente da fratelli, “un innumerevole esercito di fratelli rivali e invidiosi”, cui sarebbe mancata la presenza del “predominio patriarcale”, oggi si parla, per contro, di papà. Che cosa è cambiato, dunque, nell’immaginario collettivo, e non solo? Ancora anni fa, Galli (1965) pensava alla crisi della figura paterna come un modo per aumentarne, invece, la positività rispetto alla sua autorità: più razionale, più giusta, meno dispotica. Un modo di concepire il padre davvero rivoluzionario che giunge sino ai giorni nostri, ovvero, a quel periodo caratterizzato da una delle più radicali trasformazioni che tale figura abbia mai conosciuto. “Gli uomini” riflette Chantal per mano di Kundera “si sono “papaizzati”. Non sono più dei padri, ma solamente dei papà, ossia dei padri a cui manca l’autorità di un padre”(Kundera, 1997, p. 20). Sarebbe riduttivo far risalire la genesi di questo fenomeno ad un particolare momento storico e sociale, consapevoli che furono numerosi i fattori che portarono al mutamento della concezione paterna. La letteratura di riferimento odierna in merito alla figura paterna fa emergere con forza una figura di padre assente. Assente perché si rifiuta di combattere nei rapporti, assente anche quando abita nella stessa casa; il padre sembrerebbe non fare anche quando apparentemente agisce. (Zoja, 2003). La prima questione è difatto relativa all’impallidire dell’immagine paterna (Mitscherlich, 1963), che sembrerebbe trovare la sua causa nell’essenza stessa della nostra civiltà. Basti pensare alla funzione educativa paterna che sembrerebbe scomparire, o quanto meno, venire ignorata (Andolfi, 2010). Il padre, così, rimane il nodo della normatività coniugale, genitoriale e familiare, ma in modo latente, nascosto (Donati, Scabini, 1985). C’è un bisogno ineliminabile del padre e tuttavia il suo ruolo esplicito tende ad essere sottaciuto. La società ha deciso di spogliare Ettore, come esemplifica in modo illuminante Luigi Zoja, perché non spaventi il/la bambino/a: quest’ultimo/a non avrà più paura di lui, ma avrà ancora un padre? La rinuncia dell’armatura lo renderà simile alla madre, ma il/la bambino/a andrà alla ricerca di altre figure maschili dotate di armi. Forse alla situazione paradossale del padre non c’è soluzione: essa corrisponde proprio alla sua III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
identità profonda. Il paradosso del padre sta proprio in questo: egli può essere con il/la figlio/a quando sa anche stare con l’armatura, può essere padre quando è anche guerriero. Non può fare una sola delle due cose, come la madre: se il/la figlio/a lo vede solo con le armi non lo riconosce, se non lo vede mai con le armi non lo riconosce come padre (Zoja, 2003).
3. Il focus di ricerca
Il contesto all’interno del quale ha preso avvio il progetto di ricerca che qui presentiamo coinvolge tre università italiane e una francese1. Lo sguardo con cui ci si predispone ad analizzare l’immagine paterna è inerente alla prospettiva pedagogica con le ricadute che, a livello educativo, è possibile riscontrare nel rapporto padre-figlio/a disabile. La letteratura, difatti, riporta un significativo ritardo per quanto concerne la funzione paterna e i compiti educativi che qualificano la figura del padre all’interno dei modelli educativi, come quelli in situazione di disabilità. Seguendo un approccio che va dai modelli educativi generali a quelli specifici, il gruppo di lavoro sente l’esigenza di cogliere le similitudini, piuttosto che le differenze, tra le famiglie con figli disabili e le famiglie senza figli disabili, in linea con quanto già Séguin affermava: e cioè, che quando funziona il modello educativo generale, ci sono ricadute/riscontri positive/i anche nel modello educativo specifico (Caldin, 2007). Tale prospettiva è ovviamente supportata dalla letteratura scientifica di riferimento che muove i suoi passi anche all’interno di più discipline umanistiche, quali: la sociologia, l’antropologia, la psicologia e la filosofia. Il problema di ricerca prende l’avvio da una riflessione: il padre, oggi, rappresenta ancora quella roccaforte di normatività a cui, fino a pochi decenni fa, era legato? E ancora: chi sono i nuovi padri, oggi? Sono padri assenti o sempre più presenti nella vita coniugale e familiare? In che ambito intervengono con maggiore forza e dove, al contrario, tendono a negarsi? L’immagine paterna come tradizionalmente viene intesa tende sempre più ad essere confusa con quella materna, o ancor più, a scomparire: urge, dunque, uno sguardo ancora più analitico e dettagliato in merito al rapporto tra padre e figlio/a con esigenze specifiche. Se risulta scontato affermare che un buon clima familiare sia la premessa per un buon rapporto genitore-figli, si sono intensificati, a partire dagli anni ’70 in poi, gli studi e le ricerche per rilevare le conseguenze che la presenza di un/una figlio/a con deficit possa determinare nei vissuti dei genitori e nelle dinamiche intrafamiliari che si ripercuotono sulle modalità educative (Di Nuovo, Buono, 2004). Dando avvio alla riflessione sul ruolo del padre,
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Il progetto di ricerca coinvolge il dipartimento di Scienze dell’Educazione di Bologna, il dipartimento di Padova, il dipartimento di Roma e l’Università Cattolica di Lione. Gli studiosi coinvolti sono: a Bologna la Professoressa Roberta Caldin e la dottoranda Alessia Cinotti; a Padova il dott. Simone Visentin; a Roma il Professore Fabio Bocci e la dottoranda Francesca Maria Corsi; a Lione la Professoressa Margherita Merucci.
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e sulla funzione che oggi è chiamato ad esercitare, ci domandiamo cosa significhi la sua presenza per i figli, ma soprattutto in che modo tale figura si articoli nella e con la famiglia. Il padre funge da mediatore tra la madre, simbolo di protezione e accudimento del neonato sin dai primi giorni di vita, e la realtà sociale. Cosa può accadere se il padre rinuncia alla sua funzione di terzo nella diade madrebambino? Quali conseguenze può avere la presenza di un padre pallido, o ancor più, assente, nella crescita di un figlio? A noi sembra significativo interrogarsi a partire proprio dalla sua evoluzione, ovvero dal padre padrone, detentore della legge e quindi simbolo normativo per eccellenza, sino al suo costituirsi alter ego della figura materna che, attraverso compiti di cura e dedizione, diviene emblema dell’affettività. Pertanto, uno dei temi che accompagna la nostra riflessione riguarda le declinazioni familiari delle funzioni affettiva e normativa. Quel che si constata, al giorno d’oggi, è che la funzione affettiva si traduce, semplicisticamente, in una mera soddisfazione dei bisogni del/della figlio/a, mentre è assodato che il percorso verso la costruzione di un’identità sicura e autonoma si gioca nel campo dello sperimentare nuove esperienze, nel far i conti con i propri limiti e con la frustrazione che ne scaturisce (Sellenet, 2006). In tutto questo, qual è il ruolo del padre? E qual è il ruolo che la società si aspetta che il padre giochi?
4. Metodologia
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La ricerca “La figura del padre con figli/e disabili” è uno studio esplorativo che mira ad indagare una delle tematiche meno studiate nell’area della disabilità, da una prospettiva educativo-pedagogica. Lo studio agganciandosi ai quadri concettuali dell’approccio inclusivo, parte dalla considerazione che occorra trasformare le risposte educative “specialistiche”, in questo caso a sostegno della genitorialità, in “ordinarie” per tutte le famiglie, incluse quelle con un/una figlio/a disabile. La sfida di trasformare la risposta “specialistica” in “ordinaria” appare una delle sfide più importanti, e allo stesso tempo, più complesse in ambito educativo, laddove la focalizzazione sul/sulla bambino/a disabile sembra ancora prevalere a discapito di un approccio globale alla famiglia, e al suo benessere. Alla luce di queste considerazioni, il gruppo di ricerca ha scelto di coinvolgere i padri con figli/e in situazione di disabilità, senza scegliere un specifico deficit, a sostegno del fatto che non si tratta di una ricerca compensativa e prescrittiva, bensì di uno studio che intende comprendere in che modo sostenere e rinforzare le competenze dei padri, in una situazione di vulnerabilità. A partire da queste riflessioni, l’ipotesi della ricerca è che avviando con i padri di bambini/e disabili un lavoro educativo precoce, puntuale e integrato, si favorirebbe il loro coinvolgimento nella crescita del/della bambino/a con ricadute positive sia nella relazione padre-figlio/a, sia nella relazione di coppia e nella costruzione identitaria del/della figlio/a. L’obiettivo è quello di delineare azioni educative, a carattere preventivo, su come “sostenere la figura del padre” - quando (ciclo di vita), dove (luoghi) e con quali finalità – per migliorare la presa in carico/accompagnamento della famiglia, sin dai primi anni di vita del/della figlio/a.
III. Esiti di ricerca (a. ricerca qualitativa e quantitativa; b. strumenti e metodologie)
Per esplorare la figura del padre, la ricerca prevede l’adozione di una pluralità di strumenti di indagine differenziati per ciascuna fase di lavoro. Gli strumenti utilizzati per indagare la tematica oggetto di studio della nostra riflessione sono: un questionario semi-strutturato, interviste semi-strutturate e focus group. Attraverso l’utilizzo di tali strumenti, intendiamo esplorare cosa significa essere padre di un/a figlio/a disabile, quali impatti, bisogni, desideri, aspettative generano le situazioni di disabilità e i compiti educativi nel/del quotidiano. Per quanto riguarda la sede di Bologna, i partecipanti alla ricerca sono padri (italiani e migranti) con un/una figlio/a disabile in un’età compresa tra gli 0 e i 6 anni, iscritto/a al nido d’infanzia o alla scuola d’infanzia della città di Bologna. La sede di Roma, invece, ha tra i suoi partecipanti padri (italiani e migranti) con un/una figlio/a disabile in un’età compresa tra i 6 e i 10 anni, iscritto/a alla scuola primaria della città di Roma. Le fasi della ricerca possono essere sintetizzate nei seguenti punti, per quanto concerne la sede di Bologna: 1ª fase – gennaio/agosto 2013: conoscenza del contesto (incontri con il Responsabile del Settore Istruzione, incontri con i coordinatori pedagogici dei nidi d’infanzia e delle scuole d’infanzia); 2ª fase – settembre/ottobre 2013: mappatura dei padri da coinvolgere nella ricerca per ciascun quartiere; 3ª fase – ottobre/dicembre 2013: somministrazione del questionario ai padri con un/una figlio/a iscritto/a alla scuola d’infanzia; 4ª fase – gennaio/febbraio 2014: interviste in profondità ad un gruppo ristretto di padri; 5ª fase – febbraio/marzo 2014: somministrazione del questionario ai padri con un/una figlio/a iscritto/a al nido d’infanzia; 6ª fase – aprile 2014: interviste in profondità ad un gruppo ristretto di padri; 7ª fase – maggio 2014: incontri di formazione – genitori, insegnanti, coordinatori pedagogici - che possono connotarsi come valutazione del percorso di ricerca, nonché come momento di condivisione e riflessione dei dati raccolti durante la ricerca.
Per quanto concerne la sede di Roma le fasi della ricerca possono essere così schematizzate: 1ª fase – gennaio/settembre 2013: conoscenza del contesto di riferimento attraverso l’incontro con i Dirigenti Scolastici delle scuole primarie, i coordinatori pedagogici e i Responsabili delle Associazioni che si occupano di autismo, quali “La Breccia nel muro” e “Be and Able”; 2ª fase – ottobre 2013/gennaio 2014: interviste in profondità ai padri con un/una figlio/a disabile in un’età compresa tra i 6 e i 10 anni; 3ª fase – febbraio/marzo 2014: focus group con un gruppo ristretto di padri non coinvolti precedentemente nelle interviste. Può essere utile procedere con metodi che chiamano in causa contemporaneamente più persone al fine di raccogliere valutazioni, giudizi e opinioni, arricchite dall’interazione tra i membri del gruppo: tale metodologia potrebbe favorire una maggiore produzione di idee e una maggiore disponibilità a parlare e ad analizzare in profondità un problema; 4ª fase – aprile 2014: incontri di formazione – genitori, insegnanti, coordinatori anno I | n. 2 | 2013
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pedagogici - che possono connotarsi come valutazione del percorso di ricerca, nonché come momento di condivisione e riflessione dei dati raccolti durante l’indagine; 5ª fase – maggio 2014: costruzione di un questionario da somministrare ad un gruppo try-out.
5. Abitare la paternità
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In questo paragrafo – dopo aver delineato il ruolo del padre nei modelli educativi generali, e le sue principali trasformazioni negli ultimi quarant’anni – esamineremo la figura del padre nelle famiglie con un/una figlio/a disabile, attraverso una prospettiva educativo-pedagogica. L’incontro con un/una bambino/a con disabilità colpisce, nella quasi totalità dei casi, una coppia o una famiglia in un momento del ciclo di vita caratterizzato da “una dinamica espansiva e gioiosa, generativa appunto, che la rende impreparata alla dimensione del lutto e della perdita delle aspettative” (Sorrentino, 2006, p.2). La nascita di un/a figlio/a disabile spezza, infatti, il sogno di entrambi i genitori del cosiddetto “bambino immaginario” che racchiude le aspettative e i desideri della coppia genitoriale; tuttavia, la presa d’atto della disabilità (Montuschi, 1997) ha tempi e modalità molto differenti, nel padre e nella madre, di cui dobbiamo necessariamente tenere conto quando pensiamo a progetti di sostegno alla genitorialità. Nei modelli educativi come quelli che si attuano in situazione di disabilità, i genitori sono i principali caregiver del/della figlio/a: la “disabilità” sembra comportare un’attenzione accentuata ai “bisogni primari” del/della bambino/a – ossia quelli necessari alla sua “sopravvivenza” - a scapito di una relazione genitori/figli basata anche sull’affettività, sulle emozioni, sul gioco e sulle esperienze emancipative per la crescita e lo sviluppo. Un “itinerario” genitori e figli/e legato unicamente, o quasi, alle cosidette cure ricorsive, ossia tutte quelle azioni inerenti alla cura dei/delle figli/e che si ripetono ogni giorno, senza grandi variazioni, nel tempo (Canevaro, 2002). Le attività di cura nei confronti del/della figlio/a disabile (igiene personale, controllo sfinterico, alimentazione ecc.) rivestono una centralità educativa che, nel corso del tempo, dovrebbe essere contenuta e bilanciata anche con altre modalità educative, come quelle volte all’emancipazione e alla crescita del/della bambino/a. In tal senso, avere un/una figlio/a disabile è un’esperienza che richiede ad entrambi i genitori una costante e continuativa attenzione ai suoi bisogni, rischiando di perpetuare, negli anni, il rapporto genitoriale con un/a figlio/a percepito come piccolo, anche quando cresce (Montobbio e Lepri, 2000; Carbonetti e Carbonetti, 2004, 1996), sulla base di un’eccessiva maternalizzazione degli stili educativi dei genitori. In questo scenario, il padre appare la figura che, in misura maggiore rispetto alla madre, rischia di rimanere “intrappolato” in un “travestimento materno” (Pietropolli Charmet, 1999) che non gli consentirebbe di sperimentare un ruolo differente da quello di un padre con una funzione prevalentemente “curante”. Il padre nelle famiglie con un/una figlio/a disabile rimane, nella letteratura
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scientifica, fino a pochi decenni fa, una figura secondaria rispetto alla madre, come testimonia l’ampio ventaglio di ricerche sulla figura materna, a partire dai primissimi studi di Farber (1959) sulla ben nota “reazione di lutto”. A partire dagli anni ’70, i ricercatori hanno iniziato a focalizzare la loro attenzione anche sulla figura del padre, indagandone la situazione psicologica, le reazioni alla nascita del/della figlio/a, in linea con quanto era già avvenuto con gli studi sulla figura della madre (es. le reazione depressive, i livelli di stress, l’evolversi di tratti patologici ecc.). Inoltre, definire il ruolo del padre, nonché il suo profilo e le sue funzioni educative sembra essere molto più complesso rispetto alla definizione del ruolo della madre. MacDonald e Hastings (2010) indicano che occorre chiarire e, conseguentemente, ottenere un consenso condiviso tra i ricercatori (e, non solo) rispetto a cosa intendiamo, oggi, per “padre”. Gli stessi autori individuano in questa mancanza di “consenso” uno degli ostacoli principali per quanto riguarda le indagini relative alla figura del padre. Marsiglio e collaboratori (2000) indicano, inoltre, che gli studi sul padre sono stati influenzati da una tendenza diffusa a vedere la madre come il principale caregiver del/della figlio/a. Non è un caso, il fatto che, fino a qualche decennio fa, il padre non comparisse neanche negli scritti sulla primissima infanzia. In altre parole, come possiamo indagare il coinvolgimento paterno, se più o meno consapevolmente, abbracciamo ancora l’idea che l’educazione dei/delle bambini/e disabili debba essere una questione, da un’ottica sociale, prevalentemente “materna”? Nei modelli educativi come quelli che si attuano in situazione di disabilità, come indica Caldin (2007), vi è - da parte dei genitori - una massiccia assunzione, che risulta anche per molti aspetti benefica, di modalità educative cosiddette di area materna volte sempre più alla cura, all’accudimento, alla soddisfazione dei bisogni, accentuando la protezione e la prolungata dipendenza del bambino/ragazzo con disabilità dalle figure genitoriali. Allo stesso tempo, però, è venuta a mancare un’equivalente valorizzazione della modalità cosiddette paterne – esperienze di frustrazione, spinte esplorative, valorizzazione delle autonomie, capacità di scelta e di pensiero critico, ecc. – altrettanto indispensabili per la crescita delle persone disabili e per la loro formazione identitaria. La famiglia con un/una figlio/a disabile si trova, spesso, in difficoltà a svolgere le proprie funzioni educative: le madri e i padri hanno bisogno di essere accompagnati per coltivare la loro “capacità generativa” (Sorrentino, 2006), intesa come la capacità di prendersi cura e legarsi ai figli, dopo lo shock iniziale di una diagnosi che sembra arrestare la progettualità familiare in un “presente continuo” dove il prima e il dopo non hanno niente in comune (Merucci, 1999). Ritroviamo famiglie con al loro interno assi relazionali dove la diade madrefiglio/a si fa potente, quasi esclusiva, sino ad allontanare e a marginalizzare il padre che fatica ad entrare nella relazione madre/figlio come un Terzo Affettivo (De Chirico, 1985): colui che può aiutare il processo di separazione/individuazione del/della figlio/a dalla madre e viceversa. La dipendenza fusionale (De Chirico, 1985) tra madre-figlio/a è del tutto normale nei primissimi mesi di vita del/della bambino/a, ma passato questo periodo, la simbiosi diventa chiaramente nociva, sia a causa dell’iperprotezione che soffoca lo sviluppo e l’autonomia del/della bambino/a sia perché tale legame non consente agli altri membri della famiglia e, in particolare, al padre (ma anche ai anno I | n. 2 | 2013
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fratelli e alle sorelle) di entrare nella costellazione familiare del/della bambino/a più piccolo/a. Tali dinamiche relazionali possono mettere in moto un processo di dis-empowerment nei genitori: la necessità di cure e di accudimento del bambino e l’incertezza per il suo stato di salute rischiano di invadere tutti gli spazi familiari, senza lasciare margini per altre relazioni, coniugali, affettive, amicali e lavorative (Serra, 2011, p. 43). In questo scenario, come già accennato, il padre rischia una progressiva chiusura in un ruolo prevalentemente “curante” del/della figlio/a, attraverso una sorta di imitazione di quelle che sono le “peculiarità” della madre, in un quotidiano che può diventare anche molto faticoso. L’interscambiabilità dei ruoli e dei compiti, oggi, non dovrebbe portare ad un appiattimento e ad una omogeneizzazione dei ruoli genitoriali, bensì ad una maggiore valorizzazione di una pluralità di modi di educare e prendersi cura dei/delle figli/e da parte della madre e del padre. Occorre quindi sostenere ogni genitore a ricercare il proprio modo di essere genitore, nei compiti di cura e nelle responsabilità educative, “dove la diversità tra i sessi possa essere una valorizzazione delle rispettive parzialità” (Iori, 2005, p.123). Queste considerazioni confermano l’importanza di coinvolgere attivamente i padri nelle dimensioni educative che riguardano il/la figlio/a in virtù del fatto che l’alleanza educativa tra le madri e i padri è uno dei fattori protettivi più importanti per garantire la loro tenuta generativa, con importanti ricadute sullo sviluppo del/della figlio/a. Come indica Carbonetti “la situazione peggiore può verificarsi quando il padre fugge dalla situazione di impegno e di sofferenza: allora la madre resta sola con il suo bambino e accentua il legame di dipendenza con lui” (1996, p. 54). Riflettere sul ruolo dei padri, da un punto di vista educativo-pedagogico, significa iniziare a ri-pensare agli interventi educativi tradizionali a supporto della genitorialità, attraverso uno sguardo critico, attento ai cambiamenti del contesto e disponibile al confronto delle differenze. Le migliori evidenze (MacDonald e Hasting, 2010) suggeriscono che le azioni educative più efficaci – a sostegno della genitorialità – sono quelle che hanno cura di chi cura, attraverso una presa in carico che veda ogni genitore come un individuo singolo (es. caratteristiche, bisogni ecc.), come un partner, e come un membro di un sistema familiare. Negli anni Novanta, una tematica indagata è stata quella relativa alla comunicazione della diagnosi e all’impatto che tale notizia aveva sui padri, ossia quali reazioni emotive scaturivano da un evento doloroso come quello legato ad un deficit. In generale, questo filone di studi ha cercato di descrivere il significato di essere padre di un/una figlio/a disabile (Lewis e O’Brien, 1987). I padri riportano un crollo delle aspettative legate al proprio ruolo di padre, a causa dello scarto tra un’idea di paternità immaginata e l’effettiva esperienza di essere padre in una situazione complessa come quella generata dalla disabilità (Murray et al., 1991). Grazie al contributo teorico delle teorie sistemiche – che affrontano le tematiche della famiglia in un’ottica psico-educativa e sociale – è importante pensare a quali competenze professionali si dovrebbero mettere in campo nel rapporto con i padri, ri-pensando alle risposte-proposte educative sottese alla presa in carico della famiglia con un/una figlio/a disabile. L’obiettivo è quello di
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“individuare e riconsegnare ai genitori, e soprattutto ai padri, uno spazio di espressione ed incontro anche all’interno dei servizi […] dove non esiste un modello unico, copiabile e riproponibile, ma dove ogni padre, ogni genitore, trova un’occasione di confronto, [...] opportunità con cui misurarsi per poter individuare percorsi educativi “personali”, sintonizzati con le aspettative e le domande dei propri figli” (Natalone, 2006, p. 11).
6. Verso una “Pedagogia con i padri”
La riflessione sull’educazione familiare, e sulle competenze educative dei genitori con figli/e disabili è stata protagonista di importanti evoluzioni nel corso degli ultimi trent’anni, sia per merito di una produzione scientifica che si è sviluppata in modo esponenziale - in ambito italiano e internazionale - sia grazie ai più recenti contributi biografici scritti dagli stessi padri con un/una figlio/a disabile (Nicoletti, 2013; Salomone, 2012; Verga, 2012; Pontiggia, 2000). La ricerca del proprio modo di essere padre, tuttavia, risulta molto più complessa rispetto al passato, poiché mancano ancora modelli plurali di paternità, verso i quali guardare e da cui attingere. I padri non riescono più a trarre insegnamenti dal ruolo paterno tradizionale, ossia dai loro stessi padri, per quanto concerne l’educazione dei/delle propri/e figli/e, alla luce dei profondi cambiamenti familiari e socio-culturali. Il padre sembrerebbe in bilico tra il peso della tradizione - che appare sempre più distante dalla nostra quotidianità - e il cosiddetto “nuovo padre” in quello che viene indicato come ruolo “liquido” che richiede una profonda rielaborazione e ridefinizione dei compiti educativi che caratterizzano l’agire quotidiano, verso altri e possibili modi di essere padre. Per tali ragioni, noi crediamo che con i padri dei/delle bambini/e disabili sia necessario attuare un lavoro educativo precoce, puntuale e integrato, che preveda al suo interno un progetto educativo specifico rivolto ai padri, su come “sostenere la figura del padre”, a partire da una serie di interrogativi: chi è il padre di un/una bambino/a disabile? Quali compiti educativi caratterizzano la quotidianità dei padri? E, quali impatti, desideri, aspettative generano le situazioni di disabilità? Ci interessa prendere in considerazione il padre, secondo la prospettiva dell’empowerment, che lo vede – insieme alla madre – il protagonista della scena familiare con la finalità di valorizzare le sue competenze e i suoi saperi, attraverso una logica di interventi e azioni educative volti a creare opportunità nella vita quotidiana, piuttosto che in una dimensione clinica che ne rimarca la passività (Belletti, 2007). L’auspicio è di riuscire a valutare quali “mancanze” educative si sono incontrate – nel passato e oggi – nella relazione d’aiuto con i padri, e cercare di trasformare in nuove sfide i limiti della presa in carico del padre con un/una figlio/a disabile, cercando di superare visioni stereotipate e rappresentazioni sociali deviate. Tali prospettive educative potrebbero rivelarsi impegni fondamentali per progettare un percorso di sostegno alla paternità e, più in generale, alla genitorialità. Zanobini e Freggiaro (2009, p.149) sostengono che i padri “sono combattuti talvolta tra un iniziale istinto di protezione, sicuramente esacerbato dalla situaanno I | n. 2 | 2013
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zione di minorazione del bambino, e un eccesso di aspettative, ma i padri hanno ben chiaro che il loro compito è di favorire lo sviluppo dei propri figli nel senso di una sempre maggiore autonomia e indipendenza”. A tal proposito, come indicano Caldin e Cinotti (2013) è necessario sostenere i padri a ricercare un proprio ruolo originale e propositivo sia nei confronti del/della figlio/a – limitando il rischio di omogeneizzazione dei ruoli parentali – sia nei confronti della madre, che dovrebbe percepire il proprio compagno come un polo attrattivo e non solo come l’alter ego curante del figlio. E ancora, sostenere i padri (come le madri) a guardare oltre la compensazione degli svantaggi generati dalla situazione di disabilità del/della figlio/a, per abitare nei tempi e negli spazi dell’ordinarietà, poiché i bisogni dei/delle bambini/e disabili riguardano quelli di qualunque altro bambino: crescere, imparare, essere amato dai propri genitori, giocare e stare con gli altri coetanei (Caldin, 2012).
Riferimenti bibliografici
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ALESSIA CINOTTI, FRANCESCA MARIA CORSI
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Christian Inclusion in Educational and Economical Development in Palestine. Socio-Cultural and Economical Challenges in a Context of Conflict
This article concerns the role that the Christian Community in Palestine plays in various fields, specifically their involvements in education, and consequently on economy. The choice of the title has found stimulus from both emergency and conviction. The emergency is the way the Palestinians are living; the conviction is according to which education, animated by the Christian message is the most effective weapon to reconstruct the conscience and to form new generations that are better able to develop and to rebuild the society in all of its economical, political, and social aspects. It is also a reflection on the maintenance of this presence, that has been possible thanks to the potentialities, to the courage and, obviously, to the awareness of its roles and a proposal that looks at the actuality and the future.
Š Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Keywords: Education, Conflict, Inclusion, Economy, Christian involvment.
abstract
Sami Basha, Palestine Ahliya University College / basha@forzapaca.net
IV. Altri temi
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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The role of social, cultural and economic factors within the context of the geographical, demographic and political background of the Middle East conflict is simultaneously direct and indirect, transparent and subtle. The purpose of this article is to explore this dichotomy in light of the Christian community’s development and enrollment in Palestine1. The specific focus of this article is Christian communities style and method of self-presentation, which has experience countless events throughout the centuries and subsequently evolved (Eid, 1995, p.59). Even during the period between the World Wars, Arab writers and thinkers who brought ideas of nationalism and radical political and social actions were mainly Christians2. This important historical role within the Christian community is often ignore by susceptible mass media, which seems to select a historical narrative often based on prejudice that is fully divorced from reality and truth. It is important to note that there are numerous Christian Palestinians authors, poets who offer a meaningful contribution to the culture of the Palestinian people and to the creation of a social philosophy and politics, which is based on justice, liberty, and equality. However, before the significance of this point can be fully grasped it is crucial to understand the concrete reality of the contemporary situation in Palestine, considering both the positive and negative factors within the Christian community. Referencing this, contemporary author, Andrea Pancini, concluded his book The Arabic Christian Community in the Palestinian Territories, in the following way; “From the social and political point of view, both in Israel and in the area of the Palestinian autonomy, new perspectives are being opened for the Arabic Christian communities in connection with the peace process: it however, especially in the Palestinian territories, has suffered a consistent hemorrhage from its own members that is hardly retrievable. The challenge that sets the future to these communities is to elaborate correspond strategies to strengthen its own roots in a political context more stable and propitious, although not too much numerous, to practice a meaningful cultural and social role to be remarkable actors in the two political entities – institutional of affiliation” (Pancini, 1996, p. 310).
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Pancini is a very well versed in the historical and contemporary Middle East situation and in his writings he emphasizes the important role that Christians have in this moment. This emphasis helps Christians in the Middle East better clarify not only their identity and also their historical tradition of valuable con1
2
The term Palestine derives from Philistia, the name given by the Greek writers to the land of indigenous people who lived there since the beginning. This term has been associated with the samaal region and that includes the modern Israel and Jordan. This region is also known as the Holy Land for the presence of and significance to the three monastic religions. During the Ottoman rule, this name was adopted for the region mandated to Great Britain, and for long time this term denoted a specific region even thought it did not specify precise boundaries. Generally, the word Palestine is being used to define a region bordered on the east by the Jordan River, on the north by the modern Israel, on the west the Mediterranean (including the coast of Gaza), and on the south the Negev desert (1999-2001 Britannica on line – consulted on Friday 25 May 2001). SECRETARY OF STATE FOR THE COLONIES, Report of the commission on the Palestine disturbances of August 1929, London 1930, p. 8. Affirmed by Hassan Bin Talal, the prince of Jordan in his book “Search for peace”.
IV. Altri temi
tributions to the educational system. This knowledge cannot be neglected or omitted, and it should also be noted that the formation of young people happens through the social interaction, not only through the level of basic social interaction. As a minority group, the Palestinian Christian community cannot function without significant interaction with the majority group, Palestinian Muslims. This contact helps also to clarify their identity more through the testimony of life and the important presence of all Christian institutes, which are widespread in the region as a whole and affect the economy in a direct and indirect way. This study gathers and subsequently reflects on the remarkable importance of the presence and involvement of the Palestinian Christian community in the land of its birth, at the center of the monotheistic world. The goal of this article is to make an important and concrete contribution to the knowledge and understanding of the central role played by the Palestinian Christian community in the Holy Land, with the hope that it will break the ground for other new and continuing studies on the topic. For generations, the Palestinian Christian community has contributed to the formation and development of the society in which inserted using methods that were both continuous and creative3. Christians, despite being a minority, are present inside various governmental organizations and a variety of social structures. One example, Hanan Ashrawi, was Minister of higher education in the Palestinian National Authority and took a very important role in the Palestinian National Authority (PNA) during the first year of the peace process4 (Pacini, 1998, p. 279). This century holds the possibility of not only the discovery of new a Christian image, but also renewal era of the church (Riccardi, 2001, p. 197). The visit of His Holiness John Paul II to this land gave new meaning to this possibility. His visit gave the community a new and invigorated image of their identity and continually developing significance for their presence in Palestine. 3
4
The concept of development is not easily definable. For this reason and as to give the right attribute and correct meaning, it was supposed to start from a definition with a human dimension. Development could be defined through the use of the data of every state, or through the quality of life, or according to some human rights scales that represents a fundamental measure and is considered a measurement of development. It is important to underline the notable changes during the last decades. After the Second World War, the obsession of the development was all expressed in economic terms. The changes began during the sixties with concepts that are technically very specific. Also, in the last decades, the World Bank and the United Nations have essentially abandoned the economic indicators and have already moved toward complex indicators that exclusively exclude economical aspects. The most important complex indicator is the index of human development that considers three factors: 1. The income, or the level of material comfort, 2. The hope of life, 3. The level of education. It seems that the international organizations have finally considered the Christian message that puts the human being at the center of the attention. The Palestinian Christian community has been involved in this kind of development in the Middle East since the beginning. Dr. Hanan Ashrawi was the official Palestinian spokeswomen in the group for the negotiation for many years. And for three years she was elected as a minister of higher education in the Palestinian National Authority (Britannica Book of the year, Chicago 1993, p. 34). Nowadays there are some Palestinian Christians who are ministers in the national authority or having a very important position. For more information see also. D. TSIMHONI, Christian communities in Jerusalem and the West Bank since 1948. A historical, social and political study, Westport, Connecticut, London 1998, p. 168.
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1. Culture, Religion and Economy
150
In any situation as complex and entrenched as the conflict in Palestine there are a wide variety of factors to consider, but in this instance the instability of peace and justice, and the continuously uncertain vision of the future are paramount (Pozzo, 1984, pp. 269-284). The shifts in control throughout the centuries has left Palestine with people with a diversity of heritages, many of which are mixed ethnicities, which was caused by intermingling between the residents and those who were brought in after each change. This diverse group of people includes Christian, Muslims and Jews5. Within the Palestinian Christian community, membership goes beyond the boundaries of culture and it is not tied to a certain language, pattern, or tradition6. In this land, Christian faith is able to live easily within every culture. However, the embodiment or exact method of expression can manifest in different, culturally dependent ways. Yet the expressions through which these messages are passed remain the most serious problem. This predicament of how to apply new elements of civilizations for the service of society, like values throughout the educational institutes, symbols etc, remains the duty and the responsibility of the Christian Community. The presence of the religious dimension in the daily life of the people and in their civilization does not simply appear without significance or intention, but rather it continues to but it continues to guide the way for relationships of cooperation. From 1516-1917AD, Palestine was considered as the land of conquest and exploitation by the Turkish and an important strategic holding to use as a base to attack British occupied Egypt (Al Mawsua’ Alfalastiniah, 1984). The corrupt administration of the Turkish and the fiscal oppression reduced the country to a state of economic poverty. With the help of the European initiatives through the Turkish governments, Christians had a new liberty in practicing their faith which was greatly facilitated by the after opening of new schools, hospitals and institutions (Baratto, 1999, p. 24). During this period the Ottoman government fol5
6
SECRETARY OF STATE FOR THE COLONIES, Report of the commission on the Palestine disturbances of August 1929, London 1930, p. 8. In the last years the Palestinian society has suffered a radical change. It used to face every new challenges required by the historical contingencies, in which a non-indifferent role is taken again by the Israeli occupation. Specifically, today the Palestinian Christian, busy in the formation, has the responsibility and the duty to be able to adopt different way of communication to be listening of the proposals furnished by the other inhabitants the Holy Land: from the Islamic culture and from Jewish side. On this point, the Latin Patriarch of Jerusalem recently wrote “read and live the Bible in the country of the Bible today” to give a general form to the Christian’s contribution, valid for every time: “Common testimony and dialogue with everybody [… ] We also believe that the church of Jerusalem and the Holy Land, through its experience and its reflection, can offer a unique contribution in the context of the churches of the region and in communion with the universal church. The church in Jerusalem will be happy to be listened by the others and to welcome their answers. We hope that our message, over that from the Christian community, can also be welcomed by our Moslem brothers and Jewish as contribution on our behalf to the coexistence and the peace, in the respect of the beliefs of all”. The patriarch gives a great appeal to hope, asking Christians to stay in the heart of this injury that has reached an unbearable level. Far from every rhetorical thought, it seems that only through a true social-political commitment is able to help preparing a healthy and ready environment to welcome everyone with his own differences.
IV. Altri temi
lowed the infamous policy of intentionally creating uneducated populace, which brought disastrous cultural deterioration and was characterized illiteracy among a great part of the Palestinian populations (Sfeir, 1993, p. 76). At the end of 18th century, the Catholic community was counted at 59,731 members; of these there were 56,874 from the Latin rite (Di Alcono, 1856, p. 60). It is important to note that before the Turkish conquest, Palestine had a significant Christian population, which was divided between the Greek Orthodox, who were living in a mainly urban community, and the Syriac speaking Christians, who were mostly settled in the rural areas7. The non-Muslims, which included the Christians, were measured under the law of millet (autonomous religious communities8), and the choice of their leaders was subject to the sultan’s authorization. During this time only the different communities were recognized separately as a body in the Millet system (O’Mahony, 1995, pp. 240-242). During this period, many Christian writers took a position in regards to the problematic political situation in Palestine. Some of them published books articulating an argument for Palestinian nationalism. One example is Najib Azouri, a Christian who worked for the Ottoman government in Jerusalem, before relocating to France in 1904 (Al Mawsua’ Alfalastiniah, 1984). He wrote the book The awakening of the Arab Nation. He called for Arab unity and for the formation of an Arab Catholic church to replace all small Christian groups, many of whom were likely Protestants (Musallam, 2000, p. 97). Another famous young Christian author was Najib Nassar Al-Khouri, the founder the Al-Karmel newspaper (1908-1914), which was suspended several times by the Zionists. In this newsletter, he intended to persuade people against selling their land to the Jewish immigrants. He was one of the first people to publically call for a Palestinian Arab identity. Also he has called for the opening Arab religious, industrial, vocational and agricultural schools with the intentional that such institutions would have a positive impact on the economy of the region (Musallam, 2000, p. 102). Many more examples can be given to demonstrate that during the Turkish period the Christians were in a good position to defend their right as Palestinians and also as Christians, while promoting educational opportunities. Hanna Issa was another active Orthodox Christian who worked tirelessly as to maintain his identity as Orthodox. Before he died in 1909, he wrote many articles in his newspaper Al-Asma’i to advocate for the establishment of national and agricultural schools in Palestine to teach the equality of all; specifically emphasizing equality 7 8
According to McCarthy the Christians moved mainly in the 19th century from living in the rural centers to the main urban centers. J. MCCARTHY, The population of Palestine: Population history and statistics of the late Ottoman period and the mandate, New York 1990, pp. 12-14. On a first level, this system has driven the Christians to consider themselves an unfamiliar and strange in the Palestinian society. In the moment that they practiced their right of being Christian, they no longer fit the role for being citizens in the country. On another level, this system transformed religious affiliation to a minimal social and sectarian association. So the person become classified since birth, and this is the reality from which the church is still suffering (A. ISSA, Les minorities chrétiennes de Palestine à travers les siècles, Jerusalem 1976, pp. 187-193). You can see more details about this dimension of the Christian community in Palestine in: A. O’MAHONY, Church, State and the Christian Communities and the Holy Places of Palestine, in TAYLOR W. – PRIOR M., Christians in the Holy Land, London 1993, pp. 13-16.
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between Christians, Muslims and Jews (Al Mawsua’ Alfalastiniah, 1984). His contributions to the community number far more than what he is most communly remembered for, he was also an economist because he called for the people to establish banks, develope trade and industry throughout Palestine (Musallam, 2000, p. 97). Hanna Issa was a brilliant and dynamic individual whose philosophy ought to be more widely studied by all. At the end of the Turkish dominion in 1914, one of the most famous voices was that of the famous Khalil As-Sakakini, who became an active journalist after his return from the United States in 1908 (Al Mawsua’ Alfalastiniah, 1984). He believed in the independence of the Jewish people, but not on the cost of others, and in an of interview in 29th of March in 1914 with the Al-Iqdam newspaper he said the following; “Zionists want to possess Palestine, the heart of Arab countries and the middle link that connects he Arabian Peninsula with Africa. Thus, it seems that they want to break the link and to divide the Arab nation into two parts to prevent their unity. The people have to be aware. It possesses a land and a tongue. If you wish to kill a people, cut their tongue and occupy their land. This is exactly what the Zionists intend to do to the Arab nation….” (Musallam, 2000, p.104)
152
All these individuals represent the position of the Christian community in Palestine, and of course their position was very close to the position of the church. However, unfortunately, these Christian voices were shut down and silenced by the Ottoman government at the beginning of the war. Many of them were deported or silenced by imprisonment and harassment. The challenge to build an economy on the cost of others is the worst face of civilization. There were also some very important female voices speaking out on these topics at this time. One example of a Christian woman is that of Eva Al-Masri, who has very famous for her declarations in regards to the involvements and contributions of Palestinian women in Palestinian society (Zuaiter, 1979, pp. 478480). Al-Masri was not the only woman; there were many more who were not only involved in meetings and conferences, but also in aid actions. The actions and achievements of Palestinian women during this time period is an unfortunately under acknowledged topic of history, but one that is deserving of serious and deep research. From 1917-1948, when Palestine was under British control, it was a country of about 24,000 sq. km, and was already small enough that the Jewish Agency resolved and declared that the only way to resolve the problem of continual persecution was to immigrate to Palestine9. They immediately began to plan to relocate the population to Palestine. They chose to implement illegal immigration (Gilboa, 1994, p. 44). During the British Mandate, Jewish immigration into Palestine increased dramatically. More than 400,000 Jews immigrated to Palestine during the Mandate, increasing their percentage of the overall population from about 8% in 1920 (with the vast majority of those being recent immigrants) to 9
GOVERNMENT OF PALESTINE, department of education, Note on education in Palestine 19201929, Jerusalem 1929, p. 3.
IV. Altri temi
about 30% at the end of the Mandate (Al Mawsuaâ&#x20AC;&#x2122; Alfalastiniah, 1984). The percentage of Palestinian land owned by Jews increased from 1.7% of the total Palestinian land in 1920 to about 6% in 1947 (Gilboa, 1994, p. 45). Directly following this period of crisis, the civil administration was established in 1920, but it maintained a policy that favored the Jewish people (Al Mawsuaâ&#x20AC;&#x2122; Alfalastiniah, 1984). This put the Arab population in a deepening twofold crisis, first because Jewish immigrants continued buying land, which in the end only served to deprive so many families from their livelihoods, and second because with Order 688 countless families who made their living off the land were forcibly evicted. So the British Mandate was in the increasingly complicated situation of trying to protect the right of the Palestinians; both Christians and Muslims, while the Jews were declaring their unilateral right of owning and controlling the land (Hadawi, 1967, pp. 58-60). Therefore, the economy of the Palestine, which was based on products of the land, was almost totally halted. Recently an interesting movie by an Israeli named Amos Gitai, entitled Kedma or Toward East explores the dramatic arrival of the Jews and the impact on the inhabitants of Palestine (Amos, 2003). This portrayal really supports the devastating effect that loss of the land had on Palestinian society. It is not easy task to summarize all the events experienced by the Palestinian community and their subsequent reactions during this period, but what is hugely important to realize is the rapid acceleration of events at a time when the Palestinian themselves were not prepared to address such changes. This period is characterized by the development of political, social, economic and the cultural aspects of life in conjunction with a daily struggle against the British mandatory system and their passing of resources and facilitatation of the entrance of the Jews in Palestine. The chart below illustrated the shift in the demographic situation from 1922 to more recent years (Al Mawsuaâ&#x20AC;&#x2122; Alfalastiniah, 1984).
12
192237 Palestine
1944
Palestine Area
Year
1975
10
Christians
Muslims
35 Jews10
11 Others36
73.024
590.890
83,794
7,917
660,641 135,547
528,702
542,800
Palestinians
Non Palestinians
170,000
Muslims 1,844,000
2.014.000
Jews
757,182
14,098
1,196,824
Christians HL
1,061,277
91,707
Total
Others
2,888,000
1,739,624 Total
4,902,000
The Jewish communities who are living in the settlements are called settlers. In 1945, 70,000 Jewish settlers came to the area and as a result their number has become superior to that of the Palestinians. And of course later more Jewish immigrants arrived to Palestine. They were divided into two sections, one in Europe who were working under the name of the Jewish Agency to transfer the possible number of the Jewish people in Palestine, and the other where they were operating directly in Palestine to strike the British targets who were on the Palestinian coasts to stop the Jewish clan destines to enter, and to prepare the unloading of these immi-
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To better illustrate the situation, words are not actually necessary. This example renders a very clear development for the current reality while taking into consideration the condition of the Christian community in the 2002 (Della Pergola, 2002, p. 34). So long as illegal Jewish immigration and settlement continues to grow in Palestine, these numbers will be ever changing. The experience of Christians in the Holy Land is enriched by a culture that over the centuries has developed into so many traditions, faith testimonials, sufferings, involvements and contributions. The Palestinian National Charter, which was formulated directly after the birth of the PLO during the national congress in Cairo from the 1st to 17th of July in 1968 (Al Mawsua’ Alfalastiniah, 1984). The following quote is from a very important article, which explored the equality in the Palestinian society and the liberty for each religion during that time. Some of these paragraphs are so important for the Christian Community. “Palestine is the homeland of the Palestinians Arab people; it is an indivisible part of the Arab homeland, and the Palestinian people are an integral part of the Arab nation” (Peters, 1984, pp. 417-420). This first point gives all Palestinian Christians the right of declaring themselves to be Arabs and participating in Arab culture, as well as contributing to Palestinian society as full members instead of outsiders. This article can immediately be connected with the document sent to the Churches of the east entitled The Light of the East, in which the Pope writes to confirm the very important role of these churches and their patrimony as part of the patrimony of the universal church. Moreover, he writes that it is essential for all people to articulate themselves according to their own culture and thought (Giovanni Paolo II, 1995, p. 10). It is an invitation for all Christians to deepen their significance and presence in the East. Religion is part of the daily life of the Palestinian population and specifically the Christian community; Christians in the Middle East attend church and live a popular religiousness, which consists of devotions and traditions. Currently, many young people are starting to practice less practicing and to distance themselves from the church. The fact that Christians live among a Muslim majority can help
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12
grants (Y. GILBOA, Il blocco marittimo britannico della costa palestinese 1945-1948, in “Storica rivista”, Modena, VII (Luglio 1994) 6, pp. 44-46). But what we mean today with settlers are those who move from living in the Israeli Territories to become habitant of the Palestinian Territories in an illegal way. And they are who are creating all obstacles for the peace process. Another reason for the growth number of the populations in Palestine was the expatriation; exodus of so many Jewish between 1948-1951. It has arrived to 42% of the increasing number of the population. The immigrants of the Jewish people has arrived to 680.000 especially from Africa and Asia, and Europe in the first four years after the declaration of the state in 1948 (AL MAWSUA’ ALFALASTINIAH (PALESTINIAN ENCYCLOPEDIA), Vol., II, Damascus 1984, p. 558). Although there are number of other minority groups, such as Druses, Baha’is, and the Samaritans community still living in the Palestinian Territories, they are too small to influence the dominant Palestinian culture. The number of Samaritans at Nablus rounds up to a little over one thousand, and they still maintain their distinct cultures and beliefs. Their name derived from the old SAMARIA region in the northern part of the old kingdom of Israel, where they have built their temple against the practices of Jerusalem (AL MAWSUA’ ALFALASTINIAH (PALESTINIAN ENCYCLOPEDIA), Vol., II, Damascus 1984, p. 529). SECRETARY OF STATE FOR THE COLONIES, Report of the commission on the Palestine disturbances of August 1929, London 1930, p. 8. And, AL MAWSUA’ ALFALASTINIAH (PALESTINIAN ENCYCLOPEDIA), Vol., II, Damascus 1984, p. 556.
IV. Altri temi
them clarify better their identity and witness Christian values; but Christians can easily get swept up in the mentality of the majority13. However just as many Christians have an open mentality and are able to live and maintain their Christian identity despite the strong connection between the socio-political ideas and religious convictions (Khoury, 1978, p. 88). Andrea Pacini explored this topic in his book about the Christians in the Arab world, confirming and assure the secular approach for Palestinian context: “The unity in the struggle for Palestinian autonomy, which has characterized the last decades, allowing religious differences to be overcome, seems to open up prospects of a future institutional structure in the territories based on equal rights, regardless of religious affiliation. A constitutional charter is currently drafted for the new area of autonomy, which seems to be based on principles of secularity” (cfr. Pacini, 1996, p. 303).
The position of the Christian community is an important juxtaposition between avoiding the intermingling between religion and nationalism. So the inclusion of the church is of a secular type that should be recognized as the only path to development, modernization and democratic system. Perhaps the first real Arab Christian nationalist was Adib Ishaq, who called for comprehensive Arab unity through bypassing religious limitation and emphasizing the principle of civil unity within the Arab homeland. He explained it in the following way: “… we shall not elevate one group above another, and we shall not revert to be the followers of one creed at the expense of another, for all of us are brothers in the homeland, and we are attached by the unity of language” (Levin, 1978, p. 77).
Probably, it is right to say that the Arab religious awareness is indebted from its outset to the efforts of Christian intellectuals who urged for social unity as a basis for the idea of the homeland. So Christian Palestinians were attentive as not to mix between the religion and nationalism. Therefore, it is clear that religion played a very important role in the first stages of the history and life of all nations, so therefore religious harmony can smooth the the way for national unity (Hourani, 1977, p. 370). This is a special moment for the Palestinian Christian to define their position in the society. In this context, it is impossible to separate faith and culture without destroying both, therefore the church is both local and universal. It grows in a culture that surrounds it, for God is seen to be present in all cultures. The point is not to analyze certain theological concepts, but rather to examine the period of difficulty in the Middle Eastern culture. Can the presence of a same local culture become a unifying factor for the Palestinian communities? Today, the Arabic language and culture are considered the language and culture of the local Arab Palestinian Christians; which is hugely important for an increasingly unified people. 13
Muslims who are living in the Palestinian Territories and Gaza strip represent the 97% of the general population, the 3% includes Christians and others. Della Seta, 1999, p. 171.
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2. The Prize of the Conflict
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It is impossible to ignore the results of the Middle Eastern conflict on all the habitants of this Land. The situation has degraded the relationship between the Israeli and the Palestinians even with both groups looking for a real and lasting peace. Unfortunately, both sides have lost long-term vision and the situation is increasingly complicating every day. The lack of real, sustainable peace in the region has served to increase the suffering and the instability of the social situation. The Palestinian society has come to be a disturbed context under the Israeli occupation, Gaza is separated from the West Bank and the North is separated from the South, which has put the Palestinian National Authority in a control crisis. The experience of living in Gaza, for example, is completely different and more difficult than living in the West Bank. This difference is valid also for the North and South, and Jerusalem remains a completely different case altogether. Therefore, it is very hard to give a correct reading to the actual situation in this complex society. The presence of the “below the poverty level” factor is continuing to increase because of the closure of the Territories, which doesn’t permit many to work. Although the situation is almost at the worst it has ever been, there are several factors that prevent an increase in people living below the poverty level. One source of this prevention is the unity among the Palestinian populations; this attitude comes and is based on a traditional point of view, that “that no one should be forgotten” and the people as a whole want to survive (Peruggia, 2001, p. 6). Without a real peace in the region there will be no real investment, especially in the Palestinian Territories. There are many who are employed, but with very low salaries, which creates a group who live in hidden poverty. Unfortunately, many Christians are leaving because they do not want to live in this situation and look elsewhere to find a better life, rather than remaining in a place where there is little hope for economic improvement (Khoury, 2000, pp. 24-25). It is obvious that in conditions of war and poverty, the psychological disturbances will increase. This is especially true during the last several years, which have brought a continuing and increasing disaster to the Palestinians. The absence of peace threatens the personal sense of security and in some cases creates separation between the populations. All these things can increase frustration, which may lead to an explosion on both the personal and national level. During the 11th Assembly of Catholic Action, wrote the following about the actual situation in Palestine: “The worst kind of violence is invisible; it lies in the intentions of creating reality that is based on an injustice. This form of violence is most dangerous because it quietly changes reality and builds up the injustices committed in a particular context to the point where a continuation of this injustice becomes cause of unrest and eventually explodes into full-fledged violence”14.
This perspective articulated by Sfeir is particularly valuable because her opinion 14
Jacqeline Sfeir is the member of the pontifical council for the laity, and ex dean of the faculty of education at the catholic university of Bethlehem. J. SFEIR, opening address of the XI national assembly of the catholic actions 25-28 April, Domus Pacis, Roma 2002, p. 4.
IV. Altri temi
is objective and given without any attempt to justify the violence, but rather than to highlight the negative aspects of violence against the populations with an emphasis on long-lasting trauma. The violence, which is another factor to be considered in its own right, is a clear indicator of frustration and shattered illusions. This violence developed out of the closure of the territories, so people react with anger, frustration and hostility. With the peace process, the candle of hope flickered brightly for a while, but currently the entire Palestinian society is suffering the consequences of this conflict. On November 2000, the His Excellency the Patriarch Michael Sabbah requested the intervention of the entire world to stop the violence. He wrote to address all believers in the following way: “Our people in the Holy Land are living in gloomy days during which the dream of peace, which once seemed very close, is now vanishing away. Violence, retaliation, fear, death, unemployment, the end of the peace process summarizes our situation today” (Sabbah, 2000).
Christians affirm that they are against all forms of violence, but the Israeli occupation is the first and the worst shape of violence against human rights. His Holiness Pope John II declarated on the Sunday of the Palm 31 March 2002 in his homily that “the true strength is in the fidelity to the truth”15. So Christians have to be honest with themselves and others about the reality of situation and the real cause for this violence. This cycle of violence received global attention. In his visit Anthony Zinni, the American Representative to the Middle East, explained that that terrible psychological situation on both sides is a sign for the whole world to put an end to these clashes between the two sides16.
3. Economic Challenges
For the vast majority of the inhabitants of Palestine, the economic situation deteriorated during the British Protectorate. Despite that most Christian schools offered free education, there were countless obstacles for those who wishes to attend. The current situation is destroying the Palestinian economy. Much of the local economy in the Palestinian territories is based on tourism and before the Intifada there were dozens of tour buses coming every day to the different cities 15
16
This message of the Holy Father comes from a moment when a delegation from the CEI came back from the Holy Land, as a visit of solidarity and symbol of peace, and here the Pope began call for the truth. The church has chosen the right moment to call for justice and truth. Also the Pope also called for the young people to be honest and truthful (Cf. A. ZEMA, Vibranti parole del Papa ai giovani nella messa per la Domenica delle Palme sul sagrato della Basilica Vaticana. La vera forza è la fedeltà alla verità, in «ROMA-SETTE» XVI(31 Marzo 2002)13, p.2.) In a second meeting and in a later article of this Journal, there is a clear the connection shown between the international day of youth and the tragedy in the Holy Land. The Pope calls for pilgrims of solidarity and for the violence to decrease in this beloved land for all religions. F. CIFELLI, Verso La Gmg: il viaggio delle due delegazioni italiani in Terra Santa e in Canada. Giovani, pellegrini di pace, in «ROMA-SETTE» XVI(31 Marzo 2002) 13, p. 2. Incontro a Ramallah tra Arafat e l’inviato Usa, in “L’OSSERVATORE ROMANO”, 30 novembre 2001, p. 2.
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of the West Bank17. Nowadays Hotels are often empty, souvenir shops are closed and restaurants are without customers. Workers stand outside begging for work. There is currently little hope for improvement and the economic situation continues to deteriorate. It is fairly well accepted that the main considerations and interests from external players in the international political circle is the defense of the economic affairs originating from the oil resources. Unfortunately, this international policy has a little to do with justice or with rights of the nations (Mancini, 2001, p. 12). There is no economy that seeks to behave in an ethical fashion; rather they instead fight over the limited resources. In an interview with His Excellency the Patriarch Michael Sabbah by the “Il REGNO” Journal, which occurred after the visit of the Pope to Syria, the Patriarch gave a specific and direct description of the economic situation: “These are difficult moments, not only for the loss of the tourism; the whole economy doesn’t have anymore foundation and base, there is no structure: neither tourism, neither internal economy, any possibility of development, the closed roads and the difficulty of movement, we cannot move from here to there: everything is out of the norm” (Mattè, Strazzari, 2001, p. 374).
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The economic crisis began roughly fifty years ago, when so many Jewish immigrants arrived in Palestine18. The point is not to make a in depth economic analysis, but to understand the context for the current economic difficulties. For decades the Palestinian populations have struggled to establish their own economic project, and this lack of independence effects all aspects of life. The economic situation for the vast majority of Palestinians seriously deteriorated throughout the British occupation. Nearly the entire population of Palestinians were farmers whose economic livelihood was decimated by British exploitation. Agricultural production in the Palestinian sector dropped dramatically during the Mandate, as imports increased, the situation declined further into debt and people were increasingly being forced off the land. The Jews, on the other hand, had access to huge amounts of external capital that poured into the area from wealthy American and European Jews. In this situation, both Christian and Muslim Palestinians became poorer and were automatically judged by the society as a second-class people. They began to feel like strangers in their homeland. This economic situation gives a clear idea of what people are experiencing on a daily basis. Recently, the Palestinian Central Bureau of Statistics (PCBS) and during the Intifada, have found that 58.7% of the Pales17
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Tourism has been always affected by the political situation, especially during serious conflict events. In 1936, the percentage of tourists visiting Palestine decreased to 40% in comparison to past years, in 1936 the visitors were only 34.952 against the 56.270 in 1935. It is clearly shown that the serious conflicts in Palestine bring with them a great loss of tourists and in consequence a loss of the economic situation for the whole region. Il problema dell’immigrazione, in “TERRA SANTA” Jerusalem XVI (15 Sttembre 1936) 9, p. 267. According to the commission on the Palestine disturbances for the year 1929, the migration should not exceed the economic capacity as not to deprive any of the present people of their employment. SECRETARY OF STATE FOR THE COLONIES, Report of the commission on the Palestine disturbances of August, 1929, London 1930, p. 100.
IV. Altri temi
tinian population cannot pay treatment costs, and 43.4% were not able to reach the health center (PCBS, 2001, p. 9). This can only hasten the populations reaching an explosive attitude towards the continued exploitation and oppressiob. According to the PCBS, the percentage of households below poverty line has reached a high of 60.8% in the Palestinian Territories and the percentage of households who received humanitarian aid during the Intifadahas reached 53.3% (PCBS, 2001, pp. 8-16)19. The topic of education and its relation to the economic growth has interested so many economists and researchers. One of these researchers. Carnoy, affirms this important relation saying; “With the shifts to a more competitive international environment and the development of information and communications technology, education has become an increasingly important variable in such explanation” (Carnoy, 1995, p. 191).
In his explanation he presents the educational system as a way to improve the economic situation, and that the economic prosperity can help in the educational reform (Carnoy, 1995, p. 192). The Christian community, in such a context, can play a very notable role in their reform due to their creative approach to scientific researches and studies. This would actually be an expansion of a role already exist, which can become the dominant power of the post-Intifada society and the key for the nation’s development.
The Catholic Near East Welfare Association tells the story of a Christian family who lived for many years in the USA and sent every cent to build their house in one of the cities next to Bethlehem. After a while their dream became true, but then they found themselves being bombed by the Israeli troops and they were forced to leave the house20. The family income was nonexistent, and because of the city closure none of the family members were able to work anywhere. The money that they had saved through out the past years has depleted. The family still has the desire to to stay in Palestine, but what does the future hold for their children? (Miller, 2001, pp. 16-19). Due to the socio-economic situation, students not attending school is becoming increasingly. They go to work to cover school’s costs, because their families cannot afford the fees. Therefore, these children feel deprived from experiencing their childhoods and they are forced to grow up too quickly and often shoulder the responsibility of adults. This brings negative aspects not only on the personal level, but also throughout the entire society. Without peace there cannot be any 19 20
A big part of this humanitarian aid comes from Christian resources, different agencies and some directly from a catholic relief centers. In many cases even the catholic aids goes directly and first to Muslims families who are in need, and eventually it became a condition that for each number of Christian family there must be a number of Muslim families. A set of measures have been practiced on the land by the Israeli occupation during the Intifada, which affected and impeded the movement of persons and goods between Palestinian Territory and other countries, including Israel, through a total or partial closure of all border points. This, of course, has decreased the total quantity of real income which is earned by the Palestinian family monthly, regardless of its sources.
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kind of development in any sector in this society. This means that the present economic situation is connected to the political situation in the whole region. It should be also taken in consideration that the other form of attack on Palestinian economy is manifested in the loss of freedom of movement. In 1995 Israel withdrew from seven of the largest Palestinian cities and towns, but kept its troops in the villages and the surrounding areas. As a result, they have isolated all the population centers in the West Bank and Gaza. Each town, in effect, becomes a large jail for its inhabitants21. Palestinian youth have likened their lives to like a bird trapped in a cage. Palestinians are often forbidden to travel from one town to another. Military checkpoints obstruct roads. Many people, especially those who come from the village areas, have a very difficult time reaching their place of employment. Some individuals take as many as five taxis each way for their daily journey. They may take the taxi until it reaches a block, get out, climb over the obstruction, and catch a second taxi as far as it can go, and then repeat the process until they reach their destination. It takes a person, hours and hours to get to work, when it ought not take more than forty minutes. In the coming future there will be a closure of so many educational institutes because of the economic situation. If this comes to pass, it will be considered a crime against the educational sector and against the economical growth of this region.
160 4. Final Considerations
To consider past accomplishments, both successes and failures, is common to human nature. Some reflections bring approval and pride, but for others there is grief and sadness or even disappointment and regret. In war, all claim to fight for a principle, for democracy and freedom of all, and also for a safer and better world. This was said during World War I and it has repeated again during World War II, and so on. Even former US American President George W. Bush used this justification to declare the war against terrorism, calling the war good against the evil. It will no doubt continue to be proclaimed each time where there is a conflict until the end of time. Paradoxically, once the war is over each nation goes back to practice the same injustices which brought forth the original conflict. For a long time the Church lived in a tragic situation under such cyclical regimes, whereby there were divisions and injustice. This served to greatly weaken the pioneer role of the
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In his address to the US Catholic Bishops this past summer in Atlanta on 13 June 2001, Patriarch Sabbah told his audience that while violence on the Palestinian side expresses itself in stone throwing, gun shooting, mortar fire, and, unfortunately, in suicide bombings, it takes other forms on the Israeli side: the sealing of Palestinian towns and villages, the blowing under of agricultural fields, especially at harvest time, the cutting down of thousands and thousands of olive trees, the bulldozing of houses and buildings, the indiscriminate shelling and bombing of civilians and the protection of settlers who themselves use violence. Unfortunately, Sabbah said, the voices of Christian Palestinians go unheard in the United States, where U.S. politicians and the media look only at the manifestations of the conflict in the Middle East rather than its cause: Israelâ&#x20AC;&#x2122;s continuing illegal occupation of Palestinian land.
IV. Altri temi
Church. But later the Churches of the Holy Land came to understand that only through cooperation could they make their prophetic voices heard in order to achieve justice, and empowerment for their identity in the Arab civilization. Palestine needs a new profile in forming and developing all aspects of life. This is not something that can be developed overnight, but it is a duty and has to be done with the contributions of the international community together with the efforts of the local inhabitants. The development of human resources is long and complex process that requires considerable investments. Therefore, there should be a real effort for a continuity of services and verification of the intended targets for development. The need for a state profile is related to the level of development in each political activity that is viewed and used as behavior whereby the average person should not become a victim of those in power. It may be possible to construct a Participatory development, based on the idea of including the people in political, social, and cultural development. It has to become part of the modernization theory as a precondition for socioeconomic changes, which work to reproduce and enrich large-scale social interaction. Understanding the capability of the Arab World and the Middle East to adequately deal with this kind of development, it becomes clear that it is not so much about capability, but the political, economic, and cultural circumstances that hamper the overall acceptability of any new changes. Moreover, this country profile could serve as a basis to study and compare various approaches and strategies for the development of Palestinian society. Serious reexaminations of the past and reformulations of future efforts to create directions for a better economic situation is an integral part of this process. This article does not have the motive of provoking the discussion of the implications for appropriate policies to deal with the economic situation; nevertheless most of the conclusions drawn are only tentative. Further research and strong empirical evidence must be derived before one can positively provide a correct set of strategies guiding principle. It is appropriate, however, to conclude with a few words of anticipation and prudence. The Christian Community is energetic and active in this country profile for its patrimony. This was affirmed even since the Vatican II; a very important patrimony that shouldnâ&#x20AC;&#x2122;t be forgotten, that should feed the Christian memory of our country challenging the present and our future worries. We have to be honored and illuminate (Rizzi, 1997, p. 35). In conclusion, it is clear that from the social, cultural, economical and political point of view, new perspectives for the Arabic Christian communities in the area are opening in connection with this dramatic situation. The challenge to these communities is to elaborate on strategies to practice meaningful cultural and social role not only in an effective affiliation but also to give space for an adjudicative processes and for alternative conflict resolution methods. The question remains about what kind of relationship can be established between economy and ethics? This query is essential, because through this mediation on the Christian perspective on ethics, a whole practice of economics can be built. It can be ascertained that a great difference of opinions is tied up to the multiplicity of the experiences, of moral convictions or of economic cultures. Inside these differences, however, it seems possible to retrieve an ethics that can integrate in the economy as much as into social life. In conclusion it is worthwhile to affirm that the history of the Christian comanno I | n. 2 | 2013
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munity in Palestine is a history of continuity, which today continues to want to express itself as an active part of the future State. Therefore, Christian educational institutes particularly have to be a part of this process of transformation that guarantees integral growth. Every developed in Palestine can influence the whole surrounding area. Therefore, the measurement of every proposal must include the evaluation of its impact on its surroundings.
References
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IX Convegno Internazionale “La Qualità dell’Integrazione Scolastica e Sociale”: passi avanti verso una scuola più inclusiva
The 9th International Conference “La qualità dell’integrazione scolastica e sociale” took place in Rimini from 8th to 10th of November 2013. The Conference is promoted by the Erickson Research and Publishing House. More than 3000 participants among teachers, researchers, educators, psychologists and therapists took part in the morning plenary sessions and in more than eighty afternoon workshops. This is one of the most important meeting for the wide community of professionals, associations, teachers and people with disabilities to share their visions and experiences about inclusive processes in school and society. The article will present the major tendencies raised from the Conference. In particular three major issues will be discussed: – the urgency to build up effective inclusive policies and practices, not only at school level, in order to promote an “inclusive revolution” on the cultural Italian context and on the professional profiles of people involved within the educational and school careers; – the need to innovate the learning processes especially during class time. We need to place a value on pupils (even with difficulties) as main characters of learning time. In we still have a traditional didactic approach to learning, that is not worthy for inclusive processes. The frontal lesson method is used for the most part of the time by teachers in every school grade; – the need to strongly relaunch once again the educational alliance between School and Family. Parents and families ask for a strong recognition and value of their educational role within the individualized plans for their children. They want to be more involved, more represented in the educational choices, not in contrast but together with School to build inclusion.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Keywords: International Conference, Inclusion, Integration, Research, School
abstract
Francesco Zambotti / Libera Università di Bolzano / francesco.zambotti@unibz.it
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Italian Journal of Special Education for Inclusion
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La nona edizione del Convegno Internazionale “La Qualità dell’Integrazione Scolastica e Sociale” promossa dalle Edizioni Centro Studi Erickson sotto la direzione scientifica di Andrea Canevaro, Dario Ianes e Roberta Caldin, si è svolta al Palacongressi di Rimini dal 8 al 10 novembre 2013. Il convegno, organizzato con scadenza biennale, è ormai da molte edizioni uno dei punti di riferimento principali per la vasta comunità (associativa, scolastica e professionale) che ha a cuore non solamente la qualità dell’integrazione scolastica, ma la qualità stessa della scuola italiana. Oltre 3000 partecipanti e relatori tra persone con disabilità, insegnanti curricolari, insegnanti di sostegno, rappresentanti delle associazioni, familiari, assistenti, educatori professionali, ricercatori e docenti universitari, psicologi, logopedisti e professionisti del mondo clinico, hanno partecipato alle tre sessioni plenarie previste nelle mattinate e agli oltre ottanta workshop del pomeriggio, suddivise nei nove network previsti dall’organizzazione. La nona edizione del Convegno viene a coincidere con un momento di ampio dibattito sui temi dell’integrazione scolastica e delle prospettive inclusive per la scuola italiana. Come sottolineato nella relazione di apertura di Dario Ianes, nei due anni trascorsi tra l’ottava e la nona edizione sono state introdotte misure legislative nuove in particolare sul tema delle misure di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali con le Direttive Ministeriali di Dicembre 2012 e le successive Circolari Ministeriali di Marzo 2013 e successive. Un’introduzione che ha acceso certamente le luci sui temi dell’integrazione, della difficoltà, della complessità e dell’inclusione riportandoli al centro dell’azione e delle politiche educative dopo anni di marginalizzazione. Azioni tuttavia che allo stesso tempo hanno dato il via ad un appassionato e profondo dibattito in ogni ambito, sia nella scuola, sia nei rapporti con il MIUR, sia nel mondo della ricerca in Pedagogia Speciale e all’interno della stessa SiPES, come dimostra la documentazione presente sul sito della SiPES1 stessa e i seminari pubblici che sono stati organizzati nel corso del 2013. Inoltre sulla scuola si ripercuotono le difficoltà economiche, politiche e sociali che il Paese sta vivendo e che certamente non sono andate migliorando nel corso degli ultimi anni, con riduzioni ulteriori dei finanziamenti per la scuola, che coinvolgono direttamente o indirettamente la qualità del fare didattica e, di conseguenza, del fare buona integrazione e inclusione. Il 9° Convegno “La Qualità dell’Integrazione Scolastica e Sociale” ha accolto questa complessità, criticità e confronto didattico e scientifico proponendo una visione costruttiva di innovazione, rilanciando con forza nella mozione finale2, promossa a fine convegno, un’idea realmente inclusiva di scuola. Una scuola che metta al centro dell’azione educativa gli alunni, le pratiche didattiche attive, la relazione positiva tra scuola e famiglia, e tra Servizi e Scuola. Una scuola che tuttavia sappia anche affrontare con serietà, serenità e professionalità il tema cen1 2
La documentazione del dibattito interno alla SiPES sugli alunni con BES è disponibile all’indirizzo http://www.s-sipes.it/dibattito-sui-bisogni-educativi-speciali/dibattito-sui-bisogni-educativi-speciali.html La mozione finale è scaricabile al seguente indirizzo http://www.convegni.erickson.it/qualitaintegrazione2013/Mozione-finale-Q13.pdf
IV. Altri temi
trale della valutazione degli esiti dei percorsi di apprendimento e di partecipazione sociale, per una qualità dell’istruzione per tutti che superi i meccanismi di delega o peggio ancora di caritatevole pietismo nei confronti degli alunni con percorsi scolastici individualizzati e personalizzati. Una scuola fatta di professionisti, ma con al centro la relazione educativa che non può prescindere dal rapporto personale, affettivo ed educativo tra alunni e tra alunni e docenti. Una scuola che rivendica con decisione un investimento non solo di risorse economiche (comunque necessarie e indispensabili per ridare qualità alla scuola pubblica), ma principalmente un investimento in fiducia nella scuola e nei professionisti che operano in essa e con essa. Quali sono state nello specifico le principali direzioni di riflessione e gli strumenti emersi nei tre giorni del Convegno? Da un’analisi globale degli interventi delle sessioni plenarie ci sembra possibile individuare tre tematiche chiave: – l’urgenza della costruzione di politiche e pratiche inclusive, aldilà del solo contesto scolastico, per una rivoluzione inclusiva che investa sui contesti culturali e sulle figure professionali educative per dare qualità e dignità alla vita e ai percorsi scolastici degli alunni; – la valorizzazione del ruolo degli alunni e del gruppo classe come veri protagonisti dell’azione didattica innovativa, oggi ancora troppo focalizzata sul ruolo del docente; – la necessità di rilanciare con forza l’alleanza educativa tra scuola e famiglia e la valorizzazione dei genitori nella realizzazione di percorsi individualizzati realmente significativi.
1. La costruzione di politiche e prassi inclusive
Un tema che ha permeato quasi ogni intervento presentato nelle sessioni plenarie del Convegno è stato quello della necessità della costruzione di percorsi educativi e didattici realmente inclusivi, efficaci, innovativi rispetto ad un panorama esistente ancora di grande difficoltà sia per le persone con disabilità, sia per le famiglie, sia per la scuola. Da questo punto di vista l’inclusione si costruisce sempre nella “relazione educativa”, come affermato da Andrea Canevaro; nell’incontro con l’altro, superando la sola indignazione per le ingiustizie, perché sulla sola indignazione non si costruisce, ma si demolisce. Solo l’incontro vero e significativo con l’altro è realmente progettuale e solo nel progetto si può costruire inclusione vera e “welfare di prossimità”. Relazioni educative che da sempre fanno la qualità della scuola e dei percorsi di vita, come ci è stato ricordato anche dal commuovente video di chiusura del Convegno, “Sei nell’anima” curato da Fabio Bocci e Gianmarco Bonavolontà, tutto incentrato sulla figura del maestro e sulla relazione educativa, nella storia della pedagogia speciale italiana. Questo monito, tanto significativo quanto attuale, può essere una sintesi di molte delle relazioni ascoltate nel corso delle sessioni plenarie; la necessità quindi di una visione progettuale educativa basata sull’incontro tra persone che non si disperda né in tecnicismi, né in specialismi, ma che venga costruita quotidianamente nel contesto reale e nell’incontro reale tra persone e tra professionalità diverse. anno I | n. 2 | 2013
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Una sfida di altissimo livello etico e culturale per la scuola che si trova ad operare in una realtà spesso degradata, come quella presentata da Marco Lodoli. Il giornalista de La Repubblica (anche insegnante) ha messo in luce tutta la difficoltà dell’insegnante ad entrare in relazione educativa con le nuove generazioni (“adolescenti che si sono ritrovati addobbati come alberi di Natale dal consumismo) e la necessità di conoscere e vivere contesti culturali diversi da quelli del passato. Una sfida anche nel non ridurre i processi di integrazione alla compilazione di atti burocratici o all’adozione di tecniche (anche efficaci). Due tendenze queste molto presenti nella scuola odierna, in cui spesso ci si illude di aver attivato percorsi individualizzati o personalizzati perché si è adempiuto ad un atto formale di progettazione educativa o perché si è messo a disposizione dello studente uno strumento o una metodologia di lavoro. Se la relazione educativa tra insegnante ed alunno non è al centro dell’azione programmatica dell’insegnante tutto ciò non porterà a risultati significativi, ma si disperderà. Un tema molto sentito questo anche per quanto riguarda le difficoltà presentate dagli alunni con Disturbi Specifici dell’Apprendimento. troppo spesso ancora non si condividono linguaggi diversi tra il mondo clinico e il mondo scolastico, così come l’atto formale della programmazione personalizzata e l’adozione delle misure compensative e dispensative si pensa possa risolvere in sé le difficoltà di apprendimento, quando invece è la relazione educativa e l’adozione di prassi didattiche inclusive condivise con la classe a fare realmente la differenza. Bisogna quindi certamente ridare attenzione alla scuola (come sottolineato da Raffaele Iosa) evitando il rischio di “patologizzare” ogni forma di difficoltà. Dario Ianes d’altro canto, nella relazione di apertura, ha sottolineato alcuni aspetti dell’attuale panorama scolastico che fanno sperare in alcuni passi avanti verso una scuola più inclusiva e una scuola in cui il tema dell’inclusione acquisti sempre più peso, pur non sottovalutando i rischi connessi alle nuove disposizioni promosse dal MIUR, in termini di etichettamento e di creazione di nuove categorie di alunni con difficoltà. Dal Convegno emerge con forza che il tema del “come rendere realmente inclusiva la scuola italiana” è il tema chiave della ricerca futura nell’ambito della pedagogia speciale in ambito scolastico.
2. Innovazione didattica centrata sugli alunni per una scuola inclusiva
Rispetto alla necessità di mettere al centro delle politiche innovative didattiche l’alunno e la classe, questa non è certo una novità nel dibattito scolastico e scientifico, tuttavia l’urgenza di innovazione didattica nelle nostre scuole si rende esplicita proprio per l’estrema eterogeneità che contraddistingue la scuola pubblica italiana odierna. Le differenze (che la prospettiva inclusiva indica come valore fondante e insostituibile per percorsi di apprendimento significativi) sono oggi talmente evidenti sia nelle singole classi, sia negli Istituti, che una didattica tradizionalmente trasmissiva della conoscenze non è più in grado di dare risposte efficaci, in particolar modo alle necessità formative di chi ha maggiori difficoltà. IV. Altri temi
Per attivare percorsi significativi di integrazione oggi è indispensabile, ancor più di ieri, cambiare le dinamiche di insegnamento e apprendimento, ridando centralità sia all’alunno, sia al gruppo classe come comunità di apprendimento. Questi concetti sono stati espressi da molti dei relatori della plenaria, provenienti dagli ambiti più diversi, da quelli pedagogici, politici, clinici, tecnologici. In questo senso è stato impostato l’apprezzato intervento di Luigi Berlinguer (ex ministro della Pubblica Istruzione) rispetto ad una scuola centrata su una “promozione umana continua” in cui la personalizzazione non è misura “speciale” ma è il segno stesso della qualità di un percorso didattico che valorizzi le pratiche “hands on” basate sulle esperienze a partire dal basso, valorizzando la scuola di base nelle politiche educative. Allo stesso modo anche gli interventi più tecnici, come quelli della Professoressa Lucangeli sull’importanza dell’errore nei processi di apprendimento nella matematica hanno proposto un forte richiamo alla valorizzazione dell’individuoalunno nel processo didattico. Un intervento tutto volto a illustrare il processo cognitivo che l’allievo compie nel processo di apprendimento e alla valorizzazione dell’”errore intelligente”, che spesso la scuola reprime, ma che è fonte invece di logica e di successivi sviluppi e apprendimenti matematicamente corretti. Per citare un ulteriore contributo di diversa natura e di diversa provenienza anche culturale e geografica, l’intervento di Marc Prensky su nuove tecnologie, nuove generazioni e insegnamento parte da un presupposto purtroppo dimostrato ogni giorno nella nostra scuola: noi sottovalutiamo le capacità delle nuove generazioni e sottovalutiamo le possibilità che le nuove tecnologie mettono a loro disposizione. C’è una assoluta necessità di educazione al futuro delle nuove generazioni, ma non per riportarle indietro ad un mondo che è stato il nostro ma che non sarà il loro, bensì per prepararli a sfruttare “saggiamente” le possibilità che il futuro, le tecnologie, le interconnessioni mettono a loro disposizione come mai prima nella storia dell’uomo. Per dirla con le parole di Prensky “Abbiamo bisogno di saggezza digitale: dalla simbiosi tra cervello e tecnologia. Associando ciò che il nostro cervello fa bene, con quello che la tecnologia fa ancora meglio. Abbiamo bisogno di lasciare che i giovani sperimentino e innovino responsabilmente”. La necessità di conoscere le caratteristiche specifiche di una sindrome o di un deficit, ma di non ridurre la persona alla sua diagnosi per impostare percorsi educativi significativi è stata acutamente rappresentata in molti interventi. tra questi, oltre a quelli più tecnici sui Disturbi Specifici dell’Apprendimento di Andrea Facoetti e Stefano Franceschi, vogliamo citare il dialogo tra il Professor Cornaglia Ferrars a Giorgio Gazzolo, scrittore, poeta e persona con sindrome di Asperger, sulla comunicazione confusa e l’esperienza di vita scolastica. Il dialogo ha focalizzato l’attenzione, con grande ironia e partecipazione, sulle specificità del singolo e la difficoltà per l’insegnante di condurle ad una programmazione didattica inclusiva, oltre che sulla fatica, la difficoltà, le situazioni tragicomiche, che la sindrome porta nella vita di tutti i giorni, anche in età adulta.
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3. Le famiglie e i genitori come attori indispensabili per percorsi educativi significativi
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Molti interventi nel corso delle tre plenarie del Convegno hanno ribadito l’importanza di un “rilancio” di una forte alleanza tra scuola e famiglia e hanno dato voce alla richiesta dei genitori di avere un ruolo e una forte intesa con la scuola e il contesto sociale per la promozione di Progetti di Vita efficaci. La drammatica situazione delle possibilità per la persona con disabilità di assumere un ruolo sociale e professionale nella vita adulta è stata presentata da Carlo Lepri. Questa difficoltà ancora così presente nonostante le iniziative per l’autonomia di vita e per i percorsi di accompagnamento al lavoro promosse dalle principali associazioni di persone con disabilità (come l’indagine sulla cittadinanza attiva delle persone con disabilità presentata da Fara Cacciola dell’Anffas di torino o i laboratori per l’autonomia promossi da AIPD Italia) ha portato alla riflessione profonda su quanto sia indispensabile un’azione educativa forte e condivisa tra tutti gli attori che agiscono nel progetto di vita di una persona con difficoltà: persona con disabilità, scuola, famiglia e Servizi sociosanitari. In questo senso la platea è stata commossa, ma anche sferzata, da Gianluca Nicoletti che ha messo in pubblico la sua esperienza di padre di tommy, adolescente con disturbo dello spettro autistico e la sua ricerca di soluzioni, spazi e possibilità educative per il figlio. Una lotta quotidiana faticosa, spesso solitaria, ricca di incomprensioni, di ipocrisie, di porte chiuse, di richieste di adesione a visioni ideologiche della sindrome. Azioni che, nella realtà, non sono efficaci e non tengono conto della singola unicità della persona e della famiglia. Da qui la richiesta forte: “Le famiglie non hanno tempo! Diamo gli spazi ai genitori organizzati.” Per proporre iniziative e spazi educativi, come già avviene in qualche eccellenza in Italia (vengono citati in particolare alcuni progetti educativi di Forlimpopoli, Nogara e Mantova). Allo stesso modo il ruolo delle famiglie è stato con forza rivendicato anche da Giorgio Genta, genitore e articolista di Superando, che ha presentato le sue “lotte” e iniziative (e quelle delle associazioni) per rendere il proprio Comune di residenza (Loano, Savona) più accessibile e integrante per le persone con disabilità, ribadendo il ruolo delle famiglie nella costruzione di politiche inclusive. Infine, sul piano prettamente scolastico, la necessità di costruire dialogo tra insegnanti e famiglie è stata messa in primo piano dall’intervento di uno degli ospiti stranieri, il finlandese tom Arnkill, in particolar modo per quanto riguarda un problema cocente nell’attualità scolastica anche in Italia, ovverosia la comunicazione di una possibile difficoltà individuata a scuola e non ancora nota alla famiglia. Una preoccupazione profonda dell’insegnante, una necessità, ma anche una grande difficoltà nella comunicazione e nel dialogo con la famiglia, che incide profondamente sulla relazione educativa tra insegnante ed alunno.
IV. Altri temi
Conclusioni
Dal Convegno “La qualità dell’integrazione scolastica e sociale” esce una scuola e una comunità di professionisti, associazioni e familiari che riafferma con forza il proprio ruolo educativo e formativo. Lo fa rilanciando una sfida complessa e onerosa sul piano umano ancor più che sul piano economico, mettendo al centro le persone e le professionalità ancor prima delle risorse economiche. In un panorama economico e culturale di enorme criticità, la scuola pretende fiducia e pretende politiche realmente inclusive. Il Convegno di Rimini continua a promuovere dialogo e incontro tra mondi diversi, nella convinzione che solo nello scambio e nel confronto reciproco, anche nella diversità delle posizioni, risiede la possibilità di intraprendere strade comuni che portino al miglioramento della realtà esistente. Quella che esce da Rimini non è una comunità vinta, né una comunità che si è arresa. Anzi, al contrario è una comunità che afferma con forza la propria voce ed è pronta a “sporcarsi le mani” nel quotidiano per costruire buone prassi, pur rivendicando le proprie richieste e denunciando le ingiustizie e le pessime prassi di integrazione che ancora sono presenti. La mozione finale approvata dall’assemblea e recapitata al Sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi-Doria ha questo spirito e questa finalità. tra due anni, nel 2015, la decima edizione, saranno venti anni di Convegno!
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1. Recensione
Roberto Medeghini, Simona D’Alessio, Angelo D. Marra, Giuseppe Vadalà, Enrico Valtellina, Disability Studies, Ericskon, Trento, 2013, pp. 227
di Fabio Bocci / Università Roma Tre / fabio.bocci@uniroma3.it
Finalmente! L’esclamazione non sembri al lettore eccessiva per salutare la pubblicazione in Italia di un volume sui Disability Studies (DS), scritto da studiosi che appartengono a questa prospettiva di studio e, ci sia consentito, a questo modo di intendere l’abitare il mondo della vita. L’entusiasmo è dettato dal fatto che non siamo in presenza di una nuova tendenza – con tutti i rischi connessi alla futilità di quelle mode non desuete nel campo scientificoculturale destinate a dissolversi nell’arco di un minuto – quanto di una oramai trentennale, articolata e consolidata disciplina di studio che ha maturato una propria storia, una propria letteratura e cultura scientifica, politica e sociale. La novità, pertanto – di qui il trasporto di cui sopra – è che tale prospettiva non ha mai avuto spazi di divulgazione nel nostro Paese, dove «ad eccezione dei lavori degli autori del presente volume e di pochi altri, la vasta produzione teorica dei DS non ha avuto spazio né nelle riflessioni sociologiche, giuridiche e pedagogiche né in quelle delle associazioni che si occupano di disabilità» (p. 8). Corre pertanto l’obbligo, prima di illustrare l’articolazione del volume del quale ci stiamo occupando (seppur nell’essenzialità richiesta da una recensione) di cercare di precisare meglio cosa siano i Disability Studies. Una sintesi, quella da noi operata, che è in sintonia con l’obiettivo del volume, il quale ha anche uno scopo divulgativo, trattandosi del primo libro di una collana dedicata proprio ai DS che la casa editrice Erickson ha voluto inaugurare. Cosa sono dunque i Disability Studies? Prendendo in prestito i termini utilizzati dagli studiosi italiani che vi fanno parte, possiamo affermare che i DS sono una disciplina di studio e di ricerca interdisciplinare che analizza la disabilità come un fenomeno sociale, politico e culturale. I DS propongono una prospettiva che interpreta la disabilità non più come una condizione biologica individuale (descritta e percepita alla stregua di una tragedia personale), ma come una costruzione sociale. É anche possibile identificare una data di nascita dei DS. Per meglio dire si tratta di una duplice data di nascita che corrisponde alle due matrici principali di questa disciplina. Una prima datazione è collocabile nella metà degli anni Settanta, con l’affermarsi nel Regno Unito dell’UPIAS (Union of the Physically Impaired Against Segregation, 1975). Una seconda datazione è invece ascrivibile alla nascita negli Stati Uniti della Society for Disability Studies (1982). La ricchezza scaturita da queste due matrici è puntualmente documentata da Enrico Valtellina nel saggio Storie dei Disability Studies, nel quale l’autore individua e analizza nove diverse interpretazioni o versioni del paradigma della disabilità: 1. la versione socio costruttivista americana; 2. la versione inglese del modello sociale; 3. l’impairment version; 4. la versione politica delle minoranza oppressa; 5. la versione della vita indipendente; 6. la versione post-moderna (post-strutturalista, umanista esperienziale, esistenziale); 7. la versione della continuità; 8. la versione della diversità umana; 9. la versione della discriminazione.
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Fermo restando che in ambito scientifico e culturale la differenziazione delle posizioni è sempre auspicabile, in quanto generatrice di conoscenza, questa articolazione non deve indurre a ipotizzare che siamo in presenza di una azione disordinata. Tutt’altro. Come evidenziano gli autori nell’introduzione, pur al cospetto «di un’ampia diversificazione i DS condividono una trama comune che comprende: – un confronto critico con il modello medico quale fondamento delle concettualizzazioni relative al deficit e alle disabilità intese come elemento individuale basato sul legame causale fra la menomazione e l’essere disabile; – un approccio critico al linguaggio normativo e sociale del deficit; – l’esame delle pratiche istituzionali e sociali che causano l’esclusione; – il perseguimento dell’emancipazione e dell’autodeterminazione nella prospettiva dei diritti» (p. 7). Proprio sulla base di, e a partire da, questi elementi comuni, i Disability Studies promuovono e propongono la loro azione: a) indagando il concetto di disabilità da una prospettiva sociale e non più medica/individuale (Social Model of Disability); b) sostenendo la crescita del movimento delle persone disabili (processo di empowerment); c) sviluppando nuovi paradigmi di ricerca (emancipatory research).
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Questa brevissima premessa, per nulla corrispondente alla ricchezza del contributo offerto dai DS, ci consente però di collocare e di comprendere meglio la filosofia che fa da sfondo ai diversi saggi degli studiosi autori del volume. Dopo una esauriente e significativa introduzione, il primo saggio è quello già nominato di Enrico Valtellina che ripercorre le Storie dei Disability Studies. Storie plurali, come detto, che non solo rendono l’idea della fecondità del pensiero generativo dei DS ma anche, soprattutto, che evidenziano due aspetti critici segnalati dallo stesso Valtellina: una certa autoreferenzialità del dibattito italiano sulla disabilità; il predominio della paradigma medico-riabilitativo. Ora, si può essere d’accordo o meno su questa considerazione, magari valutarla eccessiva o ingenerosa. Ciò che però non va fatto è, per l’appunto, (l’operazione di) chiudere fuori dalla porta interpretazioni critiche del nostro modo di intendere l’integrazione, soprattutto in quanto si tratta di riflessioni supportate da una letteratura di riferimento assolutamente degna di essere accolta e approfondita. Interpretazioni che si arricchiscono – e arricchiscono – grazie a una ulteriore analisi critica che pone al centro dell’attenzione Il linguaggio come problema. Roberto Medeghini, infatti, s’interroga, e ci interroga, sul «ruolo del discorso nella costruzione della disabilità» avvertendo che tale riflessione non ha avuto lo spazio di interesse dovuto. Si è preferito focalizzare lo sguardo sul significato delle etichettature (handicappato, persona in situazione di handicap, ecc...) lasciando però «sullo sfondo la genesi culturale ed epistemologica, nonché il loro ruolo nei processi di soggettivazione e oggettivazione» (p.19). Medeghini, quindi, ponendo in evidenza quale sia il portato culturale, politico e sociale dei discorsi nella strutturazione dei rapporti di potere nelle relazioni, lo declina «ponendo il problema della costruzione concettuale e culturale della disabilità nell’intreccio discorsivo: “Chi parla? Da dove si parla (il luogo o i luoghi del discorso)? Chi ha l’ultima parola (il principio di verità)? La disabilità ha voce?”» (p. 20). Una questione che si colora ulteriormente di suggestioni con il successivo saggio, Disability Studies in Education, firmato da Simona D’Alessio. La studiosa, analizzando la ricaduta dei DS nelle pratiche educative, pone in risalto come tale prospettiva apra la strada a nuove aree di studio e di ricerca in grado di promuovere e di favorire lo sviluppo di una scuola inclusiva. Come sostiene D’Alessio, infatti, i DS «forniscono una posizione epistemologica al concetto di inclusione scolastica permettendo di vedere la scuola dell’integrazione scolastica con lenti diverse da quelle usate dalla tradizione pedagogica speciale» (p. 90). A suo avviso, il modello sociale della disabilità, così come quello dei diritti umani,
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configurandosi come modelli teorici alternativi a quello medico individuale e a quello biopiso-sociale, sono in grado di «smascherare le forme esplicite e implicite di micro-esclusione ancora esistenti nel nostro sistema educativo» (p. 20). Non possiamo dilungarci oltre per esigenze di spazio ma siamo certi che non può qui sfuggire al lettore attento una possibile chiave di lettura della questione BES che tanto agita attualmente il panorama pedagogico italiano. A seguire, Giuseppe Vadalà propone nel suo La rappresentazione della disabilità tra conformismo e agire politico una puntuale riflessione in merito alla collocazione culturale della disabilità, evidenziando i limiti delle epistemologie attuali che determinano un allontanamento dalla scena politica. In altri termini, la disabilità subisce allo stato attuale un esautoramento in termini sia di partecipazione sia di pensiero. Lo studioso, avvalendosi di un ricchissimo repertorio bibliografico, focalizza l’attenzione sui messaggi, sulle immagini e sulle idee relative alle persone disabili contestualizzando al contempo le diverse forme in cui tali repertori sono prodotti. Scopo di questa analisi è quella di «cercare di riflettere circa il modo in cui la mainstream culture dipinge le vite disabili attraverso strategie retoriche che posizionano la disabilità ai margini del contesto socio-culturale» (p. 125). Ne emerge un quadro d’insieme che evidenza le modalità in cui il sistema discorsivo tratta la disabilità, ossia come altro da sé. Si determina così un’azione di espulsione che incide sia sui rapporti sociali, sia sulle stesse rappresentazioni della disabilità, attivando così un circolo vizioso che si autoalimenta. In una visione d’insieme, qual è quella offerta dal volume, sui variegati ambiti di applicazione della prospettiva offerta dai DS, non poteva mancare lo sguardo del giurista. Angelo D. Marra in Disability Studies e ricerca giuridica: cosa, come e perché, partendo da alcuni quesiti basilari: (Qual è l’intreccio da il diritto e i DS?; Come i DS possono migliorare la ricerca e l’esperienza giuridica in generale?; Come possono migliorare l’approccio pratico alla tutela alla persona disabile?), cerca di rileggere l’esperienza giuridica italiana alla luce dei concetti fondamentali che questa prospettiva di studi promulga: la non discriminazione, le pari opportunità, l’inclusione e la partecipazione. L’analisi condotta dallo studioso tiene conto di un duplice movimento sinergico che dà vita a un intreccio generatore di valore aggiunto: da un lato, infatti, emerge come i DS modifichino il diritto; dall’altro, come il diritto sia fonte di arricchimento per i DS. Il diritto infatti, chiarisce Marra, non può esistere «se non operando distinzioni tra i soggetti giuridici, ma ben differenti sono le modalità con cui le distinzioni possono essere effettuate» (p. 151). Di qui la sfida posta dai DS: verificare come e in che misura siano in grado di «compiere questa svolta nel diritto e come lo possano influenzare» (ibidem). Il saggio che conclude il volume porta la firma di Roberto Medeghini, Simona D’Alessio e Giuseppe Vadalà. Gli studiosi pongono sotto analisi il concetto di inclusione, indagandolo con una visione multiprospettica. Scopo di questa operazione è quella di porre in risalto come le definizioni e gli sfondi sottesi a tale concetto siano suscettibili di modificazione in rapporto alle teorie di riferimento di cui ci si avvale. In tal senso gli autori vagliano tre filoni di ricerca e di studio i quali, pur avendo dei riferimenti comuni, si discostano per i punti focali di analisi. Questi approcci sono: 1) la prospettiva sociale «per il forte impatto e influenza sulla lettura della società in termini di disabilitazione (disablement) e di ostacoli alla partecipazione e alla cittadinanza»; 2) la lettura storico-sociale, che «legge e interpreta l’inclusione nel suo nesso con l’esclusione per cui entrambe possono essere comprese solo se messe in reciproca relazione»; 3) lo sfondo governamentale che ispirandosi agli studi di Michel Focault e ai concetti di comunità e di immunizzazione proposti da Roberto Esposito «sottolinea il rischio di limitare la riflessione e l’azione inclusiva ai soli processi di esclusione e inclusione, dimenticando la natura dinamica del potere che può integrare l’inclusione fra le sue forme di governo» (p. 192). In conclusione, oltre all’auspicio di aver suscitato con questa breve recensione almeno la curiosità dei lettori e della comunità degli studiosi, confidiamo nella possibilità – che è
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poi una vera e propria opportunità – che i Disability Studies abbiano uno sviluppo anche nel nostro Paese. Non fosse altro per dotarci di un ulteriore – per non dire alternativo – strumento di analisi critica della realtà capace di portarci fuori tiro dai rischi di restare impantanati o, peggio, intrappolati in una serie di conflitti locali, dove l’unica vittoria possibile sembra essere quella di restare quanto più a lungo possibile arroccati sulle proprie consolidate posizioni.
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Ruggero Piperno (a cura di), La sopravvivenza del ragno. Ovvero del buon uso della libertà, Opera don Calabria, Roma, 2012, pp. 213 di Federica Franceschelli
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«Un giorno mentre lavoravo ho visto un ragnetto, non volevo pigliarlo questo ragno, lo volevo lasciare vivere ed ancora c’è!». È questo racconto, lucido ed essenziale, fatto da Lina Panno – tirocinante presso l’Opera don Calabria – a dare il titolo al libro; un titolo che ci permette da subito di comprendere il reale e profondo significato alla base di quanto stiamo leggendo: La sopravvivenza del ragno è, a tutti gli effetti, un libro sulla scelta, sulla possibilità di fare (come ci indica del resto il sottotitolo) un buon uso della libertà. Un libro dal contenuto ricco di spunti di riflessione, di pensieri, di idee e, allo stesso tempo, straordinariamente concreto, quasi palpabile. Di concreto c’è senz’altro l’esperienza di inclusione socio-lavorativa promossa dall’Opera don Calabria di Roma. Nove persone con disabilità psichica e altrettanti tutor, responsabili di piccole aziende, imprese o associazioni solidali: sono questi i protagonisti e i luoghi che si intrecciano nel dar vita al progetto Art. 3. Un progetto che, attraverso un’efficace e funzionale collaborazione con servizi pubblici, famiglie e imprese, opera nella prospettiva di una reale inclusione sociale, un ridimensionamento dell’emarginazione in favore di un miglioramento della qualità della vita dei soggetti con disabilità, in nome di quel principio di pari dignità sociale promulgato dall’Articolo 3 della Costituzione Italiana, da cui prende nome il progetto. Il presupposto, nonché principio fondante, di tale progetto è una reale e concreta reciprocità, ben lontana da una logica di assimilazione univoca, assistenzialista e caritatevole, secondo cui l’integrazione socio-lavorativa consiste in una sorta di opera buona, di favore che l’integrante concede all’“integrato” (le virgolette sono d’obbligo). Il principio alla base del libro è proprio l’allontanamento da tale prospettiva univoca, come rileva il giornalista Luca Attanasio nella prefazione all’opera, dal titolo L’integrazione all’incontrario: in tale ottica, il percorso di inclusione lavorativa messo in atto dall’Opera don Calabria si configura come un percorso bidirezionale, grazie al quale non solo i protagonisti della relazione socio-lavorativa (tirocinanti, tutor e colleghi) escono umanamente arricchiti, ma si crea anche una convenienza dal punto di vista professionale. Insomma, quanto si afferma ed esprime in ogni riga, in ogni parola, in ogni fotografia, è che «l’integrazione, in poche parole, conviene» (p.8). Un convincimento in totale contrasto con una logica quasi darwiniana secondo cui i più deboli e svantaggiati, incapaci di stare al passo con il progredire della società, sono da lasciare indietro o persino da eliminare (basti pensare, storicamente, alla Germania degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, allo sterminio di massa, alle vite indegne di essere vissute, come recita il sottotitolo dell’opera teatrale, poi divenuta libro, Ausmerzen di Marco Paolini).
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Questa idea di reciproca soddisfazione e convenienza non deve e non può però lasciare fuori la dimensione etica del riconoscimento dell’altro e del suo diritto di esistere, ed è qui che il progetto Art. 3 si rivela in tutta la sua importanza: una concreta risposta da un lato alla crisi economica (in questo momento più che mai legata ai tagli regionali e comunali e alla conseguente diminuzione delle opportunità di lavoro, tanto più per i soggetti in situazione di handicap), dall’altro alla crisi etica, morale, legata proprio al buon uso della libertà individuale nell’ottica della reciprocità, della relazione imperniata non sulla competizione e sulla prevaricazione ma, al contrario, sullo scambio che arricchisce: così le persone sono normali, suggeriscono Fratel Giuseppe Brunelli, Mario De Cristofaro e Ruggero Piperno, solo «se riescono ad integrare, “aiutati” dalle persone disabili, le parti più deboli e fragili di loro stessi» (p. 18). Dopo questa breve ma doverosa introduzione veniamo alla articolazione del volume, il quale è è suddiviso in due parti. Nella prima, come suggerisce il titolo (Piccoli spunti per riflettere insieme), trovano spazio una serie di riflessioni teoriche a opera di diversi autori. Nella seconda (Storie di uomini, di donne e di comuni amicizie: immagini e narrazioni) chi legge è condotto per mano all’interno del progetto lavorativo, delle relazioni tra tirocinanti e tutor, dell’universo interiore dei partecipanti – dubbi, insicurezze, paure, ma anche grandi gioie e soddisfazioni – grazie alle interviste a cura di Silvia Zaccheddu (psicologa e psicoterapeuta) e alle straordinarie fotografie di Daniele D’Orazio. Il primo contributo, La costruzione dell’alleanza e dell’appartenenza. Diventare gruppo nei gruppi, di Isabella Codispoti e Ruggero Piperno, mette fondatamente in evidenza il fatto che Art. 3 è da considerarsi un progetto non di inserimento lavorativo, bensì di integrazione sociale attraverso il lavoro. È una precisazione fondamentale: non perché l’inserimento lavorativo sia in sé un male – tutt’altro – ma perché la dimensione dello sviluppo umano e dello scambio sociale non può essere in secondo piano rispetto a quella della produttività in termini meramente economico-finanziari. La sfera delle relazioni sociali è, infatti, uno degli aspetti più delicati della vita delle persone disabili, poiché è quello che forse più di ogni altro contribuisce al senso di inadeguatezza e difficoltà che il soggetto percepisce. Proprio da qui nasce la spinta alla creazione di trame, relazioni e interconessioni positive che consentono ai partecipanti di sperimentare a pieno l’appartenenza al gruppo attraverso un’alleanza tra i vari soggetti: non solo tirocinanti, familiari, tutor interni ed esterni, indubbiamente; ma anche servizi e istituzioni, nella convinzione – come osservano acutamente gli autori – che la reciprocità sperimentata porti a una crescita non solo dei protagonisti ma anche dello stesso contesto. Nel secondo saggio, Ruggero Piperno compie un percorso di riflessione e di analisi a partire da tre termini: vergogna, orgoglio e privilegi. Tre concetti strettamente collegati tra loro e connessi al progetto che il libro descrive, proprio per la sua capacità reale (come risulta ben chiaro dalla lettura-visione della seconda parte dell’opera) di «aiutare le persone a passare dalla vergogna all’orgoglio» (p. 33). Un agire concreto in un mondo che sembra governato da privilegi e sperequazioni ma che può – operando determinate scelte – diventare luogo di sviluppo equo, tendente all’equilibrio, al livellamento, all’eguaglianza. Proprio i contesti lavorativi possono e devono divenire teatro di buone pratiche di accomodamento nell’ottica di un «incontro in reciproco vantaggio», come scrive Fausto Giancaterina nel saggio Il valore dei contesti nell’inclusione socio/lavorativa. Per questo è di fondamentale importanza non solo aiutare i soggetti in difficoltà a sviluppare consapevolezza delle proprie capacità, consentendo loro di metterle in pratica, ma anche (e soprattutto) occuparsi dei contesti di vita, a partire dai gruppi in cui i soggetti sperimentano il loro vivere sociale: l’associazionismo, la parrocchia, i servizi socio-sanitari, il lavoro, la famiglia, la scuola. Nel successivo contributo intitolato Appunti sul valore sociale dell’inclusione scolastica Fabio Bocci sottolinea come questa debba essere basata sul «riconoscimento della rilevanza della piena partecipazione alla vita scolastica da parte di tutti i soggetti» (p. 56) e,
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dunque, sulla rimozione degli ostacoli (all’apprendimento, alla relazione, alla socialità, all’essere pienamente se stessi) per una convivenza e una condivisione, un confronto costruttivo e arricchente. Tutto ciò in linea con quanto già contenuto nella Dichiarazione di Salamanca del 1994, la quale, di fatto, condanna ogni forma di esclusione e di marginalizzazione, garantendo a ogni individuo il diritto all’educazione. La parte dedicata alle riflessioni teoriche si chiude con il saggio di Francesco Reposati e Ruggero Piperno dal titolo L’accettazione della perturbabilità come costruzione della libertà di poter essere. Un contributo prezioso che spazia da una riflessione sull’essere, e sulle sue possibili modalità strettamente connesse alla libertà individuale, a un’analisi del concetto di accettazione della perturbabilità e del rapporto che intercorre tra continuità e discontinuità (indispensabile, quest’ultima, affinché vi sia «evoluzione, crescita, differenziazione, libertà» p. 67), per concludersi infine con una riflessione sui concetti di possibilità-opportunità quali fondamento imprescindibile dello sviluppo umano e sociale e sul ruolo della scuola quale indispensabile momento di integrazione. La seconda parte del volume è aperta dall’articolo di Silvia Zaccheddu, Giocare con se stessi da fuori il mondo, nel quale l’autrice sottolinea l’importanza della scelta di dare voce ai tirocinanti: si è così offerta loro la possibilità di sperimentarsi, raccontandosi attraverso immagini e parole, fotografie e narrazioni, operando un’importante identificazione e strutturando una positiva visione di sé e del mondo. Le storie raccontate sono nove: c’è Alessandro che si occupa della manutenzione di una piscina, Filippo che lavora in un piccolo orto, Flaminia che è inserita in un asilo nido, Francesco e Lina che fanno le pulizie, Giuseppe e Gabriele gli aiutocuoco, Maria che lavora in una lavanderia e, infine, Sabrina che lavora in un supermercato. Attraverso le immagini fotografiche e le parole che le accompagnano, chi legge (e guarda) ha accesso alle vite e alle sensazioni più intime e profonde dei protagonisti: il piacere di mostrarsi e di rivedersi nelle fotografie («In questa foto ho uno sguardo un po’ birichino […] è uno sguardo che mi piace!» dice Filippo; «Le foto sono molto belle […] sono un bel ragazzo. Mi piace vivere così» dichiara Francesco), l’orgoglio e l’autostima legata al ruolo ricoperto e alle responsabilità che questo comporta («Le scale sono fresche perché le ho fatte io […] mi piacciono le scale pulite quando vengono gli ospiti da fuori il mondo» dice Francesco; così come Sabrina afferma «la divisa mi fa sentire fiera, vuol dire che sono diventata importante e che me la merito» e «adesso mi viene da dire: “se non ci fossi io alla Coop, come farebbero?!»), ma anche riflessioni e prese di consapevolezza riguardo la vita personale e la dimensione affettivo-sessuale («Mi viene in mente che ho 41 anni e che nella mia vita sono stato quasi sempre da solo […] a me piacerebbe avere una vita in due, anche se poi io alla fine mollo, penso di non avere il coraggio che ci vuole per stare insieme, mi sento impreparato», dice Alessandro). Emerge anche, dalle narrazioni (orali e fotografiche), la dimensione sociale e relazionale del rapporto con i tutor aziendali e del reciproco vantaggio, umano e professionale: «Forse l’esperienza è stata più utile a noi che a lei: abbiamo capito cosa significa rapportarsi con chi ha abilità diverse […] insomma sul piano umano così come su quello professionale è stato per tutti qualcosa di molto positivo», dice Ely Tanno, responsabile del personale della lavanderia Gelen, tutor di Maria; mentre Alessandro, riferendosi al suo tutor, afferma: «parlare con lui mi fa sentire meglio, riesco ad allargare gli orizzonti, a vedere meglio ed a stare più sereno». È il successo di questo progetto, questa crescita umana e professionale percepita e vissuta non solo dai tirocinanti ma anche da tutor e colleghi, che lo rende un efficace modello – in piccola scala, certamente – di quanto è possibile fare per migliorare la qualità della vita dei soggetti disabili e delle loro famiglie, nella convinzione che un mondo solidale costituisca un vantaggio sociale a livello collettivo. In conclusione: quello descritto ne La sopravvivenza del ragno non è un percorso facile, come sempre accade, del resto, quando si tratta di sfide e rivoluzioni sociali dal basso, ma è senz’altro un percorso e un progetto simbolo, in grado di costituire un punto di rife-
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anno I | n. 2 | 2013
rimento, una luce, un esempio, in un periodo di crisi finanziaria quale è quello attuale, proprio per evitare una deriva etico-morale, un inaridimento e una chiusura verso i soggetti più svantaggiati. Con l’auspicio che si possa partire dal “piccolo” di questo libro, di questo progetto, per concorrere a costruire una società realmente inclusiva, equa, giusta, in grado di portare una soddisfazione e un benessere collettivo, pieno, per e di tutti.
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