anno IV | n. 2 | dicembre 2016
Italian Journal of Special Education for Inclusion Rivista ufficiale della Società Italiana di Pedagogia Speciale (SI.Pe.S.)
anno IV | n. 2 | dicembre 2016
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Finito di Stampare nel mese di DICEmBRE 2016
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Gli articoli pervenuti sono sottoposti a un procedimento di referaggio che prevede giudizi indipendenti da parte di due studiosi italiani e stranieri di riconosciuta competenza. I giudizi sono espressi secondo quanto previsto a livello nazionale e internazionale e sono comunicati agli autori unitamente alle eventuali indicazioni di modifica che gli stessi devono accettare ai fini della pubblicazione. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori abbiano espresso parere positivo. In caso di giudizi fortemente contrastanti ci si avvale di un terzo revisore. Il Comitato dei Referee coincide con il Comitato Scientifico. Il Board, tuttavia, si avvale anche di ulteriori Referee che saranno resi noti nel primo numero dell'annata successiva.
DIRETTORE RESPONSABILE Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) COmITATO SCIENTIFICO Pilar Arnaiz Sánchez (Universidad de Murcia, Spagna) Serenella Besio (Università della Valle D’Aosta) Roberta Caldin (Università di Bologna) Andrea Canevaro (Università di Bologna) Lucia Chiappetta Cajola (Università Roma Tre) Lucio Cottini (Università di Udine) Piero Crispiani (Università di Macerata) Armando Curatola (Università di Messina) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) Anna maria Favorini (Università Roma Tre) Carlo Fratini (Università di Firenze) Francesco Gatto (Università di Messina) maura Gelati (Università Milano Bicocca) Karen Guldberg (University of Birmingham, GB) Elias Kourkoutas (Università di Rethymno, Creta) Dario Ianes (Università di Bolzano) Franco Larocca (Università di Verona) michele mainardi (SUPSI, Svizzera) margherita merucci (Università Cattolica de Lyon, Francia) Pasquale moliterni (Università del Foro Italico, Roma) Pilar Orero (Universitat Autònoma de Barcelona, Spagna) marisa Pavone (Università di Torino) Eric Plaisance (Università Paris V, Parigi, Francia) Béla Pukánszky (University of Budapest, Ungheria) Robert Roche Olivar (Universidad de Barcelona, Spagna) marina Santi (Università di Padova) Joel Santos (Universidade de Lisboa) maurizio Sibilio (Università di Salerno) Antonella Valenti (Università della Calabria) Darja Zorc-maver (University of Ljubljana, Slovenia) BOARD Fabio Bocci (Università Roma Tre) Roberta Caldin (Università di Bologna) Lucio Cottini (Università di Udine) Luigi d’Alonzo (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Lucia De Anna (Università del Foro Italico, Roma) COmITATO DI REDAZIONE Catia Giaconi (Università di Macerata) Annalisa morganti (Università di Perugia) Stefania Pinnelli (Università del Salento, Lecce) marina Santi (Università di Padova) Tamara Zappaterra (Università di Firenze)
indice/summary
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Editoriale / FABIO BOCCI I. RIFLESSIONE TEORICA
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AnGELO LASCIOLI Prejudice and Disability…Educating the Looking
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PATRIzIA GASPARI Il docente specializzato di sostegno: problemi e prospettive in ottica inclusiva
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ALESSIO COVELLI La Ricerca dell’evidenza in Pedagogia Speciale: questioni epistemologiche e metodologiche
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MARInA SAnTI, GIORGIA RUzzAnTE Riformare il sostegno? L’inclusione come opportunità tra delega e corresponsabilità
II. REVISIONE SISTEmATICA 75
LUCIA ChIAPPETTA CAjOLA, MARInA ChIARO, AMALIA LAVInIA RIzzO The use of ICF-CY in Italian school and Evidence Based Education approach: data and research perspectives
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FELICE COROnA, TOnIA DE GIUSEPPE Autismo: tra prospettive teoriche emozionali ed investimenti educativi trasformativo-inclusivi
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AnnALISA MORGAnTI, ALESSIA SIGnORELLI Insegnanti alle prese con programmi educativi evidence-based: l’esperienza italiana del Promoting Alternative Thinking Strategies (PATHS®)
III. ESITI DI RICERCA 139
SERGE RAMEL Futuri insegnanti: le loro rappresentazioni degli studenti con disabilità
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LAURA ARCAnGELI, FRAnCESCA PASCOLInI, MOIRA SAnnIPOLI L’apprendimento della letto-scrittura e i fattori di rischio: un progetto sulla consapevolezza degli insegnanti
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PASqUALE MOLITERnI, MARIA ELEnA MASTRAnGELO Verso il canestro e oltre! Baskin per promuovere inclusione e prosocialità: uno studio pilota
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ELISABETTA GhEDIn Passi verso la felicità: il valore della Biodanza per promuovere l’inclusione IV. ALTRI TEmI
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ChIARA CARBOnE Il sistema educativo maori come pratica di resistenza: l’agency nativa e le politiche educative tribali
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Recensioni
Editoriale / I tempi stanno cambiando Come gather around people Wherever you roam And admit that the waters Around you have grown And accept it that soon You’ll be drenched to the bone And if your breath to you is worth saving Then you better start swimming or you’ll sink like a stone For the times they are a-changing (Bob Dylan, The times they are a-changin’)
The times they are a-changin’, cantava nel 1964 Bob Dylan (insignito quest’anno del nobel per la Letteratura). questa ballata è stata considerata una canzone contro la guerra, e lo era a tutti gli effetti, ma soprattutto era (è) un testo poetico incentrato sulla necessità di essere cittadini responsabili del proprio tempo e un richiamo ai singoli e alle comunità ad essere consapevoli che – avrebbe detto qualche anno più tardi un grande pedagogista qual è Paulo Freire – siamo esseri condizionati ma non predeterminati e che la storia è tempo di possibilità e non di determinismo. E noi siamo, ancora, in tempi di guerra. Una guerra diffusa, straziante, spietata, in particolare (benché lo sia sempre) perché mai come in questi tempi di comunicazione immediata e globale si mostra nella sua mostruosità (ricordiamo che monster, mostro, deriverebbe da monstro, esibisco, e da moneo, ammonisco), ossia ci mostra di essere incapace di risparmiare quantomeno i più vulnerabili, tra questi i bambini. E siamo, ancora, come conseguenza delle stesse logiche che determinano i conflitti e gli interessi che le sottendono (prima, durante e dopo), dinanzi a una povertà dilagante, al ritorno dei nazionalismi, al riemergere di proclami sulla necessità di ripristinare identità individuali e collettive ben definite, distinte, non meticciate. Identità concepite come prodotto definitivo e statico, come atto di riconoscibilità immutabile (e superiore) da contrapporre ad altre ritenute non conformi e non consone. Un’idea lontana anni luce da quella visione che le immagina, invece, per quello che sono: un tratto generativo, un processo per riconoscersi e per riconoscere l’altro, nell’atto che conduce ciascuno di noi all’incontro con ciò che si differenzia da noi. anno IV | n. 2 | 2016
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E siamo così posti altresì dinanzi al bivio che Dylan richiamava nel suo testo: decidere, nell’attimo che segna il tempo, se essere spettatori passivi, attendendo che l’onda d’urto ci spazzi via definitivamente (con quell’atteggiamento fatalista tipico di certi californiani che aspettano l’inesorabile The Big One) o attori attivi, capaci di porci anche nel nostro piccolo (la famiglia, la scuola, l’università) come soggettività che esercitano una direzione ostinata e contraria (chiamando in causa ora un nostro grande poeta della canzone, Fabrizio de André) rispetto a questo nostro tempo. Insomma, citando ancora Freire, essere persone che con passione e consapevolezza decidono di lottare contro il fatalismo e riprendere la propria rotta nella storia. Ora, dinanzi a tutto questo quali sono i compiti di una comunità scientifica, in particolare di quella della pedagogia e degli studiosi dell’educazione. In primo luogo è necessario resistere alle tentazioni di rinchiudersi – o ai rischi di essere rinchiusi – dentro luoghi altri: ad esempio quelli di una ricerca sganciata dalla realtà, da ciò che effettivamente avviene nei luoghi in cui abitano e prendono forma le questioni sulle quali si pone attenzione in qualità di studiosi e intellettuali. Ebbene, pensando alla Pedagogia Speciale, questa si interroga e si cimenta sulla necessità di stare nei diversi contesti dove l'approdo dell'umano si fa sempre più incerto. Si pensi a tutte le situazioni, nazionali o internazionali, di emergenza (condizione non più eccezionale ma divenuta ormai strutturale alla nostra società). In tal senso i pedagogisti speciali mostrano una spiccata sensibilità e capacità nel/di cogliere le suggestioni che si profilano e si presentano non solo come tendenze della ricerca educativa (le quali si pongono come questioni che interrogano per una migliore e più accurata comprensione dell’oggetto educazione), ma anche come istanze che vengono dal basso e che la Pedagogia Speciale con una azione teorica, teoretica e applicativa contribuisce a trasformare in istanze di miglioramento della società di cui tutti, nessuno escluso, dovrebbero beneficiare in termini di riconoscimento, partecipazione, benessere, autodeterminazione e autorealizzazione. In secondo luogo è altresì necessario aprirsi all’ascolto e al confronto, anche quando l’interlocutore si pone con un atteggiamento di irriducibilità a noi. È la questione cruciale delle alleanze, che – almeno sul piano in cui stiamo cercando di ragionare – non dovrebbero essere intese come aggregati di soggetti che si coalizzano per interessi contingenti (dettati da singole convenienze), ma come forme dinamiche di soggettività differenti (ciascuna portatrice di proprie visioni, realtà, esperienze, storie) che si interrogano insieme e compartecipano (ottica coevolutiva) al perseguimento di un ideale comune, qual è nel nostro caso quello di una scuola e di una società inclusive. Partendo però (auspichiamo) dal convincimento che l’inclusione non è un prodotto esportabile (come alcuni, ad esempio, ritengono sia quello di libertà, tanto da allestirci addirittura delle guerre in suo nome) oppure applicabile a partire da una qualche norma che la definisce una volta per tutte o da qualche procedura, tecnica o figura con cui si presuppone di garantirla, ma un processo che non ha mai fine e che vive nel suo essere e farsi realmente dialettico (ci richiamiamo qui alla bella immagine di Agorà pedagogica coniata dal compianto amico e collega Alain Goussot). Come il lettore attento avrà certamente colto, sono molti i temi oggi sul tavolo sui quali esercitare (come si sta facendo) tale modo di pensare e di agire. Editoriale
Modus agendi che si riflette, e non potrebbe essere altrimenti, anche nelle pagine dell’Italian Journal of Special Education for Inclusion che con questo numero festeggia quattro anni di vita, dedicati a dare voce e spazio agli studi, alle ricerche e alla riflessioni (anche di natura culturale e politica, oltre che storica ed epistemologica) dei pedagogisti speciali e di chi si interessa ai temi che gli sono propri e cari. numero che, in assoluta continuità con questa linea, accoglie contributi che rendono vive le sezioni che strutturano la rivista: la riflesisone teorica, la revisione sistematica, gli esiti di ricerca e gli altri temi i quali, in modo altrettanto consono, vi interloquiscono. nello specifico, il numero si apre con Angelo Lascioli, il quale popone un articolo dal titolo Prejudice and disability…Educating the looking. L’autore, partendo dall’analisi dei motivi per cui, in presenza di deficit e o disabilità, i pregiudizi e gli stereotipi agiscono come fattori inibenti l’identificazione e l’emergere di potenziali e risorse che sono comunque presenti nella persona, pone (e risponde a) una serie di domande, tra le quali: “Come ri-educare lo sguardo di chi percepisce la disabilità attraverso i filtri degli stereotipi?”; “Come formare coloro i quali hanno responsabilità educative a prendere coscienza dei loro pregiudizi e superarli?”; “quali vantaggi potrebbero derivare per la società dal superamento di tali pregiudizi?”. A seguire Patrizia Gaspari firma un contributo dal titolo Il docente specializzato di sostegno: problemi e prospettive in ottica inclusiva nel quale la studiosa – che si è ampiamente occupata della questione in numerose pubblicazioni – suggerisce di riflettere attentamente sullo stato epistemologico della Pedagogia Speciale in modo da far emergere con maggior evidenza e forza il ruolo specifico dell’insegnante specializzato quale mediatore-agente di cambiamento. Si tratta, come è facile intuire, di un tema attualissimo che la studiosa affronta con la consueta lucidità di analisi. non a caso su tale questione, che com’è noto già da diverso tempo è al centro del dibattito pedagogico e politico italiano, proseguono anche Marina Santi e Giorgia Ruzzante con il loro articolo intitolato Riformare il sostegno? L’inclusione come opportunità tra delega e corresponsabilità. Le autrici argomentano le loro tesi ponendo sotto la lente d’ingrandimento due nodi problematici oggi presenti nella scuola: da un lato la delega educativa, dall’altro la corresponsabilità. Secondo Santi e Ruzzante il fenomeno della delega, identificata come elemento di criticità, può essere evitata/superata attraverso la promozione di atteggiamenti inclusivi, l’attenzione ai contesti o l’ideazione e l’uso di strumenti (come l’Index o il CTI-Repertoire) finalizzati a promuovere e a monitorare l’inclusione. Tra questi due contributi, che si pongono in linea di continuità per il tema affrontato, si inserisce Alessio Covelli con un articolo dal titolo La ricerca dell’evidenza in Pedagogia Speciale: questioni epistemologiche e metodologiche. Covelli, facendo riferimento al longevo e ampio dibattito tra metodi quantitativi e metodi qualitativi, che investe non solo l’ambito pedagogico ma, più in generale, il campo delle scienze umane e sociali, calibra la sua argomentazione sulla Pedagogia Speciale, la quale è attraversata – in quanto parte integrante della Scienza dell’Educazione – da un lato da doverose esigenze di evidenziare i propri dati di ricerca e studio e, dall’altro, dalla necessità di non alterare il proprio statuto epistemologico, il quale però, è bene ricordarlo, non va assolutamente pensato (come anno IV | n. 2 | 2016
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spesso erroneamente è stato fatto) come qualcosa che si pone in antitesi con l’approccio scientifico basato su evidenze. La sezione dedicata alla revisione sistematica si apre con Lucia Chiappetta Cajola, Marina Chiaro e Amalia Lavinia Rizzo che firmano un articolo dal titolo The use of ICF-CY in Italian school and Evidence Based Education approach: data and research perspectives. Le autrici, assumendo come sfondo la prospettiva dell’Evidence Based Education (EBE) focalizzano l’attenzione sulla Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute dei Bambini e giovani (ICF-CY) e ne analizzano le implicazioni e le ricadute nella ricerca e nella progettazione didattica, nonché per quel che concerne la formazione degli insegnanti. Il tutto a partire dagli esiti di tre indagini condotte dall’Università di Roma Tre sulla base di un disegno di ricerca rigoroso nella metodologia e nell’analisi dei dati. Felice Corona e Tonia De Giuseppe firmano un contributo altrettanto interessante intitolato Autismo: tra prospettive teoriche emozionali ed investimenti educativi trasformativo-inclusivi. Gli autori prendendo le mosse sia dalla prospettiva dei Sistemi Ecologici di Bronfenbrenner, in particolare per quel che concerne il costrutto di sistemi d’interrelazione, sia dalle teorie dello psicoterapeuta americano Erickson, in merito all’utilizzo della gestione emozionale e motivazionale degli alunni quale vettore d’indirizzo all’apprendimento per la promozione del benessere sociale, soffermano la loro attenzione sull’autismo evidenziando come, in presenza di disturbi della relazione, l’investimento educativo-didattico nella gestione delle emozioni rappresenti una sfida cruciale per la scuola inclusiva. Chiude questa sezione l’articolo di Annalisa Morganti e Alessia Signorelli, Insegnanti alle prese con programmi educativi evidence-based: l’esperienza italiana del Promoting Alternative Thinking Strategies (PATHS). Come esplicitato dalle stesse autrici, il contributo vuole essere un primo tentativo d’implementazione, nel contesto della scuola primaria, del PAThS, un programma di educazione socioemotiva di tipo evidence-based. Lo sfondo di analisi è quello di una ricerca europea che ha coinvolto oltre all’Italia, la Svizzera, la Svezia, la Croazia e la Slovenia. Di particolare interesse sono i dati riconducibili alla realtà del nostro Paese, sia per quel che concerne il coinvolgimento degli insegnanti sia per quanto riguarda l’incidenza che l’educazione socio-emotiva può avere sui processi inclusivi. La terza sezione è dedicata agli esiti di ricerca. Il primo contributo, su invito, è di Serge Ramel, Professore formatore presso l’Alta scuola di pedagogia del Cantone di Vaud (Svizzera) e Co-direttore del Laboratorio internazionale sull’inclusione scolastica (LISIS). L’articolo di Ramel, intitolato Futuri insegnanti: le loro rappresentazioni degli studenti con disabilità, pone l’accento su una questione molto importante. Infatti, se da un lato numerosi Stati stanno implementando le loro politiche scolastiche in ottica inclusiva, nella maggior parte dei casi i futuri insegnanti hanno scarse opportunità di entrare in contatto, in modo diretto ma anche indiretto, con le questioni che hanno a che fare con la disabilità. Sulla base di uno studio condotto in Svizzera, l’autore conferma la necessità di formare al più presto possibile gli insegnanti a questa nuova realtà. Il contributo successivo, L’apprendimento della letto-scrittura e i fattori di rischio: un progetto sulla consapevolezza degli insegnanti, è firmato da Laura ArEditoriale
cangeli, Francesca Pascolini e Moira Sannipoli. Le autrici descrivono ragioni, modalità ed esiti di un progetto pilota di ricerca-formazione, finanziato dalla Regione Umbria con il coinvolgimento dell’Ufficio Scolastico Regionale, nato dall’esigenza di fronteggiare il crescente numero di segnalazioni di disturbi di apprendimento e finalizzato ad formare un campione di insegnanti delle prime classi di scuola primaria nell’acquisizione di maggiori e migliori conoscenze e competenze rispetto alla lettura e scrittura e all’individuazione precoce dei fattori di rischio. Infatti, come sottolineano a ragione le studiose, tali segnalazioni sono spesso non riconducibili a DSA ma fanno riferimento a problemi che possono e devono essere affrontati con azioni didattiche mirate, centrate su pratiche di osservazione e documentazione. Pasquale Moliterni e Maria Elena Mastrangelo spostano l’attenzione sulla pratica sportiva con il loro Verso il canestro e oltre! Baskin per promuovere inclusione e Prosocialità: uno studio pilota. Si tratta della descrizione della parte prima di una ricerca-azione − nata nell’ambito di un progetto che vede coinvolte diverse realtà accademiche (Foro Italico di Roma e Università di Foggia) e associative (tra le quali la Fondazione ASSORI) − finalizzata a verificare se e in che misura una formazione inclusiva centrata su attività sportive integrate (come il Baskin) promuova la prosocialità, l’empatia, l’intelligenza emotiva e la creatività in un gruppo di giovani (tra 16 e 35 anni) con e senza disabilità intellettiva e relazionale. Come evidenziano Moliterni e Mastrangelo, gli esiti mostrano come l’educazione motoria e sportiva inclusiva acquisisca significati culturali, educativi ed etico sociali, e si proponga come mediatore privilegiato per lo sviluppo dell’educazione alla salute e alla cittadinanza. Potremmo dire che si pone sulla stessa lunghezza d’onda il contributo di Elisabetta Ghedin che ha per titolo Passi verso la felicità: il valore della Biodanza per promuovere l’inclusione. Scopo del lavoro presentato dalla Ghedin − basato su una indagine che ha coinvolto 40 persone di una età compresa tra 22 anni e 65 anni – è quello di mostrare le potenzialità della Biodanza quale pratica inclusiva promotrice di felicità e ben-essere globale per tutti, disabili inclusi (parafrasando il titolo di un libro di Andrea Canevaro). Le conclusioni a cui giunge l’autrice sono decisamente incoraggianti, poiché mediante la Biodanza si viene a creare un ambiente positivo nel quale la diversità viene assunta come valore in virtù del rispetto, dell’apertura e del dialogo. In tal modo ciascuno può percepirsi nella sua unicità, sperimentando la gioia di emozionarsi e di stabilire autentiche relazioni con l’altro. Il numero si conclude con l’articolo di Chiara Carbone, la quale ci conduce, nella sezione degli altri temi, in una dimensione ancora poco nota. Il suo contributo, Il sistema educativo maori come pratica di resistenza: l’agency nativa, illustra con la conoscenza e la competenza di chi è entrato in stretto contatto con la realtà che intende studiare, i concetti fondamentali della pedagogia Maori, ripercorrendo le tappe fondamentali che ne hanno segnato l’evoluzione storica e analizzando l’azione di diversi movimenti sociali (quali il kohanga reo movement) che si sono battuti per l’introduzione della lingua maori nel sistema scolastico nazionale. L’autrice giunge così a di-mostrare come l’elaborazione di pedagogie indigene e l’organizzazione di un sistema educativo tribale si configurino quali strategie di resistenza elaborate in risposta ai processi di colonizzazione e decolonizzazione. anno IV | n. 2 | 2016
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In conclusione, augurando al lettore una buona lettura, auspichiamo che trovi i contributi selezionati rilevanti e rigorosi sul piano scientifico, attuali su quello culturale e congruenti con le istanze che il mondo dell’educazione promuove nelle sue innumerevoli e prismatiche sfaccettature. Sono infatti questi da sempre i presupposti che muovono la comunità scientifica dei pedagogisti speciali e che animano la composizione di ogni numero dell’Italian Journal of Special Education for Inclusion.
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Editoriale
Prejudice and Disability… Educating the Looking
The article contains a theoretical and educational study about the origin and meaning of prejudice against people living a disabling condition. The author analyzes the reasons why, in the presence of deficits and/or disabilities, the action of prejudice and stereotypes inhibits the identification of those potential and human resources that are however present, but when misunderstood (sometimes even by those who are the target of prejudices and stereotypes) are unlikely to come to light. Often the action of prejudice and also the educational act contaminate stereotypes, affecting the mental representations of educators or teachers, with multiple negative effects. The article offers a series of reflections and operation cues that help you to answer the following questions:How is it possible to re-educate the “look” of whom perceives disability through injury filters and stereotypes? How I can train those who have educational responsibilities to become aware of their own prejudices/stereotypes and to overcome them? What advantages could arise for society from overcoming prejudices towards those who live a disabling condition?
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: prejudice, stereotypes, disability, education
I. Riflessione teorica
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abstract
Angelo Lascioli / University of Verona / angelo.lascioli@univr.it
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Introduction
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The meaning of the word “disability” has changed in recent years. In particular, the concepts underlying the word disability have evolved. For a long, time disabilities were considered birth defects, only later on they were conceptualized as something different from impairment and handicap, but anyway related to them nonetheless (ICIDH, WHO, 1980). The mutual relationship between disability and illness has only recently been broken, thanks to the establishment of a broader and more articulated perception of the word “health”, including its biopsychosocial meaning. According to the definition of the WHO, disabilities are functional problems which depend on the “complex interaction between features of a person’s body and features of the society in which he or she lives” (ICF, WHO, 2001). This definition goes beyond the biological concepts of health and illness and link the meaning of the word disability to the level of quality of human functions. Disabilities have much more to do with the biography of a person than with his/her biology. The reasons for disabilities, which are not imposed by the limits conveyed by specific health conditions, are to be searched in people’s lives and how they function within specific contexts, where there are obstacles/barriers or where their abilities are not fully supported. Nevertheless the word disability, in everyday language, is still a stigma-word which marks “inferiority” and “imperfection”. It describes and gives a name to something imperfect and abnormal, which nature, and not society, is responsible for. According to Pavone’s words/concepts, conveying minority and abnormality covers the entire universe of deficit-related diversity and implies the idea that these people are inferior, less capable and weaker than the average population (Pavone, 2014, p. 79). This is clearly the result of prejudices which still affect people with disabilities and, as a sort of “mental block”, prevents a new cultural shift of meaning for this life condition. This is why the philosopher Jollien (2002, p. 31) – who himself suffers from a disability – says that people do not look at what should be seen but at something else: “People perceive how strangely they move, how slowly they speak, how they limp. They do not recognize what is inside them. Spasms, rictus, lack of balance hide, without any appeal, behind a clear and cruel verdict: that’s a disability. It is difficult to modify this first impression, and it is painful to be the victim of it without any chance to explain.” This problem amasses even more implications, if we consider it under the perspective of Education. The value of looking is extremely important within an educational relationship and has to be taken into consideration by every responsible tutor or teacher, especially in the framework of a special educational relationship. In this specific framework the inability of looking at “what is behind” has significant effects on the self perception of disabled persons (Klerk, 1980, p. 861). How can we educate this looking to extend beyond appearances? How can we support people with educational responsibilities – and not only (many people in the public sector have a delicate role, because they have to do everyday with disabled) – to overcome prejudices towards disability? What are the possible educational and social advantages of successfully overcoming these prejudices? These are the questions we will try to answer in the following article.
I. Riflessione teorica
1. If we want to overcome prejudices and stereotypes, “thinking more” is not enough: we need to “think differently”
Some problems or situations, to our reasoning, appear to be overwhelming and impenetrable. In these cases, as the philosopher Ricoeur (1993, p. 7) says, thinking more is not enough, we need to think differently. This implies a change of strategy which consists of altering the way and the shape of our thinking. It does not affect – at least at the beginning – the content of our thinking but only the ways our mind rests in its normal state before the object of our own thinking. We need to learn to “think differently” in order to overcome the prejudices and stereotypes which prevent our looking to lay on people’s dignity beyond their deficit. The first step in pursuing this goal consists in revealing to the mind what is hidden behind prejudices and stereotypes and how thinking with prejudices and simplifications driven by stereotypes constrain our freedom of thought. Since every prejudice is the result of a prae-iudicium (what comes before prejudice), we need to reveal its preconceived structure in order to free our mind from prejudice. This is possible by shifting the “focus” of our attention from the content of the prejudice to the logic through which the prejudice distorts the meaning of the object we are thinking of. This is the only way we can have access to the framework of meaning prior to judgement, which usually escapes, by its own nature, from the control of a thinking person, unless he/she operates a epoché (the suspension of any judgement). This is no easy task and the results are nothing but obvious since frameworks of meaning, from which prejudices arise, seem to be deeply rooted (Lascioli, 2011, p. 24). In the same way, a thinking person might find it very hard to give up simplifications driven by stereotypes. Stereotypes creep into our mind by offering images of reality or people which are oversimplified (Allport, 1954) and shared, in essential features, by large numbers of people (Stallybrass, 1977, p. 601). The resulting solid cognitive structure is hardly criticizable and can establish itself silently (English, 1958, p. 523). Prejudices and stereotypes function together (Mazzara, 1997). The relationship between prejudice and stereotype resembles the interaction between background and picture in perceptual phenomena. A psychological analysis of visual perception has brought to light that our sensory perception works on the basis of fixing perceptive schemes which remain unaware unless a careful analysis brings them explicitly to the surface. One of the most bizarre laws of visual perception rules the interaction between background and image. According to this law, it is impossible to perceive background and picture simultaneously and through a unique perceiving stimulus. The Gestalt psychology has analyzed the behaviour of numerous subjects looking at images which assume different meanings on the basis of what is perceived as background and image. A classical example is the white calyx with two black profiles. We can embrace the entire image with our looking but we are not able to perceive both parts as image and background at the same time. This is due to on the fact that the border of the pictures can only have a single unilateral function, which is delimiting a single visual field belonging to what has been perceived as picture; the space around the
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picture becomes background and loses its shape as image. A stereotype is like a picture…it is what appears within well defined and visible borders. This leads to the stigma or impact, which interacts with the other person and gives him/her a negative connotation. On the contrary, the prejudice, like the background, does not appear because it has no visible and defined borders, since the picture “has borrowed” them in order to stand out very clearly. Since the prejudice works “before” the judgement and hides in the background, it does not manifest itself in the relationship and sometimes not even in the person’s consciousness. The background helps prevent the “image-stereotype” from blending, fading and losing its borders. Once we eliminate the image’s border, we shift our attention from the image-stereotype to the background-prejudice activating process of awareness, meditation and analysis, which would inevitably result in a crisis of the stereotype’s rationalization. The comparison with the interaction image-background enables us to understand that the complementary relationship between prejudice and stereotype is the result of a cognitive functional complicity through which simple and fundamental-less judgement becomes very convincing and difficult to change. We need, therefore, to be aware that processes through which some prejudices are joined to some stereotypes are not only difficult to detect for the people having them, but also cause social and personal problems to the people suffering them, especially if they have disabilities (Knotek, 2003).
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2. How prejudices and stereotypes can limit the looking
Here we show the famous “query of nine dots” provided by the Gestalt school of psychology. Let’s take a look at picture 1.
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Picture 1
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Now, try to find the solution to the following query: “How can you join all nine dots with only four straight lines? You should never raise your pencil from the piece of paper by drawing the four lines.” (a tip: don’t continue reading this article before you’ve tried at least once). The most common (incorrect) attempts are the following (see picture 2.1 and 2.2):
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I. Riflessione teorica
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Picture 2.1
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Picture 2.2
Let’s have a look at what you’ve done: Was your solution similar to one of the above Pictures (2.1 or 2.2)? Why? With your method of looking at the query, what didn’t work? First, you should have realized that both attempts shown are wrong. In both of them, one of the nine dots was left out but we were asked to join all of them. The query of “the nine dots and four straight lines” reveals a relevant mental attitude useful to understanding how prejudice works. It will make sense once the solution is revealed (see solution in picture n.3).
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Picture 3. SOLUTION
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If we tried to solve the query and gave solutions like picture 2.1 and 2.2 (usually the majority of people) we feel disoriented when we see the actual solution (picture 3). At first we do not understand and find the given solution unusual, but then, if we look closer and analyze better, we understand everything: to solve the query we need to join the dots with straight lines which “go beyond” the imaginary borders of the “square”, inside which the previous “solutions” were thought (see picture 2.1 and 2.2). We need to go beyond the false and untrue perception that the “nine dots” form a closed square (which is actually only in our head) in order to elaborate the right solution. What prevents us from having this intuition is that, even if we are given all nine dots on a clean piece of paper (sensorial stimulus), we actually perceive (perceptual elaboration) a closed figure (a square). We search (in vain) for the solution within the borders of this (imaginary) “square” and end up not being able to reach the goal of joining all nine dots with four straight lines. Why do we get stuck within the imaginary square? It’s because, before judging through reasoning, our perceptual system generates a prior judgement which prevents our looking from catching the real problem as it actually is. The nine dots are viewed beforehand (prior judgement) as a very simplified image (stereotype) which acts as a seal against ability of looking through. If we do not break this seal, our looking cannot go beyond to find the solution. There are many half-solutions (see picture 2.1 and 2.2) which are sealed by this same prejudice. The real solution requires a conscious undermining of
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this block. This is the beginning of what Ricoeur calls “thinking differently” but in order to get there we need to be aware that we are doing something wrong (I am making a mistake, I can’t find the solution, a dot is always missing). We need to see the mistake as a sign that something is blocking our looking (there is something in the way of my search for the solution, which does not work; my strategy does not work because there is something limiting my looking). We need to begin giving a name to this block (what do solution 2.1 and 2.2 tell me about my mistakes? What can I learn from my mistakes?) and we need to discover that there is no reason to continue to act and think in only one certain direction (Why don’t I look beyond? For example, longer lines, broader spaces, etc). At this point, our reasoning realizes that a prejudice has established some limits, and that our looking was working within a space, (forced for no reason by our own mind), and that this limit actually has no reason for existing. Only when the prejudice is revealed can it become the object of analysis and self-criticism (why do I need to think there is a square when I see nine dots?). What was once the background (prejudice) determining the image (stereotype), becomes removed and disappears under the light of reasoning, allowing the “lateral thinking”, which is not spoiled by any “prior”, to come to the surface. Prejudices are like (cultural and symbolic) “filters” which work like the laws of visual perception and create cognitive “internal organization” (stereotypes). A stereotype is like a force field that influences and limits the looking of our reasoning. According to Tentori (1996, p. 68), prejudices and stereotypes simplify… “…le visioni del mondo riducendole ad un dualismo “consueto/consuetudinario” come equivalente di normale, giusto, valido, contrapposto a “diverso” come equivalente d’inquietante, rischioso, ingiusto, cattivo. E poiché la normalità è quella dei nostri modi di vita, della nostra cultura, della cultura del nostro gruppo o della nostra società, questa contrapposizione s’incarna nell’opposizione tra “noi” e gli “altri”, tra noi i “normali” e gli altri “gli anormali”, se non seguono le nostre regole di vita.1”
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The individual or collective phantom illusion of certainty, truth and justice sneaks into our mind through the prejudice. This becomes particularly evident by analysing some cultural clichés. Let’s analyse, for example, this interesting puzzle. A father and son are travelling by car. Suddenly they have a bad accident. The ambulance comes and brings them to the hospital. The son is in very bad shape and the doctors say he needs surgery. They bring him to the operating room and immediately call the surgeon. The surgeon arrives, enters the room, is about to start the operation but suddenly stops and 1
My translation: “the way we see our world confining everything into the dualism “usual/customary” as a synonym for normal, right and valid on one side, and “different” as a synonym for worrying, risky, unjust and mean on the opposite side. Since normality is the way we live our life, our culture, the culture of our group and the culture of our society, this contrast turns into an opposition between “we” and “other people”, between us (“normal” people) and the other people (“abnormal”), since they do not match our life’s rules.”
I. Riflessione teorica
says: “I cannot do the surgery. He is my son!”. The question is: - “Who is the surgeon?”2.
When we hear this story for the first time we might get confused by the final question. We are puzzled by something completely unexpected (Can a surgeon behave like this? Who is this surgeon? Who was the person driving the car then?). That’s the reason we don’t find the correct answer immediately. The solution is before our very eyes however. The correct answer is very simple: the surgeon is his mother. The solution, however, eludes the majority of people. Usually we think in that way: “How is it possible that a surgeon says that the boy is his son, if the boy’s father was in the car with him?” It seems logical to think, at first, that the surgeon is a man. So the solution, even if it is actually obvious, becomes inconceivable. The question is: why don’t we think straight away that the surgeon is his mother, even if this answer is within everyone’s reach? Who doesn’t know that there are also female doctors and surgeons? The two examples (the “square with nine dots” and “the surgeon”) show that our mind is able to find impairments to “healthy” thinking when it is conditioned by something which resembles the process activating prejudices and stereotypes.
3. A look at the roots of prejudices towards people with disabilities
According to Murphy (1990, p. VI-VII), “the avoidances and even outright hostility so often manifested toward them by the non-disabled are not the natural products of their own physical deficits but, rather, expressions of deficiencies of perspectives and character, of those who behave so”. But where does this prejudice towards people who live with a condition of disability come from? What causes this deficit (which Murphy refers to) in the way that we look at things? In order to answer these questions we need to analyse the logical structure of prejudices towards people with disabilities: Diversity - which is a fundamental characteristic of multiplicity (We are all different form each other!) - is essentially viewed as an exclusive prerogative of disabled people in order to degrade their humanity. The stereotype, which is the cognitive core of prejudice, is responsible for transforming and funnelling partial information and false beliefs about people who are limited by deficiencies, into coherent and usually stable images giving birth eventually to a real, solid and indisputable process of degradation and social exclusion. Understanding the inner illogicality of prejudices towards disability is very useful in order to answer the question about the origins of these same prejudices. With this in mind, it is useful to digress a little about the Aristotelian logic, so here are essential useful aspects: if a set is built by equivalent elements, specifying is impossible (diversity of species); the only possible opera2
Puzzle taken from internet. Look at: www.pensieriparole.it › Indovinelli ›
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tion on a set of equivalent elements is “division” (diversity within species). given that, if the set of human being contains the subsets able and disable, it is not a specification but a division (because able and disabled people are always equivalent elements and represent diversity within the same species). Since the set of human being contains equivalent elements, any kind of differentiation is illogical. According to this, it seems also illogical (that is without rationale) to consider disabled people as a sort of species within the set of human being because it would mean to assume implicitly that there is a diversity of species and not a diversity within the species between able and disabled. If we assumed that disability is a non-accidental qualitative and substantial variety within the human set, we would operate an ontological reduction on the dignity of people with disability. Under a logical point of view, overcoming prejudices towards disabilities implies re-evaluating diversity as a positive peculiarity. This means - according to Deleuze (1997) - trying to understand how extremely important it is to approach diversities not as something which set differences amongst similar elements, but as a condition arising from the uniqueness of life and people. giving its real value back to the meaning of diversity means not looking at diversity as a “euphemism for defect, abnormality, or a problem to be worked out through technical or assimilationist education policies. Diversity is a social fact” (Armstrong, 2000, p. 34). All prejudices generally share a common problem which is also rooted in prejudices towards people with disabilities: the psychological, cultural and symbolic denial of diversity as value and social fact. We therefore need to ask ourselves the following question: what is the difference between prejudice towards people with disabilities and other forms of prejudice?
4. The supposed ontological origin of prejudice towards people with disabilities
The answer to this question can be found by wondering whether this prejudice has the same origins as other prejudices which are also firmly-rooted in the history of human beings, like prejudices towards races and gender. It is well known that the roots of these prejudices draw on an assumed division between “superior” and “inferior” races of human beings (Cox, 1997). All racial theories are based on the supposed biological superiority of one human group over another. They then turn into real state doctrines aimed at justifying social inequalities and imbalances in the administration of power amongst groups (Rose, 1951). The myth of superiority of one race or of biological differences is broadly diffused amongst cultures (Fanon, 1952) and winds up being the core on which prejudices generating mutual denial are being built (Pettigrew, 1964). Biological differences become impassable borders amongst people: on one side there are people with what are supposed to be superior characteristics, who feel safe because they are not like the others; on the other side there are people with what are assumed to be inferior biological traits, who are forced to hold subordinate roles. The more these opposing mechanisms are perceived as immutable – and therefore founded on biological reasons – the more they are I. Riflessione teorica
useful for keeping the status quo of the group stable. Let’s think about the case of Nazism for example. The birth and development of Nazism (Todorov, 1992; Bauman, 1992) went along with the cultural, political and legislative process which brought racial prejudices to the establishment. These were nourished by party propaganda as well as by the pseudo-scientific arguments supporting the existence of an Aryan race. As soon as the german people “ensured” their biological superiority by identifying the criteria with which to discriminate people who did not have the fortune of belonging to the superior race, the ethnic cleansing took place. At this point, on one hand it was possible to identify who did not belong to the superior race and therefore label them as “diverse”. On the other hand, people “on the right side” felt reassured and calm. Through the assumption that the “the diverse” is also biologically different, the fear of the possibility of becoming “like the other” vanishes, and prejudices help us to remove the fear of what is “diverse”. The psyche of the individual and of the community of individuals satisfies the need of securing and guarantying the conservation of its own species and own social group. Prejudices towards people with disabilities share many traits with racial and gender prejudices but have some distinctive features and properties which lead us to think of a different origin. While the “fear of diverse” plays an important role, the “need of securing the species” does not apply in the interrelation between able and disabled people. What is “other than oneself” – whose difference is underlined by this prejudice – is neither a danger nor a threat for people pointing out the diversity. It is unthinkable, for example, that the prejudice towards people with disabilities aims at securing a system of privileges or social differences like the evident case of racial or gender prejudices. People rejected because of their disabilities are not perceived as competitors by those who have the prejudice due to their innate frailty and weakness. This is not the case for racial and gender prejudices which are, on the other hand, a constitutive part of the cultural and ideological process through which the outcast “diverse” has to be perceived as weak to the eyes of stronger people, in order to underpin the actual or developing power system. In this case we have a mutual process: denial and aggressive behaviours which racial and gender prejudices are able to activate, are usually mutual. If we analyse the last purpose of prejudices towards disability we discover another difference but also a paradox. This prejudice aims at defending the frailty and weakness of those who do not have a disability. The drama of the frailty of human nature, which emerges excessively through those who have a disability, scares and causes distress to so called “healthy ones” because the sight of a disability tends to let us see a condition of all human beings which can generate terror and anxiety. Since the origin of this fear is not to be looked for in aggressive behaviours of excluded people – who are, on the contrary, usually annihilated by their own drama – but in the impact of their limits of people who look at them, prejudice functions reducing the open-mindedness of people. The impact would otherwise be very shocking, like the feeling of not being able to defend oneself from this diversity. According to gardou (2006, p.178), here lies “la nostra irrefrenabile angoscia di fronte al prossimo troppo diverso che sembra minacciare la nostra identità, e si perpetua il nostro bisogno di fare riferimento a un
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territorio fisico, immaginario e psichico fortemente delimitato, in cui regni la somiglianza.3” That’s probably the most substantial difference between this prejudice and any other prejudices: the diversity of people with disability looks dangerous because it cannot be relegated to the safe ground of biological differences; on the contrary, it is perceived as an inner threat to our own biology because limits and frailty are innate elements of every human being. The strong impact of diversity is devastating because it’s perceived as a threat of the self and therefore as inalienable to others. Deficit, deformity, amputations, syndromes, disturbances and insanity can occur in every human being in different ways - for genetic or innate reasons, through illness or traumatic events. No biology (even the strongest) is immune. The origin of prejudice towards people with disabilities can even threaten the logic on which other prejudices are based, invalidating their reasons completely. We said before that the purpose of racial and gender prejudices is to affirm biological superiority by any means, and relegate others in the safe ground of “what is totally different from ourselves” in order to help people having the prejudice, to feel safe. The origin of prejudice towards disabled people, on the contrary, reveals that this process is useless and demonstrates that it is not possible to relegate diversity inside a separate biology: A weak person is someone that does not recognize his/her own limits and therefore prefers to imagine that other people are weak. We have revealed in this way the origin of prejudice towards people with disabilities, that is the need of hiding to those who have the prejudice, the fact that the myth of omnipotence and the consequent effort of deleting from the own consciousness the existence of diversity and the awareness of having limits are inconsistent processes of our mind. Perhaps this is the reason why Nazism resulted in the elimination of disabled people within the german population (which, like every other people and nation, experienced the limit of the human condition) even before affirming its racial ideology. This particular feature of prejudice towards people with disabilities causes forces us into thinking an ontological origin because the limit is part of the being and essential to it, like the conscious, which is also made of limits. The prejudice aims at anaesthetizing the awareness of our limits in order to spare us the difficult task of finding some sense in it. Prejudices towards disability act within our conscious generating the illusion of being able to shift its limits outside of it, that is, on the other person – who is perceived as limited because they’re “different” by nature. Our own innate frailty is therefore hidden to our awareness. Overcoming prejudice involves an act of courage as well as a great awareness. This becomes even more difficult if the sense of omnipresence is deeply rooted, because it could turn into deconstructing the individual and, even more, the society.
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My translation: our unbreakable anxiety towards our different neighbour, who seems to threaten our identity. We therefore reveal even more of our need to have a physical, imaginary, psychic and well defined territory, where similarity rules.
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5. Different from whom? When prejudices and stereotypes creep into educational relationships
We have verified that prejudices and stereotypes turn the word “disability” into a concept used to include, in a defined circle, a “rejection” of humanity: “different people”. Prejudices and stereotypes, when they contribute to isolating people and preventing intelligent solutions to their problems, reinforce the idea of assistentialism, false compassion and dependency, which creates an obstacle to the building of a real culture of inclusion. We need to understand, says Larocca (1999, p. 17), that “la vergogna, il risentimento, la pietà, la compassione, non sono affatto criteri cognitivi, ma già costrutti mentali intrisi di componenti affettive … Imbarazzo e disgusto coprono la paura di riconoscersi frammento di fronte al frammento e inizia così, in modo sottile, l’atteggiamento deprezzante e di rifiuto4”. Prejudices and stereotypes, in some cases, can arise in people who must constantly deal with disabled people (for example at work), and can spoil their inner attitude. The inner attitude is “non sono azioni precise […] ma sono come l’al-di-qua dell’azione e costituiscono l’humus generativo che prepara l’azione” (Mortari, 2015, p. 115-116)5. When an inner attitude is spoiled by prejudice, even behaviours tend to be inadequate for an educational relationship, especially when the educator’s trust, hope and optimism (with respect to the possibility of recovery and development for the disabled student) are missing because of the prejudice. In an educational relationship, the intention of the educator and, in particular, his/her determination in pursuing a positive development for the student is fundamental. As proven by Rosenthal (1999), the intentional processes on the basis of educational action act as self-realizing prophecies. When the intentions and the looking of those who are supposed to educate students with disabilities – in particular minors or people with intellectual disabilities or particular fragile conditions – are limited by prejudices, the effects/results are often damaging. In these cases the risk that educators develop forms of induced dependency or impotency because of the disadvantages related to the condition of disability is very high. Different forms of prejudices can affect the relationship between educator and students with disabilities. The following are descriptions of the most common (Lascioli, 2011, pp. 33-36):
– The prejudice of the “almost man”. This definition refers to the work of Victor Hugo and his character Quasimodo, a man who was banned by the author to live in a defined place, separate from the common people because of his
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My translation: “shame, resentment, pity and compassion are not cognitive criteria but mental attitudes already filled with feelings. Embarrassment and disguise hide our fear of recognizing that we are fragments in front of other fragments. Here begins the depreciating and denying attitude.” My translation: “not a specific action […] but rather something beforehand which constitutes the fertile soil for the action.”
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deformed body. He watched the “normal” life of other people from the steeples of the cathedral of Notre Dame de Paris, but he could not take part in it because he was not a man like the others. Hugo gave his human essence a label, Quasimodo (quasi = almost), which basically describes what he is. The victims of this kind of prejudice tend to face disabled people with an inner attitude which unconsciously communicates to them their unchangeable status of inferiority and helplessness. – The prejudice of the eternal child. It is not easy to see the same growth and development potential between students with disabilities and their colleagues of the same age. This is the reason we feel justified when we stop (or don’t even begin) thinking of them as growing people, or people who will eventually become adults. The inner attitude of people (parents or others) who have an educational role, results from their perception of the disabled as an immutable person, who is only apparently developing and has no chance of becoming an adult. In this way we do not realize that every person, even if disabled, needs to be thought of as an adult in order to grow and to become older. Adulthood has to be trained since childhood because it is a way of being and a way of doing, which depends on the group of adults we are confronting and living with. For this reason, adulthood remains an unreachable goal for people who are not thought of as an adult. – The prejudice of the special identity. The appearance, difficulties and problems of the people with disabilities can cause those who take care of them to think that they are “special human beings”. In other words, human beings who belong to a different and special category. This is the reason why disabled people are sometimes viewed as if they are an ethnic group which needs to be protected and defended. The prejudice of special identity prevents the educator from understanding the continuum between his/her humanity and the humanity of the disabled person. If, within an educational relationship, the inner attitude of the educator is spoiled by this prejudice, the disabled person is not considered for his/her own normality, but only as a “special human being.” It is not always an advantage to be considered a special person. On the contrary! The stigma of “speciality” is something for which we risk being seen and perceived as “diverse”, even if the need for being perceived and viewed as others (that is, normally) is very big. The label of “special person”, in these cases, does not simplify interpersonal relationships. On the contrary, it ends up pushing away, isolating, marginalizing, and even rejecting people who have been – willingly or not – labelled as such6. – The egalitarian prejudice. We are not all equal, and it is absolutely not true that disabled people are equal to non-disabled people. What is real is that we are all different and that a disabled person has needs that – if ignored or
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According to the Labelling Theory (Becker, 1963), by labelling a person we trigger a process, which is able to transform the person and influence his/her own perception. A negative connoted label can have very negative consequences for the labelled person. In these cases mistrust and stigmatization arise inducing the labelled person to revise his/her own perception, isolate and feel socially excluded.
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minimized – can lead to a violation of the dignity and rights of those people who are forced to live with some limitations that other people do not have. The inner attitude of people who look at the disabled without embracing and internalizing their limits can hardly be helpful. Embracing the limits of others also means embracing our own personal limits. Looking at the limits of the person in front of us becomes harder every time we spot our own limits through theirs. We can overcome shared difficulties by embracing and internalizing the shared frailty characterized by every human being. Being aware of said limits is useful in identifying the features of our own limits, as well as those of others. Only in this way is it possible to be competent and efficient, because all limits are not identical and some of them require the analysis of complex solutions to be managed in the right way. More damaging in these cases, is the incapacity to distinguish them. – The prejudice of the syndrome. Under a psychological point of view, labelling a problem or a person whose presence and traits are difficult to understand confers a sense of security. Identifying and trapping diversity into a category gives us the impression of better understanding what is in front of us. However, things are different from what they appear. The direct experience of many teachers and educators demonstrates that you can find the same character, personality and life story amongst people who have the same syndrome or impairment like you can amongst those who do not. Assuming that by knowing the features of a certain syndrome or a certain impairment you also know the features of the person affected by said syndrome or impairment is also a prejudice.
6. Overcoming the logic of rejection to free the looking and favour inclusion
Balthasar (1990, p. XXIII) writes that “ogni frammento di un pezzo di ceramica suggerisce la totalità del vaso, ogni torso di marmo è visto nella luce dell’intera statua.7” People sometimes look like fragments too: illness, deficits and malformations have the power of drastically modifying life and reducing and changing forms, expressions and possibilities. However, it does not mean that life loses its value as a whole. Even if life becomes a fragment, the value and dignity of the fragmented person are always offered and received as a whole unit. If a lonely potsherd houses in itself the whole it belongs to, so a fragment of life shields the entire value and dignity of the human being as such. Inside every fragment of humanity, even if it is even more fragmented by illness or deficit, we find the splendour of life and of people, which can and must become the identity. Larocca (1999, p. 55) observes that “l’ipotesi, la nuova terra promessa, da perseguire è quella dell’integrazione, che significa insieme attenzione agli aspetti affettivo-
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My translation: every potsherd suggests the totality of a pottery vase, every marble torso is perceived as a part of an entire statue.
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emotivi di questi soggetti e attenzione a non considerarli scarti d’umanità, bensì frammenti né più né meno qual siamo tutti8”. The risk of feeling like a fragment is not a problem affecting only disabled people, but one which is affecting everyone: there is always a part of us that risks being rejected and needs to be recovered for the sake of a greater authenticity. Acting to favour the inclusion of people who are considered “a waste” is the best way to promote inclusion of every fragment of humanity. Freeing the looking means decrying every symbolic system (the culture of rejection) which rejects and therefore disintegrates and fragments everything that appears weak, fragile, limited and for such reasons, useless to humanity. Prejudice demonstrates being useful only for those cultures that hide their real nature from people. That is a nature made of limits. Since the people with disabilities show more explicitly that they are made of limits (because they cannot hide their frailty), their life is rejected and stigmatized. The logic beyond the culture of rejection transforms disability into a dump of special garbage full of heavy and unsustainable limits which threatens the apparent “normality” of abled people. For this reason, the lives of people with disabilities are considered special, even when the desire to be normal is very strong. When we speak about social inclusion, we need to be careful not to fall into this cultural “trap.” The only authentic social inclusion of people who have disabilities, is not a legal or social fight which aims at recognizing their being special, but a cultural fight through the individual and collective awareness that the limit - and disability with it - is a part of everyone’s life and, as such, it cannot be rejected. We need social changes in order to build a society which guarantees a quality of life to those people who have to live with biological, social or personal limits. Life is always life, and as such, it is always worth living, even when there are some limits. Facing disability or being individually or socially responsible for these problems are privileged ways to reach this goal.
7. Recovering the value of limits in Education
Inclusion is a word that needs to receive a new definition as well as a broader meaning. According to Larocca (1999, p. 16), “fenomenicamente, s’è detto, il frammento è uno scarto, un resto, uno scampolo da svendere al miglior offerente nella logica mercantile. Ma civiltà e cultura agiscono sul piano del simbolico e l’equivalenza operante fra handicap e fenomeno frammento è un’equivalenza diabolica. Se simbolizzare è un gettare insieme, il dia-bolizzare è un gettare lontano, via, un dis-perdere. Ma cosa perdono la cultura e la civiltà disinteressandosi dell’handicap, del disabile, del “frammento d’umanità”? E cosa si guadagnerebbe invece nel sim-bolizzare e meta-bolizzare, digerire, far propri questi frammenti?” 8
My translation: the hypothesis (the land of promise) we need to pursue is integration, which means caring about the emotions and feelings of these people, treating them as the same fragments we all are, and not as a waste of human life.
I. Riflessione teorica
Metabolizing would be possible only after freeing our minds from the trammels of prejudice. Inclusion would therefore mean providing ourselves the access to the need for ulteriority, which everyone has but is particularly strong in people who are partially or totally affected by limits. People affected by disabilities help us to see the prospective of a new humanity beyond the limit. We find this same perspective also in the Bible (Mt. 21, 42-43) where “a stone rejected by builders becomes a “cornerstone”. The ethical value of this assessment forces us to abandon any “logic of rejection” and invite us to open our minds to a new prospective: there is a value in rejection which must absolutely be recovered because it contains still unexploited potentials of progress and development for all of humanity. This is why we need to recover the value of limit for Education. The word “limit” has a broad, semantic field: border, barrier, last resort, extreme line and so on. Let’s think about the difference between limiting (from Latin limitarem) and eliminating (from Latin liminarem). We have to do with different but complementary ideas. On one side, Limes, which in Latin means “border line” and - through metonymy – “fortified front line” (for example the Roman Limes was a big fortification controlled by soldiers); on the other side, Limen, which means threshold (doorstep), entrance. Education must re-find the rich semantic value of the word “limit” by including the following meanings: limit as “border” (identity border, something that defines, that helps us – even by limiting – to understand ourselves and that confers us – even by blocking – a specific form), limit as “threshold” (as a possible access to what is beyond, but also as a threshold of respect) and limit as “entrance” (as a way of meeting what we find on and inside the limit). Overcoming prejudice towards disability means regaining the value of limit as constitutive and not as reducing part of the human essence. In order to succeed, we need to learn to “think differently”, first about ourselves and our own limits, then to find the way we all have to change and improve (through and despite our limits). Thinking about the value of limit in disability opens our minds to some considerations:
1. The value of the visibility of limit. Many people don’t even look at disabled people. However, being able to look at them is the first step to meeting the human limit and beginning to “think more”! 2. The value of a question that requires intelligent answers. When we are able to look at the limits of human beings, new questions about us and others arise. This could be a good beginning: “What are an autistic, an intellectually disabled person and a paralytic in a wheelchair doing here with us?”, “How can their life have a meaning?”, and so on. 3. The value of a “different” meeting from a usual one. Once we have overcome previous levels, we might want to meet disabled people more deeply. This is possible in different ways, for example by looking instead of seeing, by waving, and then again by a first contact, a conversation and a friendship. 4. The value of experimenting a “different” way of living. There are people who have succeeded in overcoming the embarrassment of “seeing”, looking, waving back and starting a conversation with a disabled person and they are now making efforts in order to live their own limits and the limits of others consciously. Meeting our (or other people’s) limits can change our lives and open anno IV | n. 2 | 2016
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our minds (this is the biggest value of school and social integration for people affected by disabilities). Young people especially can perceive this meeting as an opportunity to reflect on the importance of “living authentically.” From these limits (when this becomes an object of thought and reflexion, and therefore metabolization) we can find new meaning in our lives. This would be particularly helpful for young people who have to face the frustration which derives from the efforts they make to correspond to the imposed models of beauty and intellectual efficiency. Since they lack resources to face this imposition and frustration, they get tired, lose their self-esteem, strive to live relationships in an authentic way and are afraid of the future. By caring about people with limits, young people can learn to care about themselves in a deeper and authentic way.
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On another level, there is the relationship between disabled students and their teachers, in other words between disability and school education. Teachers might live, like Kierkegaard says, inside an “aesthetic self”, which is the idea that their own culture is the place where they can feel beautiful, successful and intelligent. By getting in touch with the problem of limits, we can escape, decide to stay, understand and open our own mental limits and identify “the added value” of this presence. When we meet our own (or other people’s) limit, even culture fails to be a mere aesthetic production. Culture becomes a service and a sacrifice, which means that we feel the duty of trying to find possible solutions to avoid the hegemony of the logic of rejection. This implies a big step forward in the way we understand both the knowledge and our own profession. The presence of a disabled person in schools can really become an opportunity for teachers - and for education in general - to start to “think more” and to “think differently”. This process can change the way in which lessons are arranged the way human relationships are perceived, how much culture is valued and what education actually means!
8. To conclude: Homo sum, humani nihil a me alienum puto 9
In the last forty / fifty years, a remarkable progress has been achieved both in respect and recognition of the rights of persons with disabilities (see, for example, the United Nations Convention on the Rights of Persons with Disabilities, 2006) may lead to the conclusion that also the problem of prejudice against them has now faded away, at least in the clear and unbearable forms. However, the prejudice, at least in its more subtle forms, but no less insidious, not only it has remained but it is resurfacing in the increasingly widespread belief that those with disabilities are in some ways inferior to others (Deal, 2007, pp. 93-107). Also on the research field there is still much to do. Despite the large number of studies 9
“I am a human being and I think that nothing that belongs to human beings can be foreign to me” Publio Terenzio Afro, Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso), I,1, 25, 165 a.C.
I. Riflessione teorica
regarding disabilities, the problem is still not completely solved and in the same ways the real causes that knocks down prejudices (Paluck e green, 2009, pp. 339-267), including those against people with disabilities. From an educational point of view, the value of inclusion comes out today with strength, especially in schools of all levels, because it was understood that only by the ability to live among people and respect the differences we can have a future civilization. And what, more than anything else, may prevent the realization of this project are precisely the limits of thought (Ainscow, 2005, pp. 109-124). All this represents a great challenge for future. The ability to materially, psychologically and spiritually recover and reintegrate “the rejected” represents an evolutionary perspective for society, especially if the object whose rejection is prevented is a human being. By learning to care about rejected people - especially when they are weak - we earn for ourselves (and for society) a consistent value because we strengthen and expand the value and the meaning of human existence. A change in this direction means increasing the social capital of an entire population. Overcoming prejudice about disability means becoming personally and socially aware that nothing which is human can become an object of the human being’s rejection: Homines sumus, humani nihil a nobis alienum putamus!
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I. Riflessione teorica
Il docente specializzato di sostegno: problemi e prospettive in ottica inclusiva
Key-words: training, inclusion, special aid teacher, special education, epistemology
I. Riflessione teorica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
anno IV | n. 2 | 2016
Š Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
This article analyses the new role of specialized teacher towards children with special needs, in Italian inclusive school. Inclusion implies a (epistemological) redefinition of the concept of education for all specialized teachers and not, to take in and recognize the needs of students with special needs. Inclusive school, by needing to have the revolutionary structuring of institutional framework, launches a challenge, especially to the traditional role played by the teaching assistant who has to strengthen his/her knowledge and skills, however, without becoming an hyper-specialist. The current scientific debate leads to the evolution of the professional identikit of a teaching assistant who has reached a crossroad marked by antithetical, problematic, in progress, solutions. In this context it is important to reflect on the epistemological status of special education to underline the specific role of mediator-agent of change teaching assistant, to support differences and diversities, fairly and democratically.
abstract
Patrizia Gaspari / UniversitĂ degli studi di Urbino / patrizia.gaspari@uniurb.it
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1. La formazione del docente specializzato: un’occasione per “rileggere” la Pedagogia speciale
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Le riflessioni teorico-pratiche sulla Pedagogia speciale, disciplina sempre in fieri ed in costante dialettica con le altre scienze dell’educazione e non, in riferimento alle prioritarie questioni epistemologiche ribadiscono l’intimo legame di interdipendenza esistente tra la formazione delle competenze dei professionisti della cura educativa e dell’aiuto e la Pedagogia speciale stessa declinata come scienza della complessità e della diversità, il cui sguardo educativo è attualmente orientato in prospettiva inclusiva. L’incontro con il variegato scenario formativo caratterizzato da nuove emergenze educative e “bisogni educativi speciali”, comprendenti anche le situazioni di disabilità, implica l’adozione del paradigma della complessità per garantire una formazione connotata di competenze umane, culturali, metodologico-didattiche, gestionali ed organizzative ad elevato pluralismo, in cui il bagaglio formativo dell’insegnante specializzato si presenta come “abito complesso” che non può prescindere dalla valorizzazione di un reticolo dinamico di competenze, abilità e conoscenze integrate, poste a base e a fondamento della poliedricità e della polivalenza dell’agire professionale. La convivenza a scuola di alunni eterogenei, con disabilità, con “BES”, etc., implica una innovativa organizzazione-ristrutturazione dell’intera impalcatura didattica e dei tradizionali modi di “fare scuola”. La formazione del futuro docente specializzato, se ragioniamo con la cultura dell’inclusione, non può non assumere una natura autoformativa ed auto-trasformativa perché il “rinnovato” docente specializzato deve essere in grado di accettare la sfida della complessità dell’esistente, allo scopo di promuovere sempre nuove capacitazioni (Sen, 1985; Biggeri, Bellanca, 2010; Nussbaum, 2014), possibilità e competenze in progress nell’ottica della dialettica costruttivistica. La Pedagogia speciale proiettata nella direzione dell’educazione inclusiva, è tenuta a compiere equilibrate operazioni di sintesi interdisciplinare per individuare comuni territori di incontro in cui, anche gli elementi di contraddittorietà e/o di conflitto provocati dal dialogo con le scienze mediche, psicologiche, sociologiche, antropologiche, etc., vengono rivisitati e sinergicamente “tradotti” in ipotesi, metodi e scelte interpretative di natura squisitamente educativa e pedagogico-didattica allo scopo di progettare funzionali soluzioni, a servizio di “vecchie” e “nuove” categorie di differenze e diversità. Da tale angolazione prospettica il bisogno di rileggere lo statuto epistemologico della Pedagogia speciale ha il merito, se non altro, di rompere limitanti schematismi culturali, obsoleti processi di classificazione-categorizzazione, pregiudizi e dogmatici riduzionismi per orientare la ricerca verso l’apertura e la valorizzazione di ogni persona, indipendentemente dal suo “status”. «Stare al reale della condizione umana significa saper adottare un’epistemologia della contingenza, cioè una teoria dei modi di cercare una conoscenza solida che accetta la precarietà del sapere, e insieme ad essa un’etica della fragilità, che consiste nell’imparare a rendere porosa ogni nostra convinzione, pronta a frantumarsi sotto l’urto di uno sguardo costitutivamente critico [...]» (Mortari, 2013, p. 90). La questione formativa implica attente riflessioni epistemologiche per evitare il rischio di chiudere il discorso nella settorialità delle competenze specialistiche, spesso reputate “miracolose”, per “normalizzare” le categorie di diversità o per colmare preocI. Riflessione teorica
cupanti situazioni in cui è oggettivamente palese la mancanza o l’inadeguatezza di una solida cultura formativa, necessario requisito per i professionisti della cura e dell’aiuto, specie se si pensa all’attuale dibattito sull’evoluzione del ruolo svolto dall’insegnante specializzato-a di sostegno. La Pedagogia speciale non può prescindere dal tenere in debita considerazione le conoscenze, le politiche, le strategie e le buone prassi inclusive da realizzare dopo attenta “lettura” dei bisogni educativi “speciali” e non, emergenti dall’attuale panorama scolastico e sociale per assolvere pienamente alla “riduzione dell’handicap” (Canevaro, 1999) e sconfiggere logiche di contenimento, assistenzialismo e di micro e macro esclusioni ed emarginazioni di alunni con “bisogni educativi speciali”. Se i vocaboli deficit, disabilità, handicap, etc., pongono l’attenzione su ciò che manca o non funziona normalmente nel soggetto, i termini più recenti, bisogni educativi speciali e diversabilità, più idonei secondo le prospettive inclusive, hanno provocato un vero cambiamento di rotta, il riconoscimento in positivo delle diversità, adottando uno sguardo interpretativo centrato sulle abilità, sulle capacità e potenzialità di ogni alunno, integralmente inteso, con limiti e risorse, superando le omologanti prospettive riduzionistiche degli approcci iperspecialistici di natura riabilitativa. La Pedagogia speciale si impegna a promuovere la valorizzazione dell’unicità-diversità di ogni individuo superando la logica della de-finizione metafisica universale, rivolgendosi al “chi è” il soggetto “diverso”, disabile o con “BES” (Zappaterra, 2010; Ianes, Cramerotti, 2013; Gaspari, 2014; Goussot, 2015; Pavone, 2015), prestando attenzione alle storie reali, contingenti, singolari. Si tratta, quindi, di attivare processi di distinzione-differenziazione in teatri-sfondi interattivi capaci di riconoscere e di legittimare la pluralità e la diversità di esseri unici, “speciali”, caratterizzanti l’umana condizione senza dimenticare la coerenza e il rigore scientifico delle strutture connettive di riferimento epistemologico e metodologico-didattico allo scopo di evitare fenomeni di genericità, frammentazione, settorialismo e malcelati approcci di natura psicologico-medicalistica. Fino a pochi anni fa, la Pedagogia speciale ha riservato un’attenzione privilegiata all’universo delle diversità riguardanti le situazioni di deficit e di handicap, senza peraltro confonderle tra loro, focalizzando la riflessione-azione sui processi d’integrazione scolastica e sociale delle persone con disabilità. «Tuttavia, in questo scorcio di secolo, dobbiamo riconoscere una sua evoluzione nella direzione di un ampliamento della popolazione dei soggetti di riferimento: accanto al deficit trovano sempre maggiore considerazione le “necessità educative speciali” […] Anche la pratica quotidiana di uno sguardo più selettivo agli studenti problematici ha favorito la consapevolezza che la classe è un vivaio di diversità, fra le quali figurano alcune fragilità oltre a quelle dei cosiddetti “handicappati”: per esempio gli allievi con difficoltà di apprendimento, di attenzione, emozionali, di comportamento, o in condizioni di disagio socioeconomico e/o ambientale» (Pavone, 2010, p. 17). L’OECD (Organisation for Economic Co-Operation and Development) identifica questa popolazione eterogenea come l’insieme di quei soggetti che richiede risorse pubbliche e/o private a supporto della loro educazione, resa possibile progettando interventi educativo-didattici potenziati, differenziati e personalizzati, capaci di garantire percorsi formativi sotto il segno delle pari opportunità. La quaestio della formazione intesa in ottica evolutiva (Frabboni, 2013), relativa al ruolo e alle competenze del docente specializzato implica oculate riflessioni e rigorose direzioni di anno IV | n. 2 | 2016
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senso da adottare per individuare innovative politiche inclusive, rinnovati strumenti descrittivo-valutativi e funzionali strategie didattico-organizzative all’interno dei micro e macro contesti sociali e culturali. Il “focus” dell’attenzione è rivolto alla espansione delle capacità personali di ogni soggetto all’interno delle dinamiche di apprendimento, di relazione e di comunicazione, affinché goda di pieni diritti di cittadinanza attiva, partecipazione e comune appartenenza, nell’ottica di una migliore qualità della vita. ridisegnare le fondamenta epistemologiche della Pedagogia speciale significa incontrare, in modo critico, le tematiche della formazione, dell’educabilità, del riconoscimento delle persone con “bisogni educativi speciali”, delle nuove emergenze educative, dei modelli di interpretazione e di azione, dell’inclusione scolastica e sociale, etc., considerati come ambiti essenziali di ricerca e di studio (Crispiani, 2012; Gaspari, 2012).
2. La mediazione educativa contro i rischi del riduzionismo medicalistico
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Nel delinearsi di uno scenario epistemologico “problemico” e multidimensionale aperto al dialogo ed al confronto con le altre scienze, foriero di nuove conquiste e di occasioni di reciproco arricchimento culturale e formativo occorre evitare il rischio di promuovere interrelazioni dialettiche sbilanciate, iperspecialistiche caratterizzate da processi di subordinazione o di impoverimento epistemologico, pena la perdita di un definito territorio di indagine e di ricerca della Pedagogia speciale con relativa “spersonalizzazione” dell’habitus professionale dell’insegnante specializzato-a di sostegno (Ianes, 2016). Frequentemente nel campo della ricerca, le indagini e gli studi realizzati per rispondere più efficacemente alle esigenze del soggetto diversamente abile, richiamano strette collaborazioni interdisciplinari tra i linguaggi della Medicina, della Pedagogia speciale, della Pedagogia generale, della Psicologia, etc., allo scopo di allargare gli orizzonti e di offrire uno sguardo attento a focalizzare «la risposta ai bisogni là dove si trovano e non la risposta ai bisogni raggruppati per categorie» (Caldin, 2001). La persona con disabilità non abbisogna soltanto di terapie riabilitative, ma necessita di funzionali percorsi educativo-didattici e di interventi di cura educativa da parte del docente specializzato sempre più riconosciuto come esperto delle mediazioni e delle negoziazioni per garantire la concretizzazione dell’inclusione stessa. L’insegnante specializzato riconosce i bisogni formativi dell’intera classe a partire dalla presa in carico competente delle esigenze degli alunni diversamente abili: non è un tecnico della riabilitazione, né un terapeuta da chiamare in causa per risolvere le difficoltà più gravi degli alunni con specifiche tipologie di deficit in modo individuale e separato rispetto ai docenti curricolari, alla risorsa-coetanei, alle famiglie e agli esperti del territorio. I frequenti processi di delega (Canevaro, 2006) sembrano apparentemente richiamare il bisogno di ricorrere a docenti sempre più “specializzati” con il rischio di perdere di vista la direzione di senso di una rinnovata professionalità in cui la macro-competenza del docente di sostegno (de Anna, Gaspari, Mura, 2015) emerge nella prospettiva eco-sistemica di mediazione, negoziazione e coordinamento delle risorse esistenti.
I. Riflessione teorica
«La scuola inclusiva implica l’adozione di una visione ecologico-sistemica ed olistico dinamica e di negoziazione delle conoscenze e delle competenze speciali e non, in cui è necessario potenziare in tutti i docenti, nel rispetto delle personali specificità”, la formazione di base ed aggiuntiva sui temi dell’inclusione e dei “bisogni educativi speciali” in cui emerga il fondamentale ruolo svolto dal contesto accogliente ed inclusivo capace di generare competenze ricorsive e diffuse, oltrepassando i limiti degli specialismi medicalistici» (Gaspari, 2015, p. 61).
Il rinnovato bagaglio formativo del docente specializzato, con il conseguente potenziamento delle competenze speciali e non specialistiche, caratterizza un nuovo profilo professionale del docente di sostegno impegnato a superare i limiti del proprio sapere e a confrontarsi con la realtà complessa ed in continuo divenire all’interno della quale è attento a costruire e a ri-costruire, rinnovando le personali riflessioni teoriche e la pluralità degli strumenti e delle strategie operative, la ri-progettazione delle altrui esistenze. In tal senso è necessario ridurre ogni logica di “trattamento specialistico emarginante” sottolineando la necessità di adottare interventi educativo-didattici declinati nella direzione della cura educativa (Gaspari, 2002; Franchini, 2007; Palmieri, 2011) e dell’aiuto (Canevaro, Chieregatti, 1999b) per condurre ogni alunno in condizioni di svantaggio, “bes” ed “handicap” ad abitare il mondo, a ri-conoscersi soggetto di diritti all’interno della comunità di appartenenza, al di là di ogni e di qualsiasi condizione “speciale”, particolare. Le scienze dell’educazione tutte ed, in primis, le Pedagogie e le Didattiche speciali rappresentano le travi portanti e caratterizzanti in modo “forte” gli itinerari formativi dei docenti specializzati in ottica inclusiva, in quanto costituiscono il “cuore” professionale dell’intero corpo docente chiamato ad educare gli alunni con “bes” all’interno del contesto classe. «L’inclusione è eterogeneità. [...] riconosciamo l’eterogeneità umana come condizione naturale della società e delle persone in cui nessuna diagnosi e certificazione o stigma sociale risponde al riconoscimento dell’originalità ed unicità di ogni singola persona, che non è una sommatoria di performance e di sintomi, ma qualcosa di più, qualcosa di diverso perché siamo tutti orgogliosamente imperfetti e tra noi diversi. [...] Didattica, terapia, tecniche non sono sinonimi, non vanno contrapposti ma neppure confusi. Non ci piace né la pedagogia della chiacchiera né la tecnica come mito miracolistico. Le contraddizioni tra una confusa inclusione e i rischi di medicalizzazione vanno con coraggio affrontati anche con un dibattito epistemologico, scientifico e culturale tra tutti i professionisti che si occupano di umanità» (Ianes, 2015b).
Il docente specializzato di sostegno, nelle sue auspicabili evoluzioni in termini di ruolo, funzioni e competenze, sempre più orientate verso l’inclusione, per agire contro i dilaganti processi di medicalizzazione e psicologizzazione, non può commettere l’errore di definire, classificare, chiudere in tipologie o in trappole riduzionistiche le diversità, concepite nella loro globalità. In questa direzione M. Pavone riflette sul rischio che l’intervento medico tenda ad acquisire un posto e un peso sempre più consistenti all’interno degli itinerari pedagogico-didattici personalizzati. Sulla stessa linea di effettiva preoccupazione si pone anche A. Goussot nelle sue ricerche in cui invita a: anno IV | n. 2 | 2016
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«non confondere osservazione pedagogica o psicopedagogica con osservazione diagnostico-clinica; non trasformare gli insegnanti in operatori della diagnosi clinica e gli alunni in potenziali portatori di disturbi e di “comportamenti problema”. Lo sguardo pedagogico deve rilevare le potenzialità, senza ignorare le difficoltà e i problemi, e non andare a caccia di sintomi e disturbi. Esiste anche un altro rischio pericoloso in questo senso a proposito dei DSA e dei fenomeni complessi e non ben definiti anche sul piano diagnostico, come l’ADHD [...]: semplificare e medicalizzare i comportamenti che non capiamo e che non riusciamo a gestire sul piano educativo e didattico» (Goussot, 2014a, p. 162).
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Siamo senz’altro convinti dell’utilità di consolidare e di intensificare gli spazi di collaborazione dialogica, paritaria, tra scuola e sanità, per condividere conoscenze ed interventi finalizzati al progetto formativo ed esistenziale rivolto agli alunni vulnerabili. «Ciò che va evitato è la ricerca della diagnosi a tutti i costi, per giustificare la mobilitazione di “attenzioni” calibrate sul singolo studente» (Pavone, 2013, p. 103), attenzione che dovrebbe già esistere nelle ordinarie, quotidiane prassi educativo-didattiche di natura inclusiva (D’Alessio, 2011). Come indicano l’ICF e l’Index for Inclusion (Booth, Ainscow, 2014) la via principale da seguire per raggiungere il traguardo dell’inclusione è l’educazione e non la medicalizzazione anche se nel corso del tempo, la dialettica sempre esistita tra Pedagogia speciale e Medicina ha dimostrato la necessità di attivare processi di complementarietà sinergica, nel rispetto delle specifiche caratteristiche delle rispettive scienze evitando i rischi di possibili confusioni e “sottomissioni”. La Pedagogia speciale si è storicamente trovata a gestire in modo subordinato teorie “pseudo-scientifiche” provenienti dalle scienze mediche in cui il pericolo di confondere la specializzazione con lo specialismo è sempre stato elevato. La nostra disciplina è una scienza erroneamente ritenuta «a statuto epistemologico debole perché non retta da precise delimitazioni di territorio, come accade, invece, per la Medicina o per la Psicologia di stampo cognitivistico. La nostra è una disciplina di confine e, nello stesso tempo, più ricca e complessa, ma anche più soggetta alla svalutazione degli “addetti ai lavori” tradizionali. [...] Sono, invece, propri gli aspetti che sembrano evidenziarne la debolezza […] a poter essere interpretati come un suo punto di forza» (Galanti, 2012, p. 191).
Il paradigma della complessità interconnesso con le categorie della differenza e della diversità, riporta la riflessione sul versante dell’umana soggettività intesa come baluardo di difesa contro i rischi della omologante globalizzazione, delle logiche consumistiche, delle esasperazioni di natura tecnologico-informatica ed, in primis, dei fenomeni d’intolleranza e di discriminazione sociale e culturale. Per favorire buone pratiche inclusive è necessario individuare processi di analisi, di progettazione e di verifica capaci di valorizzare i percorsi esistenziali, i vissuti individuali, le dinamiche affettivo-relazionali, l’implicito delle esperienze personali delle persone disabili per evitare il rischio di fissare la diversità nella staticità-immutabilità del deficit e, soprattutto, per ridurre il dilagante processo di categorizzazione psico-medicalistica nella precoce individuazione dei “bisogni educativi speciali” e degli alunni con “DSA”. In tale prospettiva si delinea la natura sistemica
I. Riflessione teorica
dello statuto epistemologico della Pedagogia speciale in cui la riflessione teoretica interagisce con i contesti in modo complesso, utilizzando una pluralità di modelli, delineando processi e relazioni, regole scritte e non scritte, vincoli e possibilità. Compito dei docenti specializzati di sostegno e dell’intero corpo docente, oggi, è di promuovere una cultura inclusiva capace di superare gli stereotipi, i pregiudizi ed i processi di categorizzazione e di stigmatizzazione delle differenze-diversità tutte, oltrepassando i limiti posti dall’utilizzazione dominante dello sguardo clinico diagnostico e terapeutico (Goussot, 2015b). A tale scopo diviene di fondamentale importanza per il futuro docente specializzato in ottica inclusiva, assumere una prospettiva ecologico-sistemica, olistico-dinamica e globale di tutti e ciascuno alunno per non perdersi nella singolarità e nella frammentazione specialistica delle molteplici sfaccettature esistenti adottando un paradigma interpretativo aperto e pluralistico capace di individuare mediazioni e convergenze, rapporti di complementarietà, comuni orientamenti formativi e costruttive dialettiche trasversali. La prospettiva connessa all’agire professionale del docente specializzato e degli altri docenti “inclusivi”, declinata sul versante della cura educativa e dell’aiuto e finalizzata alla progettazione della didattica inclusiva delle diversità, non può assumere come fondamento dei possibili percorsi formativi logiche di separazione, di isolamento, di non condivisione delle esperienze formative: la specialità degli interventi educativi organizzati per la persona diversamente abile e non solo deve essere frutto dell’integrazione d’una pluralità di aspetti, saperi e competenze per coniugarsi con visioni multifattoriali, pluriprospettiche, modulari e pluridisciplinari. Le imperanti logiche riduzionistiche, di natura medicalistica e/o psicologistica, “banalizzano” il paradigma della diversità e la sua valenza in ambito educativo generando fenomeni di frammentazione e disorientamento nel più vasto orizzonte formativo. La persona con deficit, o in situazione di handicap, o con “BES”, non va etichettata nella categoria dell’anormalità, ma rappresenta un sistema vivente che ha modificato le personali capacità adattative elaborando nuovi codici comportamentali, relazionali, valoriali e culturali nei micro e macro contesti di vita. r. Medeghini ricorda che «abilismo, adattamento, compensazione, normalizzazione formano il vocabolario effettivo dei processi di inserimento e di integrazione che si trovano associati anche a quelli di bisogno, come riferimento ad un problema individuale e di risorsa come strumento di compensazione […]. Diversamente dall’inserimento e dall’integrazione, l’inclusione si rivolge alle differenze non come deficit “bisogno” o “bisogni diversi” conseguenti ad una norma e derivanti da una mancanza […], ma come modi personali di porsi nelle relazioni. Di conseguenza, nel paradigma dell’inclusione non si assumono i concetti di abilismo, di adattamento-normalizzazione in un insieme di norme e codici comportamentali stabiliti a priori, ma si sposta l’attenzione sulle barriere come fattore causale della disabilità e non come semplice ostacolo» (Medeghini, 2013, p. 97).
L’analisi delle terminologie, l’esplicitazione delle direzioni semantiche, il dibattito sull’evoluzione dell’insegnante specializzato, i rischi delle categorizzazioni e dei riduzionismi teorici, con le conseguenti ricadute in ambito operativo, implicano attente riletture epistemologiche non solo sul ruolo, sulla formazione e sulle competenze del docente specializzato, ma sulle direzioni di senso che la Peanno IV | n. 2 | 2016
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dagogia e la Didattica speciale stesse devono assumere per legittimare, a pieno titolo, la cultura dell’inclusione di differenze e diversità.
3. Il docente specializzato come agente di cambiamento: il dibattito in corso
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Gli itinerari formativi del nuovo docente specializzato prevedono l’acquisizione di conoscenze e competenze di natura complessa (Pavone, 2016), dinamica ed evolutiva in cui i modelli teorici e le buone prassi sono in costante ridefinizione, in virtù della flessibilità che gli alunni con “bisogni educativi speciali” e non, richiedono. Da tale angolazione prospettica non è ipotizzabile sostenere un modello univoco, omologante, definitivo e definitorio di formazione delle competenze del docente specializzato/a in quanto la “lettura” della realtà esistente è in rapida trasformazione. La questione della formazione, quindi, va nuovamente indagata per rileggere l’ “identikit” professionale del docente specializzato collocato all’interno dell’autentica cultura inclusiva e manifesta alcuni nodi dilemmatici da affrontare e risolvere per non cadere in evidenti contraddizioni di natura antinomica. A mio modesto parere diviene di fondamentale importanza tentare di fornire una puntuale risposta ad un interrogativo frequentemente sollevato dagli addetti ai lavori: i paradigmi culturali ed educativo-didattici sottesi ai percorsi di formazione (in fase di ristrutturazione) si orientano verso una direzione sempre più sbilanciata, di settoriale specialismo, in cui le conoscenze e le competenze non hanno un valore diffuso come richiesto dalla prospettiva inclusiva, oppure è improcrastinabile riaffermare la necessità di legittimare visioni epistemologiche comunemente concertate, di interdipendenza semantico-educativo-sociale oltre che strategica, per garantire ad ogni persona pieno diritto di cittadinanza attiva, appartenenza ed autentica partecipazione? La risposta (scontata!) scaturisce dalla necessità di riproblematizzare (Baldacci, 2014) in modo critico i saperi, le teorie, le competenze, le pratiche inclusive e i modelli didattici e la stessa idea di inclusione per evitare i rischi dello schematismo riduzionistico e, soprattutto, la dannosa chiusura presente nella ricerca di soluzioni settoriali ed iperspecialistiche, quando aumentano i processi di medicalizzazione e psicologizzazione delle conoscenze e delle competenze, come recentemente si è verificato, nell’accogliere gli alunni con “BES” e “DSA”. L’attuale dibattito sui percorsi formativi del docente specializzato rappresenta un’occasione epistemologica (e non solo) di notevole importanza che induce a ricercare sempre e comunque un dialogo democratico alla pari, a più voci, privo di logiche dominanti e di visioni parziali tra discipline, linguaggi, professionisti della cura e dell’aiuto, modelli di ricerca e dimensione metodologico-didattica, allo scopo di favorire lo sviluppo di mediazioni e negoziazioni significative, prospettive ecosistemiche in grado di migliorare la formazione dei docenti specializzati e non, intesa come autentica costruzione evolutiva, permanentemente in fieri. Da tale angolazione prospettica la qualità dei percorsi di formazione deve essere garantita a tutti i docenti nell’ottica del lifelong learning (UE, 2010; EADSNE, 2012), perché l’inclusione delle differenze non può riduttivamente risolversi nello specifico ruolo svolto dall’insegnante specializzato: il “sostegno” si fa alla classe, alla scuola non I. Riflessione teorica
al singolo alunno, ma all’intera comunità (Canevaro, 2002, 2004; Scataglini, 2012; Goussot, 2014; Ianes 2014a; de Anna, Gaspari, Mura, 2015; Gaspari, 2015). L’equazione docente specializzato uguale alunno con “bisogni educativi speciali”, uguale adozione di metodi e criteri speciali-specialistici, pone importanti interrogativi e rivela tutta la sua fragilità se si intende promuovere l’autentica cultura dell’inclusione, che non si accontenta di aggiustamenti e modifiche parziali dell’esistente o della retorica pseudo inclusiva, ma implica la rivoluzione copernicana dei tradizionali modi di “fare” scuola, per giungere ad un contesto formativo realmente inclusivo in cui l’equità formativa, la giustizia sociale, i diritti di cittadinanza e di appartenenza di tutti gli alunni ed anche dell’intero corpo docente, non si risolvano in mero filosofeggiare. Se la comunità scolastica deve avere, come recentemente affermato da Faraone, le “porte aperte” per tutti preparandosi in modo specifico ad accogliere i ragazzi realizzando la “naturalezza” dell’inclusione col potenziamento di competenze ed abilità dell’insegnante di sostegno nella direzione delle differenti tipologie di disabilità, diventa superfluo o comunque paradossalmente difficile, ribadire l’importanza che la politica inclusiva necessiti di un’attenta, rigorosa costruzione progettuale e culturale implicante un cambiamento strutturale ed ab origine dell’ “istituito” (Vasquez, Oury, 2011) per riconoscere le differenze, tutte. Viene spontaneo interrogarsi sui vocaboli utilizzati dai nostri politici ovvero, sulla “naturalezza” e sulla “retorica” dell’inclusione stessa: ciò che è naturale manifesta un’origine elementare, oggettiva, quindi, non dovrebbe dipendere dal rafforzamento specialistico delle competenze del docente specializzato, perché il sostegno si rivolge alla classe, alla scuola e non al singolo alunno, in modo diffuso e continuativo all’interno della comunità scolastica. Inoltre, è opportuno riflettere sul preoccupante dilemma riguardante la gestione delle competenze (speciali e/o specialistiche o entrambe?) all’interno della scuola inclusiva. In questo senso, l’insegnante specializzato di sostegno si trova di fronte ad un bivio (Gaspari, 2015): o si evolve e si rigenera nella direzione di una maggiore consapevolezza di un forte ruolo di mediazione eco-sistemica da assumere nell’ottica della trasversalità e della diffusività delle competenze speciali, oppure diviene un esperto-specialista che restringe il suo intervento educativo calibrandolo sui bisogni degli alunni con specifiche tipologie di disabilità. In tale ottica è importante ribadire come il docente specializzato sia, innanzitutto, un insegnante con una solida formazione aggiuntiva, inteso come figura di sistema a servizio dell’intera scuola e non riduttivamente interpretato come supporto ai singoli casi di “alunni difficili” (Cottini, 2014). Se la formazione iniziale di tutti i docenti è declinata sotto il segno dell’inclusione delle differenze e delle diversità non esistono ragioni convincenti per sostenere la presenza di “docenti esperti specialisti collaterali” che finirebbero, col loro professionismo tecnico-radicalista, per aumentare e non ridurre il fenomeno della delega deresponsabilizzante diffusa tra gli attuali docenti curricolari. Il docente specializzato di sostegno necessita di un identikit professionale quantitativamente e qualitativamente più ricco, di natura trasversale, di rete, senza essere “altro” rispetto al lavoro dei colleghi e degli alunni appartenenti all’intera classe. Per far sì che il docente specializzato mantenga anche il ruolo di docente inclusivo è necessario riaffermare la personale disapprovazione nei confronti dell’attuale separazione delle carriere (Ianes, Tomasi, 2015a). La prospettiva delineatasi all’interno del dibattito sulla Buona scuola (L.107/15) contiene i rischi della frammentazione delle conoscenze e dei saperi, dell’aumento dei feanno IV | n. 2 | 2016
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nomeni di delega deresponsabilizzante, dei processi di isolazione (Demo, 2014) e di marginalità sottesi all’iperspecialismo medico e psicologico. Lo sguardo pedagogico, contro il “pericolo” del riduzionismo medicalizzante, va oltre la cultura del sospetto diagnostico, della stigmatizzazione etichettante, della ricerca ossessiva di elementi di problematicità e della ubriacatura burocratica che intendono normalizzare la diversità per rilevare, invece, potenzialità, risorse e valori sempre esistenti. Le competenze “speciali” riferite al riconoscimento degli alunni con disabilità sensoriale sono, ad esempio, certamente necessarie, ma vanno tradotte nel linguaggio della pedagogia e della didattica di qualità come scienze capaci di fare evolvere la scuola tutta nella prospettiva inclusiva, evitando il ritorno a logiche specialistiche che dividono, separano, con l’illusione di differenziare per “migliorare”. Non si tratta di riqualificare i docenti tutti per renderli “mega esperti” delle singole specialità a scuola, ma di rivedere le politiche culturali, strategiche e di investimento nella scuola dell’autonomia per passare dalla “retorica” dell’inclusione alla vera cultura progettuale dell’inclusione stessa. Gli alunni con “bisogni educativi speciali” non hanno bisogno di professionisti a loro dedicati, ma di una “diversa” strutturazione del contesto scuola, ovvero della presenza di un reticolo di aiuti e sostegni contestualizzati, distribuiti, personalizzati non elargiti in modo specialistico emarginante, ma diffusi nell’appartenenza eco-sistemica, nella costante opera di mediazione e negoziazione di relazioni, comunicazioni, apprendimenti, nella gestione integrata della classe, nell’accesso ai saperi, nel potenziamento degli stili cooperativi e della rete di opportunità formative offerte nel territorio con reciproca interdipendenza, per promuovere processi di “accompagnamento competente” (Canevaro, 2009) in grado di emancipare ogni persona.
4. L’evoluzione del docente specializzato di sostegno nella scuola inclusiva
Il docente specializzato è costantemente tenuto a riflettere sul proprio ruolo, sulla qualità delle competenze acquisite e sulla efficacia degli interventi didattici da adottare nell’ottica del life long learning. è evidente come la formazione rappresenti una priorità sia a livello iniziale, come “zoccolo di base” comune per tutti i docenti, sia come momento formativo in servizio, nelle ulteriori, aggiuntive, proposte universitarie, che costituiscono esperienze formative altamente qualificanti nell’ottica del potenziamento di conoscenze, abilità, competenze e pratiche inclusive “speciali” e non. La “quaestio” formativa è un punto nodale delle attuali riflessioni e ricerche offre costantemente spunti di riflessione critica e di confronto tra gli esperti del settore che si interrogano sull’attuale ruolo ed identità professionale del docente specializzato che richiede una necessaria “rilettura” in termini di cambiamento evolutivo del suo “esistere” all’interno della scuola inclusiva. Oltre alla riformulazione-ottimizzazione dell’iter formativo dei docenti specializzati, sempre in progress, che deve essere sempre rivisto in termini di qualità delle competenze e delle conoscenze teorico-pratiche possedute, l’evoluzione del tradizionale concetto di “sostegno” rappresenta un passo imprescindibile per chiamare in causa, in modo eticamente e culturalmente respon-
I. Riflessione teorica
sabile, tutti i docenti. Questo passaggio diventa indispensabile per favorire la diffusività delle competenze “speciali” utili come risorse a promuovere la crescita di un contesto scolastico inclusivo, in cui gli aiuti ed i sostegni assumano una natura circolare, olistica ed una connotazione evolutiva, dinamica e democratica, allo scopo di ridurre e possibilmente sconfiggere gli ancora esistenti fenomeni di micro e macro esclusione degli alunni diversamente abili e con “bisogni educativi speciali” all’interno del comune contesto di appartenenza. La formazione del docente specializzato assume, quindi, connotazioni dinamiche, aperte al cambiamento, per adattarsi a riconoscere e a valorizzare le differenti esigenze formative degli alunni disabili e con “bes” adottando un approccio reticolare, co-evolutivo e contestualizzato, in grado di rispettare le storie di vita e gli specifici bisogni delle persone, tutte. All’interno dell’attuale dibattito A. Canevaro propone il superamento del tradizionale concetto di “sostegno individuale” per legittimare la prospettiva di un “sostegno di prossimità” sempre più competente e caratterizzato da una natura evolutiva e contestualizzata (Canevaro, 2014). Il necessario ampliamento delle competenze speciali diffuse all’interno della scuola, aiuta a far sì che l’inclusione scolastica e sociale dei disabili sia considerata come autentica occasione di crescita per ogni alunno, implicante una profonda innovazione della scuola tutta, sempre più aperta ai micro e macro contesti sociali e culturali di appartenenza. La “Buona Scuola”, nonostante contenga positive intenzioni di riqualificare la professionalità docente potenziando l’iter formativo degli insegnanti curricolari e di sostegno nell’ottica delle competenze speciali, manifesta evidenti contraddizioni senza, di fatto, proporre una sostanziale e coerente prospettiva di cambiamento. Mantenendo lo spirito critico e democratico che ha caratterizzato il dibattito ancora in corso e le differenti posizioni culturali in merito alla possibile evoluzione del docente specializzato, ritengo importante ribadire quanto sia necessario rivedere le tradizionali impostazioni educativo-didattiche per superare i degeneri fenomeni di delega deresponsabilizzante presenti all’interno del corpo docente, favorendo un clima accogliente, partecipativo in grado di innalzare il gradiente inclusivo della scuola intesa come comunità educante. «Il sostegno è un aspetto rivelatore del progetto pedagogico più generale: si delinea un progetto inclusivo che riesce ad accogliere le differenze come processo di crescita collettiva di una comunità solidale che fa del principio di eguaglianza il suo fondamento, oppure si delinea un progetto differenzialistico, tramite l’egemonia culturale dello sguardo clinico-diagnostico-terapeutico, che trasforma le differenze» (Goussot, 2014, p. 64) in diseguaglianze. è opportuno sostenere un modello di scuola inclusiva in cui i docenti tutti possano accrescere il loro bagaglio di competenze, speciali e non, per rendere la didattica più vicina alle istanze di tutti e ciascun alunno e, allo stesso tempo, per diffondere e distribuire la rete di sostegni e di aiuti necessaria alla facilitazione dei processi di apprendimento e di partecipazione sociale e culturale in una scuola che non separa, classifica, o gerarchizza in modo iper-specialistico le differenze e le diversità. recenti ricerche ribadiscono che l’iperspecializzazione di alcuni docenti sulle specifiche tipologie di disabilità, proposta da S. Nocera (Nocera, 2014b), non rappresenta la soluzione ottimale per realizzare contesti formativi inclusivi in quanto la formazione specialistica, con relativa separazione delle carriere, rischia di riprodurre il binomio “sostegno-disabilità”.
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«All’interno di questa analisi la figura dell’insegnante per il sostegno necessita di essere decostruita, analizzata e ripensata in un’ottica inclusiva, offrendo la possibilità di una riflessione che permetta di riconsiderare in modo più ampio il ruolo docente in generale, riducendo le distinzioni (curricolare/sostegno) e ampliando le connessioni, per approdare a una nuova concezione di insegnante inclusivo che risponda al compito educativo di insegnare (a tutti) riconoscendo e valorizzando le differenze di ciascuno nel rispetto dell’unicità di ogni persona» (Camedda, Santi, 2016, p. 42).
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Il ruolo facilitatore dei docenti tutti, compresi quelli curricolari ed “iperspecializzati” nel sostegno, è fondamentale, ma non si rivela condizione sufficiente a garantire che il livello globale inclusivo dell’intero contesto scolastico sia effettivamente cresciuto e rispondente alla complessità dei bisogni formativi. L’inclusione richiede la radicale rivoluzione dell’apparato istituzionale-organizzativo e didattico (Santi, 2014b; Bocci, 2015) di “fare” scuola e la strutturale modifica degli spazi, dei tempi e delle modalità di accessibilità alle conoscenze, alle relazioni comunicative, alla gestione comune degli apprendimenti realizzata attivando pratiche didattiche innovative, non tradizionali, “destrutturanti” l’assetto organizzativo della scuola intesa come comunità educante. Si tratta di formare “docenti inclusivi” (European Agency for Special Needs and Inclusive Education, 2012) in una scuola che contiene già in sé gli elementi fondativi della logica inclusiva, in cui assumono un ruolo di pari importanza gli atteggiamenti, le opinioni, i modi di rapportarsi, le corresponsabilità dei docenti, l’accessibilità alle conoscenze, la pluralità delle competenze e delle specifiche abilità, non solo declinate sul versante curricolare-disciplinare, ma nel più ampio orizzonte del progetto di vita della persona diversamente abile, che non può non aprirsi al più vasto scenario sociale, territoriale e culturale di appartenenza. La scuola inclusiva non distingue ruoli, competenze e funzioni tra docenti specializzati e curricolari, ma valorizza profili di docenti inclusivi capaci di facilitare l’evolversi delle conoscenze e degli apprendimenti intesi come processi continuativi e dinamici che portano ogni alunno ad “imparare ad imparare” con modalità originali ed irripetibili, garantendo equità formativa e rispetto-valorizzazione dei potenziali di ogni alunno, indipendentemente dal suo “status”. è necessario implementare culture, politiche e pratiche inclusive in grado di riconoscere e valorizzare le differenze e le diversità all’interno di una scuola che assuma sempre più un abito sperimentale, di ricerca e di puntuale ridefinizione del proprio “habitus” istituzionale ed organizzativo. Se l’inclusione è un traguardo ancora difficile da realizzare, che implica sempre nuove sfide (Santi, 2014a), nuovi percorsi formativi e rinnovate competenze, assumere le differenze e le diversità come categorie storico-culturali aventi pieno diritto di cittadinanza all’interno dei micro e macro contesti sociali, significa rivoluzionare le logiche istituzionali omogeneizzanti, le stagnanti impostazioni didattiche per sostenere una didattica innovativa, “universale” equamente capace di rispondere ai bisogni formativi di tutti e di ciascuno alunno, promuovendo sistematiche operazioni di mediazione-negoziazione-facilitazione ed ampliamento delle conoscenze, degli apprendimenti formali ed informali, all’interno di una comunità sempre più democratica, pluralistica ed orientata all’inclusione di qualità.
I. Riflessione teorica
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I. Riflessione teorica
La Ricerca dell’evidenza in Pedagogia Speciale: questioni epistemologiche e metodologiche
Key-words: Special Education, Research, Methodology, Pedagogical Epistemology, Evidence-Based Education, Value-Based Education
I. Riflessione teorica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
anno IV | n. 2 | 2016
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Epistemological and methodological reflection on the research and analysis tools in the Special Education is going through a wide and ever current epistemological debate between quantitative and qualitative methods that globally affects the human and social sciences. This theme has fueled the dialectic between quantity and quality, reaching a stage of “uncertain distinctness” (Campelli, 1996) also in the sciences of education. In the pedagogical field, the uncertain distinctness between quantity and quality can be traced back to those which Granese (1990) has defined as “contradictions of epistemology”, in reference to the need for a critical review of educational epistemology (Mortari, 2007). It is a complex problem in which emerges the need to develop integrated methodological approaches to analyze and restore the complexity of the situations, experiences and contexts investigated with a close-up perspective, from the “reasons of each subject according to decision making” (Cottini, Morganti, 2015, p. 118).
abstract
Alessio Covelli / Università degli Studi di Roma “Foro Italico” / alessio.covelli@uniroma4.it - alesisocovelli84@gmail.com
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1. L’epistemologia pedagogica e l’Evidence-Based Research nel rapporto tra evidenza e verità
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Lo sviluppo e la diffusione delle ricerche Evidence-Based ha ulteriormente alimentato il dibattito epistemologico e metodologico nell’ambito della Pedagogia Speciale. Le riflessioni che sono scaturite dall’Evidence-Based Education (EBE) possono fornire un ulteriore impulso nella direzione di una riflessività critica sull’epistemologia e la ricerca pedagogica (Calvani, 2013), oltre che sulle competenze del ricercatore nella progettazione di strategie metodologiche integrate e nella conduzione rigorosa delle proprie ricerche (Cottini, Morganti, 2015). I rischi impliciti nell’ambito delle diverse posizioni emerse è di degenerare in interpretazioni ideologiche e dogmatiche riguardo alle modalità e alle strategie da adottare nei progetti di ricerca. Riconoscendo le difficoltà insite nella “messa a punto di modelli di ricerca empirica adeguati alla natura dell’oggetto della ricerca pedagogica” (Mortari, 2007, p. 16; Biesta, 2007; Calvani, Vivanet, 2014; Kennedy, 1997; Pring, 2000; Wagner, 1997), le derive ideologiche e dogmatiche in termini epistemologici e metodologici sembrerebbero essere alimentate da una concezione dualistica e ancora persistente della ricerca divisa tra impostazioni quantitative e qualitative. Una concezione che risentirebbe di un retroterra culturale di stampo neopositivistico secondo il quale l’impostazione quantitativa è l’unica in grado di fornire evidenze oggettive e affidabili a scapito delle analisi qualitative che non possono essere generalizzabili e che rappresentano contesti e prospettive di ricerca specifiche e troppo inclini alla soggettività dell’analista. Lo scopo della nostra riflessione non è di affermare il valore o il prestigio scientifico di un’impostazione e di un metodo rispetto ad altri. Si tratta piuttosto di considerare nell’ambito delle ricerche in campo pedagogico la complessità dei processi educativi e di inclusione nei quali, a seconda dei contesti, entrano in gioco numerose variabili che possono differire a seconda delle situazioni e delle prospettive di indagine adottate dall’analista. Una complessità che non può essere ridotta al dualismo quantitativo-qualitativo ma che merita una riflessione più ampia a partire dallo statuto epistemologico della pedagogia con un focus sulla relazione “evidenza-verità”. In altre parole, andare oltre una visione dualistica di quantità e qualità nella ricerca pedagogica presuppone una rilettura e una contestualizzazione del concetto di “evidenza” e del corrispettivo anglosassone “evidence”. Per ragioni di brevità non approfondiremo il concetto di evidenza e la sua evoluzione sul piano filosofico-gnoseologico ma focalizzeremo la relazione che lega evidenza e verità nella prospettiva epistemologica della Pedagogia. In estrema sintesi, l’evidenza può essere definita come “[…] il criterio della verità intermedio tra quello oggettivistico dell’adeguazione dell’intelletto al reale e quello soggettivistico della certezza” (Treccani, 2016). L’Oxford Dictionary (2016) definisce l’evidence come “The available body of facts or information indicating whether a belief or proposition is true or valid”. Entrambe le definizioni esplicitano la stretta connessione del concetto di evidenza a quello di “verità”. La scelta di riportare la definizione italiana e quella inglese deriva da implicazioni che, oltre alla dimensione epistemologica alla base dello statuto di scientificità di una disciplina, si inscrivono nelle dimensioni sociali, culturali e linguistiche dei diversi contesti territoriali, politici, I. Riflessione teorica
istituzionali e professionali. Queste dimensioni che attraversano in maniera trasversale tutti i campi disciplinari di ricerca sono ancora più marcate nelle scienze umane e in particolare nelle scienze dell’educazione: “Non si può che condividere l’affermazione secondo cui la natura e la finalità della ricerca educativa non debbano essere solo tecniche (definire le strategie più efficaci per conseguire scopi predefiniti) ma anche culturali (discutere gli scopi stessi, presentare agli operatori significativi modi di comprendere la realtà educativa) […]” (Calvani, 2007, p.140). L’attenzione alla dimensione culturale è cruciale per comprendere e valutare con obiettività le diverse impostazioni epistemologiche che alimentano la progettazione delle ricerche e le relative scelte metodologiche in relazione alle motivazioni e al senso della ricerca in educazione (Zurru, 2015). Considerare le motivazioni e il senso del proprio ricercare permette di spogliarsi di quei pregiudizi alla base di visioni meramente tecnicistiche, riduttive e a volte unilaterali sulle strategie e le metodologie di ricerca considerate aprioristicamente più efficaci al di là dell’oggetto e degli obiettivi attribuiti alle diverse analisi. Inoltre, l’attenzione alle dimensioni culturale, assiologica e simbolica, può essere considerata parte integrante delle ricerche sui processi educativi nei quali tali dimensioni non sono semplicemente elementi di sfondo ma veri e propri elementi costituenti dei vari oggetti e prospettive di studio. Tali aspetti contribuiscono a rendere le ricerche in questo campo metodologicamente più complesse rispetto, ad esempio, a ricerche più prettamente tecniche come quelle medico-sanitarie basate su evidenze empiriche (Calvani, 2007). Nell’affermare l’importanza della dimensione e delle finalità culturali con le quali ogni ricercatore in ambito educativo e formativo deve confrontarsi nei propri studi, si presuppone la necessità di una riflessione che si colloca su un piano logico superiore rispetto a quello più strettamente strumentale-metodologico al fine di poter definire cosa si intende per “evidenza” nel suo rapporto con la verità da ricercare. Questo tipo di riflessione è uno dei presupposti dai quali poter delineare le scelte relative all’oggetto da analizzare e le metodologie più congrue al raggiungimento degli obiettivi prefissati, proprio in funzione della verità da ricercare nella specificità delle realtà e dei contesti indagati. Oltre che dallo statuto epistemologico del campo disciplinare nel quale si muove il ricercatore, la definizione di questi aspetti deriva anche dal valore attribuito sul piano scientifico alla disciplina dalla quale si muove la ricerca in relazione alla verità che si intende mettere a fuoco nell’analisi delle diverse situazioni e realtà. Come sostiene Trinchero (2004), non si tratta quindi di focalizzarsi esclusivamente sul metodo o sui metodi della ricerca, ma sulle strategie che definiscono il disegno della ricerca in funzione dei propri obiettivi conoscitivi e del contesto preso in esame. Focalizzarsi esclusivamente sulla questione metodologica comporta il rischio di ridurre ancora una volta tutte le questioni al dualismo quantità-qualità per legittimare il proprio lavoro in relazione alla sua scientificità. Non si tratta dunque di stabilire aprioristicamente cosa è meglio e cosa non lo è. I metodi sono gli strumenti, gli utensili del ricercatore e come tali hanno un valore neutro in termini di validità. Come per altre situazioni, anche in questo caso non è lo strumento in sé a essere positivo o negativo, ma è il suo utilizzo a definirne la validità – e quindi la scientificità del proprio lavoro - in funzione delle strategie individuate nel proprio progetto di ricerca per raggiungere gli obiettivi prefissati. In tale cornice si inseriscono le riflessioni e le critiche di Hammersley (2009) anno IV | n. 2 | 2016
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e Biesta (2010) mosse verso coloro che attribuiscono valore di scientificità e oggettività esclusivamente alle ricerche basate su evidenze derivanti da procedure sperimentali di natura quantitativa e statistica: Evidence is further narrowed down to scientific knowledge understood as knowledge generated through scientific research. In effect the focus tends to be on one particular kind of scientific research, namely experimental research, and, more specifically, the randomised control trial, as this is considered to be the only reliable way in which valid scientific knowledge about ‘what works’ can be generated (Biesta, 2010, p.494).
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Le critiche di Hammersley e Biesta fanno riferimento alle posizioni più radicali dell’Evidence-Based Research nelle scienze dell’educazione. L’approccio Evidence-Based deriva dalle ricerche sviluppate in campo medico e si rifà a un’impostazione culturale di matrice anglosassone. In questo caso si tende a privilegiare uno stile epistemologico il quale, sulla base della distinzione operata da Peyron-Bonjan (2014, p.22), potremmo identificare come “epistemologia che si interessa ai processi generali della conoscenza e che insiste sul ragionamento e la logica”: «Ce style cherche plutôt à définir ce qu’est une connaissance scientifique en la démarquant de tout ce qui n’est pas science, en la démarquant du mythe, en la démarquant de l’idéologie». L’impostazione dell’EBE, in campo educativo come per altri settori, deriva proprio da questo background culturale ed è nata dall’esigenza di responsabilità (accountability) in merito alla valutazione scientifica e all’implementazione dell’efficienza e dell’efficacia dei sistemi di istruzione. Il “No Child Left Behind” act (U.S. Department of Education, 2002) è considerato in tal senso uno dei principali input sul piano politico e legislativo verso questa direzione nella quale la comunità scientifica è chiamata a “sviluppare e implementare metodi educativi efficaci ed efficienti. Gli Evidence-Based Educational Methods rispondono alla sfida presentando principi e applicazioni scientifiche finalizzate al miglioramento dell’apprendimento umano” (Moran, Malott, 2004, p. XXIII). In tale contesto, l’evidenza è stata considerata come argine alle convinzioni e alle ideologie che spesso orientano le decisioni dei vari attori all’interno delle prassi senza tener conto dei criteri di efficienza ed efficacia che determinerebbero in maniera oggettiva cosa funziona e cosa no. In questi termini, l’EBE potrebbe essere ridotta a una sorta di neopositivismo ingenuo mentre in realtà la questione è più complessa. a tal proposito, Hammersley (2009), nel delineare il concetto di evidenza in relazione alle Evidence-Based Practice, ha operato una distinzione tra evidenza scientifica che coincide con la prova della verità di una teoria ed evidenza nella pratica la quale rimanda invece a una conoscenza e a un sapere che corrisponde a verità. Tale distinzione è utile per esplicitare gli aspetti problematici insiti nelle ricerche sui processi educativi e formativi e che possono essere sintetizzati dalle metafore del “labirinto” e della “porta stretta” con le quali Granese (1993) ha analizzato nel suo saggio di Pedagogia critica le questioni connesse allo statuto scientifico ed epistemologico della ricerca pedagogica: Per alcuni aspetti il termine [labirinto, N.d.a.] “visualizza e materializza” i modi del procedere ermeneutico: non lineare, discontinuo, reversibile e
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anch’esso senza tappe obbligate e approdi predeterminati. Il “positivo” del labirinto corrisponde anche al “negativo” della ricerca. Il motto pascaliano “non mi cercheresti se non mi avessi trovato” senza che nulla si tolga al suo significato religioso, che resta fondamentale, può essere trascritto nel codice profano: chi trova un campo di ricerca trova qualcosa che ancora indefinitivamente deve essere cercato a partire da se stessi e dalle proprie opzioni e motivazioni. […] la metafora del labirinto può combinarsi con quella della “porta stretta” che visualizza o materializza anch’essa il concetto di passaggio difficile, dove la difficoltà non è più quella di uscire dall’intrico, ma dell’accedere a un ambito o ad uno spazio intravisto e che tuttavia è arduo da raggiungere (Granese, 1993, p. 22).
Le metafore del labirinto e della porta stretta sono complementari e secondo Granese la Pedagogia coincide con il labirinto e l’educazione con la porta stretta, anche se i termini potrebbero essere invertiti. Tale metafora è significativa della natura della Pedagogia così come dell’atteggiamento del ricercatore chiamato a indagare i processi educativi e formativi. La verità da ricercare, infatti, è parte della realtà esistenziale del ricercatore e non può essere ridotta solo agli aspetti metodologici. Un approccio tecnicistico fondato solo sul metodo restringe il campo e il valore della ricerca. Chiaramente, ciò non significa negare l’importanza del rigore scientifico e metodologico che dovrebbe caratterizzare ogni ricerca legittimandola sul piano scientifico, distinguendola dalla semplice opinione, ma il rigore si inscrive nella cornice culturale, nelle specificità della disciplina e degli oggetti di indagine che determinano il suo significato e i confini tra evidenze scientifiche e le opinioni derivanti dal sapere comune. Circoscrivendo il nostro discorso alle scienze dell’educazione, le esigenze e le istanze derivanti dalle prassi in un determinato contesto potrebbero restringere la portata delle ricerche che risulterebbero pertinenti e molto efficaci nell’orientare le decisioni di coloro che lavorano in quel determinato contesto. allo stesso modo, la ricerca che apparentemente è più generalizzabile, poiché basata su campioni cumulativi altamente rappresentativi per alcuni scopi può essere scarsamente significativa per gli attori che hanno esigenze pratiche differenti e che operano in contesti lontani sul piano sociale, politico, istituzionale, culturale da quelli in cui la ricerca ha avuto luogo. In tal senso non esistono evidenze slegate dai contesti dai quali sono state ricavate (cfr. Davies, 1999, pp.110-111). alla luce di tali considerazioni, potrebbe essere fuorviante intendere la ricerca basata su evidenze solo nei termini di meta-analisi su campioni randomizzati volte a sintetizzare e a generalizzare i risultati di numerose ricerche realizzate in contesti molto differenti al fine di definire teorie con valore nomotetico. Le metaanalisi possono essere utili per ridurre la frammentarietà e restituire una visione più ampia di ricerche che, pur condividendo il proprio oggetto di analisi, sono scollegate tra loro. Gli elementi di criticità risiederebbero nella pretesa di universalità dei risultati derivanti da queste analisi legata a una sorta di “ossessione” sull’oggettività dei dati quantitativi (cfr. Ranieri, 2007, p. 150). Da tale impostazione deriverebbe l’assunto neopositivista di poter generalizzare su base oggettiva i risultati di ricerche condotte in contesti molto differenti per trasformarli in teorie che hanno una pretesa di universalità nello stabilire cosa funziona e cosa no, oltre che per trasferire i risultati ottenuti nelle pratiche. In altre parole, “poiché l’obiettivo dell’EBE è di basare le pratiche educative sui risultati controllati anno IV | n. 2 | 2016
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della ricerca, tale approccio presuppone che possa darsi un legame causale tra una certa pratica e i suoi effetti secondo una visione positivistica della scienza” (Ranieri, 2007, p.149). Tale distorsione potrebbe essere ricondotta a un’impostazione “socialtecnica” dell’idea di “innovazione”, intesa come “momento programmato” (Scurati, 2008) nella quale il cambiamento è considerato “[…] come la configurazione costitutiva fondamentale della dinamica socioculturale, cioè come un dato “universale”, funzionalmente auspicabile, che deve essere opportunatamente istituzionalizzato per venire adeguatamente razionalizzato e routinizzato in forme controllabili” (ivi, p. 158). Si tratta di un’impostazione evidente anche nelle scelte politiche e legislative espresse dal No Child Left Behind che pure presenta alcuni elementi di criticità. Le criticità sono identificabili nel pericolo di uniformare le ricerche nel campo delle scienze dell’educazione e nella semplificazione di processi complessi che comporterebbero una perdita di informazioni molto significative per le analisi delle dimensioni simboliche, relazionali, identitarie e percettive dei vari attori che richiedono approcci più qualitativi e naturalistici, come i metodi osservativietnografici, le analisi del contenuto, del discorso e delle interazioni, etc. (cfr. Davies, 1999, pp. 112-118). Nell’indirizzare la nostra riflessione verso la Pedagogia speciale dell’inclusione (Canevaro, 2007), il nodo problematico è comprendere se nell’ambito di tale disciplina sia possibile costruire teorie generali valide in qualsivoglia situazione. Si tratta di una questione delicata, in particolare se consideriamo l’attributo “Speciale” nei termini di una specificità dei bisogni educativi e, più ampiamente, esistenziali con i quali confrontarsi globalmente per favorire lo sviluppo dei processi di inclusione a seconda dei contesti e delle persone implicate nella loro singolarità (de anna, 1998, 2014; Mura, 2011; Moliterni, 2013). Tuttavia, tale questione consente di mettere a fuoco diversi aspetti e di ridefinire il concetto di evidenza nel suo rapporto con la realtà educativa e formativa, tenendo conto dello statuto epistemologico della Pedagogia e del campo d’indagine della Pedagogia speciale alla base della complessità metodologica con la quale deve confrontarsi il ricercatore che indaga i processi educativi e di inclusione in senso ampio.
2. Evidenza e verità nella Pedagogia speciale tra dimensione simbolica e qualitativa dei processi educativi inclusivi
Com’è possibile coniugare il campo di indagine della Pedagogia speciale, nel quale il riconoscimento delle differenze e delle specificità costituisce la sua essenza, con la volontà di costruire teorie generali? La domanda, posta in questi termini, rappresenta un “ossimoro” al quale probabilmente non è possibile rispondere in maniera univoca. Proprio in virtù di tale motivazione si ritiene necessario approfondire il concetto di verità in questo campo di indagine, il quale non può essere assunto come un valore assoluto, ma come un valore che corrisponde alla realtà indagata, alla specificità del contesto. Espressa esclusivamente in questi termini, la risposta potrebbe essere associata a una sorta di relativismo ingenuo. In realtà, nella sua immediatezza, si potrebbe I. Riflessione teorica
concepire come il primo passo per acquisire la problematica pedagogica intesa come un “un pensare, sapere e dire l’educazione nella sua globalità, complessità e problematicità, anche nei suoi aspetti più sotterranei e non immediatamente traducibili in termini pratico-operativi, attinenti non solo alla ricerca di risultati e di verità ma anche del senso di queste verità” (Fadda, 1990, p. 9). Ricercare il senso della verità nella ricerca pedagogica-speciale equivale a immergersi nei contesti, tenendo conto degli aspetti valoriali e simbolici per comprendere la dimensione relazionale che li caratterizza. Non si tratta di assimilarsi ai contesti indagati o di esaltare la dimensione esperenziale a discapito delle riflessioni teoriche. Si tratta di stabilire l’atteggiamento del ricercatore in pedagogia che non dovrebbe essere mosso dalla finalità di ottenere una verità “oggettiva” la quale ‘non può – praticamente e logicamente – assumere i caratteri di un sapere “certificato” e “oggettivante” ’ (Granese, 1990, p. 43). Il concetto di verità dovrebbe essere ricondotto a una cornice epistemologica che tenga conto della natura ermeneutica-interpretativa della pedagogia e che consideri le conoscenze e i saperi non esclusivamente in termini di oggettività, ma nella loro problematicità. Questa cornice, secondo Granese, è importante per cogliere il concetto di “verità come disvelamento”, secondo il fondamento logico della corrispondenza alla realtà. Tale fondamento è cruciale per ridefinire anche la relazione tra verità ed evidenze, dove quest’ultime si spogliano delle pretese di oggettività per assumere le connotazioni di “coerenza” e “affidabilità” rispetto alla realtà dalla quale sono state ricavate. La ricerca delle evidenze considerate nei termini di coerenza, affidabilità e di corrispondenza con la realtà richiede l’utilizzo di ricerche con approcci plurali sul piano metodologico in grado di consentire un’apertura multiprospettica sui processi educativi e di inclusione. attraverso sguardi multifocali derivanti da procedure di triangolazione è possibile confrontarsi con la complessità di tali processi (Mortari, 2007), attraverso la costruzione di inferenze qualitativamente rilevanti e significative, al di là del dualismo quantità-qualità. Gli approcci plurali consentono una restituzione più organica delle diverse dimensioni che costituiscono i processi educativi e formativi: al di là delle metodologie sperimentali qui devono entrare in gioco anche i metodi qualitativi, che possono farsi carico in forme più significative della dinamica simbolica coinvolta. Ciò non esclude tuttavia che le interpretazioni o percezioni di significato, che entrano come fattore principale, possano assumere andamenti ragionevolmente ricorrenti e prevedibili (del resto orientare il flusso delle relazioni simboliche secondo certi formati verso l’emergere di determinate interpretazioni e non altre, non è forse quanto cerca di provocare qualunque iniziativa istruttiva o dispositivo di apprendimento?). Il fatto che si sia di fronte ad un mondo di relazioni simboliche, decisamente più complesso di uno dominato solo da rapporti fisici non inficia di per sé la possibilità di individuare connessioni significative tra trattamenti ed effetti, pur passando attraverso apparati metodologico interpretativi più complessi ed a livelli probabilistici più deboli (Calvani, 2007, p. 141).
Il riferimento di Calvani agli approcci qualitativi è importante per non negare le dimensioni assiologica e simbolica che muovono i processi educativi e le relaanno IV | n. 2 | 2016
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tive prassi. La ricerca in campo educativo non può escludere tali aspetti e gli approcci qualitativi sembrerebbero i più adeguati per immergersi nelle realtà educative e formative fugando il rischio di autoreferenzialità della ricerca. L’impostazione qualitativa consente da un lato di indagare un determinato fatto o processo attraverso la prospettiva dei soggetti implicati ma, dall’altro, viene spesso associata ai pericoli di un’interpretazione che può risentire notevolmente della soggettività del ricercatore (Bogdan, Biklen, 1997). Il fondamento logico della “verità come corrispondenza”, potrebbe consentire di andare oltre la classica dicotomia tra soggettività e oggettività, spesso chiamata in causa per valutare l’obiettività delle ricerche sociali e, in particolare, anche degli strumenti di ricerca qualitativa in ragione della loro natura interpretativa. In ogni caso, se è vero che la qualità non coincide con l’interpretazione ma ne rappresenta uno dei suoi fondamenti riconducibili al circolo ermeneutico, è altrettanto vero che attraverso la qualità l’interpretazione acquisisce il rigore necessario a un carattere di scientificità tale da non essere confusa con la semplice intuizione. Gadamer, nell’associare l’attività d’interpretazione all’ermeneutica, fornisce uno spaccato assai significativo sui processi messi in moto dall’analista nello studio dei significati insiti nelle dimensioni simbolica e assiologica delle pratiche educative:
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Chi si mette a interpretare un testo, attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto. E anche il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con certe attese determinate. La comprensione di ciò che si dà da comprendere consiste tutta nell’elaborazione di questo progetto preliminare, che ovviamente viene riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore penetrazione del testo […] l’interpretazione comincia con dei pre-concetti i quali vengono via via sostituiti da concetti più adeguati (Gadamer, 1960, p. 314).
La tensione verso un’analisi oggettiva non deve in ogni caso eliminare la componente soggettiva che anima i processi interpretativi del ricercatore e di tutte le persone in genere, i quali contribuiscono alla sedimentazione socioculturale delle rappresentazioni nell’immaginario collettivo. Come sostiene Gadamer, nella costruzione di un giudizio, o meglio di una visione su persone, elementi e aspetti particolari della realtà, ogni persona è influenzata dalla propria visione del mondo (Weltanschauung). a differenza dei pregiudizi negativi, tale visione non racchiude i processi interpretativi della realtà entro coordinate semplicistiche, limitanti e fuorvianti ma costituisce una condizione fondamentale del processo cognitivo. anche se il pregiudizio è solo un giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti gli elementi obiettivamente rilevanti (Gadamer, 1960, p. 561), esso deve essere accompagnato da una certa prudenza che coincide con la capacità di “guardarsi intorno”. L’interprete quindi “non può proporsi di prescindere da se stesso e dalla concreta situazione ermeneutica nella quale si trova” (ivi, p. 699). L’approccio ermeneutico, nel focalizzarsi sul rapporto tra l’interprete e i testi - intesi come qualsiasi prodotto che ha un suo modo di presentarsi e soggetto a interpretazione da parte di un fruitore – costituisce un elemento essenziale per la riflessione sui processi interpretativi che caratterizzano la natura storica delle scienze umane e le inferenze poste in essere dal ricercatore. Peyron-Bonjan I. Riflessione teorica
(2014, cfr. pp. 25-28) ritiene che l’origine della scientificità delle scienze umane (tra cui le scienze dell’educazione) non può essere assimilabile a quella delle scienze dure sperimentali e cita Passeron (1991) per affermare come la scientificità delle scienze umane si situi in uno spazio logico differente inteso come “l’ensemble des contraintes qui définissent pour une assertion le sens de ce que signifie pour elle d’être vraie ou fausse” (Passeron, 1991, p. 399). La storicità, intesa come lo spazio logico delle scienze umane e sociali, non consentirebbe di applicare modelli universali, dal momento che le evidenze e le relative teorie sono subordinate a una situazione particolare. In tale prospettiva, la comprensione della realtà indagata non si riduce a una mera applicazione di certe capacità o tecniche acquisite poiché implica sempre una più vasta comprensione di sé in relazione all’oggetto da analizzare e interpretare, contribuendo ad ampliare la propria esperienza e il proprio orizzonte sui fatti del mondo e avvicinando l’azione alla comprensione (cfr. Porcheddu, 1990, pp. 171-175; Gadamer, 1960). L’approccio ermeneutico suggerisce alla riflessione educativa di non poter pretendere una descrizione neutrale e oggettiva di situazioni, eventi e fatti legati ai processi educativi, quanto piuttosto una «comprensione di essi in quanto oggetti e prodotti storici e culturali, “testi” da interpretare, e mette di fronte alla riflessione educativa, ancora catturata dai miti della avalutatività, oggettività, scientificità, ecc. la sua vocazione etica riconducendo il linguaggio entro l’orizzonte della vita sociale, ai valori condivisi da una comunità storica vivente, valori che si esprimono nella lingua» (Porcheddu, 1990, p. 175). Gli approcci narrativi possono rappresentare uno strumento valido per confrontarsi con la storicità delle scienze umane e le categorie di diversità e specificità che caratterizzano la ricerca pedagogica-speciale. Sono uno strumento che consente di rispondere alla necessità di comprensione dei contesti e delle relative situazioni oggetto di indagine e presuppongono l’utilizzo di metodi integrati con una “funzione euristica” (cfr. Bardin, 1996, p. 33), al fine di cogliere, esplorare e scoprire i fenomeni sociali. Negli approcci volti a indagare e approfondire le dimensioni valoriali e relazionali, è necessario considerare sia le proprietà materiali che sono quantificabili e misurabili, sia “le proprietà simboliche che non sono altro che le proprietà materiali quando vengono percepite e valutate nelle loro relazioni reciproche, cioè come proprietà distintive” (Bourdieu, 2005, p. 210). L’analisi e l’esplicitazione delle proprietà simboliche possono fornire evidenze altrettanto significative rispetto a quelle derivanti da approcci quantitativi. L’individuazione di tali proprietà nell’ambito dei contesti indagati risponde alla necessità di una transizione verso un modello “Value-Based Education”. Questo modello non nega il ruolo dell’evidenza nella ricerca educativa ma lo subordina ai valori e all’eticità che determinano le prassi educative (cfr. Biesta, 2010, p. 493). Ciò è importante in ambito pedagogico-speciale dove si ravvisa la necessità di ricondurre i processi di inclusione alla dimensione simbolica (Ebersold, 2016) per costruire culture e significati condivisi che possano guidarne l’effettiva realizzazione nelle prassi. Le analisi del contenuto e del discorso, con approcci integrati sia quantitativi, sia qualitativi, possono rispondere a tali necessità costituendo uno strumento efficace nell’ambito degli approcci narrativi (narrative inquiry). Tali strumenti si configurano come uno sforzo interpretativo che si muove tra due polarità: dal rigore dell’obiettività alla fecondità della soggettività (Bardin, 1996). anno IV | n. 2 | 2016
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Tuttavia tali metodi non sono esenti da alcune problematicità, legate a un processo interpretativo che, in alcuni casi, non è sempre immediatamente riconducibile né alle intenzioni della fonte né alle possibili interpretazioni dei destinatari (Losito, 2002). alcune ricerche condotte dal gruppo del Laboratorio di Didattica, Pedagogia speciale e Ricerca Educativa dell’Università degli Studi di Roma “Foro Italico” si inscrivono in questa cornice epistemologica e metodologica. È il caso delle ricerche condotte sugli insegnanti specializzandi sul sostegno (Covelli, 2015; Covelli, 2016) e sulla qualità dell’inclusione all’interno dell’ateneo (Mazzer, Covelli, 2016) che si caratterizzano per l’utilizzo degli strumenti di analisi del contenuto e del discorso riferite a pratiche narrative e discorsive realizzate nell’ambito di esperienze di ricerca-azione. La volontà di collocare tali ricerche in una cornice più ampia di ricerca-azione coincide con la necessità di approfondire gli elementi di criticità emersi dal confronto con gli insegnanti durante i corsi di formazione. La finalità è di comprendere e rispondere alle loro richieste formative in relazione alle difficoltà incontrate nella loro professione. attraverso l’utilizzo di questo disegno metodologico sono stati coniugati gli obiettivi conoscitivi e di ricerca con le finalità dell’azione formativa che non può essere slegata dall’esperienza professionale degli insegnanti nei contesti educativi, favorendo così sia un’attitudine riflessiva e di problem-solving, sia lo sviluppo delle competenze necessarie per confrontarsi adeguatamente con le situazioni vissute nella pratica professionale, superando una diffusa sensazione di inadeguatezza (Covelli, 2015). Tale sensazione è stata espressa anche attraverso frequenti richieste di istruzioni d’uso relative a un determinato problema. L’azione formativa ha così permesso agli insegnanti specializzandi di comprendere come non esistano ricette precostituite da seguire in maniera univoca a favore di risposte frutto di una competenza progettuale (de anna, 2015; Moliterni, 2015) che consenta di comprendere e risolvere gli elementi di problematicità incontrati nella loro esperienza professionale.
Conclusioni
L’attuale dibattito che si è sviluppato attorno all’EBE ha favorito un ulteriore impulso nella direzione di una riflessività critica sull’epistemologia e la ricerca pedagogica (Calvani, 2013), oltre che sulle competenze del ricercatore nella progettazione di strategie integrate e nella conduzione rigorosa delle proprie ricerche (Cottini, Morganti, 2015). Si rivela tuttavia necessario andare oltre il dualismo tra quantità e qualità e non confondere l’esattezza di analisi matematiche e statistiche con il rigore che dovrebbe caratterizzare anche le impostazioni più marcatamente qualitative (Mortari, 2007). adottare una prospettiva ravvicinata per cogliere l’universo simbolico, etico e valoriale che orienta le scelte degli attori e le pratiche educative rappresenta una delle possibili scelte poste in essere dai ricercatori per indagare i processi educativi di insegnamento-apprendimento. avvicinarsi ai contesti non implica un abbandono del rigore scientifico da parte del ricercatore, ma, con particolare riferimento alla ricerca in Pedagogia speciale, consente di accettare e di confrontarsi con la sfida della complessità che caratterizza una realtà fatta di dimensioni
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esistenziali e situazioni molteplici, collegando “la scienza al cambiamento e la ricerca al flusso degli eventi della diversità e della singolarità della storia e delle storie” (Gaspari, 2001, p. 567). approcci integrati sul piano degli strumenti di indagine e di rilevazione di dati quantitativi e qualitativi possono rispondere alla sfida della complessità e alle istanze conoscitive provenienti da prassi differenti ma con una finalità condivisa: rispondere alle necessità e alle istanze provenienti dall’esperienza senza soffocare la saggezza pratica e la sensibilità verso il contesto socio-culturale, ma anzi far parlare i vari attori contribuendo in tal modo allo sviluppo di competenze esperte (Calvani, Vivanet, 2014) e alla conoscenza dei vari punti di criticità espressi da chi vive direttamente le prassi. L’utilizzo integrato di strumenti metodologici differenti, basati sulla triangolazione di molteplici teorie, fonti, e tecniche consente quindi di “ottenere risultati intersoggettivamente condivisi” (Minello, 2012, p. 245; Trinchero, 2004) e restituire un quadro esaustivo delle varie dimensioni indagate tra cui rientrano gli aspetti di natura culturale, assiologica e simbolica che orientano gli attori nelle pratiche quotidiane dei processi educativi e formativi. In questo modo è possibile apportare un contributo rigoroso all’avanzamento della ricerca scientifica in ambito sociale e culturale, alimentando la circolarità tra teoria e prassi nella Pedagogia speciale, con riflessi positivi anche nella Didattica generale.
Riferimenti bibliografici
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I. Riflessione teorica
Riformare il sostegno? L’inclusione come opportunità tra delega e corresponsabilità
Key-words: inclusion, commitment, teaching, delegation, teacher education
I. Riflessione teorica 1
L’articolo è frutto della rielaborazione di due interventi delle autrici ad una tavola rotonda sul tema della formazione degli insegnanti (La qualità dell’integrazione scolastica e sociale, Rimini: 14-15-16 Novembre 2015). L’impianto complessivo dell’articolo, il quadro teorico-epistemologico sul concetto di inclusione in relazione alla recente normativa, i modelli interpretativi e le proposte didattiche per una didattica inclusiva sono da attribuire al primo autore; l’analisi critica del fenomeno della delega e la riflessione sulla corresponsabilità in riferimento alla “Buona Scuola” sono attribuibili al secondo autore, fermo restando la condivisione dell’impianto complessivo dello scritto e della bibliografia di riferimento.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The educational delegation and the issue of co-responsibility are the central elements around which revolve the arguments that are presented in the paper. The debate on the specialist teacher for the support with respect to training and future role is still under way, but beyond the developments that will be on the topic, it is useful to reiterate forcefully the principle of “educational shared responsibility” and “ does not delegate. “ The delegation can be avoided through the inclusive attitudes, attention to contexts, the tools to monitor the inclusion (Index for Inclusion and Commitment towards Inclusion Repertoire1), ie by reading the proxy phenomenon as an effect of a deficit in inclusive cultures, policies and practices. The paper proposes, moreover, an epistemological perspective of school inclusion, considering the inclusive education an didactics as a real opportunity to change the ethical and political aims of our society.
abstract
Marina Santi / Università degli Studi di Padova marina.santi@unipd.it Giorgia Ruzzante / Università degli Studi di Padova giorgia.ruzzante@phd.unipd.it
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Il nostro Paese è ritenuto all’avanguardia per le sue politiche scolastiche in tema di disabilità e integrazione. Le normative che da oltre trent’anni si sono succedute in Italia a garantire il diritto di ogni bambino e bambina con disabilità ad accedere alla scuola “di tutti”, mantenendo tale diritto nell’età adulta, hanno segnato la via verso l’obiettivo dell’inclusione sociale, che oggi appare snodo critico e irrinunciabile per le società del futuro. Il passaggio dalla vocazione italiana all’integrazione all’autentica inclusione non si riduce ad un transito o ad un miglioramento di qualità: l’inclusione chiede il ripensamento dei paradigmi di riferimento e la ridefinizione di nuove aspirazioni e dei lessici per indicarle nella cultura e nella pratica (Santi, 2014). Forse è questa consapevolezza ad aver indotto il Governo italiano a sentirsi chiamato a “riformare” la scuola pubblica, riconsiderandone anche le indicazioni in ambito di sostegno alla disabilità. La recente normativa chiamata “Buona Scuola” ha inteso traghettare il sistema educativo verso diverse destinazioni, più coerenti e rispondenti alle esigenze di un mondo immerso in una crisi epocale che non è solo economica. Pur apprezzabile nell’intento, questa recente “riforma” ci appare in verità poco lungimirante proprio rispetto al nuovo paradigma inclusivo che sta emergendo in molte indicazioni di Organismi Internazionali come la vera quaestio della società globalizzata attuale e la più profonda provocazione che i sistemi neoliberali possano accogliere. Ciò che appare molto debole e comunque non sufficientemente esplicita in questa recente norma (Legge n.107 del 2015) è proprio “la forma che questo paese vuole dare alla sua scuola, da cui evidentemente può prendere vita e senso ogni riforma”2. Questa forma oggi, per diventare reale valore aggiunto delle azioni di sistema nazionali e internazionali per l’educazione, corrisponde all’inclusione, “come valore orientativo cui aspirare nelle politiche educative, come processo da costruire con le pratiche quotidiane, come cultura da perseguire per lo sviluppo umano”3. Considerato che la Convenzione ONU dei Diritti delle Persone con Disabilità è divenuta, con la sua ratifica parlamentare del 2009, legge del Paese e che questo implica un adeguamento progressivo delle nuove indicazioni legislative e di indirizzo politico ai suoi principi e impegni, difendere e sostenere il diritto di tutte le persone all’istruzione, vuol dire di fatto riconoscere in questo diritto “il dovere di ogni Stato a rimuovere gli ostacoli alla partecipazione alla vita sociale, culturale ed economica delle comunità, ponendo la scuola come autentico ‘fattore di conversione’ dei progetti di vita di ogni persona”4. Il dovere inclusivo in una società che voglia qualificarsi come “giusta” prima ancora che “buona”, si esprime nello sforzo e nell’impegno esplicito a contrastare l’iniquità che emerge quando le diversità si trasformano in differenze che escludono, anziché in ricchezza comune; quando tali differenze mostrano solo l’aspetto sottrattivo e vengono lette in termini di handicap soggettivi che espongono alla povertà individuale e collettiva. Come è stato con forza sottolineato nell’Audizione parlamentare della SIPES del2 3 4
Espressione tratta dall’Audizione parlamentare redatta da Fabio Bocci e Marina Santi, come espressione della posizione della SIPES – Società Italiana di Pedagogia Speciale alle Commissioni Riunite di Camera e Senato sulla “Buona Scuola”, del 10 Aprile 2015. Ibidem. Ibidem.
I. Riflessione teorica
l’aprile 2015 – alla vigilia dell’approvazione della Legge 107 – “questa missione della scuola la rende, più che di per sé “buona”, capace di favorire il ben-essere e il ben-diventare collettivo e distribuito”5, con uno sforzo speciale ogni giorno per poter valorizzare le diversità/differenze di funzionamento umano entro un modello bio-psico-sociale di salute. In tale modello sistemico adottato nell’International Classification of Functioning dall’OMS, il contesto, come ambiente educativo di apprendimento, con gli adeguati facilitatori didattici diventa un fondamentale fattore di sviluppo di ogni persona, nessuna esclusa. “La molteplicità di percorsi, metodologie, strategie e strumenti messi a disposizione per potenziare i talenti di ognuno offre opportunità di esplorare alternative di sviluppo per tutti, garantendo il reale successo formativo per la totalità della popolazione”6. Invece sembra restare, nello sfondo esplicito di questa normativa, ma anche nelle credenze implicite e ben sedimentate della cultura popolare, l’idea che l’inclusione sia qualcosa che riguarda solo i “bisognosi” (coerente con la nuova necessità di etichettamento connessa alla sigla BES riferita a bambini con bisogni speciali). Vale la pena chiedersi, dunque: Ma l’inclusione chi riguarda? La nostra risposta è: ci riguarda, indistintamente e differentemente (Santi, 2006). A nostro avviso l’approccio inclusivo dovrebbe essere un punto basico su cui si fondano l’attività formativa e la didattica che si realizza a scuola per tutti. Una scuola ridotta a “rispondere ai bisogni” in un’ottica di mero servizio centrata sulla logica del “customer satisfaction” finisce per perdere di vista le aspirazioni come motore della ricerca, dello sviluppo e della progettualità personale e sociale nelle comunità. Come viene di nuovo denunciato nell’audizione cui qui facciamo riferimento anche come espressione di un pensiero personale, “i problemi emersi e da affrontare nella realizzazione di una scuola italiana inclusiva sono certamente notevoli e frutto di inadempienze strutturali, debolezze formative, mancati investimenti e restrizioni di prospettive applicative, che vanno senz’altro corrette per garantire e potenziare l’inclusione scolastica come premessa all’inclusione sociale, ma la delega e la deresponsabilizzazione dei molti verso qualcuno di ‘deputato’ a realizzarla quotidianamente non è né la condizione migliore né la risposta necessaria”.
1. La delega educativa
Ma è proprio la “delega” contenuta nella legge n.107 (delega l.107/2015) di riforma della figura del docente “di sostegno” a riportare in auge la questione della delega dei docenti di classe nei confronti del docente specializzato: invece di connettere le risorse nell’impresa educativa, il rischio è quello di separare ulteriormente ruoli e funzioni di quest’ultimo rispetto al così detto “docente su posto comune”, anche attraverso la formazione, concepita come una l’iperspecializza5 6
Ibidem. Ibidem.
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zione con connotati fortemente ispirati ad un approccio medicalizzante delle diversità di funzionamento in termini di patologie, con l’ipotesi non troppo remota di immaginare percorsi separati dei docenti “di sostegno”, connotandone conseguentemente anche l’identità professionale e le carriere; seguita in parallelo da un inevitabile connotazione “parallela” anche delle vite degli studenti, creando una frattura tra quelli con/senza disabilità. Il fenomeno della delega è uno proprio uno degli elementi di maggiore criticità del nostro sistema scolastico, emerso con l’applicazione di una prospettiva di integrazione spesso solo formale e sostanzialmente diversa da quella inclusiva che oggi ci si propone. Nelle nostre scuole è tutt’ora presente il fenomeno che il pedagogista Andrea Canevaro ha definito “delega paradossa”, una delega, cioè, che allontana invece di avvicinare, quando invece “abbiamo bisogno di una delega inclusiva, una delega che allontani per avvicinare” (Canevaro, 2006, p. 50). La delega conduce ad una spirale de-responsabilizzante, come già accade oggi all’interno delle aule scolastiche, nelle quali l’alunno con disabilità diventa l’alunno del docente “di sostegno”, con l’insegnante specializzato separato dagli altri docenti, come l’alunno con disabilità viene separato dal resto della classe in aule a loro volta pensate per “i diversi”. Il docente “di classe”7 viene infatti considerato il docente per gli alunni “normali” e il docente “di sostegno” riservato per gli “alunni speciali”. Per Canevaro, invece, il sostegno deve essere di tipo “evolutivo”, ossia “dovendo operare per l’integrazione, deve avere una funzione più chiaramente evolutiva” (Canevaro, 2014, p.197). tale normatività dell’agire educativo diventa ancor più radicalmente antagonista alla “delega”, se rivolta a superare la stessa integrazione, per muovere verso una prospettiva inclusiva. La delega educativa è una delle conseguenze del permanere di un modello medico ed individuale della disabilità, ispirato ad una visione “conservativa” della salute, così come viene messo in luce dalla corrente di pensiero dei Disability Studies (DS) (Oliver, 1990; Medeghini et al., 2013), che a tale visione si oppongono. Secondo i DS, il modello medico ha comportato: una conseguente differenziazione delle responsabilità educative e formative degli insegnanti fra i processi di apprendimento ritenuti normali e quelli relativi agli alunni ritenuti con disabilità e con difficoltà, […] una delega dei processi di apprendimento e dei problemi scolastici definiti “difficili” a figure specializzate (insegnanti di sostegno, psicologi, neuropsichiatri) e una progressiva deresponsabilizzazione e delega degli insegnanti verso la presa in carico di tali problemi (Medeghini et al., 2013, p. 16).
La questione dell’inclusione sembra quindi essere qualcosa di cui si debba occupare in maniera prevalente un personale “dedicato” prima ancora che specializzato; invece, proprio in quanto espressione del contesto e non pretesa dei soggetti, essa è una questione che riguarda “tutti e ciascuno” all’interno e all’esterno delle istituzioni scolastiche; ognuno certo con un suo ruolo specifico, 7
Il contrasto alla delega educativa passa anche attraverso l’uso di un linguaggio appropriato, capace di andare oltre le dizioni di senso comune di “insegnante di classe” vs. “insegnante di sostegno”, indicando nuove prospettive di significato e di azione educativa.
I. Riflessione teorica
ma nella sinergia dei diversi attori. L’inclusione necessita della sostituzione della delega con la corresponsabilizzazione educativa di tutti i membri della comunità scolastica – dalle famiglie, ai docenti, al personale non docente, al dirigente scolastico, agli alunni, ma anche alle diverse presenze territoriali – perché entrando nel meccanismo della delega si rischia che nessuno si occupi di una dimensione che invece riguarda la vita sociale nel suo complesso e nella sua complessità. Come afferma Medeghini: Rispetto alle figure dell’insegnante di sostegno e di classe […] permangono ancora difficoltà ad uscire da una sorta di delega che vede l’alunno disabile in carico all’insegnante di sostegno e a collocare l’esperienza di integrazione all’interno dei percorsi della classe. […] Come si può constatare, nonostante progressi e cambiamenti positivi, permangono nel tempo carenze che probabilmente sono strutturali e che possono essere modificate […] attraverso un ripensamento della figura dell’insegnante di sostegno e della conseguente presa in carico dell’alunno disabile (Medeghini, in Medeghini, 2006, p. 43).
Pur nella condivisione di fondo di questa denuncia, lo stesso permanere nella citazione di Medeghini di aggettivazioni oscuranti, come quella di alunno disabile anziché in situazione di disabilità, o di espressioni materialistiche, come quella di presa in carico, è un segno delle resistenze culturali alla spinta trasformativa che i tempi attuali oggi ci chiedono. Anche il rapporto tra scuola e servizi sembra proprio ribadire con forza il principio della delega: si avverte la necessità dello specialismo per insegnare agli alunni con disabilità. La scuola stessa ricorre alla delega forte al mondo sanitario, non valorizzando adeguatamente le competenze pedagogico-didattiche dei docenti e riparandosi dietro limiti di funzionamento certificati. Goussot – figura emblematica per la sua lotta contro ogni cultura omologante e disimpegnata – ben ci allertava nei suoi scritti sui rischi della delega, ricordando che le funzioni di insegnanti e specialisti sanitari vanno invece tenute ben distinte; “questo vuol dire, soprattutto, non confondere osservazione pedagogica o psicopedagogica con osservazione clinico-diagnostica; non trasformare gli insegnanti in operatori della diagnosi clinica e gli alunni in potenziali portatori di disturbi e di ‘comportamenti-problema’. Lo sguardo pedagogico deve rilevare le potenzialità, senza ignorare le difficoltà e i problemi, e non andare a caccia di sintomi e disturbi” (Goussot, in Gaspar, 2014, p. 162). La richiesta continua di ricorrere ad una sempre maggiore quantità di “risorse aggiuntive” che non è possibile garantire è l’espressione, anch’essa paradossa, di un modello di welfare assistenzialistico in crisi, destinato a lasciare il posto a quello generativo (Vecchiato, 2013); lo stesso parossismo emerso con la crescita esponenziale di certificazioni e relazioni di tipo medico successive all’emanazione della L.170 sui DSA e alla Circolare sui BES del 2013. Il ricorso sempre maggiore alle certificazioni cliniche al fine di avere personale aggiuntivo e l’aumento del numero dei docenti specializzati necessari all’applicazione della normativa vigente, testimoniano l’incapacità da parte della scuola di promuovere la creazione di contesti realmente inclusivi, nei quali la possibilità di partecipazione per tutti gli alunni e di accoglienza della diversità sia in grado di ridurre la disabilità, contrastando la creazione di contesti di micro-esclusione all’interno delle scuole co-
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muni. La stessa presenza architettonica e funzionale dell’aula di sostegno nei plessi scolastici, non fa che legittimare e al contempo alimentare i fenomeni di push e pull out come prassi largamente diffuse nelle scuole (Demo, 2014, 2015; Medeghini et al., 2013), che non consente di realizzare l’equità nei sistemi scolastici. La presenza di spazi “speciali” come le aule di sostegno, destinate soltanto ad alunni ed insegnanti “speciali”, è la conseguenza oggettivamente riscontrabile di tale distorsione escludente, dato che inclusione, più ancora che “integrazione significa prima di tutto esserci: significa che gli alunni con disabilità condividono appieno le attività scolastiche quotidiane dei compagni” (Demo, 2014, p.202) e che tutti condividono tempi e spazi della scuola come ambiente inclusivo, capace di differenziare i facilitatori e i contesti di apprendimento, contrastando la prassi in cui il “bisogno” viene fatto corrispondere alla difficoltà intesa come “disturbo” anziché come sfida alle diverse potenzialità di sviluppo. Come ribadito nell’audizione già citata, la conseguenza di questa prassi è di far coincidere la parte con il tutto, facendo precedere le specificità di funzionamento – distinte da marcatori riconoscibili – alla globalità della persona che viene misconosciuta, mentre il rischio operativo è quello di omologare i processi, le pratiche e le opportunità educative. La premessa fondamentale per una reale trasformazione inclusiva della didattica e dunque degli spazi e tempi dell’insegnare e dell’imparare è l’adozione di un modello evolutivo non meramente adattivo, nel duplice senso di tendere a ricondurre le diversità all’omologazione e di basare la progettazione didattica su una flessibilità puramente “responsiva” a limiti che devono essere necessariamente resi evidenti in una azione di “disclousure” delle differenze. In tal senso l’Universal Design, contenuto nella stessa Convenzione ONU dei Diritti delle Persone con Disabilità, rappresenta un paradigma rivoluzionario e antidoto concettuale e pragmatico alla delega di responsabilità e funzioni.
2. La corresponsabilità educativa
Assicurare la corresponsabilità educativa tra tutti i docenti che operano nell’azione di insegnamento inclusiva , indipendentemente da qualifiche logistiche (“di classe”) e di funzione (“di sostegno”), implica la capacità professionale, oltre che umana, non solo di rispondere alle necessità di tutti gli alunni, ma di cogliere e liberare le aspirazioni che alimentano i diversi progetti di vita; ciò comporta, in primis, un approccio collaborativo, cooperando e di condivisione nel lavoro educativo-didattico al fine di consentire a tutti gli alunni la piena partecipazione alla vita scolastica. La partecipazione è infatti una componente fondamentale dell’inclusione, intesa come condizione di cittadinanza e di agency universale (Santi, Di Masi, 2014). Per la costruzione di una scuola realmente inclusiva tutti gli insegnanti devono diventare dei facilitatori per i percorsi di apprendimento di tutti gli alunni, attraverso “il superamento della divisione tra formazione dell’insegnante curricolare e di quello specializzato, restituendo così la responsabilità professionale ai docenti per un insegnamento che si rivolga a tutti gli alunni e studenti” (Medeghini et al., 2013, p.16). Dato che, come sostiene il Repertorio degli Impegni verso l’Inclusione (Santi, Ghedin, 2012) la partita dell’inclusione si gioca sulla creazione di reti e sulla condivisione da parte di tutta la comunità sco-
I. Riflessione teorica
lastica di una cultura inclusiva, che poi si esplica in scelte politiche e pratiche inclusive, ricondurre semplicisticamente il dibattito dell’inclusione ad una partita che giocano soltanto gli insegnanti “di sostegno” è riduttivo rispetto ad un fenomeno così complesso, che deve andare al di là della fortuna dell’incontro di un buon docente specializzato, ma deve essere in primis sostenuto da un’impostazione dell’intero sistema scolastico in senso inclusivo. L’idea di fondo è che la scuola inclusiva sia la buona scuola per tutti quelli che la abitano, adottando l’inclusione come paradigma e filosofia che fa da sfondo ed unifica l’esperienza scolastica, trasformando la scuola in una comunità inclusiva. Ciò consente la crescita qualitativa ed umana dell’istituzione scolastica nel suo insieme, senza limitarsi ad un miglioramento di prestazioni specifiche e indipendenti. Da questo punto di vista, al di là delle critiche che il modello di “evoluzione del sostegno” proposto da Ianes ha incontrato (Ianes, 2014), è evidente che Anche l’istituzione intesa sotto il profilo organizzativo dovrebbe beneficiare del raggiungimento di obiettivi importanti a seguito di processi di integrazione riusciti: maggiore flessibilità organizzativa, abilità di gestire situazioni critiche e conflittuali, capacità di attivare collaborazioni interistituzionali e con le famiglie, capacità di documentare e sperimentare e di rendere consapevoli e far crescere valori inclusivi (Ianes, 2014, p.14).
Fin dalla legge 517/77 si afferma il principio della contitolarità del docente specializzato, e quindi del fatto che i docenti dedicati al sostegno didattico degli alunni con disabilità sono responsabili di tutti gli alunni della classe e non soltanto dei bambini con certificazione. La valorizzazione del docente specializzato passa attraverso la ridefinizione del suo ruolo professionale che va inteso non come rapporto 1:1 dell’alunno con disabilità con il “suo” docente dedicato, ma come rapporto di una classe polimorfica ed eterogenea con il corpo docente, fatto di esperti specializzati in aree diverse e complementari della didattica inclusiva, entro il quale l’insegnante specializzato nelle attività di sostegno didattico è realmente una risorsa del contesto, riferimento per tutti gli alunni, attivatore di sviluppo attraverso metodologie, approcci e linguaggi capaci di “adempiere la promessa di una classe differenziata” (tomlinson, 2006). La pratica costante ed esperta della variazione, modificabilità e dinamicità delle prassi didattiche quotidiane è il vero antidoto intenzionale che un professionista inclusivo può adottare per contrastare interventi omologanti, conducendole verso una direzione inclusiva, necessariamente aperta alla molteplicità di mezzi e esiti dell’azione educativa. Ma cosa implica incrementare le competenze di didattica per l’inclusione nella formazione iniziale e in servizio? Innanzitutto vuol dire aumentarne la presenza all’interno dei percorsi formativi della didattica (generale e disciplinare) per tutti i docenti che operano nella realizzazione del curricolo, in modo che tutti siano in grado di proporre in aula metodologie inclusive, capaci cioè di essere sufficientemente ampie e aperte da essere in grado di accogliere tutte le diversità presenti in classe. Non dovrebbe più esserci il passaggio automatico dall’alunno in difficoltà (non con difficoltà) all’insegnante “di sostegno”; passaggio che avvalla un’attribuzione della difficoltà all’alunno anziché alla situazione, perdendo l’occasione di cogliere sfide evolutive e non consentendo di fatto la creazione di contesti didattici inclusivi per tutti. Piuttosto il lavoro sull’inclusione dovrebbe essere
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fatto lavorando in vista dell’eliminazione/riduzione degli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione. La soluzione più praticabile attualmente – considerando l’assegnazione differenziata dei posti in servizio – è quella del co-teaching, con ruoli professionali interscambiabili. Il co-teaching da un lato ribadisce ciò che la legge 517 già prevedeva; dall’altro ripristina la possibilità di lavorare insieme, mettendo in atto una sinergia virtuosa tra docenti “di classe” e “di sostegno”, offrendo modelli e esempi di didattica praticabile all’interno dei contesti d’aula (Ghedin, 2013a; Ghedin et al., 2013b; Ianes, Cramerotti, 2015), come dimostrano anche le numerose sperimentazioni e ricerche in ambito internazionale. Condizione necessaria ma non sufficiente perché si possa parlare di co-insegnamento è la compresenza, ovvero la possibilità di essere contemporaneamente nell’ambiente dell’aula; ma la vera compresenza è una pratica che si articola in tre fasi: la co-progettazione, il co-insegnamento, la co-valutazione (Ghedin et al., 2013; Ianes, Cramerotti, 2015; Friend, Cook, 2003), e ciò consente lo sviluppo di pratiche didattiche diversificate nella classe nella quale si realizza, ad esempio l’utilizzo di metodologie maggiormente attive, di tipo laboratoriale, che vadano oltre alla lezione frontale. La possibilità di lavorare in compresenza consentirebbe ad esempio di utilizzare metodologie didattiche maggiormente inclusive quali l’apprendimento cooperativo (Johnson, Johnson, Olubec, 2015), il tutoring (topping, 2014), la didattica laboratoriale, la diversificazione dei materiali, l’utilizzo in senso inclusivo delle tecnologie: con la presenza di due docenti è infatti più semplice l’organizzazione di attività in piccoli gruppi. Con l’attuazione della compresenza si possono notare benefici per tutti gli alunni, sfruttando in modo positivo le situazioni in cui gli alunni esperiscono delle difficoltà, garantendo la possibilità di fruire di ambienti di apprendimento sfidanti per ognuno; migliora inoltre il clima di classe grazie a metodologie didattiche centrate sugli studenti. Non più ruoli fissi, dunque, e suddivisi rigidamente, ma la possibilità di un interscambio fecondo tra competenze più approfondite in ambito disciplinare e competenze maturate in esperienze di didattica inclusiva, permettendo al contempo sia la “contaminazione” tra repertori professionali, che la piena valorizzazione della professionalità del docente specializzato per le attività di sostegno, spesso considerato docente minor all’interno dei consigli di classe pur avendo – almeno sulla carta – più elevata qualificazione. Il paradosso corrente, che riduce chi ha un percorso di formazione più qualificato ad un ruolo professionale limitante ancorché limitato, deve essere riconsiderato. Il vizio diffuso che declassa il ruolo di sostegno didattico affidandolo a professionisti non qualificati e spesso demotivati a farlo deve invece assolutamente finire. Allo stato attuale, in assenza di una effettiva formazione di didattica inclusiva per tutti i docenti in servizio e di una specializzazione vincolante per accedere ai posti temporanei “sul sostegno” ciò che accade nelle nostre scuole è una delega impossibile, oltre che paradossa e una assunzione di irresponsabilità spalmata a più livelli istituzionali, prima ancora che di una responsabilità competente e legittima da condividere. Anche il principio della continuità didattica da garantire a tutti gli alunni, in particolare a quelli con disabilità – aspetto esplicitamente oggetto della norma recente – rischia di non poter essere realizzato se si continua ad assistere ad un massiccio “passaggio” – termine che ne sottolinea la discontinuità e disomogeneità – dal ruolo “di sostegno” a quello di docente “di classe”. A fronte di tale “esodo” non ci si è mai preoccupato però di indagare con sistematicità quali sono I. Riflessione teorica
le reali motivazioni che portano a scegliere di transitare in altra funzione che viene vissuta di fatto come altro ruolo professionale. Gelati afferma a questo proposito che le motivazioni di questo passaggio vanno ricercate nell’“insoddisfazione, disagio, frustrazione che riscontriamo tuttora anche tra gli insegnanti che hanno conseguito la specializzazione” (Gelati, in D’Alonzo, Caldin, 2012, pp.137138). Il burn-out e la demotivazione professionale dei docenti specializzati, già fortemente presente nel contesto attuale, non può che acuirsi se relegati ad una carriera separata e non integrata con gli altri docenti, sia in termini di formazione che di profilo professionale. Si tratta di una conseguenza possibile entro una “riforma del sostegno” che va tenuta in debita considerazione, dato che un docente demotivato non può essere un buon docente. Ritenere la specializzazione dei docenti non una risorsa per tutti da valorizzare e gratificare, ma un vincolo e un ostacolo alla libera scelta di sviluppo professionale delle proprie aspirazioni e opportunità – quasi una sorta di contrappeso all’accesso riservato al servizio in ruolo – non sembra soluzione in grado di togliere la causa del problema, ma solo di evitare il sintomo. Chiudere le opzioni non alza mai la qualità dell’impegno. Quindi tale rischio, di conseguenza, ricade sugli alunni stessi e sulla qualità dei processi inclusivi che si realizzano nelle scuole. Resta inoltre sommerso e pericoloso il fraintendimento concettuale e operativo cui si espone il principio stesso di continuità didattica con simili espedienti normativi: si confonde la continuità pedagogica, metodologica, valoriale ed economica verso l’inclusione, che si esprime negli orientamenti, scelte e impegni indicati e condivisi dalla comunità scolastica nel richiesto Piano triennale dell’Offerta Formativa e nel Piano Annuale per l’Inclusione e non nell’attribuzione continua di un docente ad un alunno, con rischi evidenti di relazioni disfunzionali e non sostenibili nel progetto di vita.
3. L’inclusione come valore sistemico
Se dovessimo proporre una autentica riforma del ruolo del docente “di sostegno” essa coinciderebbe con lo spostamento dell’asse dal piano delle risposte al diritto individuale e privato di persone “speciali” a quello del dovere collettivo delle comunità a sostenere uno sviluppo umano fiorente e generativo proprio perché inclusivo. Occorre qualificare i docenti per il sostegno all’inclusione prima e oltre che alla disabilità, dando loro strumenti concettuali e operativi per realizzare contesti inclusivi in modo diffuso e dinamico. Sostenere l’inclusione è necessariamente un compito distribuito, ma non per questo non identificabile entro l’agency professionale; sicuramente non è riconducibile alla padronanza di conoscenze frammentate sulle patologie e nemmeno alla destrezza nell’uso di tecniche dispensative e compensative. Atteggiamenti e valori assunti a sostegno della propria pratica professionale contano e fanno la differenza nella trasformazione delle prassi didattiche (Camedda e Santi, 2016) verso l’inclusione, connotandola come costrutto complesso sostenibile solo entro un sistema complesso di credenze e pratiche, nella quale il tutto non emerge come somma delle parti. Nella teoria degli insiemi, ad esempio, l’inclusione è una relazione tra gli elementi di due insiemi, tale che gli elementi della relazione appartengono ad entrambi gli insiemi. In altre parole, nell’inclusione tutti gli elementi che sono parte di un
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insieme coincidono con tutti o alcuni elementi che sono parte di un altro insieme. tale definizione di inclusione ha il vantaggio di definirla sulla base non delle proprietà degli elementi degli insiemi includenti e inclusi, ma delle relazioni che stabilisce tra gli insiemi e i loro elementi, relazione che consente di distinguere l’inclusione, ad esempio, dall’immersione o dall’appartenenza di un insieme ad un altro. L’inclusione non è dunque lo stato di un sistema o di un oggetto nel sistema, ma una relazione tra sistemi. La sua stessa valutazione, oltre che implementazione, non può essere che complessa e dinamica. Solo a partire da questa consapevolezza sarà possibile ripensare alla complessità e dinamicità stessa della formazione e dell’azione inclusiva dei docenti. Anche il solo ricondurla non esclusivamente ad indicatori di efficacia dell’intervento didattico, ma alla tripartizione dei processi inclusivi proposta dall’Index for Inclusion (Booth, Ainscow, 2008, 2014), in culture, politiche e pratiche inclusive, è interessante per il cambiamento di prospettiva. Necessario diventa porre l’accento sull’assunzione di valori inclusivi come ideali regolativi e come substrato degli atteggiamenti che possono evitare il fenomeno della delega e favorire invece la corresponsabilità educativa e didattica. La stessa scuola, con le sue scelte progettuali e pedagogiche, deve riuscire a garantire giustizia ed equità, contribuendo alla realizzazione ed espansione delle capabilities degli studenti (Biggeri e Santi, 2010) ridestinando i sistemi educativi al ben-essere e ben-diventare delle persone e delle comunità. É dunque una questione di cultura: secondo Booth e Ainscow (2008, pp.116117), “le culture rappresentano il cuore del processo di qualificazione della scuola, e il rafforzamento di valori inclusivi condivisi e di relazioni collaborative può condurre a cambiamenti nelle altre due dimensioni. É attraverso culture scolastiche inclusive che i mutamenti nelle politiche e nelle pratiche possono essere portati avanti dal gruppo insegnante e dagli alunni”. La scuola si connota come “contesto condiviso di apprendimento e sviluppo” (Santi, 2006, p. 66); affinché sia una comunità fiorente, in grado di garantire a tutti i suoi membri la possibilità di agency, è necessario che sia anche un contesto inclusivo, nel quale ciascuno possa coltivare i mezzi per realizzare le proprie aspirazioni partecipando alla crescita sociale. Se l’inclusione è una questione di valori, essa ha che fare con le scelte; in questo senso, molto ha a che vedere con l’oggetto e il senso stesso dell’autonomia scolastica (da “auto-nòmos”, che significa darsi la norma da sé): l’inclusione è un atto di scelta e di responsabilità forte, che la scuola dell’autonomia, come scuola libera e non come mera esecutrice di norme per l’integrazione, fa per dare valore al curricolo di tutti gli allievi, operando con una didattica differenziata, perché equa e giusta. Qui il richiamo a Canevaro, con la sua idea di “scuola giusta” (Canevaro, 2013) è inevitabile: la questione più importante diventa trovare la lente attraverso cui si riescano a individuare e contrastare gli elementi di non equità che la scuola quotidianamente propone, i quali sono più facili da individuare rispetto a quelli di equità. E l’inclusione sembra essere una buona lente. Lorella terzi, nell’applicare il Capability Approach nell’ambito della disabilità, sottolinea come l’educazione inclusiva si trovi sempre tra due visioni contrapposte, che definisce “il dilemma della differenza” (terzi, 2005): da una parte, il riconoscimento delle diversità individuali, che produce però al contempo il rischio di etichettamento e segregazione formativa, e dall’altra il considerare tutti uguali in maniera indistinta, non riuscendo così a rispondere adeguatamente alle diverse indiviI. Riflessione teorica
dualità. Il Capability Approach consente, secondo terzi, il superamento di questo “dilemma” attraverso i concetti di giustizia ed equità ed il riconoscimento della diversità umana, ponendo al centro, al posto dei concetti di menomazione e disabilità, quelli – positivi – di capability e functionings. Su questi concetti positivi potrebbe essere orientato lo stesso ripensamento formativo della funzione docente a sostegno dell’inclusione. 3.1 L’inclusione come processo, prodotto e procedura
La “triplice alleanza” tra culture, politiche e pratiche è una buona strategia per alimentare un progetto scolastico e sociale inclusivo per le società del futuro, che sicuramente investe l’oggi di una responsabilità formativa nuova. Da un punto di vista “strategico” e per una operazionalizzazione formativa e valutativa, è utile considerare l’inclusione attraverso un’altra triade interpretativa, considerandola come un processo da attivare e alimentare, un prodotto da far emergere, una procedura trasformativa dei contesti. Sono tre dimensioni complementari diverse dell’inclusione che ci aiutano a chiarirne premesse e azioni possibili. Applicando, ad esempio, questa interpretazione triadica dell’inclusione al documento di legge della “Buona Scuola”8 ne emerge un uso limitato che lascia implicito ogni riferimento teorico del costrutto. Risulta difficile intendere se e quando l’inclusione è intesa nella normativa come un processo da attivare, come un prodotto da valutare, o come una procedura da applicare. tale distinzione invece è illuminante e sostanziale, sia sul piano didattico che organizzativo e istituzionale. Se la scuola deve essere “buona”, tale aggettivazione non può essere lasciata esposta al de gustibus; l’inclusione, declinata secondo la triade suggerita, può consentire di esplicitare i criteri regolativi per giudicare l’agency inclusiva delle persone e delle comunità. 3.2 L’inclusione come processo
Cosa comporta concepire l’inclusione come processo? Suggeriamo di seguito una interpretazione biologico-evolutiva ed una relazionale-comunicativa. Dal punto di vista biologico ed evolutivo potremmo dire che l’inclusione è uno sviluppo trasformativo che si muove tra ad-attamento e di ex-attamento. Assumere questa polarizzazione dinamica richiede non poco sforzo, perché la scuola – ma non solo essa – è assuefatta ad una esasperazione centenaria del rinforzo ai processi adattivi, mentre ha sostanzialmente ignorato la funzione evolutiva creativa dell’exattamento. Purtroppo non è solo la scuola ad aver dimenticato il valore generativo di questa dialettica del cambiamento, sottovalutando quello che i due paleontologi, Gould e Vrba, hanno definito “a missing term of evolution” (Gould & Vrba, 1982). La scienza, la cultura e anche l’economia del-
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L. 107/2015. Per un’analisi critica della legge: Baldacci, M., Brocca, B., Frabboni, F., Salatin, A. (2015), La Buona Scuola. Sguardi critici dal Documento alla Legge, Milano, Franco Angeli.
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l’ultimo secolo si sono concentrate su una sola componente funzionale delle specie viventi, assumendo come prospettiva evolutiva quella selettiva darwiniana e portandoci a credere che la sopravvivenza e lo sviluppo siano il prodotto della forza e delle funzioni adattive, considerate come condizioni necessarie e sufficienti del successo evolutivo. Ne deriva che un bambino deve essere in grado di sviluppare positivamente le funzioni adattive per poter essere vincente entro il contesto evolutivo del suo tempo, pena la difficoltà di integrazione ambientale e sociale. Che cos’è invece l’ex-attamento, e perché è così importante? È una direzione estrinseca dell’agire umano e della sua propensione all’azione (attamento); potremmo definirlo una sorta di “adattamento creativo”, che non si comprende esclusivamente in termini di risposta immediata a necessità di sopravvivenza ambientali. È, cioè, un “uscire dai binari”; è fare qualcosa di nuovo con un mezzo o con una funzione originariamente comparsi ed fino a quel momento utilizzati esclusivamente e/o prioritariamente per altri scopi. In altre parole, l’exattamento è una sorta di qualità emergente da un uso esplorativo inatteso. L’esempio che i due paleontologi fanno è quello delle piume degli uccelli. Le piume compaiono negli anfibi per proteggerli dallo sbalzo di temperatura nel momento in cui escono dall’acqua; evolutivamente hanno una funzione termica. Ma senza piume non è possibile volare: le piume non sono comparse per volare, anche se senza piume non si vola, prerogativa ora considerata “normale” per gli uccelli. Così come le corde vocali non sono lì per cantare, ma per bloccare il reflusso esofageo; eppure senza corde vocali non si canterebbe, opportunità ben esperita nel comportamento umano “tipico”. Questi esempi possono aiutarci a comprendere cosa implichi nella scuola promuovere e sostenere l’inclusione attraverso il recupero della dialettica generativa di adattamento-exattamento, traducendolo operativamente nella differenziazione didattica (dall’individualizzazione alla personalizzazione). Questo significa non solo promuovere opportunità di sperimentazione creative, ma esplorare intenzionalmente forme autenticamente alternative della cognizione, della comunicazione e della comprensione (Wiggins & Mctighe, 1998; Gardner, 1987, 1999). Ciò risulta tanto più favorito – di principio e nella prassi – quanto più si è in grado di far spazio e di accogliere l’imprevisto come benvenuto (Santi, 2016). Infatti, non potendo sapere in anticipo quali sono le possibili deviazioni dalla norma, l’exattamento contempla un rapporto positivo con la sorpresa, il rischio, l’incertezza. Prevede anche una forte tolleranza dell’errore e una certa disponibilità a prendere in considerazione elementi inutili, o che non sembrano essere immediatamente utilizzabili per un fine noto (e degno di nota) che stiamo perseguendo o che siamo abituati a richiedere. Sicuramente non possiamo promuovere processi inclusivi se ciò che ci sfugge ci spaventa, invece che incuriosirci e provocare la nostra ricerca! Sul piano operativo, ciò conduce ad una diversa operazionalizzazione del “sostegno”, non con interventi diretti sulle capacità “residue”, ma agendo sui contesti per favorire, moltiplicare e amplificare le opportunità offerte a tutti da un diverso funzionamento (Santi, 2015). Sul versante pratico ciò invita, invece che a compensare o dispensare ciò che un deficit “impedisce”, a cercare forme emergenti di azione intenzionale e poi di attività condivisibile, cercando di superare il riduzionismo funzionale che i limiti di un abilismo selettivo pone e che la cultura dominante impone. Detto in modo forse più suggestivo, anziché continuare a porre I. Riflessione teorica
la questione in termini di “perdita”, vale la pena di esplorare ciò che la normalità di funzionamento finisce per assopire, se non inibire. Come suggerisce il titolo evocativo di un libro di Oliver Sacks (1989), lo sforzo che un normo-udente dovrebbe fare per cogliere diversamente il paesaggio sonoro è quello di provare a “vedere voci”, o comunque quello di impegnarsi – eticamente e concettualmente – a non negare altri paesaggi possibili. Considerare l’inclusione come processo evolutivo – adattivo ed exattivo – vuol dire dunque pensarla necessariamente come processo esplorativo, con componenti relazionali e comunicative specifiche. Evolvere esplorando significa predisporsi alla ricerca di possibilità. Il cuore del processo inclusivo è dunque sostanzialmente euristico. Esso inoltre è dialogico, perché scaturisce dal domandarsi “altro” dall’abitudine e dal chiedere qualcosa d’altro, diverso da sé. Includere, come processo di ricerca che ammette altre possibilità è un atto comunicativo aperto, che non può ridursi a chiudere uno scambio dando la risposta adatta ad una richiesta legittimata dall’esterno. Inclusione è anche accettare che una domanda generi altre domande; con la consapevolezza che quello che conta è capire il senso e il valore intrinseco di questo stesso domandare, più ancora che trovare la risposta migliore per soddisfare un bisogno. Chiedere, come processo relazionale e comunicativo, può ridursi ad una ri-chiesta/pretesa autoreferenziale volta alla soddisfazione immediata; domandare apre ad una prospettiva a lungo termine, predisponendosi ad accogliere anziché ad escludere possibilità. L’inclusione, come processo di evoluzione creativa guidato da una comunicazione esplorativa, non ha tempi stretti e non cerca la soddisfazione, ma la provocazione. L’inclusione così posta non pianifica i tempi del sostegno sulla base di standard prefissati per soddisfare l’emergenza, ma matura i tempi appropriati per lasciar/far emergere la positività dalle situazioni. Una riforma del sistema scolastico che prenda la forma di processi inclusivi così intesi, implica anche il formare professionisti disponibili a mettersi in gioco continuamente nel contesto e consapevoli di essere essi stessi fattori contestuali in grado di favorire o compromettere i funzionamenti umani e la stessa evoluzione del mondo. È questa sensibilità al contesto – oltre che alla responsabilità nella storia – che ci predispone come educatori a cercare con insistenza, perseveranza e persino coraggio l’emergere dell’agency in ogni persona, per riconoscere o inventare gamme di facilitatori (le capabilities interne ed esterne, come le definiscono Biggeri e Bellanca, 2010) delle diverse progettualità di vita. I docenti specializzati sono dunque educatori allenati nell’osservazione delle diverse performance; nella rimozione delle diverse barriere allo sviluppo; nella valutazione delle potenzialità plurime; piuttosto che esperti di tecniche connesse in modo automatico alla natura dei deficit. Spostare il focus sul processo inclusivo sposta quindi anche il focus del sostegno: dall’intervento e/o trattamento del “caso”, all’azione di accompagnamento nella realizzazione delle aspirazioni delle persone immerse in attività partecipate. Riprendendo la terminologia di Amartya Sen, la scuola con tutte le sue componenti umane e strutturali deve divenire “fattore di conversione” dei progetti di vita, anzi, delle vite progettanti dei propri abitanti. Considerare l’inclusione la forma dinamica del sistema scolastico pone in questione anche la possibilità di valutarne la qualità attraverso indicatori statici. L’unità di analisi dell’azione inclusiva – sia in termini organizzativi che didattici – anno IV | n. 2 | 2016
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cambia e non può essere ridotta alla qualità assoluta del sostegno individuale dedicato all’alunno e lo “stato” di inclusione raggiunto; il focus diventa il cambiamento reciproco; la co-evoluzione sistemica; e ciò richiede una valutazione dinamica e una unità di analisi distribuita. Con questa logica il Repertorio di Impegni verso l’Inclusione9 propone di sostituire l’adozione di criteri con l’assunzione di impegni. Il CtI Repertoire (Commitment towards Inclusion Repertoire) è infatti uno strumento di valorizzazione (nel senso etimologico del termine di “dare valore”) degli impegni per l’inclusione (Santi, Ghedin, 2012), perché la forma del sistema diventi la sua sostanza. L’inclusione come prodotto. Se concepire l’inclusione come processo ne dinamizza l’operazionalizzazione, cosa comporta leggerla come prodotto? Cominciamo escludendo che ciò corrisponda alla possibilità di riconoscere e determinare se, quando e quanto un alunno o una alunna sono “inclusi”. La scuola, infatti, non è inclusiva perché è includente; ma perché è sistemicamente predisposta a non escludere. Sono evidentemente due cose diverse che aspirano a mete differenti. Essere includente significa essere capace di chiudere dentro un altro elemento. Questa accezione fagocitante e occlusiva rendono il costrutto di inclusione così dibattuto nei contesti internazionali, e addirittura rifiutato laddove se ne intravede una spinta alla colonizzazione della diversità e delle minoranze. Se la scuola non è includente allora il bilancio attivo dell’inclusione non riguarda la quantificazione degli inclusi. Se però la scuola può essere un sistema inclusivo, ovvero disponibile strutturalmente all’alterità e capace di creare opportunità di sostenere le perturbazioni in modo autopoietico, allora i “prodotti” sono le qualità emergenti di questo sistema, come si esprimono nei progetti di vita diversi, a loro volta in grado di aprirsi ad altre vite possibili. L’inclusione come prodotto equivale dunque alla qualità e alla molteplicità dei progetti di vita che ne scaturiscono, in forma individuale e collettiva. Per “progetto di vita” non si intende una programmazione definita ed esplicita nelle sue mete; questo rischia di diventare una condanna o una pretesa che spesso finiscono per offuscare il senso stesso dei processi di orientamento. La qualità e la forza di un progetto di vita non dipendono dalla certezza dell’esito, ma dalla ricchezza immaginativa che alimenta e modifica le attese e che contribuisce a far emergere la meta. Così un progetto di vita si concretizza sostanzialmente non nei risultati ottenuti, ma nella dimensione progettante che colloca i risultati nel continuum della nostra vita. È appunto la vita come progettualità che dà il senso all’umana esistenza. Questa prospettiva rende l’orientamento una questione di collocazione in un paesaggio e di riferimenti entro un orizzonte, più che una faccenda di direzioni univoche da imboccare di volta in volta di fronte ad un bivio. La produttività dell’inclusione corrisponde alla capacità di generare e sostenere vite progettuali aperte. troppo spesso invece la persona con disabilità diventa oggetto di proiezioni riduttive di altri, chiusa in esiti prefissati che finiscono per diventare fissazioni. Se la progettualità di vita è esito condiviso, allora una vita progettuale è necessariamente inclusiva e ha bisogno di reti di sostegno per 9
Santi M., Ghedin E., Valutare l’impegno verso l’inclusione: un Repertorio multidimensionale, in Giornale Italiano della Ricerca Educativa, (V) pp. 99-111. Lecce: Pensa MultiMedia, 2012.
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dispiegarsi. Ecco che “misuro” l’esito, cioè il “prodotto” dei processi inclusivi, nella qualità delle vite progettuali e nel modo in cui il contesto è in grado di sostenere le progettualità entro una “comunità fiorente” che li mette in relazione e li contamina, non che accumula progetti di vita individuali e separati. L’inclusione come procedura. Un approccio epistemologico alla questione inclusiva è a questo punto utile sia in senso “normativo” – per indicare cosa va fatto per realizzarla – che metodologico – per controllarne lo sviluppo. Considerare l’inclusione in prospettiva procedurale consente di estrapolarne gli elementi di metodo che ci consentono di trasformare un sistema in senso inclusivo e di mantenerlo tale nelle sue trasformazioni. Questa dimensione ha molto a che vedere sul piano ontologico e fenomenologico con l’azione didattica e i suoi principi. In senso più operativo l’aspetto procedurale ci è utile per comprendere cosa vuol dire fare a scuola didattica inclusiva. Di fatto disporre di una procedura rientra tra gli aspetti metodologici di una azione. Essa propone dei dispositivi che servono di fatto a “regolamentare” e “regolarizzare” un procedimento e controllarlo nelle sue fasi e negli esiti. tale “normalizzazione” di fatto poggia su assunti di regolarità dei processi che consentono di applicare in circostanze diverse “modi” simili per fare le cose. Ogni procedura prevede elementi di ripetizione ma non si riduce ad un “meccanismo”. In verità proprio la ripetizione è ciò che garantisce la variazione, introducendo elementi di aleatorietà sia nell’applicazione che negli esiti. Avere a disposizione una procedura inclusiva non significa dunque ricondurre la varietà e l’incertezza, che caratterizzano la quotidianità, ad una omogeneità: includere non vuol dire normalizzare. Alla base della procedura inclusiva c’è la messa a tema della ripetizione come opportunità di variazione, che genera un atteggiamento, un’abitudine inclusiva, ovvero una apertura sistematica alla diversità. Da questo punto di vista l’inclusione come procedura è assimilabile all’improvvisazione. L’improvvisazione infatti non è altro che un metodo che paradossalmente consente di uscire da ogni metodo, attraverso la variazione sistematica dei sui elementi (contenuti, spazi, tempi, mezzi, scopi, ecc.) all’interno di procedure ripetute. L’assimilazione di questa dimensione procedurale si trasforma in una vera e propria forma mentis distribuita tra tutti coloro che operano nel sistema, rendendolo autopoietico nelle sue trasformazioni e in tal senso inclusivo, nel senso di capace di co-evoluzione e reciprocità. La memoria – anch’essa sistematica – delle variazioni si trasforma in repertorio di possibilità. Avere un repertorio di procedure inclusive vuol dire avere a disposizione delle tecniche da usare spontaneamente, utilizzando l’improvvisazione (Santi, 2010, 2016a, 2016b; Santi & zorzi, 2016a, 2016b). L’improvvisazione inclusiva è esattamente lo spazio in cui il massimo expertise mostra che la tecnica deve essere fortemente posseduta per non sapere mai quando e come la si userà; questa padronanza e questo rischio è esattamente il tipo di equipaggiamento e atteggiamento che poi diventa la procedura che si ha a disposizione per operare nelle e delle trasformazioni nei e dei sistemi. In altre parole, ci si allena e ci si prepara ad essere impreparati di fronte a quello che accadrà, per vivere autenticamente il valore e l’opportunità che pone ogni diversità. É evidente che tale aspetto procedurale della didattica inclusiva pur fondamentale per valorizzare le diversità di funzionamento di ogni alunno non è una componete metodologica “speciale”, ma una padronanza che deve appartenere a tutti i docenti in una scuola inclusiva. Ecco perché – tornando alla queanno IV | n. 2 | 2016
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stione iniziale della formazione dei docenti prevista nella “Buona Scuola” – il rischio di una formazione separata e comunque diversamente orientata tra docenti “di classe” e “di sostegno” non consente l’auspicabile arricchimento di competenze inclusive da parte di tutti coloro che operano nel sistema scolastico (dirigenti inclusi…). Se l’inclusione è – e vuole continuare ad essere – un elemento strutturale e caratterizzante del nostro sistema scolastico, ogni docente dovrebbe essere in grado di utilizzare in aula didattiche inclusive. Le didattiche iperspecializzate sulle singole disabilità sulle quali sembra puntare la proposta di riforma del sostegno accentuano i fenomeni di pull-out dai contesti di classe ordinari delle “diversità” che invece consentono ai sistemi di essere strutturalmente inclusivi. I metodi e le tecniche “speciali” invece che dispositivi “occasionali”, nel senso di adatti nelle diverse occasioni di utilizzo per tutti, sembrano essere oggi considerati la cosa più importante in se stessi e unicamente rivolti all’alunno con disabilità. Uscire da questo specialismo è la condizione per rendere la nostra scuola inclusiva, ovvero aperta proceduralmente ad ogni altro ancora, specialmente se diverso. Le implicazioni strutturali e organizzative di una prospettiva di questo tipo comportano nel medio termine un potenziamento della corresponsabilità educativa nelle forme ad esempio del co-insegnamento; nel lungo termine dovrebbero prevedere il superamento della specializzazione nel sostegno didattico intesa in senso “contrattuale”. Il “ruolo” di sostegno dovrebbe definirsi in modo dinamico entro la progettazione didattica che l’autonomia scolastica già prevede come flessibile e non necessariamente centrata sui singoli alunni e su classi stabili. Una dinamicità di ruoli nella stessa figura professionale, portando l’intero corpo docente alla padronanza delle forme fondamentali della differenziazione e variazione didattica a sostegno delle diversità funzionali è a nostro avviso la direzione più auspicabile e coerente con la strada anche normativa già intrapresa dal nostro paese già con la legge 517. Un forte profilo di didattica curricolare con approccio inclusivo deve essere la base di partenza per ogni docente. Una specializzazione nelle tecniche e repertori di variazione metodologica e di linguaggi di comunicazione e concettualizzazione in relazione ai diversi funzionamenti umani dovrebbe diventare prerogativa di tutti gli insegnanti, parallelamente ad un aggiornamento in servizio su aspetti specifici della concettualizzazione entro i diversi codici e statuti disciplinari, indipendentemente dalla presenza di deficit. L’impiego del personale docente nei diversi progetti didattici del Piano dell’Offerta Formativa, con ruoli intercambiabili e ottimizzati per la massimizzazione del successo formativo entro le aree previste dall’autonomia organizzativa, metodologica e di ricerca della scuola. Un’utopia? No. Solo una riforma non cosmetica della scuola, in grado forse di restituirle il valore originale ed etimologico di “spazio libero e liberato”, anche da esiti funzionali piuttosto al liberismo della competitività dei mercati. Ciò che caratterizza la prospettiva pedagogica all’educazione è quello di avere al centro della sua riflessione l’infanzia come luogo e tempo della crescita. Crescere in contesti inclusivi è insieme condizione e meta di uno sviluppo umano inteso come crescita dell’umanità intera. La didattica può contribuire in modo sostanziale e concreto a realizzare questo tipo di contesti, specie laddove, come nella scuola, vi sia un mandato sociale, politico e culturale in tal senso. Considerare l’inclusione come un processo, una pratica e una procedura consente di affrontare questo compito complesso con qualche dispositivo epistemologico ed I. Riflessione teorica
etico in più, valorizzando la diversità come occasione di trasformazione materiale ed etica delle comunità. Ciò diventa prioritario in momenti di crisi e laddove ci siano necessità di rivedere le politiche scolastiche; sempre che si continui a ritenere la scuola un contesto non solo di conservazione culturale, ma di cambiamento sociale ed economico. Un’economia non solo di mercato cui la scuola risponde addestrando le competenze in agoni competitivi, ma – come ha sottolineato Amartya Sen – di supporto alla crescita delle comunità e delle persone. Allora si sceglierebbe di essere insegnanti grazie ad una vocazione verso la crescita individuale e collettiva dei giovani invece che ridursi ad essere dei monitor del loro sviluppo atteso; si sarebbe insegnanti prima ancora perché “maestri ignoranti, inventori e improvvisatori” (Kohan, Santi, Wosniak, 2016) – sulla scia di esempi come Socrate o Ranciere, ma anche Lodi e Manzi. Si farebbe così una scelta pedagogica importante e allora sì, le difficoltà non diventerebbero, prima o poi, “disturbi” individuali e collettivi, ma sarebbero finalmente il motivo per cui l’insegnante sta lì, a scuola, a fare didattica. tutti gli insegnanti per tutti gli alunni.
Riferimenti bibliografici
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I. Riflessione teorica
The use of ICF-CY in Italian school and Evidence Based Education approach: data and research perspectives
Key-words: ICF-CY, Evidence Based Education, Special Educational Need, school inclusion
II. Revisione sistematica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
anno IV | n. 2 | 2016
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The purpose of this article is to describe jointly and cross-data the opportunities offered by the use, in the perspective of Evidence Based Education (EBE), of the International Classification of Functioning, Disability and Health for Children and Youth (ICF-CY) in research and instructional design as it emerged from the results of three surveys conducted by the University of Roma Tre. According to the ICF-CY conceptual framework and the EBE perspective, three studies have been designed to obtain a composite overview from which we can highlight: the current level of knowledge and use of this classification by the teachers of the Italian school; the possibility to implement such use by means of appropriate teachers’ training activities; the possibility to collect, pre and post specific support activities, integrated data about activity and participation of all students. Data analysis is presented in order to give a contribute to the dissemination of information collected by a rigorous research design in the field of special education.
abstract
Lucia Chiappetta Cajola / Università degli Studi RomaTre / lucia.chiappettacajola@uniroma3.it Marina Chiaro / Università degli Studi RomaTre / marinachiaro@gmail.com Amalia Lavinia Rizzo / Università degli Studi RomaTre / amalia.rizzo@uniroma3.it
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1. Introduction
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The purpose of this article is to describe jointly and cross-data the opportunities offered by the use, in the perspective of Evidence Based Education (EBE), of the International Classification of Functioning, Disability and Health for Children and Youth (WHO, 2001, 2007)1 in research and instructional design as it emerged from the results of three surveys conducted by the University of of Roma Tre2 (Italy). These researches highlight the possibility of using tools available both in educational and statistical field as the International Classification of Functioning, Disability and Health for Children and Youth (ICF-CY) to implement a process of collection, analysis and knowledge of all the elements that make up the educational processes within an inclusive perspective. The aim is to activate a virtuous circle of continuous and gradual improvement of the educational system, particularly for students with disabilities, Learning Disabilities (LD) or other Special Educational Needs (SEN). Within this perspective, the ICF model3 is considered to be a herald of the educational perspective regarding both the Italian (Chiappetta Cajola, 2012; Ianes, 2004; Ianes, Cramerotti, 2011; Paradal et al, 2009; Miur, 2009, 2012, 2013) and the international scholastic context (Simeonsson, 2009; Hollenweger, 2011). In fact, within the dialectic on Special Educational Needs, the ICF model offers a relevant input (Simeonsson, 2003; Florian et al., 2006; Reindal, 2008) through the presentation of a theoretical and practical model based on human rights (UN, 2006). Such model can be profitably integrated with the current scholastic procedures used in order to promote the receptiveness and the participation of the students in the field of the inclusive perspective4. Through the use of several categories that describe the characteristics of children, teenagers and context, the ICF-CY allows the collection of data regarding the human functioning with a 1
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“A version of the ICF for children and youth, ICF-CY (WHO, 2007), expanded the content of the four components by including documentation of child characteristics from infancy through adolescence. (…) The conceptual framework can guide a holistic and interdisciplinary approach to assessment and intervention based on the dimensional taxonomy of human functioning.” (Simeonsson, 2009, p. 71). The researches are the followings: A) Inclusive teaching: the new technologies in the ICF-CY, (Chiaro, 2015); B) Identification of guide lines to certificate competencies of pupils with disability: the use of ICF-CY categories in the inclusive perspective (Education Department’s research, RomaTre University (full results available in Chiappetta Cajola, 2015); C) Approachs for support activities in the inclusive perspective: the expertise of support teacher in lower secondary school (Rizzo, 2014). “The ICF-CY offers an alternate approach yielding a profile of limitations of functioning, activities, and participation. Further, it emphasizes the identification of environmental factors that may influence such functioning with implications for planning individualized interventions” (Simeonsson, 2009, p. 72). “The ICF-CY offers a conceptual framework and a common language and terminology for recording problems manifested in infancy, childhood and adolescence involving functions and structures of the body, activity limitations and participation restrictions, and environmental factors important for children and youth. With its emphasis on functioning, the ICF-CY can be used across disciplines, government sectors and national boundaries to define and document the health, functioning and development of children and youth” (WHO, 2007, p. XII).
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multi-dimensional and a collaborative approach that involves scholastic, healthcare professionals, and families. It also allows the organization of such data, thanks to a system of qualifiers that specify whether the interaction between the individual and the environment is problematic or positive. Within this view, despite some criticism on the fear of new labeling and consequent discrimination, the ICF-CY proves to be at present the most effective and widely shared tool to identify special individual needs without reducing them to special problems of the individual, but rather extensively connecting the functioning and the disability to environmental factors in a holistic and interactive view of the individual himself. Among the factors that led to draw the attention on the need to obtain methodologically valid knowledge, a significant contribution comes from the perspective of Evidence Based Education, an orientation that, while animated by different approaches, is engaged in the construction of a shared scientific knowledge, through the production of clear synthesis of knowledge, such as systematic review and meta-analysis5 on the efficacy of different educational choices (Calvani, 2012; Vivanet, 2014). Supporters of this point of view want to promote a culture of evidence to sustain the various learning activities taking into account that an incorrect data collection, an inadequate presentation or an inappropriate statistical analysis do not make it possible to understand and check the results, or the comparison with other educational research analysis, as required by the recent research orientation Evidence Based Education (Hattie, 2009, 2012; Calvani, 2013). Although the ICF-CY is spreading within the procedures of assessment managed by the Health Service (Ianes, Cramerotti, 2009) and certain Italian researches have verfied his efficacy in order to reduce the barriers in the environment and to improve scholastic participation of students with disability (De Polo et. al. 2009), the application of the ICF-CY within the schools is still limited, (Chiappetta Cajola, 2015) even if the diffusion of ICF research and the use in a great variety of fields and scientific journals is a proof that a cultural change and a new conceptualization of functioning and disability is happening (Cerniauskaite, 2010).
2. The research process within the inclusive perspective: features of Italian model
As in all experimental scientific researches, in special education science as well, the knowledge of concepts and statistical methods to deal with different types of problems is essential: from support indicators to the re- definition of 5
“A systematic review is a secondary survey method, characterized by the adoption of a standardized protocol, which aims to collect and analyze all of the most significant studies on a given topic/research problem. (Chalmers & Altman, 1995; Oakley et al., 2005). A meta – analysis is a statistical technique for data synthesis, expressed in terms of effect size (Glass, 1976)” (Calvani, et al. 2014, p. 231) (trans. by authors).
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instructional design, to indicators dealing with assessment; from indicators related to research methodology to those related to evaluation and to the inclusive educational system as a whole (Domenici, 2006). In order to define specific indicators and to validate and interpret the results of experiments in an inclusive perspective, a strict planning is needed throughout all phases of the research, from the definition of objectives and data collection, to their description, analysis and interpretation of results (Mitchell, 2014; Newbold, Carlson, Thorne, 2010, Hattie, Gan, 2011; Chiaro, 2012; Hattie, 2012; McMillan, Schumacher, 2013). In addition, it is essential to deepen the relationship between research methodology in general and inclusive teaching in particular, mainly at microsystem level, to assess and validate the effectiveness of the educational experimentation and innovative designs concerning students’ learning, specifically focusing on the implementation of education for pupils with SEN in the mainstreaming. As the international scientific community, the Italian community too widely debates on the change of perspective from the idea of integration to the one of inclusion (Avramidis, Norwich, 2002; Booth, Ainscow, 2014). This process is not only based on strategies aimed at bringing students with SEN to be as similar as possible to other students, measuring the distance from a supposed standard of adequacy, but it is also based on the recognition of the importance for all individuals, students with SEN in primis, of full participation in school life (UNESCO 2005, 2009). In fact, according to the inclusive perspective, the schools must remove the obstacles to learning and to participation of students and enforce the facilitators in order to improve as more as possible inclusive cultures, policies and practices. The Italian school is strongly looking to achieve the inclusive perspective because in this country the expression “students with SEN� (UNESCO, 1997; OEDC, 2005-2007) conveys the great heterogeneity of pupils attending the mainstreaming. In Italian classes, in fact, to encounter with student having every kind of disability (mental or motor deficit, autism, down syndrome ecc.), Learning Disabilities (e.g. dyslexia, ADHD, ecc.) or social disadvantage is common (ISTAT, 2016). Recently, an important Italian national research has attested a big gap between the normative indications and what is actually done in the schools for inclusion (Associazione Treellle, Caritas Italiana, Fondazione Agnelli, 2011). Within the more critical elements are the lack of cooperation between subject teachers and support teachers to plan the Individualized Educational Plan (Chiappetta Cajola, 2007; Ianes, Demo, zambotti, 2010) and the increment of the activities realized outside the class (Demo, 2014). As a matter of fact, stakeholders need to have tools and methodology available to work and to collect data in a collaborative way and a group of Italian researchers6 are dealing with, also in the field of special education (Calvani, 2012; Chiappetta Cajola, Rizzo, 2014, 2016; Chiappetta Cajola, 2015, Chiappetta Cajola, Chiaro, Rizzo, 2016; Cottini, Morganti, 2015; Rizzo, 2015, 2016; Chiaro, 2014, 2015), the identification of tools and methodologies by EBE perspective that 6
The Society for Learnining and Istruction Informed by Evidence (SAPIE) was founded in 2015 (www.sapie.it).
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permit the collection of information relating to students and context and, therefore, to offer schools a range of educational and evaluative design choices, able to promote a comprehensive approach and take the most effective decisions jointly in an inclusive perspective.
3. ICF-CY to support EBE research and instructional design
In this context, the use of the ICF-CY in all phases of a EBE research process becomes more than relevant, in the definition of theoretical framework, aims, hypothesis and methods of data collection and analysis. The ICF-CY conceptual framework introduces important elements of systematic scheme, language universality and information recording, within an integrated approach in a multidimensional model of functioning and disability. In particular, using the required common language (Simeonsson, Simeonsson, Hollenweger, 2008), it is possible to provide a scientific basis to understand and compare different experiences of learning design within the same class or between classes of the same school or different schools at macro-system level. The benefits of ICF-CY in the early stages of instructional design allow us to consider the various existential dimensions of the individual, not only how individuals live with their disease, but also how to establish and implement appropriate educational plans aimed to improve the quality of their lifetime. In Italy, recent regulations of the Ministry of Education (MIUR) promote an increasingly widespread and radical use of ICF-CY also in educational institutions and as a basis for designing inclusive education with special reference to the “Environmental Factors” that characterize the school context. The ICF-CY classification fully reflects a new model of disability, promoting a comprehensive approach, which includes global capabilities, the various resources of an individual, while keeping in mind that the personal, natural, social, and cultural context clearly affects the possibility of expression of these resources. According to this approach, considering the various aspects related to a person’s health condition and the relative context, disability is defined as “a health condition in an unfavorable environment” (WHO, 2001, 2007). In this framework, context plays a major role, where various elements can be qualified as a “barrier” if they obstruct the activities and participation of the person, or as “facilitators”, if on the contrary they encourage activities and participation. In particular, the standard scheme provided by the ICF-CY tool for teachers and educators allows to observe and distinguish the “functioning” of the child or adolescent in an integrated view of the different aspects of growth and in different environmental contexts, so that it can be used operationally as a basis for designing inclusive education7. 7
For example, using a standard language it is possible to detect unambiguously and systematically different aspects in the daily learning modules, such as: whether and how the child or adolescent accesses an educational program, whether and how he/she goes from one level to another, if
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The use of the ICF-CY as a tool to support an inclusive education design highlights a new dynamic development between the Functional Diagnosis, the Dynamic Functional Profile, the Individualized Education Plan and life plan, as it extends the concept of Individualized Education Plan even beyond the school term in a perspective of inclusive educational guidance (Chiappetta Cajola, 2015); furthermore, it can be referred to all students with or without SEN. Operatively the use of the ICF-CY helps to describe the student with regard to the difficulties he/she might experience in the fields of education and extracurricular activities, even as far as his/her development potential in the short and medium term is concerned, thereby putting in a curricular perspective the objectives for development areas (sensory, motor-praxis, neuro-psychological, emotional and relational, communicational, autonomy related etc.) (Chiappetta Cajola, 2012). In the context of a gradual and continuous improvement required by the educational processes in an inclusive perspective the ICF-CY is a potential synthesis generator of reliable and rigorous knowledge in an EBE perspective (Chiappetta Cajola, Rizzo, 2014, 2015; Chiaro, 2014, 2015; Chiappetta Cajola, Chiaro, Rizzo, 2016), in order to integrate the results obtained from the research with specific educational planning to improve its effectiveness and to activate a virtuous circle of mutual influence relationships (Calvani, 2012; Cottini, Morganti 2015). A study realized in several nursery and in infant schools of Rome (Italy), has illustrated that using tools based on ICF-CY allowed the subject and support teachers to observe each child with disability playing and to notice the weakness of the educational context (Chiappetta Cajola, Rizzo, 2014). According to this framework, in the field of educational research and inclusive teaching, the use of Core Set8 based on ICF-CY (Chiappetta Cajola, 2015), on one hand supports data collection about the person, the context and about their interaction; on the other hand, it permits to have an unambiguous language to describe the condition of people with disability overtaking linguistic ambiguity typical of special education that makes the sharing of data and information more difficult (Calvani, 2012; Chiappetta Cajola, 2014).
4. Research methods
In this paper we will refer to three researches: Research A, Research B and Research C. Objectives, methods, research questions, results analysis and their interpretation will be described for each research.
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he/she makes or not progresses within a school education program, if he/she terminates an educational program or some school stages and so on. The definiton of Core Sets, that identify within the common curriculum several abilities and competences in line with the educational outcomes, is considered by UNESCO an instrument that can implement the quality of the curriculum itself (http://www.unesco.org/new/ en/education/themes/strengthening-education-systems/quality-framework/core-resources/ curri culum/).
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According to the ICF-CY conceptual framework and the EBE perspective, three studies have been designed to obtain a composite overview from which we can highlight the following research questions: the current level of knowledge and use of this classification by the teachers of the Italian school; the possibility to implement such use by means of appropriate teachers’ training activities; the possibility to collect, pre and post specific support activities, integrated data about activity and participation of all students (L.104/92; MIUR, 2009). The research activities have been developed, as the World Health Organization urged strongly to do, in order to investigate ways to clarify and expand the possibilities for the use of ICF-CY, with particular regard to the use of the codes and their “quantification” (through ICF “qualifiers”), the interpretation of categories and the development of “additional qualifiers” (WHO, 2007, pp. 220 e 231). 4.1. Research A: “Didactic strategies of inclusion: new ICF-CY technologies”
This research has been designed by using the mixed methods approach, a methodology that involves collecting, analyzing and integrating quantitative (e.g., experiments, surveys) and qualitative (e.g., focus groups, interviews) research in a single study or a program of inquiry (Creswell & Plano Clark, 2011). In particular, among the different methods, an integrated or concurrent nested design9 approach has been chosen, which has a primary method that guides the project and a secondary database that provides a supporting role in the procedures. Given less priority, the secondary method (quantitative or qualitative) is embedded, or nested, within the predominant method (qualitative or quantitative). In this research plan the first set of data collection has concerned a longitudinal or diachronic quantitative research in order to measure any changes in time of the same indicators observed on the same cases under investigation (Corbetta, 2003, vol. II, p.194). The choice of the method has been consistent with the main purpose of the study related to the possibility of evaluating in the sample10 of teachers involved in the training course, the presence of the relationship/impact between a participation in a training course with partial use of new technologies (blended ) and an inclusive educational design in the ICF-CY perspective. Particularly within the conceptual framework of the ICF-CY, the environmental “Potentially useful implementation of the ICF-CY is the development of “core sets” of codes to summarize an individual’s functional abilities. A core set consists of selected ICF-CY codes that serve as indicators of functioning for a specific condition. (…) The development of ICF-CY core sets related to intellectual and developmental disabilities could facilitate the application of the ICF-CY in multidisciplinary practices of assessment and intervention” (Simeonsson, 2009, p. 72). 9 Creswell and Plano Clark described four mixed methods research designs referred to as strategies of inquiry that guide the construction of specific features of a mixed methods study: concurrent triangulation design, sequential explanatory design, sequential exploratory design and integrated or concurrent nested design. For further details see Creswell & Plano Clark, 2011, pp. 73-76. 10 Sample: Teachers participating to the Master «Didactic and PsycoPedagogy for pupils with Learning Difficulties» (2011/2012) at RomaTre University. Sample Size: 105 teachers (not probabilistic sample) (Cohen et al., 2007).
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factors11 have been considered as facilitators of the “functioning” of the pupils in a dynamic-evolutionary sense, included in the chapter “products and technologies” in which the code e130, specific for education, includes “Equipment, products, processes, methods and technology used for acquisition of knowledge, expertise or skill, including those adapted or specially designed” (WHO, 2007, p. 194). Such code includes general, assistive products and technologies for education also by referring to the need to use compensatory equipment and assistive technologies for students with SEN. The teacher training has been considered in the framework of the communities of practice (Wenger, 2006), consequently the research’s goals were mostly about two macro-areas: the former examines the specific aspects of the teachers’ motivations towards the participation to the training course in light of the LifeLong Learning, with a specific reference to the role that they attribute to the new technologies used within the school planning; the latter aims to analyze the professional behavior of the teachers during the everyday activities in connection with the process of inclusion of the students with SEN and with the use of the ICF-CY classification during the phases of the school planning. The two surveys have been conducted by a semi-structured interviews12: the
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11 “Environmental factors are defined as ‘the physical, social and attitudinal environment in which people live and conduct their lives’. The person-environment interaction implicit in the paradigm shift from a medical to a broader biopsychosocial model of disability requires special attention to environmental factors for children and youth. A central issue is that the nature and complexity of children’s environments change dramatically with transitions across the stages of infancy, early childhood, middle childhood and adolescence. Changes in the environments of children and youth are associated with their increasing competence and independence. The environments of children and youth can be viewed in terms of a series of successive systems surrounding them from the most immediate to the most distant, each differing in its influence as a function of the age or stage of the developing child. (…) The young child is significantly dependent on persons in the immediate environment. Products for personal use must be adapted to the child’s developmental level. (…) For older children, the environments of their everyday life are closely connected to home and school and, for youth, gradually become more diversified into environments in the larger context of community and society. Given the dependence of the developing child, the physical and social elements of the environment have a significant impact on its functioning. Negative environmental factors often have a stronger impact on children than on adults” (WHO, 2007, p. XVI). 12 The questions aimed at the knowledge of the following aspects: the students’ diversities, the potential planning tools for school inclusion: the available equipment supplied by the school and the possibility for them to be used during the school activities: the teachers’ expertise about the ICF-CY classification as a planning equipment and his practical use during school activities; the level of training regarding technologies and teachers’ expectations that follow the participation to the attendance to the Master; the teachers’ point of view about the role and the relevance conferred to technologies during the school planning. Particularly this last aspect has been observed through the use of a Likert scale with 5 modes of answering (Corbetta, vol. II, 2003). Fourteen items have been identified: current schools teach how to efficiently use PC and the Internet; digital competencies are essential in the present society: the use of technologies effectively helps the inclusion of students with disability; the role of technologies during the phases of school planning for students with SEN is important; it is not necessary that all teachers are familiar with the technologies for students with SEN; schools should own assisting technologies for students with SEN; all teachers should use didactic technologies during their daily learning activities; the teachers need to be trained to how to use
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first at the beginning of the training (june, 2012); the second at the end of the training (December, 2012). The research design, considering the conceptual framework of the Evidence Based Education, which mainly accept Randomized Controlled Trial (RCT)13 sampling plans, has considered a less “rigid” sampling design, since the EBE can “... also accept almost experimental or empirical systematic surveys or observations collected under controlled conditions ...” (Calvani, 2012, p. 26). The second set of data collection has concerned a qualitative research by the selection and the analysis of the final thesis written by the teachers at the end of their training14. The most significant thesis has been used for supporting the quantitative analysis and it focused on teaching inclusive design, which have considered the new technologies according to the codes provided in the section “Products and Technologies” of the ICF-CY. 4.2 Research B ”Identification of guide lines to certificate competencies of pupils with disability: the use of ICF-CY categories in the inclusive perspective”
This research plan has involved 13 Schools in Italy in two time periods15. The main objectives have concerned the measuring of the diffusion degree of the ICF – CY within the school for inclusion and the identification of a proposed guide for the construction of a skills certification models on the basis of the ICF-CY. According to the methodology used to conduct Research A, in this study the mixed methods approach has been designed. As said before, it combines quantitative and qualitative research techniques, methods, concepts or language into a single study (johnson, Onwuegbuzie 2004). In particular, for this research the concurrent triangulation design has been considered, thanks to which qualitative and quantitative data are collected concurrently but separately. Two different surveys (the former qualitative, the latter quantitative) have been simultaneously conducted and the data collected have been integrated in the last phase of analysis of the results (Creswell, Plano Clark, 2011). technologies; the use of didactic software should be limited to specific occasions, with both students with SEN and with other students. Schools should periodically arrange training courses on technologies for students with SEN; the design of e-learning platforms that follows the criteria of inclusion represents an advantage for all users, regardless of the attendance of students with SEN; the acquisition of digital competencies must be a priority within the planning of learning paths for students with SEN; the e-learning system is an essential strategic resource for the training of teachers. 13 The RCT method employs an experimental group and a control group randomly. Randomization concerns the random choice of the elements that go to constitute the sample. 14 Within the sample of the quantitative survey (105 teachers) all thesis have been examined, in order to verify the use of technologies in the inclusive school planning. Four of these thesis represented the same amount of case studies. 15 The two surveys have been conducted from October to December 2012. 13 schools have been considered. 13 principals have been interviewed for the qualitative research and 408 teachers have been interviewed for the quantitative research (non-probabilistic sample). For further details about the methodology see see Chiappetta Cajola, 2015.
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The quantitative survey has been carried out according to the theoretical perspective of descriptive research using a structured questionnaire. As foreseen by the research plan, teachers have been provided of two structured questionnaires; one for teachers working in primary and lower secondary schools, the other for teachers in upper secondary schools. The thematic areas of these two models, which are defined coherently with the research goals, have been the following: a) attributed data regarding the interviewed teachers; b) data regarding the school planning for students with disability; c) evaluative strategies used for students with disability; methods and equipment; d) methods used to certify the competences of students with disability; e) expertise and application of the ICF-CY. The qualitative survey has been conducted through face to face interviews using the support of a semi – structured questionnaire. (McMillan & Schumacher, 2013). The thematic areas concerned: a) date collected in schools, with particular reference to the presence of students with disability, support teachers or other professionals b) planning of educational activities, also the ones specific for school inclusion; c) expertise and application of the ICF-CY; d) methods used to certify the competences of students with disability.
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4.3 Research C: “Approaches to support activities in the inclusive perspective: the expertise of the support teacher in lower secondary school”
This research has been designed by using the method of Design-Based-Research (Dede 2004, 2005; Wang, Hannafin 2004; Nelson et al. 2005; Pellerey 2005, 2011). It has employed the specific expertise16 of the support teacher to innovate the curriculum of classes attended at least by one student with mental retardation (Rizzo, 2015, 2016)17. In three lower secondary schools, during the year (2011/12) teachers adopted a specific meta-model that researcher designed to realize innovative support activities. These activities concern the realization of interdisciplinary workshops, managed in a playful way and addressing all students, in which the student with disability can systematically interact with his classmates for a consistent amount of time18. 16 The debate regarding the use of the notion expertise in the educational field is still open (Calvani 2007, Engeström et al.1995 Ajello 2002). The article refers to the professional competencies of the support teacher, derived from his “double training” as both subject and support teacher. A teacher leadership derives from such expertise, leadership that promotes the functional participation of all teachers in order to create more inclusive educational activities (Rizzo 2016). 17 The research involved a non probabilistic sample (Cohen et al, 2007), composed bt three schools located within the Province of Rome (Italy), a total of 3 classes of intervention and 7 parallel classes, 95 teachers and 187 students of age 11-15, 12 of whom with disabilities. The schools are not identified by their name but by a number for the protection of the privacy of the participants. 18 See Rizzo (2016) for the accurate description of criteria and variables of the meta-model.
II. Revisione sistematica
In the ICF framework, these activities are considered to be an essential Environmental Factor to facilitate learning and participation of student with mental retardation in a inclusive perspective. Particularly, the activities comply with the already quoted environmental factor “products and technology for education” (e130). The research had ascertained whether an improvement in school inclusion could have been possible by changing this environmental factor and therefore by editing the didactic activities during 10% of the time used for leaning (about 100 hours per year). In order to verify the efficacy of this intervention, given the complexity of the paradigm “school inclusion”, at the beginning and at the end of the year, according to the mixed-method criteria (johnson & Onwuegbuzie 2004), data have been collected in relation to the following five areas of interest: type of support activities; their distribution within the curriculum; implementation of inclusive cultures, policies and practices; general aspects of school life; students’ capability to participate and their learning abilities; association within the class19. Particularly, the ICF-CY has been employed in order to measure, in relation with the consistent modification towards a more facilitating impact of the environmental factor e130, the potential improvements connected with the level of participation of the students. Teachers, starting from their own professional evaluations, have registered the collected data according to the qualifier “performance” that “describes what an individual does in his or her current environment” (WHO, 2007, p. 13) 20. In their observations, they considered the impact of the environmental factor related to the modification of the organization concerning the support activities, that represents the independent variable of the research project. For this purpose, three chapters have been chosen for the quantitative observations, regarding “levels of participations and learning of the pupils”, chapters that have been considered particularly relevant in the perspective of school inclusion. Starting from pre-selected categories belonging to these chapters, a Core Set has been established. It has been used by teachers to systematically observe the performance (WHO, 2007) level of all students, including the ones with disabilities (Chart.1).
19 Among the assessment tools there are questionnaires for teachers and students from the Index for inclusion (Booth & Ainscow, 2008): the sociometric test (Moreno 1953; Trinchero, 2002; Medeghini & Fornasa, 2011); the semi-structured interviews to privileged witnesses (Corbetta, 2003; Kvale 1996). 20 According to the ICF, in connection with “Activities and Participation”, data can also be collected according to the qualifier “Capacity”. It “describes an individual’s ability to execute a task or an action. This construct aims to indicate the highest probable level of functioning that a person may reach in a given domain at a given moment” and “to assess the full ability of the individual, one would need to have a ‘standardized’ environment to neutralize the varying impact of different environments on the ability of the individual” (WHO, 2007, p. 13). For this reason, teachers can only collect data regarding the qualifier “performance” that includes the environmental factors of the context.
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Chart. 1: Core Set ICF-CY used by teachers to observe pupils
The Core Sets have been presented to teachers in September, during a specific training course which lasted three hours. The compilation of the Core Sets at the beginning and at the end of the year took place during the School Council and it was coordinated by the School Governor. All the recording were realized by the teachers as a whole, who shared the responsibilities of the evaluation for the purpose of an inclusive perspective. At the end of the school year, the effectiveness of the environmental factor “innovative support activities” – regarding the participation and the learning ability codified by the ICF-CY within the Environmental Factors with the category “Products and technology for education” (e130) – has been monitored through interviews to teachers and classmates of the students with disabilities. According to the research hypothesis, in fact, the interdisciplinary laboratorystyle didactic was considered to be a real inclusive facilitator since the playful management would have positively affect the development of the students’ selfadjusting and emotional-relational abilities. In this way, in a sort of virtuous cycle, the students would have developed mutual support behaviors, comprehension and reciprocal help, activating in the contest the facilitator environmental factor that the ICF-CY codifies as the category: “Individual attitudes of acquaintances, peers, colleagues, neighbours and Individual attitudes of acquaintances, peers, colleagues, neighbours and community members” (e425). It is known how the mutual support between peers, that shows itself during the educational activities, is an essential factor for promoting the learning abilities also of students with disability (Brown, Palincsar, 1987; Alfassi, Weiss, Lifshitz, 2009; Calvani, 2014). The research aimed to clarify whether the extension of the time dedicated to the workshop activities, chosen and managed by the subject teacher together with the support teacher, using the methods that allow the student with disability to participate, have a positive effect on the performance of all students, II. Revisione sistematica
not only in terms of learning and applying of knowledge, but also in relation with “Undertaking a single task” and “Managing one’s own behavior”, and regarding the improvement of the “Interpersonal interactions and relationships”.
5. Data Analysis
Data analysis is presented in order to give a contribute to the dissemination of information collected by a rigorous research design in the field of special education. These data can be compared in order to improve inclusive teaching in the mainstreaming. 5.1 Research A and Research B: data analysis
Both Researches (A and B) show an ICF- CY level of knowledge which was not particularly high: 20.0% of teachers from Research A stated to know the ICF-CY at the beginning of the training period, while this value by the Research B is a little higher (29.4%). It is important to notice that the training period on subject for inclusive education for students with SEN, has enabled teachers to acquire greater knowledge of the ICF-CY. In fact, as it can be seen in Fig. 1, statistically significant variations were recorded for all types of answers: the positive ones increased from 20 % during the first survey to 69.6% during the second one (+49,6 p.p.); at the same time the negative ones decrease from 41.9% to 8.9% (-33,0 p.p.). Although, from the first to the second phase of the Research A, the level of the ICF-CY knowledge increases, its use in education is nevertheless still limited, as only 6.7% of teachers who, in the first phase, said they know the classification, have also had the opportunity to be able to use it in educational practice; a similar value at 6% was obtained by the Research B (cfr. Fig. 2)21. The training period seems to have encouraged teachers to use the ICF-CY tool, as this value, at the end of the training Master reaches 18%.
21 The possibility to measure a decrease of the gap between what the teachers have stated to know about the ICF-CY and how they really employ it, does not depend on the realization of a research that “…is simply the check of possible solutions ...” (Lucisano, Salerni, 2012, p.28) and it aims to reveal what the interviewd have stated. In case of research A, the expertise about the ICF-CY of the teachers increases between the first and the sencond phase, and since the training attended by the teachers was not specifically about the application of the ICF-CY in school planning, the limited increase recorded for the use of the ICF-CY proves to be coherent with the typology of training the teachers have experienced.
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Figure 1: Knowledge of ICF-CY (V%)
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Figure 2: Use of ICF-CY (V%)
Generally 72.4% teachers from Research A (71.4% in the first period) believes that classification is an usable tool for all students, not only for students with SEN (cfr. Fig. 3), even though they highlight some areas of improvement about terminology used. This, in fact, is considered appropriate by 57.8% of respondents in the second phase of the research A (60.0% first phase), and this value is higher compared to the opinion of the Research B respondents which is of 46% and is in line with the value of 42% of those interviewees that believe it partially appropriate (cfr. Fig. 4).
Figure 3: ICF-CY can be used for all students (V%)
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Figure 4: Adequacy of terminology used by ICF-CY (V%)
In conclusion, taken into account the values described so far related to the knowledge and usage of the ICF-CY in class by the teachers, it emerges its greater use for defining individualized/customized objectives in primary school (8 teachers cfr. Chart. 2) and for identifying the facilitators for learning and participation than other grades of schools (6 teachers, cfr. Chart. 2), as well as observed for the use of the ICF-CY for the skills certification (4 teachers, cfr. Chart. 3).
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Chart. 2: Processes in which ICF-CY is used
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Chart. 3: Use of ICF-CY for skills certification
5.2 Research C: data analysis
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This section describes the results of the innovative support activities collected by ICF-CY Core Set. The evidences highlight the changes in order to remove the difficulties of learning and participation of pupils with disability of the intervention classes22 on the background of the outcomes of all other students. The survey has been realized by the class board, using the 0 to 4 scale and the note given by the ICF- CY (WHO, 2007, pp. xix-xx)23. In order to identify the levels of difficulty (Chart. 4), teachers interacted after their systematic observations and the results of the evaluation tests. By using categories and codes related to the component “Activities and Participation”, teachers have therefore recorded the presence of performance issues, proceeding with the collection of data pertaining to their own professional field. Such possibility has been highlighted by the classification itself, that stresses the need to consider the several elements as an always dynamic interaction, never predictable, that stimulates each user to gather explicit informations for each component, wisely avoiding the assumption of crossed connections between the limitation related to the activity and the restriction related to the participation, considering the possible impairments of Body Functions and Body Structures whose registration concerns healthcare professionals24. 22 The Functional Diagnosis of students with disability explained the following diseases: Williams Syndrome (School n.1); Autism with moderate mental retardation (School n.2); Moderate mental retardation, emotional disease, attachment to childhood, oppositional defiant disorder (School n.3). 23 “The ICF codes require the use of one or more qualifiers, which denote, for example, the magnitude of the level of health or severity of the problem at issue. (…) All components are quantified using the same generic scale. Having a problem may mean an impairment, limitation, restriction or barrier, depending on the construct (WHO, 2007, p.237). 24 In the ICF-CY introduction we can read “to infer a limitation in capacity from one or more impairments, or a restriction of performance from one or more limitations, may often seem reasonable. It is important, however, to collect data on these constructs independently and thereafter explore associations and causal links between them” (WHO, 2007, pp. 17-8).
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Chart. 4 Levels of difficulty present in the classes of intervention (all students) before and after the innovative support activities
The aggregated answers of all categories draw attention to the positive variations in the classes of schools n.1 and n. 3 (Chart. 4). The variations had been recorded by the whole class group of teachers using ICF-CY Core Set. In the class 2A, the Complete difficulties have been reduced to a half and Severe difficulties have been reduced from 32.6% to 0,7% (T = 2,64, p<.05). At the same time, the value No and Mild difficulties has increased from 34,3% to 83,7% (T=-3,10; p<.05). The class of intervention of school n. 3 (2C) reveals the same positive trend. In fact, the answers No and Mild difficulties had incresed from 45,7% to 69,3% with a significant increase of 10% (T = â&#x20AC;&#x201C;1,73; p<.1). In school n. 2, the situation has remained stationary but this result could be seen as positive since in the parallel class, of the same school, the difficulties have increased. "#$%&'&(!$&)!$**+,'&(! -&./+#)(#!
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Chart 5: Level of difficulties of students with disabilities (classes of intervention)
On this background, the qualitative data about students with disability show that in each classes, the group of teachers using ICF-CY Core Set was able to collect a whole range of the positive consequences of the innovative support activities (Chart 5).
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Also for students with disability, the difficulties had decreased and students had improved their performances. Such results are confirmed by the teachers during the final interviews. Some extracts follow closely behind
School n. 1. «A. is more confident. He goes downstairs alone and he is able to walk around the school without any problems. If he needs something, he asks you. He can manage his agenda, before he didin’t organize anything and he was always joined accompained by the support teachers. Now, he is interested in what appens and he can interact with adults and classmates and he can tell you if something is wrong. He grew up too much. Before the project this was unbelivable!»
School n. 2 «P. didin’t do anythink in autonomy. He used to be always with an adult who took care of him him. He improved his autonomy and he adapted better to change. He needed orderliness and experienced changes in a traumatic way. During the activities, step by step, he learned how to cope with unexpected changes. The project was very useful for him and made him more flexible».
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School n. 3 «T.’s behavior was very aggressive and ofter extreme with teachers and classmates. He didin’t have any autonomy in social skills and in learning. During the year, he developed cooperative and helpful attitudes. Now he is kind of the “engine” of the group!».
6. Concluding observations and research perspectives
The research results offer some causes for reflection aimed at identify methods and equipments used to employ the potentialities of the ICF-CY as a tool that can help the teachers gather informations in a shared way in order to reduce the distance between teachers in order to modernize the didactic and evaluation design in inclusive direction. The use of the ICF-CY, recorded as limited in researches A and B, showed positive results in research C. During research C, the ICF-CY has been employed in class boards within a process of sharing and debate, which is important and in a sense unusual. In fact, in lower secondary schools, during both the delineation of the different levels of learning ability for each student and the final evaluation, teachers usually restrict themselves to only communicate the grade deduced by their observation and by subject-related tests. In this case instead, the debate has not created a simple summation of single grades, but a shared exchange of considerations to which all teachers participated in order to find a common qualification for each
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performance. Furthermore, the debate has been activated in relation with the performances of students with disability, whose observation is usually delegated to the support teacher only. This procedure, together with the phase of training expected by the plan, allows teachers to reach a higher awareness about the need to not to make their evaluations inflexible, by making them pertain to only personal and immutable characteristics of the students, but to open up, even step by step, to the fundamental role of the context. In order for teachers to understand the importance of the anthropological model of the ICF-CY, and of the fundamental role of the environmetal factors within the students’ performance, it has been extremely useful to listen to the different observation each teacher has expressed about the same performance and to notice how, thanks to different didactic organization, the facilitation of learning, undertaking a single task, managing one’s own behavior, and of interpersonal relationship also of students with SEN was promoted. In this sense, it is possible to affirm that, on the one hand, a shared use of the ICF-CY categories for the observation allowed the groups of teachers to discuss the performance of students with and without disabilities, on which the action of the school is decisive, and on the other, and it helped to build operational frameworks in which the activity and participation of students connected to specific environmental factors, such as the modalities of organization, innovative or traditional, of support activities. Such frameworks, elaborated inside of collection methodologies both rigorous and flexible, can be shared not only with families and with health workers, but also with researchers to build a reliable and usable scientific knowledge in policies and practices related to disability (Vivanet, 2013), knoledge that is still struggling to establish itself at national and international level (Chiappetta Cajola, 2014). It is obvious how these potentialities can only be expressed after a precise training on the use of specific Core Sets in schools. Such Core Sets must be created depending upon predetermined targets and taking into account the explicit WHO’ statement about application’s procedures of the Classification in different contexts: clinical, regarding healthcare, educational, scholastic (Bickenbach et al., 2012). In the framework of an analitycal and costructive interpretation of the complexity and the heterogeneity that characterizes Italian classes, the qualification, shared by the teachers, of the categories of the Core Sets available for the schools is included in the support of the so called “Ethics of dialogue” (Morin, 2015) which is the base of the governace of school inclusion (Miur, 2009). In fact, the school-related Core Sets offer many reference points to manage the observation of the student interacting with the context, and, gradually, they become a useful tool in order to create a school team “used” to identify obstacles and to promote the facilitators. Knowing that the new bio-psycho-social model of the functioning proposed by the ICF-CY must yet be translated in operating equipment that supports the inclusive curriculum and in procedures that gather solid evidence, the use of of the Core Sets in schools, in order to help teachers interpret the process of development of the students in relation with the condition of learning arranged anno IV | n. 2 | 2016
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by the schools, appears to facilitate the use of the ICF-CY as a conceptual planner and it starts the creation of a culture of school inclusion always more shared and the creation of a view that bears in mind the role of environmetal factors in school planning and re-planning. Furthermore, the research shows that ICF-CY puts in contact school and academia by going beyond the margins of linguistic ambiguity that often represent the main criticality regarding the sharing of evidence based knowledge (Calvani, 2011). The tool permits to “gather reliable date of current and sought levels and to critically monitor progresses” (Hattie, 2012, p. 168) and it shows the way to the valorisation of the context’s international organization. Together with the standardized language, applicable at international level, the categorization’s theoretical setting out allows the interaction between research and didactics, supporting the interpretation of date in a framework that is coherent with the inclusive perspective. In brief, these Core Sets guide and support the systematic observation of an inclusive nature, since they present the selection of various categories and the related alphanumeric codes which are cross subjects and are valid for all pupils. In this direction, a research currently in progress at the Roma Tre University is verifying the possibility to use ICF-CY Core Sets to certify the competencies of students with disabilities. In particular, the research refers to those categories that in the Classification itself are identified and referred to as “competecies” and that are essential in order to promote the development of key competencies for lifelong learning (European Parliament & Council, 2006). For the contribution to the field test of the modality of certification in schools, there are ICY-CY Core Sets and other related operative tools that teachers can use and that are considered to be able to support efficiently schools’ effort to certify the competence of students with disabilities. Given the required methodological forethoughts (Calvani, 2012), the aforementioned research assumes the EBE orientation and it aim to create and promulgate reliable forms of knowledge related to the certification of competencies of students with disabilities, in order to offer inclusive schools the chance to choose better among the most effective options and to make the appropriate decisions in this field by using the Evidence Best Practice approach (Calvani & Vivanet 2014; Chiappetta Cajola, 2014).
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Autismo: tra prospettive teoriche emozionali ed investimenti educativi trasformativo-inclusivi
The social context in which we live, exerts a considerable influence on the individual, so as to define our personality and affect our development. The American psychologist Bronfenbrenner has, in the theory of Ecological Systems articulation of the social context within which they interact chains of interrelation systems, which affect individual and collective wellbeing. Any adjustments to the education system, means contributing to the creation of motivating significant relationships, in an exchange between systems-environment, what kind of family, class / school, community / society. In the seven points on which articulates the organization of inclusive education presented by the American psychotherapist Erickson, the main issue concerns the use of emotional and motivational management of pupils learning which of address carrier for a promotion of social welfare. The emotions are the driving force of conscious motivation to action, the result of interdependence between rationality and emotionality. In the presence of disorders of the relationship, even with autistic profiles, the teaching-educational investment in the management of emotions and different forms of conflict, towards oneself and with others, is a training challenge for a school that can be defined inclusive.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: emotion, motivation, education, creativity, inclusion
II. Revisione sistematica *
Felice Corona ha curato il paragrafo 1. Tonia De Giuseppe il paragrafo 2.
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Felice Corona / Università degli Studi di Salerno / fcorona@unisa.it Tonia De Giuseppe / Università degli Studi di Salerno / tdegiuseppe@unisa.it
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1. L’inclusività didattico-trasformativa delle emozioni nel contesto formativo
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Nei disturbi dello spettro autistico, come da DSM 5 (American Psychiatric Association, 2013) si evidenzia un’accentuazione del disturbo qualitativo dell’interazione sociale reciproca, della comunicazione verbale e non verbale, in compresenza del ristretto repertorio di attività e interessi (World Health Organization, 1992 ICD-10), la compromissione dell’interazione sociale è tipicamente espressa dal deficit del canale di scambio, privilegiato nel primo anno di vita, vale a dire lo sguardo reciproco (Gison, Bonifacio, Minghelli, 2012, p.24), ma tale competenza non è mai completamente assente e può essere evocata in alcune circostanze. Il deficit sociale si fa più evidente nel secondo e terzo anno di vita, quando si osserva la mancanza di risposte relazionali, con una difficoltà alla condivisione, con interessi circoscritti al mondo degli oggetti e disimpegno dall’attrazione verso stimolazioni reiterate, anche se in presenza di una nuova sollecitazione. Nel corso dello sviluppo, la compromissione dell’interazione sociale si arricchisce di comportamenti sempre più espliciti e caratteristici: come l’utilizzo dell’altro per l’appagamento delle esigenze del momento, come se fosse un prolungamento del proprio corpo (Frith, 2010 ). In altre parole, il rapporto interpersonale non è mai completamente assente, ma è spesso limitato a richieste prive di una concreta condivisione d’interessi, bisogni ed emozioni. Da ciò derivano determinate interconnesse caratterizzazioni della sindrome dello spettro autistico che si manifestano nell’incapacità di: 1) comprendere la mente altrui (teoria della cecità mentale), di interagire emozionalmente, con una compromissione dei processi di simbolizzazione, deficit del linguaggio, deficit della cognizione sociale (Zappella, et al., 2013, p. 2) cogliere lo stimolo nel suo complesso (il deficit della coerenza centrale); comportamenti stereotipati, causati dal deficit delle funzioni esecutive, a cui possono associarsi disturbi del sonno, aggressività (anche autodiretta), fobie e disturbi dell’alimentazione (Gison, Bonifacio, Minghelli, 2012, p. 19). Infatti, si riscontrano (soggetti) iper o ipo-sensoriali, che possono produrre risposte abnormi con connotazioni di emozionalità negativa. L’ipersensibilità può generare imprevedibili gesti di paura o rabbia e contribuire ad un repertorio al freddo. L’iperattività è un altro sintomo frequentemente associato: i bambini autistici, infatti, presentano molto spesso labilità attentiva e condotte auto ed eteroaggressive. L’investimento educativo-inclusivo deve presupporre una progettualità d’interventi pedagogico-didattici strutturati per profili situati, individuali e di contesto, in ottica multidimensionale ed interdisciplinare, incentrata su quadri clinico-anamnestici individuali e sull’analisi situata di contesto.
II. Revisione sistematica
Fig. 1. Sezione generale sinottico esplicativa per competenza comunicativa (De Giuseppe T., 2015, p. 248, in Corona F., Autismi: fenomenologia degli artefatti cognitivi, Aracne, Roma
L’investimento educativo nella gestione delle emozionalità rappresenta una risposta adeguata per la promozione delle competenze sociali e prosociali, fondamenti basilari di processi d’inclusività sistemica di contesto, intesi quali sistemi procedurali di interrelazione, funzionali alla costruzione di contesti inclusivi. Favorire lo sviluppo di una comunità educante inclusiva, attraverso la gestione affettiva e motivazionale, può rendere gli individui consapevoli di percezioni, emozioni e desideri. I punti chiave, per intervenire sulla comunità educante e favorirne il benessere, per lo psicoterapeuta americano del ‘900 Erickson (1982) sono sette: la risorsa compagni di classe; l’adattamento come strategia inclusiva; le strategie logico-visive, mappe, schemi e aiuti visivi; i processi cognitivi e stili di apprendimento; la meta-cognizione e il metodo di studio; le emozioni e le variabili psicologiche nell’apprendimento; la valutazione, verifica e feedback (Zambotti, 2015).
Fig. 2. (sinottico esplicativa per competenza sociale) – De Giuseppe T. (2015), p. 248, in Corona F., Autismi: fenomenologia degli artefatti cognitivi, Aracne, Roma (2015)
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Tra le sette evidenze formative, le variabili emozionali rappresentano il fulcro fondante dell’educativo, che connesso all’aspetto motivazionale determinano l’elemento generatore dei processi d’apprendimento e di socializzazione. L’attribuzione di percezione emozionale, connessa alla condizione dell’essere umano in quanto tale, rappresenta la visione darwiniana, superata da prospettive associabili ai contesti, in ottica di correlazione, diversificazione emozionale e possibile programmazione del riadattamento affettivo-nervoso (Tomkins, Silvan, Messick, 1963; Ekman, 1999). Il metodo standard di confronto emozionale (Ekman, 1999), consente di giungere ad una distinzione sostanziale tra emozioni universali, primarie/di base, ed emozioni di prospettiva contestuale, secondarie, con alto valore di indessicalità, rappresentato da atti, gesti e simboli che definiscono l’intelligibilità emozionale. Le prime, sono rappresentate da: felicità, tristezza, rabbia, paura, sorpresa, disprezzo e disgusto (Gerrig, Zimbardo, 2013, pp. 272-275). Le seconde, generate dal confronto differenziale con gli altri e che determinano una definizione identitaria, si sviluppano dai 18 mesi. Esse sono: empatia, orgoglio, senso di collera, invidia (Gerrig, Zimbardo, 2013, p. 275). Ad arricchire l’identificazione degli stati espressivi emozionali vi sono gli studi inerenti le forme prossemiche di comunicazione non verbale, su cui si fondano modelli sistemici di correlazione concentrica. Le emozioni, in tale ottica, rivestono un ruolo di risposta adattiva, caratterizzata da una catena complessa di eventi (Plutchik, 2001). Gli anelli concatenati sono costituiti da: valutazione cognitiva dello stimolo; esperienza soggettiva; eccitazione fisiologica; impulso dell’azione e comportamento manifesto. L’evoluzione delle emozioni primarie consente la sopravvivenza della specie; ogni emozione primaria, quindi, agisce per permettere la sopravvivenza identitaria. L’intensità della sensazione rappresenta una risposta adattiva, connessa agli stati d’animo e ai vari punti di intensità; può variare tra l’essere intensa o debole e generare forme estreme, come la rabbia/collera/furore, o forme deboli, espresse in fastidio/irritazione. Esiste, inoltre, una somiglianza, tra emozioni, ad esempio tra paura e spavento, rabbia e disgusto, ma anche una sostanziale polarità, che spinge le emozioni ad essere esperienze di natura bipolare, coppie di opposti. Le teorie che seguono la prospettiva evoluzionistico funzionalista vengono superate dagli approcci teorici cognitivisti e socio costruttivisti (Galati, 2002). Fu dimostrata l’attivazione dell’emozione fisiologica (arousal), attraverso processi cognitivi d’attribuzione del significato e l’influenza dei fattori cognitivi e psicologici (Schachter, Singer, 1962), attraverso cui l’individuo dà espressione alla sua motivazione. Fino ad allora le emozioni erano identificate come passioni, contrapposte ai fattori cognitivi. Si parla di situazionalità dei significati, in quanto le emozioni cambiano al modificarsi dei significati: la consapevolezza delle emozioni provate in situazione, consente un dosato, controllato e gestito impegno emozionale. Un tale processo genera, da un lato, la definizione dell’aspetto dinamico e componenziale delle emozioni, con una corrispondenza tra impressione emozionale e espressione manifestazione; dall’altra, l’aspetto dimensionale, determinato dalle continue variazioni e diversa intensità (Plutchik, 2001). Al contesto relazionale si richiama lo psicologo neozelandese Trevarthen (1998), che ha definito le emozioni quale strumento comunicativo innato, funzionale allo sviluppo dell’intelligenza comunicativa e all’adattamento. L’evidenza teorica posta sul contesto sociale, punta alla valorizzazione delle emozioni nello II. Revisione sistematica
sviluppo e nel riconoscimento del linguaggio, della morale e delle credenze. Le emozioni, in quanto fattori d’interazione sociale (prospettiva socio-costruttivista) possono essere previste attraverso l’analisi dei fattori sociali, senza ricorrere all’aspetto biologico-genetico, in quanto ogni cosa viene appresa e non esiste nulla di innato (Galati, 2002). L’esperienza è intensa di rievocazioni emozionali, dalla cui memorizzazione dipende la velocità e intensità dell’individuazione e del riconoscimento. Una emozione (teorie socio-relazioniste) è sempre ubiquitaria e continua (Fogel, 1993): ogni individuo è emozione continua, (Modello BS) nel senso che è sempre emotivamente ed affettivamente attivo, la variazione è nell’intensità dell’esperienza emotiva (Cervi, Bonesso, 2008) ed in quanto tale è in grado di relazionarsi ed integrarsi. Il trasportare fuori, lo smuovere scuotendo stati d’animo e corporeità, a tal punto da modificare visioni individuali e collettive, fino ad agire sul clima sociale è il senso profondo attribuito all’emotionem, dal latino emotus – emovere. Le emozioni, infatti, sono connesse al sistema nervoso della vita vegetativa, all’ipofisi e al sistema ormonale, al movimento con il coinvolgimento del sistema muscolare, ma anche alla razionalità intesa come pensiero cosciente, alla fantasia e alle sensazioni, e pertanto, favoriscono l’attivazione di decisioni ed atti, finalizzati prevalentemente allo spirito di conservazione del sé (o all’adattamento…). La loro attivazione rallenta il pensiero logico complesso, generando azioni di semplificazione e/o generalizzazioni, con un rischio di incorrere in forme di amplificazione di pre-giudizi o scarsa valorizzazione di sensazioni. Ciò potrebbe generare azioni che si collocano antipodicamente tra la fuga, la decisionalità reattivo-aggressiva, o diversamente, in un avvicinamento cautelato rispetto a eventi-stimolo. Nella necessità di armonizzare emozione e pensiero, si colloca il concetto di interdipendenza tra emozionalità, corporeità e pensiero, di cui parla Goleman (1995), espressione delle connessioni esistenti tra l’amigdala e la neocorteccia cerebrale, pensiero e sentimento, razionalità e emozionalità. La memoria di lavoro, che è collocata nella corteccia prefrontale, viene inficiata dai circuiti emozionali, che la connettono al sistema limbico, e generano elettricità neurale statica. Quanto avviene nella psiche genera un conflitto inter-azionale, si ripercuote consequenzialmente sulla elaborazione cognitiva, sul tono muscolare, sulla regolarità respiratoria e sulla frequenza cardiaca. Pertanto, un stato psicologico sofferente, espressione di dis-equilibrio emotivo, genera la difficoltà di ascolto, di riflessione, di concentrazione, con una compromissione dell’apprendimento (Bloom, 1994). Il riconoscimento delle emozioni, che svolgono un ruolo centrale nella conoscenza di sé e nell’acquisizione di self-esteem, implica la comprensione delle cause originarie, da cui dipende la gestione e l’eventuale modifica delle stesse, in modalità riadattata, anche inconsapevole. Inoltre, poiché l’emozione, si manifesta in specifiche aree del corpo, l’acquisizione di metodologie conoscitive di auto-osservazione risulta molto utile nel fronteggiare la complessità delle quotidiane situazioni emozionali da gestire. Aspetto questo da cui una scuola inclusiva non può prescindere, attraverso la pedagogia dell’evocazione. La capacità di adeguamento/modifica strutturale del sistema nervoso ci riconduce al concetto di adattabilità (Berthoz, 2013), volto alla costruzione e individuazione di soluzioni alternative, vicarianti. Da ciò deriva la vera sfida dell’apprendimento e dell’insegnamento, quale processo vicariante, che consiste nell’individuazione di metodi adeguati ad ogni cervello, dunque, al singolo indianno IV | n. 2 | 2016
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viduo. In linea al principio della vicariance, la teoria e pratica pedagogica della gestione mentale, (de La Garanderie, 2005) afferma che i comportamenti pedagogici individuali sono la diretta conseguenza di abitudini evocative, messe in atto dal singolo, per la codifica e decodifica di messaggi e contenuti della conoscenza. L’introspezione pedagogica induce alla elaborazione cognitiva responsabile che supera l’intuizione per accogliere e ri-elaborare il profondo significato interiore connesso al sentire individuale, l’incorporeo. Si tratta di investire in traiettorie non lineari, che si sostanziano sia di elementi fisiologici, biologici sia un insieme di caratteristiche peculiari connesse alla modalità di, pensare, agire, sentire e percepire. Il processo di alfabetizzazione emotiva consente di riconoscere le emozioni, modificare attraverso la trasformazione dei pensieri, dominarle in caso di negatività e creare delle modalità di azione differenti, rimodulate alla situazione da gestire. È quindi importante utilizzare pensieri alternativi consoni alla realtà in cui si trovano. risulta, dunque, efficace saper regolare le proprie emozioni al fine di attribuire un’adeguata forma emotiva, a fronte di un evento saliente, per evitare sia processi di iper-regolazione emotiva, (corrispondenti) controllo rigido e costante dell’esperienza vissuta, sia di iporegolazione emotiva, (omologabili al) controllo istintivo nell’esperienza (Gerrig, Zimbardo, 2013, p. 277). La regolazione delle emozioni è un processo che si perfeziona col tempo e necessita d’interventi educativi, volti ad incrementare il riconoscimento delle proprie manifestazioni e al perfezionamento delle relazioni empatiche, sociali e di autocontrollo. Tali azioni favoriscono un benessere psicofisico e contestualmente la motivazione, lo svolgimento dei processi cognitivi e lo sviluppo di abilità interpersonali, funzionali all’acquisizione di competenti sociali e prosociali. Le emozioni da gestire senza essere represse, consentono l’avvio di processi di consapevolezza per esperienza. Il conoscere le possibili reazioni mentali, attivate con il tramite di sollecitazioni episodiche esterne e percorsi alternativi di riadattamento emozionale, consente di prevenire emozionalità disadattive. Attraverso la Terapia Razionale Emotiva, si investe nel riconoscimento sia dell’evento attivante, sia del pensiero conseguente, sia della concatenazione di reazione emotiva e comportamenti conseguenti. Tutte le nostre esperienze emotive costituiscono un alfabeto emotivo, in base ad una tipologia d’intervento ereditata dagli studi psicoterapeutici americani degli anni ‘70, ed in particolare dal percorso di Rational Emotive Behavior Therapy, rET (Ellis, 1962; Neenan, Dryden, 2006), efficace per bambini che presentavano disturbi nel comportamento. Per promuovere azioni inclusive, le azioni didattiche su cui vanno incentrati i percorsi di autoconsapevolezza e autoriflessività metacognitiva, vanno indirizzati al raggiungimento dell’autorealizzazione, nel riconoscimento e soddisfacimento dei bisogni, per un sistemico benessere e qualità della vita. Infatti, la formazione della persona, avviene attraverso relazioni costanti, da cui si generano contesti, rappresentati da una rete integrata di socialità, un insieme di anelli concatenati, strutture concentriche, una inclusa nell’altra, che si struttura in quattro livelli sistemici: Micro, meso, eso e macro (Bronfenbrenner, 2002), che generano una cultura sistemica, con reciprocità sostanziale d’interdipendenza, volta alla valorizzazione delle parti nel tutto e del tutto per le parti. Il Microsistema è la situazione basica, in cui un individuo per la prima volta si relazione in famiglia, a scuola o tra i coetanei. La relazione tra i singoli ambienti II. Revisione sistematica
determina il mesosistema. L’Esosistema è il contesto nel quale le relazioni della famiglia, tra i coetanei e quelle a scuola, si identificano ad un livello superiore, ovvero nelle condizioni di vita e di lavoro, nel quale il nostro sviluppo viene fortemente condizionato. Il Macrosistema è influenzato dall’esosistema ed è costituito dall’interazione delle politiche sociali e dei servizi socioculturali (Camaioni, 2007, p. 20). Con tale premessa, la costruzione di una società sana deve fondarsi sul valore insostituibile della reciproca valorizzazione. Impegnarsi a custodire il valore della persona, rappresenta un focus pedagogico formativo fondamentale, al fine di contribuire ad un sano sviluppo individuale e collettivo. Favorire il benessere nel contesto di crescita rappresenta una sfida che la comunità educante, rappresentata dalla scuola, dalle famiglie e dal territorio (Guido, Verni, 2007, p. 23), deve affrontare in ambito educativo, con l’intento di dar vita ad interventi di miglioramento collettivo e individuale di vita ed una collocazione qualitativa all’interno della società. Una scuola inclusiva è incentrata sul miglioramento organizzativo-progettuale d’inclusività, intesa come insieme delle condizioni, che favoriscono il raggiungimento sistemico di benessere individuale e collettivo. C’è differenza tra interventi di didattica integrata e di didattica inclusiva (Huber, 2005): la prima, rappresenta la comprensione degli studenti in situazioni educative predefinite, presuppone interventi sull’esigenza del singolo e poi sul contesto ambientale. In tal caso, l’importanza assegnata al contesto rappresenta un elemento che discorda con la visione prioritaria di focus sul singolo, quale elemento avulso dal contesto. L’importanza della didattica inclusiva, invece, si colloca, sostanzialmente nella valorizzazione socio-educativo-formativa del contesto, su cui è necessario agire con percorsi/azioni volte non esclusivamente all’educativo, in senso stretto, ma ai contesti sociali, politici e culturali, connessi ai tempi. L’analisi degli studenti, in tal caso, passa dalla sistematica osservazione delle potenzialità e competenze degli studenti, strutturate temporalmente e situate per contesto, volte a progettare ed attivare interventi educativo-formativi di contesto, volti a favorire il benessere e la qualità della vita. Un rapporto dialettico incentrato sulla valorizzazione dei punti di forza, rappresenta la leva vincente su cui incentrare azioni didattiche di potenziamento dell’autostima. Inoltre, il vivere l’esperienza formativa come costrizione rappresenta l’elemento di rottura di motivazione propositiva all’azione, che sfocia in atteggiamenti di negatività. Il coinvolgimento emotivo costituisce la strategia vincente di attivazione della motivazione al sapere, quale necessità di conoscere. La motivazione muove i processi affettivi, che generano a loro volta interesse e curiosità ad un agire esplorativo-formativo, volto alla sviluppo positivo del sé. Nell’essere umano si intersecano la complementarietà tra interiorità ed interrelazione, in processo di riconoscimento collocato tra le traiettorie della relazione sociale e valoriale interiore, spinta dalle percezioni sensoriali, emozionali e motivazionali. Tra la persona e la relazione è insita una dinamicità empatica, in perdurante interconnessione orizzontale, priva di gerarchizzazioni: l’una non può esistere senza l’altra. Deriva che, la socialità della persona, in ogni sua forma, costituisce il fondamento euristico della società ed è su di esso che la scuola deve porre le fondamenta progettuali dei processi inclusivi.
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2. Gestione emozionale e potenziale inclusivo-trasformativo della didattica capovolta
Il bisogno sociale di una gestione emozionale, con controllo delle pulsioni, accrescimento delle motivazioni, gestione (Beck, 2000) di potenziali derive delle conflittualità, interiori e di contesto, (Gordon, 2014) in discriminazioni o omologazioni, colloca l’educativo in una posizione di rilievo formativo. Si tratta di attivare semplessi (Berthoz, 2011) ed ecologici processi di sviluppo (Bronfenbrenner, 2002) incentrati sulla pro-socialità sistemica, attraverso la riscoperta degli spazi graduali di relazionalità, finalizzati alla formazione di persone flessibili ai valori complessi (Schön, 1973, Galli, 2006; Morin, 1993) di società liquide (Bauman, 2003). Gli stati negativi sono causati dalle convinzioni irrazionali su cui si può intervenire in favore del benessere emotivo. Da ciò ne consegue la necessità di acquisizione di un modalità di pensiero scientifico, aperto al cambiamento e flessibile (Corona, 2014, p. 52).
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Consapevoli dell’opportunità di sviluppo, connessa al ribaltamento/flipped (Bergmann, Sams, 2011), i nuovi profili identitari complessi devono essere capaci di ri-conoscersi portatori di identità plurale, radicata nel: 1) self-esteem (Coopersmith, 1967); 2) autoefficacia percepita (Bandura, 2001); 3) ri-conoscimento di sé (Derrida 2008; ricoeur, 2005), nel confronto con l’altro; 4) comunità (Lewin, 1948), sistema (Orford, 1995), ecologico (Kelly, 1966). Infatti, nel processo di riconoscimento, come conoscenza rimodulata e modificata nell’incontro con l’altro, si produce un percorso di autoconsapevolezza del sé. Inteso sia come soggetto individuo e sia come sé-comunità, l’identità plurale si promuove attraverso un investimento educativo nello sviluppo della percezione d’autostima e d’autoefficacia, in un percorso comunitario sistemico, in cui si ri-conosca prioritariamente l’interdipendenza tra elementi e la finalizzazione ecologica di processi di benessere e qualità della vita, volti alla valorizzazione vicariante delle parti e del sistema. Secondo Ellis (1995) “… ciascuno è responsabile del proprio destino emozionale, con il tramite dell’esercizio ripetuto, gli homework assegnati dal terapeuta possono modificare lo stato emotivo disfunzionale” (Corona, 2014, p. 52). Le carenze di capacità emozionale, dunque, possono essere incrementate attraverso l’attivazione di percorsi pedagogico-didattici di potenziamento dell’intelligenza emotiva, che devono investire nell’acquisizione dell’autoconsapevolezza emozionale, (Goleman, 1995). Sull’autoconsapevolezza si fonda il controllo delle emozioni (Mayer, 2014), utile per “…riprendersi molto più velocemente dalle sconfitte e dai rovesci della vita” (Goleman, 2013, p. 64), ma anche per riconoscere le emozioni altrui, al fine di evitare il costo della egoistica sordità sociale, generata dalla sordità emozionale. L’acquisizione di empatici stili comportamentali costituiscono gli elementi modellizzanti di base d’ogni forma d’altruismo, su cui un sano sistema sociale deve fondarsi. Altro aspetto su cui concentrare l’azione didattica è la promozione della motivazione. “Il controllo emozionale la capacità di ritardare la gratificazione e reprimere gli impulsi – è alla base di qualunque tipo di realizza-
II. Revisione sistematica
zione” (Goleman, 2013, p.65). Lo sviluppo della capacità di “flusso” consente di fronteggiare ogni situazione e ottenere efficacia nei risultati. L’investimento promozionale in competenze prosociali empatiche, implica una trasversalità d’azione, che coinvolge competenze sociali, emotive (Salovey e Mayer 1990), comportamentali e morali, volte al benessere e alla prevenzione anche delle condizione di disagio. Tuttavia, “L’arte delle relazioni consiste in larga misura nella capacità di dominare le emozioni altrui” (Goleman, 2013, p. 65), in una mediazione di pensieri ed azioni. Attraverso azioni, macro-eso-meso micro, didattico-progettuali, in modalità flipped inclusion, proposte nella ricerca in atto presso l’Università di Salerno, si prova a coniugare il senso del ribaltamento proprio della flipped learning all’apprendimento di sistema. Seguendo gli approcci computazionali (Gilbert, Troitzsch, 2005), che presuppongono una proceduralità per livelli sistemici di complessità, è possibile operare interventi didattici inclusivi, che si avvalgano della trasposizione dell’apprendimento a livello di sistema (Alberici, 2002). Si tratta di investire in livelli di apprendimento diversi ma complementari: learning society (Stiglitz, Greenwald, 2014), intesa come una società conoscitiva, che apprende, attraverso l’acquisizione di capacità previsionali e risolutive di problematiche, per affrontare la complessità ed il cambiamento; learning organization, l’organizzazione conoscitiva, incentrata sull’agire in rete, interconnettendo intelligenze nodali, autonome nel funzionamento; in ottica di life long learning, apprendimento per tutta la vita, per affrontare risolutivamente situazioni emergenti. La ricerca investe nell’attivazione di uno studio pilota volto ad individuare le potenzialità del ribaltamento di visioni e prospettive sia che individuali che di gruppo, ma anche sulle eventuali modifiche indotte nel confronto tra stili d’apprendimento, cognitivi, osservati non dal punto di vista della struttura, ma della tipologia della personalità (Guilford, 1980). L’investimento prioritario nel valore degli stili d’attribuzione o locus of control, consente di valutare la percezione di autoefficacia e l’autostima, alla base della motivazione all’agire. La progressiva complessità di problematiche da gestire nelle azioni di gruppo sono suddivise per livelli. Esse rappresentano il campo di confronto, finalizzato alla gestione, mediazione risolutrice di problematicità e potenziali cause di conflittualità connesse a visioni diverse, attraverso azioni strutturate in un reciproco processo di conoscenza e attribuire di senso. Si punta, dunque, a comprendere il modo di percepire, ricordare e pensare, ma anche al come apprendere (Boscolo, 1986), immagazzinare, trasformare e utilizzare le informazioni (Kogan, 1971) e sul quanto tutto ciò possa essere influenzato dagli aspetti cooperativi e socio-affettivi. Altro elemento di interesse della ricerca è la modalità didattica con cui attivare percorsi di potenziamento dell’empowerment (Piccardo,1995), la cooperativa reciprocità interdipendente e positiva, a partire dalla micro-comunità classe. Si investe nell’individuazione della situazione-problema e in un apprendimento per problema, operando scomposizioni di «… problemi complicati in sottoproblemi più semplici grazie a moduli specializzati» (Berthoz, 2011). I dati rilevati nella ricerca indiziaria – sperimentale “Flipped inclusion tra impianto teoretico e sperimentale dell’aula aumentata” sono volti a valutare i cambiamenti proattivi e prosociali (roche, 1995), prodotti sia dalle interazioni promosse con percorsi didattici, che si avvalgono di contesti formali ed informali, anno IV | n. 2 | 2016
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sia da un agire didattico indiretto, volto a favorire la risoluzione di problematiche presentate per stadi di complessità crescente. Si intende comprendere il valore dell’interazione incentrato sulla progettazione, sperimentazione, valutazione individuale e cooperativa, che avvalendosi di una costruzione sociale dell’apprendimento (Berkeley G., 1998) valuta progressivamente il miglioramento di sistema. Il progetto di ricerca segue una ricorsività modulare ciclico-tassonomica (Bloom, 1964) e 4 progressive-cicliche fasi di costruzione/decostruzione (Culler, 1983): Esplorare – Problem Finding/Setting/Analysis (Getzsel, 1982); 2) Ideare – CreativeThinking (Gordon,1961); 3) Progettare – Decision making (Baker et al.2002); 4) Sperimentare – Problem solving (Dunker, 1945), matrice (EIPS). Si segue la logica della didattica semplessa (Sibilio, 2014) con un apprendimento per problemi scomposti, fatto di investigazione – inquiry learning (Kuhn et al., 2000), di scoperta – discovery learning (Bruner, 1961), per giungere ad un apprendimento per padronanza – mastery learning (Bloom, 1972) attraverso attività strutturate in modalità flipped learning (Bergmann e Sams, 2011), ma volte al problem solving. Ad azioni di ricerca esplorativa individuale – key (Goffman, 1974), ipotesi di intervento-frame e progettazione strutturata – framing, seguirà il momento esperienziale sperimentale di condivisione cooperativa dei frame work progettuali individuali. Essi, in quanto nuovi prompting, della fase cooperativa di microgruppo generati dalla ricerca azione individuale, determineranno nuove input (key), che in modalità ricorsiva ed alternata riprodurranno la modularità EIPS, presentate precedentemente.
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Fig. 1. FASI EIPS della Flipped Inclusionfasi d’apprendimento e strutture metodologico didattiche
II. Revisione sistematica
Le fasi riproducono progettualmente e didatticamente, sia nella modalità progettuale top-down (Gadomski, 1994), sia nella modalità bottom-up, transpongono didatticamente (Perrenoud, 1998, Chevallard,1985) la visione di sviluppo ecologico sistemico, (Bronfenbrenner, 2002) macro, eso, meso e micro sistema, per garantire la promozione situata di benessere e qualità della vita del singolo e del gruppo. Ci si avvale di specifiche progettazioni contestualizzate inclusive (=Macro- meso- eso e micro), strutturate, come l’Eas (Episodi di apprendimento situato) in framework concettuali. Esse presentano una struttura plurifocale e nuclei concatenati, che traspongono didatticamente l’analisi del Frame (key =parola, frame= parola+concetto; framing= parola+concetto+problema; framework/parola+concetto+problema+risoluzione (Goffman, 1974) ed investono nello sviluppo progressivo dell’azione, dell’interazione, della collaborazione e della cooperazione. Un agire didattico strutturato in modalità top down (Gadomski, 1994) per fasi cooperative di livello, può perseguire efficaci obiettivi trasformativi (Mezirow, 1989). Le progettualità didattiche sono strutturate in moduli ricorsivi ed alternati, per livelli individuali, micro, eso, meso, macro ecologico-sistemici (Bronfenbrenner, 2002) trasposti (Chevallard, 1985) didatticamente. I per-corsi in flipped inclusion si esplicano attraverso l’applicazione integrata dei metodi e strategie didattiche inclusive, in progressive e cicliche fasi di costruzione/decostruzione (Culler, 1983) positiva. Il concetto di mobilità del self-autocoscienza su cui si fonda l’Analysis goffmaniana (Goffman, 1974) rappresenta, l’elemento mobile, contingente, contestualmente condizionato, da cui prende avvio ogni per-corso di sviluppo in flipped inclusion, ed anche le attività didattiche, che seguono, in struttura Jijsaw, l’analisi del frame. La Key, corrisponde al prompting nella teoria del condizionamento operante, e rappresenta la parola-stimolo, emersa dalle sollecitazioni poste dal docente, scelta seguendo le motivazioni intrinseche individuali e successivamente di gruppo nelle fasi cooperative. Il (frame) frame=parola+concetto con fading e chaining, stimoli naturali e rinforzi sequenzializzati è caratterizzata dall’elaborazione di schemi interpretativi d’inquadramento framing= parola+concetto+problema su cui si intende operare la ricerca risolutiva: è dunque caratterizzata da una rete di relazioni biunivoche di reciprocità, tra pluralità di elementi non in gerarchica relazione di causalità. Il frame work= parola+concetto+problema+risoluzione è la struttura primaria, il prototipo generalizzato, che attraverso stimolazioni di complessità crescente (overlearning), rinforzi con regole non casuali e, dunque, significative, ed un lavoro d’inquadramento, consente la risoluzione ri-definita e progressiva di problematiche individuate. Si fonda su di un apprendimento per problema e sull’evocazione di pregresse esperienze risolutive, che attraverso fasi di focalizzazione/destrutturazione del problema e possibili risoluzioni, facilitano il modeling.
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Tab. 1. Applicazione didattica dell’analisi del frame
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Ciò che non deve variare nella progettazione di contesti inclusivi è la logica strutturale del processo, ma decostruibile (Derrida,1972) in relazione ai bisogni, che rappresenta l’invariabile di un didattica trasformativa alla base di logiche formativo sociali, ma: “…non c’è mai un unico modo per fare una cosa” (Corona, 2012, p. 73), le alternative possibili sono connesse alle persone e ai contesti. L’Assessment comportamentale (Garb, Lilienfeld, Fowler, 2008) della ricerca struttura le attività progettuali e didattiche investendo nella teoria del condizionamento operante del contesto (Bandura,1997); il valore educativo dell’azionestimolo ambientale/simbolo/ reazione Mead, 1972); la teoria del frame – Frame Analysis (Goffman, 1974); sul programma di intervento precoce comportamentale, il tutto per promuovere l’interazione simbolica e la cooperazione. L’analisi del frame presuppone la mobilità del self- autocoscienza e modifiche comportamentali connesse al condizionamento contestuale degli schemi interpretativi di inquadramento (frame), da cui si generano reti di reciprocità, su problematiche emergenti (framing) tra elementi non in gerarchica relazione di causalità. Le possibilità di scelta generano forme motivazionali conflittuali individuali (Festinger, 1998), connesse all’obiettivo che si intende perseguire, il che genera forme di avvicinamento allo scopo (approach) oppure di allontanamento (avoidance) dallo stesso (Castelli et al., 2004): tale processo determina i comportamenti mossi dalle emozioni. In particolare, il soggetto è inteso come portatore di soggettività), quale “titolarità dell’azione”. Ciò significa che l’essere umano è impulsivamente indotto a valutare capacità ed opinioni, elementi cognitivi relativi al proprio comportamento e alle sensazioni connesse al proprio ambiente; in assenza di strumenti oggettivi, tende a porsi a confronto con gli altri. Le relazioni tra coppie di elementi possono essere non attinenti, non hanno nulla in relazione tra loro; o attinenti (dissonanza o consonanza cognitiva), se sono incongruenti e II. Revisione sistematica
l’inverso di un elemento quale conseguenza dell’altro, teoria conflitto cognitivo di (Festinger, 1998). La dissonanza può dipendere dalla logica interna della relazione; dal contrasto con norme culturali o con precedenti esperienze personali. La dissonanza si genera solo e nella messa in relazione concreta esperienziale personale nell’atto decisionale e pertanto una semplice discordanza è altra cosa. La sperimentazione del fenomeno della dissonanza dunque, avviene solo in correlazione ad una decisione da prendere e alle azioni post decisionali che coinvolgono la responsabilità diretta e le sue conseguenze. L’importanza della decisione sta nel fatto che fa terminare una situazione conflittuale quale espressione opzioni di scelta delle alternative possibili. La dissonanza può rientrare sia a livello comportamentale, revocando la decisione prese; sia livello cognitivo, rivalutando le alternative, determinando una sovrapposizione tra le alternative. È comunque molto persistente, in quanto vi è una notevole difficoltà nel cambiare comportamento e consapevolezza. La dissonanza può determinarsi a seguito di scelte condivise o di accordi subiti nel momento, in cui si è costretti ad assumere comportamenti non coerenti con le proprie cognizioni. L’induzione forzata di comportamenti ed espressioni può, tuttavia, essere soltanto acquiescente senza che produca un effettivo mutamento dell’opinione personale. La motivazione senza l’emozione è una potenzialità priva di meta, che si fonda su fattori interdipendenti in un processo di sviluppo e gestione delle competenze emozionali promossi per fasi di 1) envisioning obiettivi e strategie chiare promozione di competenze individuali e sociali; 2) education, intesa come educazione, valutazione e premialità di indirizzo; 3) evaluation-empowerment che presuppone una rimodulazione migliorativa di processi e prodotti (Fetterman, 1994); 4) empathy investimento formativo con interventi attivi di compartecipazione emozionale (Gallese, 2003).
Tab. 2. Trasposizione didattica delle fasi di gestione emozionale
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Insieme all’empatia, una delle forme primitive di manifestazione di contatto con gli altri è il contagio. Il docente va a generare il contagio emotivo, come trasfert emozionale (Schwartz, 1964), con coinvolgimento motivazionale. La motivazione genera un legame tra impegno e bisogno, intrinsecamente connessi alla valorizzazione di sé. Ad interferire negativamente sulla motivazione vi sono elementi connessi alla convinzione personale di una incapacità di fondo che degenera in forme di impotenza a-reattiva, e scarsa fiducia nell’autorealizzazione e autostima (Pope et al., 1993). Da una trasposizione didattica (Chevallard,1985) delle 4 fasi dell’educazione razionale-emotiva è possibile ipotizzare la strutturazione di interventi pedagogico-didattici strutturati in EIPS.
112 Tab. 3. Struttura delle attività didattiche in educazione razionale emotiva
Le azioni didattiche devono presupporre interventi mirati con ri-conoscimento e successiva ri-costruzione di episodi emotivi-stimolo, in fase di prompting, avvalendosi di una formulazione in stile socratico-evocativo. L’intento è quello di promuovere una meta-riflessione funzionale ad una modifica comportamentale, in relazione agli eventi stimolo, prima causali e successivamente strutturati dal docente. Infatti attraverso la trasposizione didattica di tecniche comportamentali (Denton, 1978) si avviano i percorsi formativi, partire da stimolazioni guidate (Prompting) a cui seguono progressive riduzioni d’aiuto (Fanding); si investe in un apprendimento imitativo (Modeling) e in modellaggio (Shaping) e concatenamento (Chaining).
II. Revisione sistematica
Tab. 4. Trasposizione didattica di tecniche comportamentali
I feedback anche retroattivi devono essere rapidi, strutturati e funzionali allo scopo, perché si possa ricevere un riscontro (Skinner, 1978), in quanto il rapporto che c’è tra la soglia di concentrazione e quella di distrazione è minima. È necessario fornire stimoli-guida, continui, strutturati e controllati, tali da evitare il calo d’attenzione e motivazione, generando presenze assenti. In particolare, nella attuale società della conoscenza, iperstimolata dalla crossmedialità pressante e produttrice di una generazione dall’attenzione continua/parziale, il livello di motivazione ed il monitoraggio per la gestione dell’emozioni e delle conflittuali interiori e contestuali, rappresentano basilari elementi pedagogico-didattici su cui incentrare processi educativi di sviluppo ecologico sistemico (von Bertalanffy, 1968), strutturati per livelli di intersocialità funzionali ad un benessere di sistema. In tale ottica, il docente rappresenta il caregiver, colui che si prende cura di emozioni, motivazioni e controllo delle pulsioni interiori, per un giungere all’acquisizione delle competenze di gestione intersociale, manifeste per contesto. Per ogni fase è necessario azionare interventi di feedback retroattivi di modificazione, positivi e provare non solo per fare sintesi, ma per una ricognizione metacognitiva nella fase di debriefing, intesa quale valutazione finale di un processo (Morin, 1986). Infatti, è proprio nel riconoscimento delle emozioni e dei pensieri dannosi, che si colloca il potenziale trasformativo dell’apprendimento emozionale costruttivo, critico e consapevole. Il docente nella promozione di input motivazionali deve compiere una scelta di campo tematico e di modalità progettuale, top down o bottom up (Gadomski, 1994), derivante dall’osservazione delle situazioni problema/sfida emerse dal contesto. Partendo da assunti di carattere generale relativi alle problematiche, alle emozioni e alle motivazioni contingenti individuali, va operata una scelta di progettuale e didattica di contesto, a cui vanno apportate interventi di compensazione anche con strumenti adeguati alla situazione. Utile è l’impiego di un kit didattico multimediale, il flipkit, consultabile sul sito flippedinclusion.it, costituito da strumenti di mobile learning, software, mobile device, tools master, roleplay anno IV | n. 2 | 2016
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game, game master. Infatti, l’investimento nell’apprendimento capovolto (flipped classroom), è finalizzato al superamento delle difficoltà relazionali, a partire dal confronto tra pari, nella condivisione di conoscenze co-costruite. In tale ottica, le conoscenze, condivise attraverso strumenti mediali, sono impiegate quali vettori di interrelazioni partecipate e rappresentano un’opportunità di scambio, confronto per una gestione socio-emotivo-relazionale. Applicato per fasi, dunque, per gradi di complessità, la sperimentazione della flipped inclusion è stata strutturata per consentire flipped learning, attraverso l’utilizzo di strumenti mediali per la ricerca, la produzione multimediale nella fase di produzione in modalità capovolta, ma anche per facilitare le fasi di valutazione ed autovalutazione. Nella flipped inclusion ci si avvale delle fasi che caratterizzano l’ascolto attivo (Gordon, 1991): 1) ascolto passivo, in cui ci si predispone alla comunicazione con il silenzio; 2) accoglimento, attraverso forme di comunicazione verbale e non verbale, di completamento del messaggio inviato per una esplicitazione della ricezione avvenuta; 3) L’approfondimento – in cui l’ascoltatore raccoglie tutte le informazioni per comprendere appieno l’argomento dell’interlocutore e chiede chiarimenti esplicativi, per una piena comprensione della posizione dell’interlocutore; 4) l’ascolto attivo è la fase che attesta la piena assimilazione e rielaborazione del messaggio ricevuto da parte dell’ascoltatore, attraverso la riproposizione personale all’interlocutore della comunicazione. È il momento determinante in cui sia attesa l’avvenuta interconnessione empatica, senza esternazione di giudizi di valore. Utile per favorire l’ascolto attivo è il circle time (Lloyd, Munn, 1998) uno spazio paritario d’ascolto, per gruppi di discussione su compito, promuovendo in un clima di conoscenza e riconoscimento attraverso la condivisione di pensieri, in una modalità d’interazione strutturata. Le strategie comunicative, che si attivano, sono funzionali allo scopo di gestione sia della conflittualità, quale distanza tra posizioni; sia delle emozioni per controllo/consapevolezza emozionale anche in compresenza di posizioni distanziate (Lewin, 1948). Per la gestione dei conflitti si fa riferimento alla struttura dell’Effectiveness Training (Gordon, 2014) ed una valutazione costante del processo di gestione conflittuale nella logica EIPS.
Tab. 5. Trasposizione didattica dell’Effectiveness nella didattica inclusiva
II. Revisione sistematica
Nel promozione del contesto Gordon, che ripercorre nelle relazioni il valore attribuito da rogers alla empatia, autenticità, comunicazione, all’accettazione, si investe nella promozione dell’autocontrollo, autofiducia, autodisciplina, creatività. In una tale ottica, si presuppone che, la condizione per l’auto-realizzazione consiste sia nella consapevolezza e libertà di scelta delle esperienze, nella valutazione autonoma di se stessi, quale capacità di svilupparsi, dunque, nel senso di autonomia, responsabilità e co-governabilità di contesti. È possibile impostare una relazione efficace, (Gordon, 1991) anche con gli studenti, ed una gestione delle dinamiche di classe, attraverso processi trasformativi di docenti ed studenti, in un rapporto di reciprocità diretta, basati sull’ascolto attivo, sulle modalità di relazione, responsabilità ed affidabilità reciproca. riprendendo le tecniche gordoniane si investe, il linguaggio dell’accettazione pertanto, nelle fasi si articola in quattro momenti.
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Tab. 6. Fasi trasformative per una relazione efficace di (Gordon, 1991)
Una didattica creativa trasformativa, che si fonda sulla stimolazione emozionale e l’educazione affettiva (De Bono, 2010) rappresenta la traiettoria non lineare di presa in carico delle differenze, per fronteggiare le esigenze e problematiche attraverso l’investimento educativo nel piacere di un apprendere in sintonia empatica. Va superato il limite dell’incomunicabilità tra universi emozionali, per evitare il limite di co-costruire percorsi esperenziali e nuovi saperi condivisi e mediati.
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Tab. 7. Esempio di programmazione didattica in presenza di alunni con disturbo dello spettro autistico-iperuditivi
Tab. 8. Esempio di programmazione didattica in presenza di alunni con disturbo dello spettro autistico-ipouditivi
II. Revisione sistematica
La predisposizione di momenti di sintesi e di strumenti di verifica e valutazione, investendo nell’autopercezione e autoconsapevolezza delle competenze raggiunte, necessita di azioni valutative incrociate con momenti autovalutativi, volti ad un potenziamento o ad un ampliamento di competenze prefissate. La complessità dei fattori che intervengono nelle attività cooperative necessita dell’individuazione per gruppo (micro, meso e macro) di un costante controllo individuale sia durante le fasi di svolgimento del lavoro (monitoring), sia durante la sua conclusione (processing), con schede secondo rubric di valutazione standard, per ruolo e per obiettivo e per fasi, da inviare su piattaforma blendspace e tramite la compilazione di form sul sito flippedinclusion nell’area riservata. Dall’osservazione dei repertori di abilità e difficoltà, l’assessment comportamentale (Garb et al., 2008), deriva la realizzazione di un programma di intervento precoce di tipo comportamentale, strategie di potenziamento dei comportamenti positivi e di decrescita dei comportamenti problematici. Vengono proposti attività d’assessment comportamentale, che prevedono modalità di analisi: qualitativa delle abilità, quantitativa dei problemi comportamentali e funzionale. L’analisi qualitativa è effettuata tramite liste di rilevazione strutturate, a focalizzazione globale, con una valutazione sistematizzata e sequenziata delle abilità, priva di giudizi di valore. La valutazione quantitativa dei problemi comportamentali di interazione e isolamento dal gruppo (Cottini, 2016), si basa sull’osservazione sistematica della frequenza, durata e intensità dei comportamenti-meta positivi, sia su comportamenti-bersaglio (Moore et al., 2002).
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Tab. 9. Un esempio di scheda valutativa- processing- che è presente per livelli di cooperazione (micro, eso, meso e macro sistemico)
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Tab. 10. Un esempio di scheda valutativa flipped inclusion- Monitoring per ruolo e livello di complessità cooperativo
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L’analisi funzionale (Larson, Maag, 1999), finalizzata a comprendere le motivazioni alla base dei comportamenti-problema, sottolinea i rapporti fra il comportamento osservato, il contesto e le correlazioni emerse. Nel caso specifico dello spettro autistico è fortemente consigliato l’utilizzo di un supporto informatico (Micheli, Zacchini, 2001). Il computer rappresenta uno strumento fondamentale con cui, oltre agli approfondimenti disciplinari, è più semplice favorire processi inclusivi ed abbattimento delle barriere comunicative. Consente opportunità per il gioco, per l’esplorazione e per la creatività, consentendo di procedere con apprendimenti formali, informali e non formali (Murray e Lesser, 1999). L’utilizzo strumentale di un diario emotivo, consente di tracciare e ripercorrere eventi significativamente rilevanti, alla valutazione delle reazioni concatenate e alla ricognizione metacognitiva rimodulante visioni, prospettive e comportamenti. La valutazione dei comportamenti consente di discernere ciò che dipende dal singolo e ciò che ne prescinde, a garanzia di un orientamento rieducativo-emozionale, individuale e collettivo, sociale e pro-sociale.
Conclusioni
Ogni cambiamento necessita di relazione e riconoscimento, per imparare ad conoscersi, riconoscersi, rielaborandosi, non sulla compiacente subalternità, ma attraverso un rapporto di reciprocità interrelazionale ed una riscoperta del un profondo senso di appartenenza. È importante imparare a ri-conoscersi, a identificarsi come persona basando il tutto sulla comprensione reciproca, esternata con segni socialmente riconosciuti e riconoscibili. Uno degli scopi primari della II. Revisione sistematica
flipped, applicata alla costruzione di contesti e profili inclusivi è l’investimento nella creatività del pensiero laterale emozionale e motivazionale. Attraverso l’acquisizione di competenze sociali, pro-sociali, interazionali, che favoriscono la gestione delle conflittualità, è possibile contribuire alla ri-scoperta di uno spazio relazionale, in cui ri-potenziare il self esteem (McKay, Davis, Fanning, 1997) nel riconoscimento di sé e nel confronto/contributo dell’altro. Il riconoscimento dell’altro, espressione di processi di designazione cognitiva, connessa al ruolo e alle prestazioni sociali e a codici sociali (ricoeur, 1993) è diverso dal riconoscimento della persona, fondato sulla reazione individuale all’altro. Interessarsi all’aspetto emozionale e motivazionale, che delinea esigenze e necessità individuali, implica la necessità di focus su aspetti delle personalità, per comprendere esigenze e bisogni, attraverso l’osservazione sistematica delle interrelazioni, gestite per contesto, e la progettazione di interventi didattico-educativi, volti al miglioramento delle capacità di gestione delle problematiche. Le identità, rappresentano un per-corso/processo a lungo termine di equilibrio/mediazione, rispetto, comprensione, consapevolezza, corresponsabilità da costruire nella continuità in un mutuo riconoscimento. Il richiamo all’esperienza e al mutamento delle relazioni sociali si connette strettamente alla necessità di ascrivere ad un sè protagonista, un’entità pluridimensionale, non isolata o autoreferenziata (individuo), la capacità di esplicitare progressivamente, attraverso stadi e atti emozionali, processi di razionalizzazione cognitiva e soggettivizzazione metacognitiva, quali promotori di una libertà possibile (Touraine, 1993).
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II. Revisione sistematica
Insegnanti alle prese con programmi educativi evidence-based: l’esperienza italiana del Promoting Alternative Thinking Strategies (PATHS®)
Key-words: evidence-based programs, social and emotional learning, school inclusion, implementation, teacher training
II. Revisione sistematica
Italian Journal of Special Education for Inclusion
anno IV | n. 2 | 2016
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The paper introduces the first attempt at implementing, within the public primary school system, an evidence-based social-emotional learning program called Promoting Alternative Thinking Strategies (PATHS®). The program’s central implementation elements are described, and they are ascribable to a three year long European research that has seen the involvement of 5 different countries: Italy, Switzerland, Croatia, Slovenia. Particularly, the paper describes the stages of teacher training, monitoring of program implementation, experimentation and assessment which have seen the involvement of Italian schools, with a specific focus on the effects of social-emotional learning on inclusive process. The findings, though showing overall positive trends, highlight the need for further investigating some aspects ascribable to the contextual adjustment of an evidence-based program and the use of adequate assessment tools.
abstract
Annalisa Morganti / Università degli Studi di Perugia / annalisa.morganti@unipg.it Alessia Signorelli / Università degli Studi di Perugia / alessia.signorelli@gmail.com
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Introduzione
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Quella dell’insegnante è sicuramente una tra le professionalità più complesse e sfidanti di questo periodo storico, culturale e sociale. Quotidianamente, chi svolge questo ruolo, fronteggia situazioni che lo costringono costantemente a ripensare azioni educative e didattiche in grado di rispondere ai diversi, specifici e molteplici bisogni che si presentano in una classe. Questo ci porta alle due domande essenziali poste da Korthagen (2004), la prima è “Cosa rende un insegnante un “buon” insegnante? La seconda, “Come può la ricerca contribuire a renderlo tale?” Siamo andati ben oltre, oggi, la sua primaria funzione puramente trasmissiva di conoscenze curriculari, perché il profilo professionale dell'insegnante si costruisce su conoscenze, abilità e competenze di tipo “[...] cognitivo, conativo, affettivo e pratico […]” (Tammaro et al., 2016, p. 9) che lo rendono “[…] capace di generare un miglioramento rispetto alla qualità e all’efficacia di istruzione e formazione […]” (Ivi, p. 8). Nonostante ciò si registra un certo scollamento tra quelli che sono i propositi di evoluzione del profilo dell’insegnante e la realtà del sistema di formazione iniziale e in servizio di quest’ultimo. Calvani (2011) evidenzia delle criticità piuttosto significative nell’ambito specifico della pratica didattica, all’interno della quale si riscontra ancora l’utilizzo di metodologie la cui efficacia non è stata mai sottoposta a test empirici in grado di restituirne evidenze in merito a ciò“[…] si procede […] con un andamento pendolare senza che il passaggio sia un prodotto di una valutazione critica sui vantaggi o rischi di una metodologia rispetto a un’altra [...]” (Calvani, 2011 p. 79). Coe (1999) critica fortemente il fatto che, in ambito educativo, ci siano fin troppi esempi di metodologie apparentemente efficaci, almeno nei propositi e negli intenti, che però, quando implementate nella pratica didattica quotidiana “[…]have either not had the desired effects or have them, but at too high a price in terms of costs or uninteded side effects […]” (Coe, 1999, p.1). Riferendoci all’approccio dell’evidence–based education (EBE), che sosteniamo nelle sue non rigide declinazioni, riteniamo che le decisioni in ambito educativo e didattico, dovrebbero essere prese e basarsi sempre più da evidenze e conoscenze fornite dalla ricerca scientifica (Vivanet, 2013; Calvani, Vivanet, 2014; Cottini, Morganti, 2015). Tuttavia, affinché un insegnamento risulti realmente efficace, non basta che l’insegnante sia al corrente degli ultimi sviluppi della ricerca (Cook et al., 2008), ma deve saper fondere tali conoscenze e tale rigore nel procedere, nel suo contesto, senza però cadere in un eccesso di rigorismo scientifico che si dimostrerebbe altresì controproducente (Blundell & Berardi, 2016). Assumere l’approccio EBE in maniera intransigente ed acritica, connotandolo come quello che viene definito un “[…] rinato neopositivismo con le comuni attribuzioni che a questo concetto normalmente si associano [...]” (Calvani, Vivanet, 2014, p. 131), sarebbe quantomeno “semplicistico” (ibid.). Per tale motivo, soprattutto quando gli studi si indirizzano al settore della pedagogia e didattica speciale, è importante riconoscere il valore di più approcci alla ricerca – e non esclusivamente quelli di tipo randomizzato (definiti come gol-
II. Revisione sistematica
den standard della ricerca) –, in grado di rispondere ciascuno alle differenti domande che il ricercatore si pone. Per tale motivo rifuggiamo dall’idea di costruire “tassonomie metodologiche”, perché ciascuna di esse (quantitativa, qualitativa o mista), purché condotta con rigore e sistematicità, può risultare efficace ed adeguata a rispondere alle domande di ricerca poste (Cottini, Morganti, 2015). Come ricordano Bonaiuti et al. (2014) l’approccio EBE “[…] orientando a formalizzare le procedure di ricerca e a valutare il grado di affidabilità delle sue risultanze, rappresenta un’opportunità epistemologica” (ibid. 231).
1. Educazione socio-emotiva e programmi educativi evidence-based
Numerose sono le definizioni che si sono susseguite nel tempo per identificare il significato di Educazione socio-emotiva, anche conosciuta nel contesto internazionale come Social and Emotional Learning (SEL). Tra le prime ricordiamo quella di Zins et al. (2004) che la identifica come framework basato su una serie di evidenze empiriche che attraversa tutto il sistema di istruzione, al fine di promuovere lo sviluppo cognitivo, sociale ed emotivo e i risultati scolastici di tutti gli studenti. L’educazione socio-emotiva coinvolge una serie di processi attraverso i quali allievi ed insegnanti, acquisiscono ed applicano in modo efficace le loro conoscenze, abilità e competenze per comprendere e gestire emozioni, impostare e realizzare obiettivi positivi, essere in empatia con gli altri, stabilire e mantenere relazioni positive con gli altri e prendere decisioni responsabili (Zins, Elias, 2006; Weissberg, Goren, Domitrovich, 2013; CASEL, 2013). Aspetti chiaramente indispensabili per il benessere personale e sociale di tutti gli studenti, a qualsiasi età, ordine e grado scolastico.
Il Collaborative for Accademic, Social and Emotional Learning nei suoi numerosi studi (CASEL, 2003, 2004, 2013, 2015) identifica cinque competenze essenziali che rappresentano il core dell’educazione socio-emotiva, esse sono: l’autoconsapevolezza (self awareness), l’autogestione (self management), la consapevolezza sociale (social awareness), le capacità relazionali (relation skills) e di prendere decisioni responsabili (decision making skills), ritenendo che queste debbano progressivamente trasformarsi in componenti essenziali e non accessorie dell’educazione tout-court. È importante sottolineare che non è possibile aspettarsi o auspicare nessun tipo di cambiamento – emotivo, cognitivo o sociale – su allievi e insegnanti, se tali cambiamenti non sono supportati da una sinergia di ulteriori elementi, come l’ambiente d’apprendimento, il clima di classe, le relazioni interpersonali, la pratica didattica, il coinvolgimento delle famiglie e dell’intera comunità scolastica (Schoolwide approach). La formazione specifica degli insegnanti è un elemento sicuramente centrale rispetto al raggiungimento degli obiettivi posti alla base dell’educazione socioemotiva (Jennings, Greenberg, 2009; Allen et. al., 2011). In particolare le dimensioni della cura e dell’impegno nell’instaurare positive relazioni con gli studenti –
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ANNALISA MoRGANTI, ALESSIA SIGNoRELLI
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che favorisca il legame ed il senso di appartenenza alla scuola –, l’utilizzo di approcci didattici coinvolgenti, come la gestione proattiva dell’aula e l’apprendimento cooperativo, la creazione di un ambiente sicuro e ordinato che incoraggi e rafforzi il comportamento positivo in classe, l’uso di materiali didattici coinvolgenti (Blum & Libbey, 2004; Hamre & Pianta, 2006; Hawkins et al., 2004; Catalano et al., 2002; Schaps et al., 2004; Durlak et al., 2011; January, Casey & Paulson, 2011; Kress & Elias, 2006; Weare & Nind, 2011; Zins et al., 2004) sono alcuni degli elementi-chiave che possono decretare il successo o, l’insuccesso di tali attività. Per consentire agli insegnanti di costruire gradualmente competenze sociali ed emotive nei loro allievi — a partire dalla scuola dell’infanzia, fino ad arrivare alla scuola secondaria —, alcuni studiosi hanno messo a punto una serie di programmi d’intervento educativo, che oggi rappresentano una realtà molto consolidata nei contesti scolastici americani, dove per prima l’educazione socio-emotiva ha cominciato a diffondersi.
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La CASEL Guide: Effective Social and Emotional Learning programs — nella sua duplice versione — preschool and Elementary School Edition (2013) e Middle and High School Edition (2015) è attualmente il riferimento più autorevole per la valutazione e l’identificazione di programmi SEL evidence-based. Con riferimento alla scuola dell’infanzia e primaria, gli ultimi programmi selezionati dal CASEL, sono stati in totale 23 e ciascuno di essi mira principalmente alla costruzione delle cinque aree di competenza ritenute indispensabili. Perché un programma d’intervento diventi un CASEL SELect Programs evidence-based, è chiamato a rispondere a questi requisiti:
– essere ben progettato e promuovere in modo sistematico le cinque competenze chiave SEL; – fornire opportunità per la pratica educativa; – offrire una programmazione a lungo termine; – fornire una formazione di qualità a tutto il personale della scuola coinvolto, compresa la formazione iniziale ed il supporto continuo per garantire la corretta attuazione delle attività; – basarsi sulle evidenze, prove che documentino gli impatti positivi sul comportamento degli studenti e / o il loro rendimento scolastico; – includere nella ricerca un gruppo di controllo, oltre a quello sperimentale e misurazioni pre-post dei traguardi attesi; – integrare pienamente i contenuti dell’educazione socio-emotiva con quelli curriculari.
oltre agli studi promossi dal CASEL negli anni, numerose altre ricerche presentano chiaramente l’efficacia dei programmi SEL in merito all'acquisizione di competenze socio-emotive e al miglioramento dei risultati scolastici (Diekstra, 2008; Durlak et al., 2011; Zins et al., 2004; Cohen, 2006; Weare, Nind, 2011). Tra tutte, quella più significativa e la meta-analisi (Durlak et al., 2011) sugli effetti degli interventi SEL in termini di outcomes positivi per gli allievi, che ha incluso 213 programmi SEL evidence-based ed ha coinvolto 270.034 studenti americani a partire dalla scuola dell’infanzia, fino alle scuole superiori. I dati emersi da questo studio sono, per così dire, inequivocabili e mettono in evidenza, in termini di effect size e di miglioramento di punteggi percentili (p.p.), gli esiti II. Revisione sistematica
positivi degli studenti riguardo alle loro abilità sociali ed emotive (+ 22 p.p), ai comportamenti sociali positivi (+ 9 p.p) e all’incremento, non certo trascurabile, riguardante i risultati scolastici (+11 p.p), rispetto a soggetti appartenenti a gruppi controllo (non coinvolti in alcuna attività di educazione socio-emotiva)
2. Fedeltà ad un programma o fedeltà ad un contesto?
Come illustrato precedentemente, sono davvero numerose le evidenze che mostrano quanto l’uso di alcuni programmi SEL evidence-based, sia in grado di determinare cambiamenti significativi nella sfera sociale, emotiva e anche degli apprendimenti, degli allievi, in relazione a traguardi specifici. Sono tutti programmi che hanno ottenuto una forte validazione in termini di efficacia (efficacy research) perché ben progettati, promuovono le competenze sociali ed emotive degli studenti, forniscono uno sviluppo professionale di qualità per sostenerne l’attuazione e sono basati sulla ricerca. La domanda che però ci poniamo è questa: Basta scegliere un programma “efficace” per garantirne il successo in differenti contesti? Sicuramente la sola ricerca incondizionata dell’efficacia di un programma educativo, così come di una metodologia di lavoro, non basta certamente ad assicurarne la sua applicabilità, trasferibilità e il suo successo in altri contesti, soprattutto scolastici, dove la variabilità di situazioni personali e contestuali è tale da rendere veramente difficoltosa una sua fedele replica. Riteniamo essenziale l’esigenza di accompagnare, alle prove sull’efficacia di un intervento, una ricerca applicata nel contesto specifico, la sola in grado di considerare e tenere sotto controllo, tutta quella serie di variabili (personali e contestuali) che altrimenti potrebbero agire in maniera incontrollata e minare pesantemente la generalizzabilità dei risultati (Cottini & Morganti, 2015). Un ulteriore elemento che non può essere trascurato ai fini del successo dell’intervento, riguarda sicuramente la qualità dell’implementazione delle azioni intraprese. Vasta è la letteratura che mostra come un’implementazione scadente di programmi di educazione socio-emotiva, può comprometterne il successo e impattare negativamente sui risultati pianificati per gli studenti (Greenberg et al., 2005; Elias, 2006; Durlak & Dupree, 2008; Durlak et al., 2011). Quali elementi devono essere monitorati e come? Alcuni studi sulla qualità dell’implementazione dei programmi di educazione socio-emotiva (Domitrovich et al., 2011), hanno rintracciato vari indicatori irrinunciabili di monitoraggio. In dettaglio:
a) la fedeltà al programma: intesa come grado di aderenza con cui una scuola intende replicare le attività e i principi descritti nel programma scelto, con possibilità di incidere sul raggiungimento degli outcomes previsti per gli studenti; b) il dosaggio temporale: ovvero la sistematicità, in termini di tempo, con cui sono realizzate le attività previste dal programma.
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Altri studi suggeriscono, al contrario, elementi desiderabili, ma non essenziali ai fini del monitoraggio del processo implementativo, come ad esempio la responsabilità dei partecipanti, l’adattamento e la differenziazione nei contesti (Greenberg et al., 2005; Durlak & DuPree, 2008; Humphrey, 2013). Wigelsworth et al. (2010) ipotizzano, invece, che possano realizzarsi due tipi diversi di adattamento, uno superficiale e uno profondo. Il primo comprende prevalentemente adattamenti di natura linguistica o culturale, il secondo coinvolge una serie di sostanziali modifiche che includono il numero di lezioni proposte, l’eliminazione o sostituzione di alcuni componenti o l’uso di insegnanti non ben formati.
3. Promoting Alternative Thinking Strategies (PATHS®): l’esperienza italiana con un programma evidence-based selected
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Finora ci siamo soffermati sulla descrizione di alcuni aspetti dell’educazione socio-emotiva e dei suoi programmi, con un esclusivo riferimento ai contesti nei quali questi sono più frequentemente studiati, ovvero quelli statunitensi. È necessario ora comprendere quanto e cosa può essere replicato (se replicabile) o adattato (se adattabile) in un modello di scuola differente come quello italiano. Un dato prima di tutto, ovvero che nella scuola italiana non esiste una tradizione nell’uso di programmi educativi finalizzati all’acquisizione di competenze specifiche da parte degli allievi. Il sistema scolastico italiano è supportato (con riferimento nel nostro caso alla scuola primaria), da “Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione”, che costituiscono “[…] il quadro di riferimento per la progettazione curriculare affidata alle scuole” (MIUR, 2012, 12). Ciascuna scuola, in regime di autonomia scolastica, è portata e sollecitata a contestualizzare poi tali indicazioni, lavorando ed operando modifiche, riconducibili a specifici contesti, in termini di contenuti, metodi, organizzazione didattica e forme di valutazione. Pur con questa flessibilità, chiaramente espressa nei documenti ministeriali, le istituzioni scolastiche, fanno difficoltà ad utilizzare programmi educativi, pensati e costruiti, per aiutare gli insegnanti nel lavoro quotidiano in classe. Questa “cultura” del programma d’intervento educativo, qualsiasi sia la finalità per cui esso è destinato, è ancora molto lontana dal nostro sistema scolastico, se non per rare eccezioni, frutto di attività progettuali specifiche e molto limitate. Quella che descriviamo di seguito rappresenta proprio una di queste esperienze. Si è recentemente concluso il progetto di ricerca (2012-2016) europeo chiamato European Assessment Protocol for Children’s SEL Skills1 (EAP_SEL), la cui fi1
Progetto triennale Comenius (2012-2015) dal titolo: “European Assessment Protocol for Children’s SEL Skills” – Ref.n. 527206 –LLP –2012 – IT, finanziato della Commissione europea nell’ambito del programma LifeLong Learning Programme. Partnership: Università di Perugia (Coordinatore), Università di Udine, Scuola Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI), Università di Örebro (Svezia), Università di Zagabria (Croazia), Università di Lubiana (Slovenia). Website: www.eap-sel.eu
II. Revisione sistematica
nalità è stata quella di promuovere nella scuola primaria pubblica di cinque paesi coinvolti (Italia, Svezia, Svizzera, Croazia e Slovenia), interventi di educazione socio-emotiva, attraverso l’utilizzo di un programma evidence-based, molto conosciuto nel contesto internazionale, denominato Promoting Alternative Thinking Strategies (PATHS®). Il PATHS® curriculum è un programma educativo completo, frutto del lavoro di un gruppo di studiosi della Penn State University (Kusché & Greenberg, 1994; Greenberg at al., 2005) che ha come finalità la promozione di competenze emotive e sociali e la riduzione di problemi di aggressività e di comportamento nei bambini in età della scuola dell’infanzia e primaria, migliorando il processo educativo in classe. Questo innovativo programma, è stato progettato per essere utilizzato da insegnanti, educatori e consulenti come modello di prevenzione universale. Una versione aggiornata del programma PATHS® è stata fatta nel 2011, e presenta un kit per ciascuna classe di lavoro (kit scuola infanzia, kit classe 1^, 2^, 3^, 4^, 5^ scuola primaria)2. Il programma PATHS® è progettato per essere insegnato due o più volte alla settimana per un minimo di 20-30 minuti al giorno (per un periodo di almeno 2 anni), attraverso lezioni sistematiche e progressive. Tutti i materiali e le istruzioni sono forniti agli insegnanti per facilitare l’alfabetizzazione emotiva, l’autocontrollo, la competenza sociale, relazioni tra pari positivi e le capacità di problem solving interpersonale. Tutte le relazioni possono essere facilmente integrate in ambienti di apprendimento esistenti, per costruire le capacità cognitive critiche necessarie per la preparazione scolastica e il successo accademico. Tempi e frequenza delle sessioni di lavoro possono essere adattati per soddisfare i bisogni individuali. In numerosi studi randomizzati controllati, condotti in molti contesti differenti e con una grande varietà dei allievi, PATHS® si è rivelato un programma che è riuscito a produrre cambiamenti positivi nella comprensione dei bambini delle emozioni, nel loro autocontrollo, nelle competenze sociali e nei problemi di comportamento (Greenberg, Kusché, Cook, Quamma, 1995; Greenberg, 2006; Conduct Problems Prevention Research Group, 2010). Tutti questi studi hanno, inoltre, documentato il mantenimento di tali miglioramenti nel tempo. È importante sottolineare che, anche repliche indipendenti del programma, in America e Europa, hanno mostrato cambiamenti positivi nei comportamenti dei bambini (Hindley & Reed, 1999; Louwe, van overveld, Merk, de Castro & en Knoops, 2007; Crean, Johnson, 2013). Non tutte le repliche hanno però confermato il successo di questo programma. In uno studio in Svizzera, l’attuazione del PATHS® ha provocato una diminuzione di aggressione tra tutti i bambini coinvolti e una diminuzione del comportamento impulsivo tra quei bambini che inizialmente avevano alti livelli di comportamento impulsivo (Malti, Ribeaud, & Eisner, 2011); Tuttavia, contrariamente alle aspettative, il PATHS® non ha influenzato i comportamenti pro-sociali dei bambini. In un’altra sperimentazione in Gran Bretagna, l’implementazione del programma è stata associata con primi miglioramenti nell’apprendimento, con la diminuzione 2
Per ulteriori informazioni su come ordinare il programma e i materiali didattici, si consiglia di visitare il sito: http://www.channing-bete.com/prevention-programs/paths/paths.html
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di comportamenti problematici come l’aggressività, iperattività e di problemi tra pari, ma tali miglioramenti non sono stati mantenuti a distanza di 1 anno di tempo (Little et al., 2012). Prove come queste mettono in evidenza le sfide, precedentemente accennate, inerenti l’implementazione di un programma d’intervento, benché empiricamente validato, all’interno di una nuova cultura e contesto e l’importanza delle repliche, soprattutto negli studi di pedagogia e didattica speciale, soprattutto per i vantaggi che queste posso apportare, rispetto alle problematiche legate alla contestualizzazione fin qui illustrate (Coyne et al., 2016). Spieghiamo ora in dettaglio l’esperienza di ricerca condotta all’interno del progetto europeo EAP_SEL, che ha visto per la prima volta l’utilizzo del PATHS® curriculum nelle scuole primarie pubbliche italiane, con particolare attenzione al ruolo svolto dagli insegnanti nell’implementazione del programma. La sperimentazione condotta in Italia ha coinvolto 7 istituti scolastici della provincia di Terni (Umbria), ripartiti in Istituti Comprensivi e Direzioni Didattiche collocati sia in zone urbane, sia rurali del territorio. Il disegno sperimentale alla base del progetto è stato di tipo RCT (Randomized Controlled Trials), con una selezione dei gruppi sperimentali e di controllo che è avvenuta attraverso la rispondenza di specifici criteri. In generale, si sono rispettati tutti i criteri condivisi a livello di rete europea, per rendere confrontabili i risultati, aggiungendo alcune condizioni che sono specifiche del contesto scolastico italiano. Ci si è riferiti, in particolare, agli allievi con disabilità e disturbi specifici dell’apprendimento (DSA), che nell’organizzazione scolastica italiana possono essere certificati e usufruire di alcune azioni di supporto regolate da particolari disposizioni di legge (Legge 517/1977 e Legge 104/1992 per la disabilità; Legge 170/2010 per i DSA; Direttiva Ministeriale del 2012 per i BES). Salvaguardia della modalità di selezione random La modalità di selezione delle classi prevista dalla ricerca si è articolata su un accoppiamento in base ai criteri scelti e condivisi dal gruppo di ricerca (es. numero di allievi in classe, dimensioni della scuola, situazione socio-economica della comunità, etc.). Questa scelta, assolutamente opportuna per ridurre il rischio di variabilità dei gruppi, è stata completata da una selezione random, per evitare la possibilità di deformazione e di introduzione di fattori soggettivi. Per questo motivo, una volta selezionate le dieci coppie di classi 1^ previste dal disegno sperimentale del progetto, si è provveduto ad un sorteggio per ogni coppia, al fine di assegnare le classi alla condizione sperimentale e a quella di controllo appunto in maniera random. In totale le classi che componevano il gruppo sperimentale erano 11 di scuola primaria (primo anno), distribuite nelle 10 scuole, mentre il gruppo controllo era composto da 10 classi (primo anno), distribuite in altrettante scuole. Il campione totale di bambini italiani coinvolti nei due anni di sperimentazione del progetto è stato di 204, distribuito in 95 femmine e 109 maschi (Figura 3: Campione totale bambini italiani coinvolti nel progetto EAP_SEL ).
II. Revisione sistematica
Campione totale (gruppo sperimentale e gruppo controllo) italiano di alunni coinvolti nel progetto
204 109
95
MASCHI
FEMMINE
TOTALE
Fig. 3. Campione totale bambini italiani coinvolti nel progetto EAP_SEL
Gli insegnanti coinvolti Definita l’appartenenza delle classi alla situazione sperimentale e di controllo, si è proceduto alla definizione degli insegnanti appartenenti ad entrambe le condizioni. Conclusa la fase di selezione delle classi – e degli insegnanti ad esse collegati – si è proceduto con la prima misurazione (baseline) che ha definito le condizioni prima dell’intervento formativo sugli insegnanti appartenenti al gruppo sperimentali e dell’implementazione del programma PATHS® nelle classi. Ci soffermeremo in seguito sull’analisi dettagliata degli strumenti di valutazione utilizzati. Il gruppo di soggetti coinvolti nel percorso formato specifico all’implementazione del programma PATHS® era composto da 45 insegnanti provenienti da 10 scuole diverse, distribuite nel territorio della provincia di Terni. L’ 8% di questi erano insegnanti specializzati per le attività di sostegno agli allievi con disabilità. Il 100% degli insegnanti afferenti al gruppo sperimentale erano di sesso femminile, con un’esperienza di insegnamento che oscillava dai 3 ai 40 anni, con una media di 23, 45 anni di servizio, distribuita nel modo seguente: il 12, 5% aveva un’esperienza di insegnamento (nel ruolo curricolare e di sostegno) fino a 10 anni; il 21% dai 10 ai 20 anni, il 29% dai 20 ai 30 anni e il 38% dai 30 ai 40 anni (Figura 1: Distribuzione anni di servizio nell’insegnamento). Anni di servizio nell'insegnamento
12% 12% 12 % Fino a 10 anni
38% 38% 38 %
21 21% 2 1% %
Da 10 a 20 anni Da 20 a 30 anni Da 30 a 40 anni
29% 29% 29 %
Fig. 2 Distribuzione anni di servizio nell’insegnamento
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L’età anagrafica media degli insegnanti era di 50, 27 anni. Rispetto alla distribuzione delle fasce di età, il 12% aveva dai 30 ai 40 anni, il 25% dai 40 ai 50 e il 63% dai 50 ai 60 anni (Fig. 3: Distribuzione fascia età campione insegnanti italiani gruppo sperimentale). FASCIA ETÀ CAMPIONE INSEGNANTI FORMATI
12 12% 1 2% %
DAI 30 AI 40 ANNI DAI 40 AI 50 ANNI
255% 25% 2 % 63% 63% 63 %
DAI 50 AI 60 ANNI
Fig. 3. Distribuzione fascia età campione insegnanti italiani gruppo sperimentale
3.1 La formazione degli insegnanti al PATHS® Curriculum
132
La formazione al PATHS® curriculum nelle scuole italiane è avvenuta in modalità blended e in due momenti diversi, corrispondenti all’inizio del primo e del secondo anno di sperimentazione. In altre parole, gli insegnanti, durante i primi mesi degli anni scolastici 2012/2013 e 2013/2014 hanno ricevuto una formazione intensiva (inizialmente) e un upgrade (avanzamento) nell’anno successivo. Tale formazione, per essere condivisa ed omogenea nei vari paesi coinvolti dal progetto, ha avuto una base comune che ha visto temi centrali di discussione: le evoluzioni della ricerca scientifica su SEL, gli approcci di base all’implementazione dei programmi evidence-based in classe e le loro caratteristiche, seguita da una parte riferita alla contestualizzazione del programma nei vari paesi. 3.2 Monitorare la qualità dell’implementazione
Come detto in precedenza, benché si parli di programmi educativi che hanno ottenuto solide prove di efficacia in termini di ricerca, le criticità sono sempre in agguato quando questi devono confrontarsi con realtà contestuali diverse rispetto a quelle dove sono risultati tali. Nel progetto EAP_SEL è stata predisposta, dal team di ricerca internazionale, una rating scale chiamata Coach Implementation Rating Form, con l’obiettivo di raccogliere, attraverso l’osservazione dei formatori, dati qualitativi sull’implementazione del PATHS®, attraverso 4 indicatori di riferimento: 1) coaching e implementazione in classe; 2) modeling e generalizzazione; 3) fedeltà all’insegnamento e supporto dei bambini; 4) fedeltà alle attività proposte dal programma. Le scale sono state compilate dai formatori durante le visite di monitoraggio nelle classi, utilizzando punteggi su quattro livelli di implementazione del programma: base, standard, buono, eccellente. II. Revisione sistematica
Durante le visite nelle classi sperimentali si è osservato quanto la qualità dell’implementazione del programma PATHS® dipenda strettamente dal livello di impegno e coinvolgimento mostrato dagli insegnanti e dagli allievi, riflettendosi poi sui risultati, sia visibili (es. se il setting della classe restituisse o meno la sensazione di una classe “PATHS”), sia invisibili (es. cambiamenti negli atteggiamenti di insegnanti e allievi più orientati verso azioni inclusive e prosociali). I risultati della rating scale, al termine dei due anni di studio, mostrano che oltre il 70% delle 10 classi monitorate, presentava un livello di implementazione corrispondente ai livelli buono ed eccellente. Rispetto alla raccolta complessiva dei dati della sperimentazione, questa è stata condotta attraverso l’utilizzo di una serie di strumenti di valutazione e autovalutazione indirizzati ad allievi ed insegnati. Nel corso del progetto le misurazioni sono avvenute prima dell’inizio dell’attività di formazione degli insegnanti (baseline, Settembre 2013), alla fine del primo anno scolastico (Giugno 2014), alla fine del secondo anno scolastico (Giugno 2015). Si è scelto di impiegare alcuni strumenti, già utilizzati in un progetto di ricerca con finalità simili, denominato, “FAST-TRACK – Conduct Problems Prevention Research Group: the Fast Track Program (1992)” a cui aveva partecipato l’Università di Zagabria. L’intero gruppo di ricerca ha congiuntamente operato una selezione di alcuni di essi, rispetto alla rispondenza con le finalità specifiche del progetto. In dettaglio gli strumenti usati sono stati i seguenti:
– Teacher Report on a Child (TRC): strumento costituito da 6 sotto-batterie di test: Strengths and Difficulties Questionnaire (SDQ) questionario che misura sintomi emotivi, problemi di condotta, iperattività/impulsività e problemi con i compagni (Goodman, 1997); Child Activity Scale (CAS), scala per valutare l’inattenzione e l’iperattività (DuPaul,1991); Child Interaction Scale (CIS), utilizzata per misurare i comportamenti dei bambini nell’interazione con i loro compagni (DuPaul, 1991); Learning Behavior Scale (LBS), usata per valutare le modalità di apprendimento dei bambini (Bierman et al, 2008); Academic Performance Questionnaire (APQ), questionario per valutare le abilità di lettura, scrittura e calcolo e, più in generale, il grado di apprendimento scolastico (Karustis et al.1999); Child Behaviour Questionnaire (CBQ), strumento per misurare il grado di aggressività, le competenze prosociali, la capacità di regolare le emozioni e il comportamento introverso/depresso (Rothbart et al., 2001)
Il campione italiano ha mostrato risultati statisticamente significativi per il gruppo sperimentale che aveva utilizzato il PATHS® Curriculum, nella Child Interaction Scale (p=.005); nei problemi di condotta dell’SDQ (p=.048); nei problemi tra pari dell’SDQ (p=.002); e nel totale dei risultati della scala SDQ (p=.009). Un trend positivo è stato rintracciato anche per quanto riguarda la misurazione dei comportamenti di iperattività/impulsività, CAS (p=.067).
– Teacher Self Report (Tschannen-Moran & Barr, 2004), un questionario validato di autovalutazione rivolto agli insegnanti che include scale per valutare il senso di efficacia collettiva (CoLEFF), il livello percepito di burnout (WPFBURN), il livello percepito di soddisfazione professionale (WPFPoSFEEL) e il livello di professionalità degli insegnanti (PRoToT).
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I risultati della correlazione tra le quattro scale, per quanto riguarda il campione italiano, hanno mostrato un livello di professionalità superiore rispetto agli insegnanti del campione croato e svizzero. Alla fine del progetto, gli insegnanti italiani coinvolti nel gruppo sperimentale, mostravano livelli significativamente minori di burnout ed un aumento di sentimenti positivi nei confronti della loro professione. – Scala di Valutazione dei Processi Inclusivi, sviluppata dai due partner italiani di progetto, l’Università di Udine e Perugia, è uno strumento attualmente validato, rivolto a rilevare la qualità dei processi inclusivi promossi dalle istituzioni scolastiche (Cottini et. al, 2016).
134
Tale strumento è stato sviluppato partendo dal costrutto di inclusione proposto da Booth e Ainscow (2002) nell’ Index for Inclusion, che si basa su tre fattori chiave: culture, politiche e pratiche. Prima di essere implementato nel progetto, tale strumento è stato sottoposto a studi di validità e affidabilità inter-rater che hanno evidenziato alcune criticità, successivamente oggetto di indagine di ulteriori studi qualitativi e quantitativi3, che hanno ridato una versione molto modificata dello strumento, denominato “Scala di Valutazione dei Processi Inclusivi” recentemente pubblicato (Cottini et. al, 2016). Nella sua prima versione, la scala è stata utilizzata dal campione italiano di scuole coinvolte nel progetto EAP_SEL, per valutare l’incidenza dei programmi d’interventi SEL sui processi inclusivi. Pur considerando tutti i limiti nei risultati ottenuti dall’utilizzo di uno strumento parzialmente validato e solido, i dati provenienti dalla prima versione della scala, hanno evidenziato come la conduzione di interventi di educazione socioemotiva – in particolare l’uso del PATHS® Curriculum – abbia ricadute positive sui livelli di inclusione promossi dalle scuole. Alla fine dei due anni di sperimentazione, il gruppo controllo risultava più inclusivo (in riferimento ai 3 fattori inclusivi), rispetto al gruppo sperimentale del 27% (Fig. 4: Livello di inclusione totale alla fine del progetto EAP_SEL. Campione italiano).
INCLUSIONE COMPLESSIVA
27,8 MENTALI Totale CLASSI 3 dimensioni CONTROLLO nelle 3 misurazioni Totale 3 dimensioni nelle Differenza 3 misurazioni Percentuale
Fig. 4. Livello di inclusione totale alla fine del progetto EAP_SEL. Campione italiano
3
La scala di valutazione per l’inclusione è stata affinata e validata all’interno del progetto europeo Erasmus Plus dal titolo: “Evidence Based Education: European Strategic Model for School Inclusion” (2014-2017) ref. No. 2014-1-IT02-KA201-003578. Partnership: Università di Perugia (Coordinatore), Università di Udine, Università Autonoma di Barcellona, open University of the Netherlands, Università di Zagabria, Università di Lubiana. Website: inclusive-education.net
II. Revisione sistematica
I risultati finali sugli allievi ottenuti da tutti i paesi partecipanti al progetto EAP_SEL – la cui descrizione dettagliata esula da questo lavoro –, mostrano quanto la qualità dell’implementazione del programma, dato molto alto ed omogeneo nei differenti contesti, abbia poi consentito il raggiungimento di risultati positivi (in termini di significatività statistica) rispetto agli outcomes pianificati. Per i risultati ottenuti, il progetto EAP_SEL è stato riconosciuto dalla Commissione Europea che lo ha finanziato, una “buona pratica educativa europea”.
Conclusioni
I risultati qualitativi e quantitativi derivati dalla sperimentazione triennale del progetto EAP_SEL, unitamente alla valutazione eccellente data dalla Commissione Europea, invitano tutti i ricercatori coinvolti a proseguire e a far evolvere e diffondere gli studi sull’educazione socio-emotiva, anche nel contesto europeo. Con specifico riferimento al campione italiano, i risultati ottenuti mostrano potenzialità di sviluppo sicuramente interessanti, che spingono certamente ad approfondire l’incidenza delle attività di educazione socio-emotiva sui processi inclusivi messi in campo da una scuola, utilizzando strumenti che presentino maggiore validità e affidabilità, come la nuova versione della Scala di Valutazione per i processi Inclusivi (Cottini et. al, 2016). Da segnalare che in futuro ci sarà l’esigenza di ottenere campioni più ampi, sia per quanto riguarda il numero degli allievi, sia degli insegnanti e più rappresentativi dell’intero territorio nazionale. Un altro aspetto da considerare con attenzione sarà l’adattamento dei programmi, in contesti educativi diversi da quelli in cui hanno ricevuto una solida efficacia in termini di ricerca. I riscontri degli insegnanti evidenziano la presenza di attività didattiche molto sterzate sulla realtà scolastica statunitense e poco rispondenti a quella italiana. Un ultimo elemento di indagine futura, riguarderà anche i tempi di durata nell’utilizzo di un programma SEL, visto che numerosi insegnanti segnalano che due anni non risultano sufficienti per mostrare dei cambiamenti a livello sociale ed emotivo traducibili in comportamenti reali e non solo atteggiamenti, nei loro allievi. A tal proposito potranno essere considerate le potenzialità offerte da studi longitudinali, che consentono di prendere in considerazione anche lo sviluppo evolutivo degli allievi coinvolti nella ricerca.
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II. Revisione sistematica
Futuri insegnanti: le loro rappresentazioni degli studenti con disabilità
Key-words: Teachers in training; academic career; disabled students; representations of disability
III. Esiti di ricerca
*
Una versione precedente di questo articolo è apparso nel 2014 su la Revue suisse de pédagogie spécialisée (n°3, p. 20-26) con il titolo « Elèves en situation de handicap ou ayant des besoins éducatifs particuliers: quelles représentations chez de futurs enseignants?».
Italian Journal of Special Education for Inclusion
anno IV | n. 2 | 2016
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The adoption by many countries of increasingly inclusive educative policies highlights the need to train teachers as soon as possible to this new reality. Nevertheless, in most cases, future teachers during their academic career never had contact, or have had few contacts, with disabled students. From a research we conducted in Switzerland as part of a PhD project, it emerges that future teachers have essentially prototypical representations of disabled pupils that don’t change during their training.
abstract
Serge Ramel / Professore formatore, Alta scuola di pedagogia del Cantone di Vaud - Svizzera / serge.ramel@hepl.ch
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1. Una focalizzazione della formazione iniziale sugli atteggiamenti
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Oggi come oggi, grazie alle ingiunzioni internazionali e ai vincoli nazionali l’integrazione e l’inclusione scolastiche sono diventate tematiche imprescindibili. La formazione degli insegnanti non fa eccezione e diversi enti, come ad esempio l’UNESCO o l’EASDNE1, hanno redatto delle linee guida che riguardano nello specifico la formazione iniziale degli insegnanti (EADSNE, 2011; UNESCO, 2009). Nonostante questo, gli sviluppi in questo campo restano modesti e l’EADSNE (2011) si interroga su come tutti i futuri insegnanti possano essere formati all’inclusione. L’EADSNE (2011) sottolinea l’importanza di sviluppare atteggiamenti, conoscenza e competenze in questo ambito durante la formazione iniziale degli insegnanti. L’OMS (2012) sottolinea inoltre che i programmi di formazione degli insegnanti dovrebbero focalizzarsi non solo sulle conoscenze e sulle competenze ma anche sugli atteggiamenti e sui valori. La formazione iniziale viene spesso vista anche come il momento migliore per portare i futuri insegnanti a modificare o a fare evolvere i loro atteggiamenti nei confronti degli allievi con disabilità e le loro idee sull’educazione inclusiva (Chong, Forlin, Au, 2007; Lambe, Bones, 2007). Dagli studi di alcuni autori (Lambe, Bones, 2006; Murphy, 1996) emerge che se gli insegnanti hanno completato la loro formazione iniziale senza sviluppare atteggiamenti positivi verso l’inclusione questi atteggiamenti saranno molto difficili da modificare in seguito e questo avrà un impatto negativo sull’integrazione degli alunni con disabilità. Tuttavia si può mettere in discussione questa importanza conferita alla formazione iniziale per quanto riguarda gli atteggiamenti dei futuri insegnanti. Oltre al fatto che questi vengono identificati come globalmente positivi e che l’apertura manifestata diminuisce piuttosto che aumentare durante i primi anni di pratica professionale (Avramidis, Bayliss, & Burden, 2000), è importante sottolineare che gli atteggiamenti nei confronti di una situazione non sono che il risultato delle rappresentazioni proprie delle persone. Per comprendere gli atteggiamenti è quindi fondamentale conoscere meglio le rappresentazioni.
2. A monte degli atteggiamenti: le rappresentazioni
Le rappresentazioni sociali possono essere considerate come dei sistemi di credenze «condivise principalmente dai membri di un gruppo sociale» (Deschamps, Clémence, 2000, p. 108). Le credenze personali sono una variazione individuale di una credenza collettiva, le prime possono essere in accordo o, al contrario, in conflitto con le seconde (Salès-Wuillemin, 2006). Questa possibile opposizione tra le credenze personali e le credenze collettive favorisce anche l’emergere di 1
European Agency for Development in Special Needs Education (rinominata European Agency for Special Needs and Inclusive Education nel 2014 in modo tale da rappresentare meglio i suoi compiti e il suo punto di vista).
III. Esiti di ricerca
un dibattito favorevole alla costruzione delle rappresentazioni sociali. Le rappresentazioni sociali vanno a contribuire allo sviluppo degli atteggiamenti che derivano da singole modulazioni di un quadro comune di riferimento (Doise, 1989). Questi atteggiamenti si tradurranno nelle opinioni, che sono prese di posizione spesso instabili (Clémence, 2003) che a loro volta influenzano i comportamenti. Le rappresentazioni sociali si collocano quindi a monte degli atteggiamenti (Rouquette 1996) e ne costituiscono la matrice (Rateau, 2000). È in questa prospettiva teorica che noi abbiamo cercato di comprendere meglio le rappresentazioni dei futuri insegnanti nei confronti dell’integrazione scolastica per capire come, da una parte, queste sono radicate nella loro storia personale e collettiva e, dall’altra, come queste si concretizzano nelle loro prese di posizione nei confronti di questa questione.
3. Una terminologia adatta alle rappresentazioni sociali
Due sono i processi coinvolti nella formazione delle rappresentazioni sociali: l’ancoraggio e l’oggettivazione. Questi due processi operano in sinergia, uno permettendo di comprendere la costruzione di una conoscenza a partire dai saperi preesistenti e l’altro consentendo di comprendere come questa conoscenza si colloca a livello dell’individuo e nei rapporti sociali tra gli individui (Clémence, 2001). Se il processo di oggettivazione permette alle persone di acquisire e integrare fenomeni o conoscenze complessi, l’ancoraggio favorisce il loro radicamento sociale (Jodelet 1984). La terminologia utilizzata in Svizzera è particolarmente adatta all’ancoraggio delle rappresentazioni sociali degli attori in campo educativo. In effetti, i diversi testi legislativi parlano di persone, bambini, adolescenti o allievi con disabilità (Constitution fédérale, 1999; LHand, 2002), della loro disabilità (Constitution fédérale, 1999, LHand, 2002) o del loro handicap (CDIP, 2007) e basandosi su una concezione essenzialista della disabilità, di persona con disabilità richiamando la disabilità della quale è portatrice questa persona. È dunque specialmente in questo contesto che potranno ancorarsi le rappresentazioni sociali della disabilità. Un gruppo o gli individui che lo costituiscono cercheranno anche di capire il loro ambiente attraverso la categorizzazione di oggetti, persone, fenomeni o conoscenze (Moscovici, 1989). Per fare questo, le persone fanno riferimento anche ad una conoscenza del senso comune costruita a partire da classificazioni profane utilizzate e condivise da tutti (Moscovici, Hewstone 1984) che permetterà loro di oggettivare le loro rappresentazioni sociali. Queste classificazioni profane possono essere prese in prestito dalle immagini e dai messaggi veicolati dai media (Stockdale, 1995). In diversi Paesi i cartelli che indicano dei servizi per le persone con disabilità si basano su dei prototipi di situazioni di disabilità come, ad esempio, le persone in sedia a rotelle, cieche, sorde o con ritardo mentale. Ciò è in linea con il risultato degli studi condotti da Harma, Gombert, Roussey, Arciszewski (2012) che vede la rappresentazione della disabilità prevalentemente orientata alla visibilità della disabilità stessa (si veda Figura 1):
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Figura 1. Cartello che segnala dei servizi per persone disabili (stazione di Lyon, Parigi)
Questi simboli permettono di anticipare i comportamenti da tenere con le persone con disabilità e dalle ricerche di Stockdale (1995) emerge anche che quelle con disabilità uditiva o visiva vengono considerate come più integrate nella società rispetto alle persone con altri tipi di disabilità. Gli individui di norma ritengono di essere in grado di rapportarsi con persone con disabilità visiva o uditiva molto più facilmente rispetto che con persone con una disabilità mentale o motoria (op. cit.). In questo senso, le persone con disabilità visiva o uditiva rappresentano i prototipi sia della disabilità che dell’integrazione. Se queste rappresentazioni sono ampiamente condivise tra la popolazione, ci aspettiamo che siano proprie anche dei futuri insegnanti, almeno all’inizio della loro formazione.
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4. Quali rappresentazioni hanno i futuri insegnanti degli allievi con disabilità?
Il nostro studio è finalizzato a comprendere quali sono le rappresentazioni che i futuri insegnanti hanno dell’integrazione scolastica degli studenti con disabilità. Più nello specifico, siamo interessati ai processi di ancoraggio di queste rappresentazioni dei futuri insegnanti nei loro percorsi precedenti all’inizio della formazione per diventare insegnanti. In questo lavoro presenteremo esclusivamente i risultati relativi alle rappresentazioni prototipiche degli studenti con disabilità. Abbiamo somministrato un questionario a 261 futuri insegnanti della scuola primaria. Di questi 261 insegnanti: il 37,9% era all’inizio della formazione, il 33,7% a metà del percorso formativo e il 28,4% al termine del percorso formativo. L’età media dei partecipanti al nostro studio era di 22,4 anni e il 91,6% era di genere femminile. In primo luogo abbiamo interrogato i partecipanti relativamente alle loro esperienze con la disabilità. Circa tre studenti su quattro (72,4%) non hanno svolto il loro percorso scolastico obbligatorio in contesti integrativi e circa uno studente su tre (il 30,3%) non ha mai frequentato con continuità delle persone con disabilità. In mancanza di un’esperienza personale con la problematica, gli studenti devono basarsi sulle loro rappresentazioni per anticipare quello che l’integrazione scolastica comporta. Per identificare le loro rappresentazioni abbiamo domandato ai partecipanti III. Esiti di ricerca
all’inizio, a metà e alla fine della formazione di elencare fino a sei situazioni che si aspettavano di incontrare nella loro pratica professionale futura. Le sei situazioni più citate dai partecipanti sono le seguenti (si veda Figura 2): +*!
"#$%! %%$"!
"*!
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'($'!
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'"$)!
'&$)!
'*! #*! &*! *!
!
Figura 2. Le disabilità si aspettano di#incontrare più ' ' # che gli # studenti # # # # # # #frequentemente # nella # loro # # # ' futura pratica professionale !
Le rappresentazioni degli studenti sono radicate soprattutto in situazioni prototipiche della disabilità. In questo studio abbiamo inoltre verificato se questa associazione svanisse con la formazione e per questo abbiamo confrontato le percentuali degli studenti all’inizio della formazione con quelle di quelli alla fine della formazione (Figura 3):
Figura 3. Disabilità menzionate spontaneamente dagli studenti (percentuali sul totale)
Gli studenti al termine della formazione rispetto a quelli all’inizio della formazione menzionano tre volte di più la sordità, il ritardo mentale e la cecità. Le altre differenze non sono statisticamente significative. Pertanto, non solo le rappresentazioni che gli studenti hanno all’inizio della formazione sono radicate principalmente in prototipi di disabilità, ma questo radicamento è ancora più forte per gli studenti al termine della formazione. Tuttavia, tra i partecipanti alla fine della formazione, durante lo stage in realtà solo il 6,75% ha incontrato stuanno IV | n. 2 | 2016
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denti con disabilità uditiva, il 13,51% studenti con problemi di mobilità, il 9,45% studenti con disabilità intellettiva e il 4,05% studenti con disabilità visiva. Di contro, il 90,5% dei partecipanti al termine della formazione durante lo stage ha incontrato uno studente con dislessia o disortografia.
5. Un discorso sull’integrazione che rinforza le rappresentazioni prototipiche
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Come interpretare il fatto che degli studenti, che si preparano a diventare insegnanti, si aspettano di incontrare nel loro futuro professionale delle tipologie di studenti che non hanno mai, o quasi mai, incontrato durante la loro scolarizzazione e i loro stage? La spiegazione, a nostro avviso, si trova nella funzione stessa delle rappresentazioni sociali. Non riuscendo ad avere una precisa conoscenza degli studenti veramente integrati nelle classi della scuola dell’obbligo e della prevalenza di questi, se si escludono gli studenti con dislessia e disortografia, i futuri insegnanti faranno ricorso a queste immagini prototipiche come “rappresentazioni anticipatorie” (Jodelet, 2002, p. 168) di questa integrazione scolastica annunciata come imminente. Ci si può stupire delle rappresentazione prototipiche che i futuri insegnanti hanno degli allievi con disabilità. Bisogna però riconoscere che il dibattito in Svizzera si è focalizzato in primo luogo sull’integrazione degli studenti con disabilità, in particolare con la necessità imposta dalla Riforma della perequazione finanziaria e dei compiti (RPT) di ridefinire il funzionamento della pedagogia speciale. Per questo motivo, la questione dell’integrazione scolastica si è concentrata principalmente sull’inserimento nelle scuole ordinarie degli studenti precedentemente coperti dall’assicurazione di invalidità. La formazione dei futuri insegnanti non è sfuggita a questa tendenza in quanto le raccomandazioni della Conferenza svizzera dei rettori delle alte scuole di pedagogia (COHEP, 2008) sottolineano il posto da dare alla pedagogia speciale nella formazione generale degli insegnanti. Pertanto, la formazione tende a concentrarsi su una specifica popolazione di studenti, concentrandosi su alcune disabilità più che su altre. Come nel caso dei partecipanti al nostro studio che durante il loro percorso di formazione sono stati sensibilizzati ad alcune disabilità più che ad altre, in base ai campi di specializzazione dei formatori provenienti dalla pedagogia speciale. Per evitare di rafforzare le rappresentazioni prototipiche che i futuri insegnanti hanno degli allievi da integrare, è essenziale ampliare la questione dell’integrazione dalla “integrazione di alcuni studenti” ad una “scuola per tutti” (EADSNE, 2011). In effetti, mentre molti paesi aderiscono a questo concetto in una prospettiva inclusiva, altri paesi come la Svizzera “continuano a concentrare la loro attenzione principalmente su studenti con disabilità e bisogni educativi speciali o su quelli il cui comportamento rischia di disturbare la classe” (EADSNE, ibid., p. 15). La formazione deve quindi fare attenzione a non focalizzare l’attenzione su alcune categorie prototipiche, ma al contrario deve contribuire a garantire che i futuri insegnanti abbiano una migliore percezione dei bisogni educativi speciali di tutti i loro studenti. III. Esiti di ricerca
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L’apprendimento della letto-scrittura e i fattori di rischio: un progetto sulla consapevolezza degli insegnanti
Key-words: Learning reading and writing, Learning Disorders, Risk factors, Observation, Documentation
III. Esiti di ricerca
Il paragrafo 1 è da attribuire a Laura Arcangeli; il paragrafo 2 è da attribuire a Francesca Pascolini; il paragrafo 3 è da attribuire a Moira Sannipoli.
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Reports of suspected Learning Disorders are significantly increased even when it comes to problems that must be addressed with specific teaching actions. To meet that need, born the pilot project for research-training, financed by the Umbria Region, and that involves the Regional Scholastic Office and the local health authorities of Perugia and Terni, is meant to accompany a champion of teachers of the first classes of primary school in the acquisition of a more refined professional skill with respect to the reading and writing, and early identification of risk factors. Research has highlighted the importance of building a methodology and teaching based on observation and documentation. These tools are able to tell the story of every child learns to read and write, in an open setting to learning social perspective and respectful of the times of each. The pilot project will be extended this year to other teachers of other educational institutions and trained teachers will become, in turn, co-trainers of colleagues in their own educational institution.
abstract
Laura Arcangeli / Università degli Studi di Perugia / laura.arcangeli@unipg.it Francesca Pascolini / Tutor organizzatore / Università degli Studi di Perugia / francescapascolini@alice.it Moira Sannipoli / Università degli Studi di Perugia / moira.sannipoli@unipg.it
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1. Verso la costruzione di una metodologia
Il Decreto ministeriale 17 aprile 2013, sottoscritto dal MIUR e dal Ministero della Salute, ha chiesto ad ogni Regione la stesura di protocolli di intesa con la finalità di individuare casi sospetti o a rischio di DSA sin dai primi anni del percorso scolare. La legge 8 ottobre 2010, n. 170, art. 3, ha affidato infatti alla scuola il compito di individuare precocemente i casi sospetti di Disturbo Specifico di Apprendimento, invitando a distinguerli dalle difficoltà di apprendimento. Quando si parla di difficoltà di apprendimento, si fa riferimento a qualsiasi difficoltà che uno studente incontra durante il suo percorso di studi. (…) Tuttavia di qualsiasi difficoltà si tratti, ciò che è importante è l’evoluzione positiva che caratterizza tali situazioni e che può essere ottenuta con un’applicazione maggiore nello studio o seguendo percorsi di insegnamento individualizzati. Assai differenti sono invece tutte quelle situazioni che rientrano nella categoria dei disturbi evolutivi specifici dell’apprendimento che fanno riferimento a problematiche più varie e dall’evoluzione incerta (…) e che dipendono dalle basi neuropsicologiche dell’apprendimento stesso (Lucangeli, 2010, p. 25).
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L’iter previsto dalla Legge, coerentemente con le Raccomandazioni per la pratica clinica per i DSA elaborate in continuità con quanto sostenuto dalla Consensus Conference, prevede nel primo biennio di scuola primaria l’individuazione degli alunni che presentano difficoltà significative nella lettura, scrittura e calcolo, l’attivazione di percorsi didattici mirati al recupero di tali difficoltà e la segnalazione dei soggetti definiti “resistenti” all’intervento didattico di potenziamento. Si tratta quindi di attivare un circolo virtuoso tra le osservazioni sistematiche messe in essere dagli insegnanti, le attività di screening a scuola con la supervisione di tecnici e in ultima analisi, dove necessario, la valutazione diagnostica. Il tavolo tecnico della Regione Umbria, composto dalla Direzione Regionale Salute e Coesione sociale, dall’Ufficio Scolastico Regionale, dalle Aziende USL Umbria 1 e 2 e dal Dipartimento di Filosofia, Scienze Sociali, Umane e della Formazione dell’Università di Perugia ha scelto di mettere in campo nell’a.s. 20152016 un progetto di ricerca-formazione rivolto agli insegnanti con lo scopo di promuovere una maggior consapevolezza dei processi di insegnamento/apprendimento della letto-scrittura e dei fattori di rischio ad essa correlati piuttosto che promuovere uno screening che non avrebbe promosso un ripensamento delle pratiche. Il progetto ha avuto la finalità di accompagnare il corpo docente verso l’acquisizione di una competenza professionale più attenta e raffinata sui concetti di difficoltà e di disturbo con lo scopo di ridurre le segnalazioni di DSA in quell’ampia popolazione di alunni che presentano difficoltà di apprendimento non legate ad un disturbo e che per questo possono essere superate con un intervento prettamente didattico e socio-ambientale. Contemporaneamente l’attenzione del gruppo si è focalizzata sui fattori di rischio legati all’apprendimento della letto-scrittura che possono essere individuati in età precedente al secondo anno di frequenza della scuola primaria e sui Disturbi Specifici dell’ApprendimenIII. Esiti di ricerca
to. «Una buona parte delle difficoltà a chiarire la natura e le caratteristiche dei DSA sta proprio nella loro “specificità”, cioè nel fatto che riguardano ambiti circoscritti di abilità, e anche nell’uso ambiguo di termini (…). Così pur riconoscendo un ruolo ad alcuni fattori ambientali, oggi l’origine neurobiologica dei DSA è largamente condivisa dalla comunità clinico-scientifica, come anche la eterogeneità della loro espressione sia in relazione a come i disturbi si manifestano nei diversi individui, sia in relazione al corso evolutivo del disturbo stesso» (Savelli, Stella, Gallo, Mancino, 2011, p. 10). Il progetto, compiuto come studio-pilota, ha visto il coinvolgimento dei dirigenti e del team di docenti di tre classi prime di tre istituzioni scolastiche dell’Umbria per tutto l’anno 2015/2016 e si è mosso dentro una cornice di “analisi delle pratiche” (Altet, 2003; Altet, Vinatier, 2008; Asthier, 2003; Damiano 2006; Laneve, 2009, 2010). Afferma Schön: «Noi dovremmo partire non dal chiederci come utilizzare meglio la conoscenza basata sulla ricerca ma interrogandoci su ciò che noi possiamo apprendere da un’attenta analisi dell’“abilità artistica”, cioè sulle competenze attraverso le quali i professionisti di fatto interagiscono con le zone indeterminate della pratica» (2006, p. 43). Con l’espressione «analisi delle pratiche» infatti si intende proprio la necessità di conoscere le pratiche per accompagnarle e sostenerle, senza bisogno di promuovere un modello da imitare o un correttivo, perché la consapevolezza che ne deriva è già trasformatrice. Questo tipo di postura metodologica presuppone la costruzione di una stretta alleanza tra pratici e ricercatori (Damiano, 2006), che porti a superare il cosiddetto “modello del deficit”, dandosi uno spazio e un tempo in cui far emergere e rendere comunicabili agli altri le proprie conoscenze pratiche. Non si è trattato, allora, solo di raccogliere informazioni e dati, ma di documentare tutte quelle azioni e quei processi che hanno permesso di giungere a determinate e provvisorie conclusioni, passando da un fare intuitivo, mosso da premesse implicite, ad un fare più consapevole, abbandonando una logica emergenziale e adottandone una progettuale. La scuola come luogo di ricerca, specificatamente interessato all’analisi dei saperi delle pratiche, può essere definito tale se sa valorizzare e promuovere le diverse identità professionali, sa coniugare il cambiamento e l’innovazione con la tradizione, sa costruire relazioni significative negli spazi che abita. Nella metafora dell’abitare che richiama il significato dell’aver cura, l’abitante cura e custodisce i luoghi dell’abitare, mettendoli al riparo e questo determina la sua appartenenza alla comunità (D’Agostino, 2011, p. 77).
Il gruppo di ricerca è stato accompagnato in ogni momento dalla presenza di tre logopediste, provenienti dai servizi sanitari dei territori delle scuole coinvolti. La ricerca ha avuto un momento esplorativo iniziale caratterizzato da un’intervista semi-strutturata rivolta ad ogni docente e da un focus group con simulata che hanno avuto le funzioni di far emergere i bisogni formativi e le aspettative rispetto al percorso di ricerca-formazione e al tempo stesso raccogliere tutta una serie di conoscenze dei partecipanti sui processi di letto-scrittura, sulle abilità che sottostanno questo apprendimento e i metodi conosciuti e quelli utilizzati per l’apprendimento della letto-scrittura e per il potenziamento didattico. I do-
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centi sono stati poi invitati, inizialmente, a descrivere tramite protocolli osservativi che hanno accompagnato tutto il percorso di ricerca-formazione, il processo di insegnamento-apprendimento della letto-scrittura in due bambini individuati da ogni singolo partecipante come “il bambino più competente” e “il bambino con più difficoltà”. La proposta è stata di adottare una scrittura diaristica carta e matita, in cui è stato chiesto di registrare comportamenti e dialoghi con il bambino nell’arco di un tempo prescelto, per 20 minuti. Si è convenuto, inoltre, di adottare il focus della doppia osservazione nella quale «un osservatore “partecipe” è in situazione e stende il suo protocollo a posteriori, mentre un altro osservatore “non partecipe” (…) registra i dati osservativi in contemporanea all’evolversi dell’evento studiato» (Mantovani, 1995, p. 110). Questo primo momento è stato accompagnato da una discussione collegiale intergruppo per la costruzione e condivisione degli strumenti di osservazione e documentazione, che potessero essere funzionali all’analisi della pratica didattica. É infatti necessario «allestire contesti nei quali il compito primario non è più quello di fornire al soggetto un insieme di alternative che sappia padroneggiare per adattarsi al mondo, ma quello di fornire al soggetto la capacità di modificare quell’insieme di alternative, rinunciando all’aspettativa di padroneggiare» (Sannipoli, 2015, p. 18). L’osservazione ha rappresentato un momento significativo e centrale per il mondo della scuola, ma anche per quello sanitario che non sempre, purtroppo, trova tempi, spazi e modalità per farne emergere la ricchezza, per procedere in un processo di autentica conoscenza. «L’osservazione consente di cogliere lo svolgimento ordinato di una sequenza di movimenti, i processi di apprendimento mentre questi si svolgono, i passaggi nella soluzione di un problema, l’acquisizione di un metodo di lavoro o di studio; evidenzia anche le caratteristiche dei diversi stili cognitivi degli alunni, porta a conoscere tratti rilevanti dello sviluppo personale dell’alunno, aiuta a verificare in quale misura l’alunno stia strutturando un quadro di valori per il quale vivere; permette, inoltre, di guardare le situazioni educative che appartengono alla vita quotidiana con uno sguardo nuovo, descrivendone i modi di funzionamento, analizzando i processi, per scoprire il significato che esse hanno per quelli che vi sono coinvolti» (Cappuccio, Cravana, 2014, p. 93). L’accompagnamento dei docenti è stato orientato dalla necessità condivisa di giungere alla consapevolezza che l’osservazione non è una registrazione fedele della realtà, un guardare pre-teorico, ma uno sguardo intenzionale che si colloca tra la percezione del fenomeno e la sua interpretazione, è uno sguardo selettivo e orientato dai propri quadri teorici di riferimento. Lo sforzo maggiore per gli insegnanti è stato tacitare le proprie mappe interpretative rinviando così il giudizio e apprendere facendo a non procedere in modo “impressionistico”, a non scartare ciò che inizialmente può sembrare irrilevante e, allo stesso tempo, essere consapevoli che si tende a registrare solo quello che ci si aspetta che accada. Ulteriori obiettivi da raggiungere sono legati al linguaggio utilizzato perché la soggettività è un problema che lo investe e all’analisi delle condizioni di contesto e al come e con quali garanzie, l’osservazione sia anche uno strumento privilegiato per la propria formazione. I protocolli di osservazione hanno facilitato la presa di coscienza del ponte III. Esiti di ricerca
tra soggettivo e oggettivo aprendo “le porte al confronto inter soggettivo e a una continua rivisitazione delle proprie posizioni e modalità di comprensione e intervento, al fine di costruire risposte sempre più adeguate” (Arcangeli, 2005, p.38). Non è stato semplice, per ognuno, passare dalla ricerca, per dirla con Schön, di un “terreno stabile” anziché esercitarsi a frequentare una “zona paludosa”, imparare cioè ad essere disponibili a incontrare i problemi senza voler immediatamente circoscriverli con le parole, a reggere la fatica di non essere semplicemente esecutori di teorie credendo erroneamente che diverse situazioni siano caratterizzate soprattutto da somiglianze e perciò ricorrendo a identiche procedure di intervento, a reggere lo sforzo di imparare a cogliere le differenze, le relazioni. Giungere a scegliere “la palude” ha significato preferire la complessità perché luogo di esercizio del dubbio che sollecita la formulazione di nuove ipotesi e quindi la possibilità di concedersi lo spazio e il tempo necessari ad una autentica conoscenza del processo di insegnamento/apprendimento. L’assunzione di un posizionamento di questo tipo, fondato su un apprendimento esperienziale, ha comportato dei rischi sia in termini di dissonanza cognitiva che emotiva che ogni riflessione sul proprio sguardo, salendo e scendendo dal promontorio, comporta. Avviare un processo di documentazione, oltre i protocolli di osservazione, dei prodotti dei bambini, dei materiali utilizzati, delle proposte offerte, della qualità della comunicazione, attraverso la struttura di un diario di bordo, ha permesso di non smarrire, svalutare il senso delle cose fatte imparando a rileggere con altri occhi, con occhi strabici come afferma Bateson. La memoria del proprio percorso protegge la propria identità come storia e da parte degli insegnanti, e da parte dei bambini, ma, anche, come storia di un gruppo che ha condiviso esperienze per la co-costruzione della conoscenza. Un passaggio estremamente significativo nell’appropriarsi di una possibilità narrativa è stato rappresentato dall’abbandono della ricerca dell’aneddoto che risulta più facilmente comprensibile, ma che ha il grande limite di offrire una immagine fissa, disancorata dal contesto. La memoria non è solo un fatto individuale ma si situa all’interno dei processi di formazione e di conservazione di “quadri sociali” che ne consentono l’utilizzo come forma comunicabile di conoscenza (Halbawachs, 1987). Raccogliere i dati ma, contemporaneamente, documentare le tappe che hanno permesso di giungere a provvisorie conclusioni ha significato passare, per stessa affermazione di soggetti coinvolti nel progetto, dal “vero” pensato al “vero” vissuto che spesso sono diversi dal “vero” raccontato, passare dall’emergenza del “caso” a quella della progettazione anche di percorsi individualizzati ma integrati in un progetto comune. Sperimentare il vedersi e il riconoscersi all’interno di una esperienza ha permesso di iniziare a costruire un ponte tra mondo della scuola e quello sanitario, attraverso pratiche di discorso diverse non semplicemente poste l’uno accanto all’altra ma costruendo una trama tra i dispositivi che le hanno prodotte. Inoltre, la scrittura ha permesso di dare voce ai sentimenti che hanno colorato l’esperienza quali la paura, il senso di inadeguatezza, la fatica, le emozioni negative che, fino a quando non sono state nominate erano invisibili e perciò non era possibile attivare un necessario riconoscimento e distanziamento per promuoanno IV | n. 2 | 2016
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vere un cambiamento, un riposizionamento all’interno di un processo di tâtonnement cognitivo ed emotivo. Nella fase di lettura e interpretazione dei protocolli, avvenuta con cadenza mensile, la comunicazione, il confronto e la discussione hanno rappresentato un importante stimolo alla consapevolezza rispetto al proprio agire professionale e alla messa in campo di un riposizionamento reale. «La documentazione è un potente strumento di riflessione sull’azione per la costruzione di una cultura pedagogico-didattica di sperimentazione dell’essere in ricerca, perché si è consapevoli della propria parzialità» (Arcangeli, 2009, p. 80). Verbalizzare e riflettere sui propri vissuti, che diventano così esperienze, permette anche un distanziamento cognitivo ed emotivo e un’autentica rielaborazione. Adottare il pensiero riflessivo ha significato conoscere e adottare alcuni strumenti per analizzare la pratica, condividendola con i colleghi, confrontarsi con la teoria per rappresentare e descrivere l’azione, realizzare un esercizio di codificazione linguistica, attraverso il quale è stato possibile concettualizzare (individuare nel continuum dell’esperienza informazioni rilevanti e organizzarle in reti concettuali dense di significati), modellizzare (scoprire le regolarità nelle pratiche), individuare le possibili trasferibilità, rappresentare il repertorio didattico dell’operatore facendola diventare expertise (Cfr. Damiano, 2006, p.167). Le logopediste, intervenute durante ogni momento collegiale, hanno accompagnato il momento di condivisione intersoggettivo e curato alcuni incontri di approfondimento specifici sull’apprendimento della letto-scrittura e sulle competenze fonologiche e metafonologiche di base. Gli insegnanti hanno documentato i processi di apprendimento-insegnamento attraverso il diario di bordo, tentando di costruire il profilo dinamico di ogni bambino in merito all’apprendimento della lingua scritta. Lo scopo infatti non era quello di raccogliere frammenti, ma imparare a «connettere in una narrazione unica e coerente brani significativi di un progetto messo in atto» (Balsamo e Sacchetto, 1998, p. 135), imparare a condividere gli strumenti per la ricerca e non solo una riduttiva ricerca di strumenti. La costruzione del profilo del bambino che apprende la letto-scrittura ha iniziato a prendere forma con un obiettivo essenzialmente conoscitivo, quello cioè di accompagnare gli insegnanti nella scoperta della teoria linguistica di ogni alunno, così da poter mettere a punto un intervento educativo individualizzato. Consapevoli che la descrizione non è sufficiente a cogliere la realtà dove le regole di composizione non sono additive ma trasformatrici, si è trattato, spesso, di abbandonare logori dispositivi ermeneutici che impediscono di cogliere la singolarità, la località e la temporalità, come afferma Morin, dell’esperienza. Un’evidenza emersa è che la solitudine da parte degli insegnanti e delle logopediste «non può essere l’unico sfondo delle scelte, ma è necessaria la possibilità di frequentare modalità di relazioni di pensieri diversi, di imparare nel confronto ad essere disponibili a rintracciare ciò che è impensabile, ora» (Arcangeli, 2005, p.3). Gli incontri del gruppo di ricerca sono stati finalizzati quindi a creare un ambiente favorevole alla costruzione di conoscenza e di capacità di autovalutazione affinché gli stessi insegnanti diventino a loro volta promotori di una cultura che si costruisce all’interno dell’intersoggettività, di una ipotesi progettuale con-di-
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visa, della metodologia adottata nelle scuole di appartenenza per aver la possibilità di un dominio consensuale di azioni. Un ulteriore obiettivo del progetto è stato di accompagnare gli stessi insegnanti coinvolti a diventare co-formatori dei colleghi che nell’anno scolastico 2016/2017 insegneranno nelle prime classi in ogni istituzione scolastica di appartenenza con la supervisione di ogni gruppo di ricerca. I risultati raggiunti, di cui daremo conto nelle pagine successive, hanno fatto sì che la Regione Umbria abbia rifinanziato il progetto che sarà rivolto ad altre sei istituzioni, con sei nuove classi prime.
2. Il bambino che apprende
La stesura del report dell’esperienza di formazione ha comportato una rilettura mirata del materiale documentario prodotto, sostenuta da una specifica analisi delle Indicazioni Nazionali per il curricolo 2012 nelle quali viene presentato un concetto di alfabetizzazione legato alla scoperta delle regole di funzionamento della lingua scritta e delle sue diverse funzioni. CIò avviene, secondo le sopracitate Indicazioni nazionali, attraverso la cura rivolta alla progressiva padronanza dell’italiano a partire dalle competenze linguistiche e comunicative che gli allievi hanno già maturato. Inoltre viene sottolineato che deve essere posta attenzione verso i processi di costruzione della lingua scritta avviati prima di ogni insegnamento sistematico. Il bambino del nostro tempo vive infatti immerso in un mondo simbolico e a sei anni arriva a scuola, luogo istituzionalmente preposto all’alfabetizzazione, con un bagaglio di ipotesi, di competenze comunicative e linguistiche cui va data centralità e considerazione in virtù di una prospettiva che vede il bambino stesso autore originale del difficile processo di appropriazione della letto-scrittura. Viene infine precisato che, “qualunque sia il metodo” cui fa riferimento l’insegnante, il bambino deve essere guidato a leggere e scrivere parole e frasi legate a bisogni comunicativi e inserite in contesti motivanti (Indicazioni per il curricolo 2012 - Italiano, pp. 36-37). È lasciata dunque libertà all’insegnante circa il metodo da usare, mediante una gestione efficace del tempo e delle informazioni, sia a livello individuale che in gruppo per raggiungere gli obiettivi, con particolare attenzione agli aspetti motivazionali e agli aspetti metodologici-didattici del processo di apprendimento della letto-scrittura. Esistono diverse tecniche e metodi nell’insegnamento della letto-scrittura. Sostanzialmente sono comunque due quelli utilizzati, il metodo analitico e il metodo globale, definiti a seconda dell’unità da cui si parte (frase, parola, sillaba, lettera). Attraverso le interviste agli insegnanti è emerso come la scelta del metodo rappresenti l’inizio di una serie di operazioni interessanti e talora decisive per la qualità dell’offerta formativa. La partecipazione autentica degli insegnanti ha reso l’esperienza significativa e appassionante per tutti i soggetti coinvolti e generativa per la formazione. Gli elementi che verranno evidenziati sono stati direttamente leggibili nelle interviste, altre volte è stato invece necessario effettuare un’interpretazione; ciò ha indotto, in alcuni, a trascrivere i diversi passaggi e, nella tessitura del report, per
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salvaguardare il profilo originale di ogni narrazione e nel tentativo di riuscire a configurare un’adeguata comprensione dell’esperienza da parte di ciascun docente coinvolto, tali passaggi sono stati trascritti integralmente. Gli insegnanti intervistati tra i metodi analitici privilegiano il metodo fono-sillabico ed il sillabico nella convinzione che favoriscano un’ottimale associazione di elementi stabili incoraggiando una generalizzazione più consapevole dei suoni appresi. Il metodo fono-sillabico ed il metodo sillabico sono ritenuti facilitanti soprattutto per i bambini con difficoltà linguistiche, cognitive e attentive che nella scuola stanno aumentando. Gli stessi referenti dei servizi riabilitativi territoriali reputano consigliabili tali metodi poiché nel nostro codice alfabetico definito semitrasparente permettono di effettuare un’alta corrispondenza tra i suoni uditi e i grafemi che si utilizzano per trascriverla È evidente che la competenza dell’insegnante, nell’orchestrare un processo di apprendimento-insegnamento significativo, fa sì che la comprensione non sia separata dalla decifrazione per non rischiare di focalizzare l’attenzione semplicemente sulla acquisizione di automatismi. «[...] Io ho sempre usato il metodo fono-sillabico nel contesto (la storiella con le sequenze di parole, compongo un insieme di parole che iniziano tutte con la stessa lettera, etc.)» (ins. 5- 2015). «[...] Il globale, non ho mai conosciuto qualcuno che lo utilizzasse. [...] Il DEVA […] era lento, ora i bimbi hanno bisogno di input più veloci, sul momento» (ins. 4 –2016).
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Quale che sia il metodo prescelto, gli insegnanti ritengono che la consapevolezza della lingua scritta possa essere costruita solo a scuola attraverso un processo di conoscenza organizzato e sistematico. «All’inizio non ce l’hanno (l’idea della lingua scritta) e va piano piano costruita con questi processi» (ins. 7 –2015).
È inoltre evidente come la cura del processo di apprendimento-insegnamento della lettoscrittura sia di fatto percepita, da parte di tutti i docenti del team, come di esclusiva responsabilità del docente della disciplina italiano. «Io non ho mai fatto italiano in prima, per cui mi sono sentita un po’ “sguarnita” da questo punto di vista. Ho sempre insegnato matematica[...]» (ins. 2- 2015).
Alcuni insegnanti tuttavia, con convinzione, sostengono che il superamento della figura del docente unico nella classe, nella scuola primaria, non avrebbe dovuto comportare una separazione rigida dei compiti disciplinari tra gli insegnanti che operano secondo i principi di collegialità e contitolarità (L148/1990, art. 5, comma 4) ciò per favorire l’impostazione unitaria e pre-disciplinare del curricolo ( L.148/90, art.5, comma 5) «[...] in équipe è più produttivo. Alla primaria non sarebbe il caso di fare una divisione tra discipline, quindi confrontarsi con la collega è molto utile» (ins. 2 –2016).
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Le indicazioni per il curricolo confermano la necessità che l’apprendimento della lingua sia oggetto di specifiche attenzioni e di un coordinamento delle attività tra tutti i docenti al fine di sviluppare competenze linguistiche ritenute indispensabili per lo sviluppo della persona, per l’esercizio della cittadinanza attiva e per il raggiungimento del successo scolastico. (Indicazioni per il curricolo 2012Italiano, p. 29). Quando ci si predispone ad avviare il bambino alla padronanza della lingua scritta, ci si preoccupa della scelta di un metodo che conduca ad un rapido possesso della strumentalità. «[...] il metodo fonologico è il più usato, è quello che offre più riscontri, anche perché poi i genitori fanno i confronti tra figli grandi e figli piccoli, tra cugini, etc.» (ins. 1 –2015).
La prassi scolastica, le aspettative nutrite dai genitori, il concetto assai diffuso di educazione-istruzione mettono in evidenza l’idea che la strumentalità di base debba essere acquisita attraverso lo sviluppo e lo stimolo di una serie di abilità funzionali di tipo percettivo-motorio ed associativo, attraverso tecniche che garantiscano abilità decifratorie per cui la scelta del metodo diventa la condizione indispensabile per accelerare i ritmi del processo di trasformazione segno-suono indispensabili per conquistare la parola intera. Diventa pertanto fondamentale scegliere un metodo che garantisca risultati più sicuri e più rapidi. Il metodo fono-sillabico viene prescelto in quanto la sua caratteristica fondante è di rendere esplicite le corrispondenze che legano i suoni linguistici ai simboli grafici che li rappresentano. L’accesso al significato è mediato dalla decodifica, ciò evita la principale debolezza del metodo globale, cioè dovere apprendere un numero molto elevato di relazioni arbitrarie e non sistematiche tra parole scritte e significati. Nel contempo però si riconosce l’importanza di una lettura finalizzata alla comprensione di quanto l’alunno legge, – principale caratteristica su cui si basa il metodo globale che garantisce anche secondo gli insegnanti intervistati, un’elevata motivazione dell’alunno – che si può perseguire successivamente, dopo aver acquisito la strumentalità di leggere e scrivere, per non creare confusione. «[...]Abbiamo scelto di cercare di fare una mediazione che sia equilibrata e funzionale, concreta al momento, partendo dal fono-sillabico per poi passare al globale, quando e se reputeremo che i bimbi abbiano strumenti per fare un’analisi più articolata della frase.» (ins.5-2016).
Tutti gli insegnanti intervistati reputano essenziale seguire un ordine di presentazione. «[...] partiamo da vocali. Poi ci focalizziamo su lettere che organizzate diano parole piane. (...) I gruppi consonantici che presentano più difficoltà vanno presentati per ultimi» (ins. 4- 2016).
Solitamente si cominciano a presentare le sillabe solo quando i bambini riconoscono le vocali; si inizia dalle sillabe semplici, composte da una consonante
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e una vocale, con l’attenzione a prediligere prima le consonanti continue, che vengono più facilmente percepite e individuate (m, l, r, f, s…). Sono emerse come consuetudine le strategie di lavorare con progressione lenta e graduale, di non esporre contemporaneamente i suoni affini e i grafemi visivamente simili, di lavorare sulle parole piane, con consonante ponte, con gruppi consonantici complessi. «Come organizzazione mentale per i bambini è più facile operare su una letterina per volta, una sillaba per volta, etc. In questo senso mi sembra più adatto( metodo sillabico)» (ins. 4- 2015).
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Alla fine si introducono i dittonghi, i gruppi consonantici, i nessi vocale-consonante, le regole ortografiche, i digrammi e i trigrammi. Viene considerato importante, all’inizio del percorso, utilizzare un solo allografo, finché il bambino non è giunto alla scoperta del codice alfabetico convenzionale si considera preferibile utilizzare solo il carattere stampato maiuscolo. Tra le altre procedure si sottolinea che si fa “lingua” tutti i giorni; si insegna ai bambini a tracciare lettere e a farne delle parole; si chiede di identificare grafemi in una corretta sequenza spazio temporale, si somministrano schede di pregrafismo allegate ai testi. Pur nella consapevolezza della presenza di differenti stili di apprendimento e modalità di approccio alla letto-scrittura, si procede attraverso una omogeneizzazione degli interventi. L’affermazione di Vygotskij sulle parole e sul loro significato mette in luce come fin dall’inizio del percorso di alfabetizzazione occorra tenere sotto controllo il rischio di separare i processi poiché «[...] dal punto di vista semantico il bambino parte dal tutto da un complesso dotato di senso e solo successivamente comincia ad avere padronanza degli elementi semantici distinti» (Vygotskij 1986, pp. 219-246, in Dixon-Krauss, p. 147). Fin dall’inizio del processo di alfabetizzazione i bambini sono pronti per un lavoro significativo, compiuto e autentico, eseguito per scopi reali: «[..] ai bambini bisognerebbe insegnare il linguaggio scritto e non soltanto la scrittura di lettere» (Vygotskij 1978, pp. 117-119, in Dixon-Krauss, p. 147). L’uso di modalità di verifica-valutazione quali elenchi di parole e di testi che vengono fatti scrivere in forma di dettato è molto diffuso, principalmente nelle classi prima e seconda primaria, allo scopo di rilevare la prima acquisizione delle competenze di letto-scrittura e le eventuali difficoltà di elaborazione fonologica della parola, indispensabile per la trasformazione della parola orale in codice scritto. «Io per esempio ho fatto formazione [...] ho fatto la prova della scrittura, cioè il dettato e la lista di parole partendo dalle sillabe piane fino a quelle un po’ più complicate. Quello è uno strumento che abbiamo, però soltanto quello. Se ci fossero altri strumenti che dessero altri risultati potrebbero darci altri tipi di aiuto» (ins. 5- 2015).
Solitamente si ritiene che i risultati delle prove siano predittivi di fattori di rischio pertanto si considerano importanti per ottenere indicazioni sulle difficoltà del bambino nel segmentare le parole. Nel contempo gli insegnanti intervistati
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avvertono i limiti di utilizzare solo questo strumento che si svuota di significato se non è affiancato da una riflessione: come si è arrivati a individuare questa prova; come si è tenuto conto delle competenze degli alunni quando si è deciso di utilizzarla; come si sono scelte e come si è tenuto traccia delle modalità di svolgimento della consegna (l’insegnante detta una sola volta o ripete le parole. È vicino ad alcuni bambini. Dà indicazioni.); si utilizza solo questo prodotto o lo si colloca nella storia di alfabetizzazione del bambino. Sollecitati nel riferire le difficoltà che incontrano i bambini relativamente al processo di apprendimento della letto-scrittura, gli insegnanti mostrano raramente di avere consapevolezza degli specifici elementi di conoscenza coinvolti in tale processo (veste sonora della parola, valore sonoro convenzionale, consapevolezza fonologica, tipo di segno usato e quantità ....). «Una grande difficoltà rilevata è l’ascolto, manca l’attenzione, l’educazione all’ascolto» (ins. 1 – 2016). «Tutto quello che è legato a spazio, tempo, orientamento, prima, dopo, destra, sinistra, alla capacità di comprendere a livello fonologico, una capacità che gli dia la competenza metafonologica, la correlazione tra grafema e fonema, la capacità di segmentare nel flusso continuo del parlare. Tutta la conoscenza del sè corporeo, l’autostima, [...] la motivazione entra in gioco come abilità su cui far leva, per motivarlo a fare cose noiose o difficili» (ins. 4- 2016).
Consentire agli alunni “spazi di parola” è ritenuto fondamentale, tuttavia, attraverso le pratiche didattiche, non sono sempre riscontrabili evidenze relativamente alle scelte metodologico-didattiche finalizzate a far emergere le idee che ogni bambino sviluppa sul sistema scritto ed a come vengano salvaguardati i legami delle nuove acquisizioni con quelle preesistenti. «Io li faccio parlare, mi faccio raccontare le cose ...uso le filastrocche da imparare a memoria» (ins. 1- 2015). [...] È importante il problem-solving, il metodo della ricerca e, piano piano, far venire fuori il concetto dal bambino» (ins. 7-2015).
Nell’ambito di questa esperienza sono state costruite occasioni di confronto sugli elaborati degli alunni per far emergere i diversi posizionamenti degli insegnanti e per dare a ciascuno la possibilità di rileggere i prodotti elaborati con il contributo del gruppo e della regia educativa del gruppo di progetto. È stato così possibile rintracciare una teoria linguistica anche sofisticata, laddove un primo sguardo avrebbe suggerito nessuna competenza del bambino nello stabilire una reazione tra l’oggetto e la parola scritta. Una delle storie presentate è quella di un bambino di 6 anni, in ingresso alla scuola primaria, che vive nei pressi della gelateria “Kiss” che frequenta abitualmente. Alla richiesta di scrivere come sa fare la parola corrispondente al disegno del gelato scrive KISS. Attraverso questa esperienza, apparentemente sganciata dall’apprendimento sistematico, il bambino ha sviluppato una sua idea sul sistema scritto ed è arrivato a elaborare una personale teoria linguistica. Solo una lettura che va oltre l’immediato presente, può cogliere il suo livello di competenza. anno IV | n. 2 | 2016
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Il processo descritto può essere letto facendo riferimento al modello di apprendimento di Uta Frith secondo il quale l’acquisizione delle competenze di lettoscrittura avviene attraverso specifiche fasi. È possibile pensare che il bambino abbia maturato una competenza di tipo logografico che si manifesta attraverso il riconoscimento e la lettura della parola in modo globale poichè contiene lettere ed elementi che ha imparato a discriminare. La maturazione di questa competenza fa sì che il bambino consideri la parola come logo che sta al posto dell’oggetto e che utilizzi segni convenzionali piuttosto che riprodurre le caratteristiche fisiche del gelato ma che non abbia ancora la consapevolezza della struttura fonologica della parola stessa. Interessante, per il nostro lavoro, la ricerca delle argentine Ferreiro e Teberosky, introdotta e sviluppata in Italia da studiosi quali Stella, Pontecorvo, Zucchermaglio, Pippo. A partire dagli anni Ottanta, secondo una prospettiva piagetiana che riconosce al bambino un ruolo attivo nell’apprendimento linguistico, Ferreiro e Teberosky hanno individuato alcune fasi fondamentali, nel processo di concettualizzazione della lingua, comuni a tutti i bambini di differenti lingue e culture. Secondo questi assunti teorici il bambino, per imparare a leggere e scrivere, sviluppa una serie di teorie cognitive che consentono di configurare il processo di alfabetizzazione come un passaggio non dal non sapere al sapere, ma come progressione di un sapere che via via diventa più esperto e convenzionale. In questo processo la cui struttura è definita, secondo Vygotskij, dalla qualità delle interazioni sociali e dalle pratiche e istituzioni culturali, è di fondamentale rilevanza il ruolo della mediazione nella quale il bambino gioca un ruolo attivo nel processo di concettualizzazione della lingua. La scuola allora diventa uno dei contesti importanti in cui avviene la mediazione culturale, uno dei luoghi privilegiati di incontro tra sviluppo naturale e culturale. Le occasioni di osservare i segni scritti attraverso scritte pubblicitarie, cartelli stradali, visione di programmi televisivi sui quali il bambino fa le proprie riflessioni e realizza le sue prime esperienze di lettura sono numerose anche nella prima infanzia. Si tratta di attività cognitive molto importanti attraverso le quali il bambino comincia a sviluppare le sue idee sulle regole della lingua orale e scritta fino ad elaborare una propria teoria linguistica che può essere scoperta attraverso l’analisi dei suoi atti di scrittura spontanea e delle sue ipotesi di lettura nei quali «gli “errori” e le “stranezze” che vi si ritrovano » (Stella, Pippo, 1987, pp.15-16) sono preziosi indicatori del processo che si sta costruendo. Nello sviluppo della teoria linguistica da parte dei bambini giocano un ruolo fondamentale le esperienze e le occasioni che vengono loro offerte dall’insegnante che propone situazioni aperte di apprendimento nelle quali ciascun bambino possa mettere in gioco le sue idee e strategie e confrontarle con quelle dei coetanei. «La scrittura alfabetica è per il bambino – ma lo stesso è avvenuto anche nella storia della scrittura [Gelb 1963] – un punto di arrivo, e non di partenza» (Zucchermaglio, 1991, pp. 31-32). Queste esperienze hanno portato il gruppo non semplicemente ad un ripensamento del metodo e delle strategie per insegnare a leggere e scrivere ma ad un rovesciamento della prospettiva da cui considerare il processo di alfabetizzazione che non significa costruzione di un metodo inedito quanto di un nuovo atteggiamento educativo. Ben prima di questo processo messo in atto dalle istituzioni, il bambino vive in un mondo di messaggi che ne stimolano la curiosità III. Esiti di ricerca
intellettuale e lo inducono a porsi domande e a cercare di dar loro risposte formulando delle teorie proprie sui sistemi di notazione; di queste conoscenze che lentamente e faticosamente il bambino si è costruito, la scuola deve tener conto per non impostare l’alfabetizzazione in un modo meccanico e riduttivo e soprattutto per non costringere il bambino ad un disapprendimento delle sue concettualizzazioni spontanee in funzione dell’acquisizione di nuove regole, ma piuttosto ad una progressiva evoluzione delle proprie competenze sulla lingua scritta, utilizzando anche le informazioni ricevute. «Le principali difficoltà che il bambino incontra non riguardano la memorizzazione delle lettere o dei suoni corrispondenti, ma si evidenziano quando questi deve ritrovare i suoni all’interno della parola e deve controllarli per realizzare il cosiddetto “autodettato” [...] non sono dunque difficoltà superabili con un semplice aumento dell’esercizio di memorizzazione delle lettere, in quanto questo non aiuta il bambino a modificare la sua teoria linguistica, cioè non gli dà le informazioni necessarie per cambiare il suo modo di analizzare la parola» (Stella, Pippo, 1987, p.73).
Con questa consapevolezza il gruppo ha lavorato per costruire una metodologia mediante la quale analizzare e interpretare la complessità della realtà educativa caratterizzata da molteplici variabili di natura personale, ambientale, sociale, istituzionale, spendibile nel team docente per progettare-riflettere sul fare-riprogettare e con gli alunni per consentirgli di apprendere da protagonisti in un lavoro autentico, significativo proprio in quanto eseguito per scopi reali. «Ins: Cerca una sillaba, guardati intorno e cerca un’immagine che comincia con la sillaba che hai scelto. Bambino: RO Il bambino è molto incuriosito, riflette, si alza dalla sedia, si siede e si rialza indicando dal vetro della finestra “la rosa” che sta nel cortile interno della scuola. Ins: Bravissimo ora scegli un’altra sillaba per formare un’altra parola. (lo stimolo visivo è molto importante per J)» ( dal diario di bordo, ins. 1 – 2016).
Il pensiero di J. si struttura e si trasforma grazie al fatto che è esposto allo sguardo, all’ascolto, al confronto con gli altri, alla possibilità di aggiustamenti e modifiche. Ciò ha bisogno della guida dell’insegnante, che offre a ciascuno l’opportunità di mettere a confronto i propri risultati, sempre provvisori, attraverso una puntigliosa negoziazione dei punti di vista. La riflessione retrospettiva sull’azione avviene a posteriori ma a breve distanza dalla situazione vissuta. Essa è di fondamentale importanza per comprendere il proprio stile operativo, per ricostruire il processo, per analizzare ciò che è accaduto, le ipotesi che sono state costruite e come si sono collocate nel contesto, come eventualmente si sono modificate nel corso dell’azione, a cosa può essere dovuto il cambiamento e quali esiti ha permesso di raggiungere. La riflessione dell’insegnante in uno degli incontri di gruppo testimonia questo processo.
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«Si è trattato della prima esperienza di osservazione e documentazione […] come porsi? Lo facciamo tutti i giorni con una attenzione diversa. L’ho trovato molto interessante, mi sono posta in modo diverso, ho tralasciato alcuni aspetti ed ho dato importanza ad altri. Forse ho capito meglio le difficoltà di alcuni alunni. Ho scoperto –soprattutto nella seconda lettura a casa- atteggiamenti della prima bambina che in altre situazioni non avrei considerato. Ho registrato e trascritto le difficoltà che ho incontrato rispetto agli errori degli alunni e mi sono posta interrogativi su come intervenire: lasciarli parlare liberamente senza intervenire? Ho visto i bambini in modo diverso. Ho capito con loro» (dal diario di bordo, ins. 1- 2016).
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Raccogliere dati non è di per sé fonte di ricchezza, occorre anche stabilire come utilizzarli e valutarli. Attraverso un approccio metodologico e strumentale abbiamo realizzato un’attenta riflessione sull’azione cognitiva della scrittura. J. non è ancora in grado di scrivere autonomamente nessuna parola, tuttavia ad una analisi di tipo qualitativo degli elaborati dell’alunno si evidenzia che è in atto un significativo processo di apprendimento. J. procede con consapevolezza, utilizza scelte mirate. L’accurata osservazione realizzata ha offerto all’insegnante l’opportunità di prendere coscienza che la presenza di differenti stili di apprendimento e l’esistenza di singolarità nell’approccio alla scrittura implichi il porsi nell’ottica di un’attesa operosa, generativa e feconda, per realizzare il passaggio dalla conoscenza alla comprensione dei bisogni educativi di ogni alunno, per guidare ciascuno, attraverso un percorso personale di apprendimento, lasciando ad ognuno, la libertà ed i tempi di arrivare in fondo a questo percorso. È possibile generalizzare questa esperienza? È necessario. Le scelte metodologiche dell’insegnante che comprendono la documentazione dei processi di insegnamento-apprendimento e la coerente e costante restituzione ai bambini ed alle bambine delle esperienze fatte insieme, fanno la qualità della scuola e sono costituzionalmente consegnate alla libertà di insegnamento dei docenti. «[...] Ins: vuoi provare a scrivere qualcosa da sola? Bambina scrive: FEDY TI VOGLIO BENE Ins: cosa hai scritto? Ci sono delle letterine che ancora non conosciamo... F- D- YBambina: Io le conosco perché francamente essendo il nome di mia sorella che si chiama Federica io le so scrivere e poi io di solito la chiamo... perché è più cortino no! Perchè so fare anche la y , così la chiamo Fedy.... Ins: Sai, hai scritto anche una cosa un po’ difficile, la GL Bambina: Ma è facile, si scrive G e L Ins: Non tutti sanno che il suono GL si scrive GL, tu come lo hai imparato? Bambina: Ohh, già alla materna. Ma non me l’hanno detto le maestre.... l’ho imparato da sola» (dal diario di bordo dell’ins. 4- 2016).
III. Esiti di ricerca
3. Dentro l’esperienza di ricerca-formazione 3.1. L’analisi dei materiali prodotti
Tutta la ricerca pedagogica è spesso accusata di aver fallito rispetto alla sua stessa ragione, in quanto «non fornisce dati utili alla pratica educativa e questa carenza di senso metto a rischio la sua stessa credibilità» (Mortari, 2010, p. 142). Si tratta allora con forza di mettere insieme una molteplicità di competenze che si traducono nel sapere «riconoscere/individuare una situazione problematica meritevole di interesse, (…) mettere la strumentazione metodologica al servizio dell’azione, (…) comunicare processo e prodotto in modo adeguato e appropriato alla specificità delle situazioni» (Montalbetti, 2012, p. 266).. Nel campo dell’educazione, così come in tutte le scienze umane, i criteri metodologici vanno scelti, letti e significati in rapporto stesso all’essenza degli oggetti studiati e all’epistemologia stessa della disciplina che chiede un vero e proprio meticciamento tra l’aspetto descrittivo, interpretativo e anche prescrittivo-axiologico, che ne legittima le scelte. Un disegno di ricerca che nella fase di decodifica sia rigoroso è quindi essenziale per questo sapere: la mancanza di controllo e la complessità dei fenomeni non devono essere vissuti come elementi di debolezza ma di qualità. «Le pratiche sono sempre particolari, mai universali; hanno luogo in contesti locali e sono messe in atto in momenti precisi da persone specifiche. Perciò, renderne conto come se fossero universali, non rende giustizia ai dialoghi. Tuttavia i risultati devono essere comunicati. La sfida è essere più descrittiva invece che più esplicativa. Generalizzare sulla base delle proprie esperienze, da parte dei professionisti che riflettono, che documentano e studiano il loro lavoro, e generalizzare nel senso di rendere le pratiche più diffuse e più durature, richiedono una varietà di strumenti e di metodi: misure quantitative dei risultati, analisi qualitative dei processi specifici che portano a quei risultati, metodi eterogenei che uniscono le informazioni ricevute da diverse fonti» (Arnkil, Seikkula, 2012, p. 180). Per questo motivo, in termini di decodifica i materiali prodotti sono stati analizzati su un piano quantitativo e qualitativo insieme: un viaggio dalla parola al numero e ritorno. Il dato di partenza è infatti qualitativo, le tecniche di analisi sono state quantitative, la contestualizzazione, interpretazione e restituzione dei risultati hanno richiesto di tornare al qualitativo. La scrittura fornisce una grande mole di materiale testuale, che in termini di ricerca, deve poter essere governata. Le procedure di analisi testuale non si limitano esclusivamente al conteggio delle singole parole o forme del corpus, ma attraverso questi indicatori è possibile approfondire i contenuti in esso presenti, grazie ad operazioni di inventariato, ricerca, selezione e classificazione di parti di testo, fino alla rappresentazione grafica. La lettura di carattere quantitativo si è tradotta in un’analisi testuale di tipo lessicometrico delle interviste, dei protocolli, dei diari di bordo e dei verbali degli incontri, che in questa fase della ricerca sono stati considerati come corpus dell’indagine. L’analisi del contenuto quantitativo frequenziale, con l’ausilio del programma “NVivo 10”, si è basata sulla misura della ricorrenza di alcune parole (unità di analisi) che sono state stabilite sulla base degli obiettivi della ricerca.
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Ad essere analizzate sono state frequenze, contingenze e corrispondenze lessicali. Le parole piene e i segmenti ripetuti significativi sono stati organizzati in categorie semantiche, nelle quali sono raggruppate parole ed espressioni che assumono, nell’unità di contesto, lo stesso significato o significati simili e in categorie tematiche, quando le stesse sono classificate in parole ed espressioni che si riferiscono allo stesso tema o argomento. Le categorie, ex post, sono state costruite a posteriori ricercandole nel testo analizzato: una lettura attenta del corpus consente di individuare tutti i temi presenti, che costituiscono unità di analisi di natura linguistica, dotate di particolare rilevanza semantica e tematica (Gianturco, 2005). Nella consapevolezza che «nessun automatismo può supplire da solo alla conoscenza tacita che si esprime nel con-testo e nell’extra-testo» (Giuliano, 2004, p. 122), si è poi proceduto con l’analisi più squisitamente qualitativa con una lettura descrittiva ed esplicativa dei materiali. Si sono quindi identificate le dimensioni teoriche sottostanti al materiale, revisionando le categorie concettuali formulate, stabilendo connessioni e associazioni tra concetti e idee. Per motivi di sintesi verranno riportati di seguito solo alcuni elementi significativi emersi dall’analisi testuale delle documentazioni degli insegnanti e le considerazioni maturate in termini interpretativi. 3.2 La lettura testuale delle scritture degli insegnanti: alcune riflessioni
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Una prima considerazione che va fatta rispetto all’analisi testuale è che progressivamente le documentazioni prodotte assumono, dal secondo trimestre in avanti della ricerca, un carattere squisitamente descrittivo, spogliandosi sempre più del carattere valutativo ed interpretativo. Nelle «osservazioni di tipo narrativo, redatte con una tecnica manuale, «[…] la scelta delle parole, [de]gli aggettivi utilizzati per descrivere un determinato evento influenza il messaggio, il contenuto che vogliamo trasmettere, anzi lo costruisce» (Mantovani, 1995, p. 129). Le osservazioni sono chiamate ad essere descrittive e non valutative proprio perché si collocano tra lo spazio percettivo e quello ermeneutico, che necessita, per trasformarsi in conoscenza, di un momento interpretativo soggettivo e interosoggettivo. A testimonanza di ciò, molti sono gli elementi evidenziati. Innanzitutto la struttura delle osservazioni: se nei primi tre mesi di lavoro sono prive di elementi relativi alla data, luogo, orario di inzio e di fine, nome degli adulti di riferimento e dei bambini osservati, queste caratteristiche emergono con una frequenza assoluta nell’ultimo trimestre. A mancare spesso all’inizio sono anche i dati di contesto, capaci di fornire una cornice di riferimento alla relazione di insegnamento/ apprendimento tra insegnanti e bambini. Una crescente attenzione ai particolari e al contesto ha invece mano a mano permesso di cogliere il manifestarsi di una continuità evolutiva degli apprendimenti, evidenziando cioè antecedenti e conseguenze che precedono o seguono un certo comportamento e ne influenzano la forma. Significativa a questo riguardo la progressiva sostituzione di avverbi temporali (“prima”, “dopo”, “sempre”, “spesso”, “successivamente”), presenti nel primo trimestre con una frequenza del 61,8%, con subordinate temporali che definiscono nel dettaglio l’intervento dell’adulto e le risposte comunicative e comportamentali dei bambini. A partire dal secondo trimestre l’utilizzo di subordinate si attesta intorno al 77,5%. III. Esiti di ricerca
In termini testuali, il passaggio da un linguaggio valutativo ad uno più descrittivo è fortemente dimostrato anche dalla dimunizione dell’uso di predicati nominali a favore di predicati verbali. Se nel primo trimestre i predicati nominali sono presenti nel 74,5% dei casi rispetto a quelli verbali che compaiono per il restante 25,5%, nelle scritture dell’ultimo trimestre l’uso è praticamente invertito: i predicati verbali sono citati per l’81,2% mentre i nominali compaiono solo per il 18,8%. Nelle osservazioni prese in esame infatti i predicati nominali, usati per descrivere il bambino in azione, abbondano di aggettivi qualificativi, che come tali, indicano una qualità del nome a cui sono riferiti e di fatto più facilmente vicini ad un giudizio. A questo riguardo, un’attenzione particolare è stata dedicata all’analisi delle conversazioni tra insegnante e bambino. Gli studi sull’analisi della conversazione in classe hanno permesso di focalizzare l’attenzione sull’importanza dell’aspetto comunicativo sia come elemento linguistico che come strategia essenziale nella relazione di insegnamento-apprendimento (Mehan, 1979; Cazden 2001, Pontecorvo 1991 e 2005). Due sono i filoni di ricerca più significativi sull’interazione verbale in classe: una prima direzione, anche in ordine storico, che viene denominata “processo-prodotto”, ha tentato di cogliere i nessi tra il tipo di comunicazione dell’insegnante e la costruzione delle competenze degli allievi e l’altra più legata all’analisi del discorso e della conversazione. In questa lettura, i due elementi di analisi si sono intrecciati. In termini di frequenza, i dialoghi e gli eventuali punti di sospensione per raccontare un pensiero, una pausa o una non risposta dei bambini, sono presenti nei protocolli dal terzo trimestre in avanti. Nei dialoghi riportati con i bambini nelle prime osservazioni si è anticipato (23%), interpretato il loro silenzio o pensiero (22%), subentrando e fornendo ausilii non richiesti (16%). Le ricerche evidenziano che quando un insegnante rivolge una domanda ai suoi alunni attende in media un secondo prima di intervenire nuovamente; se riesce ad aspettare almeno tre secondi avvengono cambiamenti significativi dal punto di vista comunicativo e cognitivo negli atteggiamenti e nelle aspettative di tutti i soggetti coinvolti (Cfr. Rowe, 1988). Si sono analizzate le differenti possibilità di combinazioni tra le proposte comunicative del docente e le altrettante possibilità comunicative dei bambini. L’insegnante può infatti farsi promotore di una spiegazione, riformulazione, sintesi, esemplificazione, conferma, disconferma, rilancio indiviudale o di gruppo, elicitazione falsa o aperta. Emerge con forza che quando l’insegnante utilizza forme che assunomono funzioni di false elicitazione (apparentemente aperte ma in realtà indirizzate verso una specifica risposta) di fatto si inibisce la risposta dei bambini e la percentuale dei più piccoli di argomentare diminuisce in maniera considerevole. Quando ad aumentare sono concessioni di tempo e elicitazioni aperte, crescono in maniera significativa anche la possibilità del bambino di autocorreggersi, correggere il compagno o di chiedere aiuto all’adulto. Le spiegazioni non richieste non sembrano favorire l’intervento del bambino mentre le proposizioni di riformulazione ed esemplificazioni aprono spazi per il bambino di argomentazioni e di contributi aggiuntivi. L’affermazione di Postman a riguardo è esemplificativa: «è sorprendente vedere come gli studenti possano perdere una parte della loro paura di sbagliare, profondamente radicata in loro, quando si trovano con un insegnante che non chiede loro di essere nel giusto, ma soltanto di unirsi a lui nella ricerca dell’errore: del suo come del proprio» (1981, p. 175). anno IV | n. 2 | 2016
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Un’altra importante considerazione va fatta sull’aspetto di sintesi e analisi del materiale. Nei primi protocolli osservativi a dominare sono espressioni di sintesi che non consentono una comprensione dell’azione educativa. A questo riguardo, in maniera esplicativa, può essere presentato l’uso delle parole “compito” e “aiuto”, che compaiono in tutte le scritture rispettivamente al 3,6% e 5,7% calcolate tra tutte le migliaia di parole usate nelle produzioni degli insegnanti. Che significa “assegnare un compito” o “fornire un aiuto” ad un bambino? Non declinare questi aspetti, non consente di cogliere la ricchezza della relazione didattica e di apprendimento. Nelle documentazioni prodotte, emergono maggiori elementi descrittivi che portano a comprendere, con crescente attenzione la consegna rispetto al compito, elementi cognitivi ed emotivi nel posizionamento dell’insegnante e del bambino e al tempo spesso le forme di mediazione realizzate. Fornire un aiuto nell’esecuzione di un compito può infatti avere una doppia valenza: può essere in forma vygostkiana la ricerca di quel medium che consente di passare dal sapere fare con l’adulto al sapere fare da soli, nel rispetto della zona di sviluppo prossimale, oppure, tradursi in forme di cure educative non autentiche, quali l’anticipazione e la sostituzione. Nella lettura tematica è interessante vedere come l’aiuto si sia spesso tradotto in “faccio e parlo al posto tuo”. Nei casi di aiuto autentico si è invece registrata una vera e propria relazione di aiuto e mediazione. L’esposizione allo stimolo richiede solamente che l’insegnante organizzi ecologicamente l’ambiente in modo da facilitare un nuovo apprendimento. Ci sono, però, delle situazioni in cui questo non basta a favorire un nuovo apprendimento e quindi il docente deve porsi come mediatore. In questi casi può decidere di facilitare il compito, rendendo, attraverso il suo intervento, più semplice il raggiungimento del successo. Se questo non funziona, però, bisogna capire cosa sta ostacolando lo sviluppo di quell’apprendimento: l’insegnante è chiamato ad allontanare momentaneamente il bambino dallo stimolo e allenare/potenziare il requisito che necessita di crescere prima di una nuova esposizione allo stimolo apprenditivo. L’importanza allora dell’errore è proprio nell’insieme di informazioni che regala sul suo pensiero e sulle strategie attive e attivate fino a quel momento. «È un’occasione per saperne di più sul suo modo di formulare quell’ipotesi, sulle sue competenze, sulle sue strategie, per rendere più percorribile un apprendimento, per trovare un accordo sul terreno in cui può avvenire una comprensione o su dove si deve ancora comunicare per arrivare a comprendersi» (Perticari, 1996, p. 72). Le documentazioni prodotte dimostrano come l’errore possa manifestarsi su diversi livelli che è compito dell’insegnante cogliere. L’analisi finale ha evidenziato come può esserci un problema a livello di comunicazione in fase ricettiva (34%) o in fase produttiva (12%): il bambino può non avere capito, in parte o del tutto, la questione che gli viene posta oppure può avere difficoltà a spiegare quello che intende. Il livello può anche spostarsi sul piano della conoscenza, relativamente quindi al contenuto che viene affrontato (31,7%) o a livello di ragionamento (14,3%), quando il problema si manifesta nel processo di acquisizione o di applicazione di una porzione di sapere (Cfr. Czerwinsky Domenis, 1990, pp. 42-43). Dalle scritture delle insegnanti si evince che possono esserci errori buoni e cattivi. Questi ultimi si riconoscono perché sono «la riproduzione meccanica di una soluzione, un comportamento rituale, in quanto il bambino non ha capito la struttura del problema né come si inseriva la risposta in questo problema», quelli III. Esiti di ricerca
“buoni” invece prevedono «il recupero di una soluzione o di una risposta comportamentale idonea dopo aver capito parte della struttura del problema o della situazione» (Grassilli, 1990, p. 39). Insomma a definire la fecondità o meno di un errore è la possibilità di essere compreso nella sua genesi ed evoluzione e, come elemento ecologico, di essere promotore di perturbazioni cognitive nella mente del bambino. Un altro elemento chiave e di profonda rilevanza è l’emergere di strategie comunicative e didattiche di individualizzazione, testimoniate dal progressivo passaggio dall’utilizzo di pronomi indefiniti e nomi comuni di persona al plurale alla presenza massiccia di nomi propri. La classe perde il suo carattere collettivo e cominicia a tingersi di volti, identità ma al tempo stesso compare come elemento di forza nella costruzione sociale degli apprendimenti. Nell’osservazione del singolo è in realtà emerso il gruppo come elemento di conoscenza. «Ragionare bene non dipende dall’acquisizione di una capacità o dalla disponibilità di una struttura formale che si sviluppa all’interno di una mente individuale: si tratta piuttosto di un’attività prioritariamente sociale che si manifesta e si esercita nel contesto dell’argomentazione con gli altri rispetto a contenuti specifici o concreti» (Pontecorvo, 1993, p. 3). In termini di analisi delle pratiche, altro elemento significativo che emerge progressivamente nelle scritture, è la comparsa di elementi di riflessività da parte degli insegnanti coinvolti. Nei protocolli cominciano ad essere distinti elementi descrittivi ed elementi interpretativi. Le sequenze descrittive sono quelle che contengono resoconti di attività, descrizioni di eventi, ricostruzioni di dialoghi. Le sequenze interpretative sono costituite, ad esempio, da analisi dei processi emotivi in gioco o riflessioni sulle proprie assunzioni e sui pregiudizi che si scopre di mettere in gioco. Gli elementi, oltre ad essere evidenziati con uno stile di scrittura differente, denunciano una piena consapevolezza di una punteggiatura osservativa e conoscitiva altra. Un progressivo spiazzamento e un porsi in termini interlocutori che raccontano una nuova postura pedagogica, quella del «[...] mettersi in cammino per cominciare a considerare quegli elementi che ci sorprendono, e ci trovano in conflitto, come un’occasione per rivisitare le premesse implicite sottese ai nostri modi di osservare, di ascoltare, di fronteggiare questa o quella situazione» (Perticari, 1996, p. 50). 3.3 Lettura esplicativa delle pratiche e possibili piste didattiche
La ricerca ha evidenziato come è molto debole la consapevolezza del processo di insegnamento-apprendimento della letto-scrittura e dell’esistenza di importanti teorie linguistiche nel bambino già durante la prima scolarizzazione. La scelta del metodo da usare, così come delle proposte di potenziamento metafonologico, non appare motivata da un pensiero pedagogico, ma è frutto in molti casi di scelte casuali o accidentate. «Non siamo nati per leggere. È passato solo qualche migliaio di anni dall’invenzione della lettura. L’invenzione ha portato con sé una parziale riorganizzazione del nostro cervello, che a sua volta, ha allargato i confini del nostro modo di pensare mutando l’evoluzione della nostra specie» (Wolf, 2009, p. 9).
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La lettura e la scrittura sono allora abilità frutto di una interazione ecologica tra natura e cultura, tra capacità neurorali attivate e adeguate stimolazioni ambientali. «La lettura dipende dalla capacità del cervello di collegare e integrare varie fonti di informazione – in particolare quelle delle aree visive, uditive, linguistiche e concettuali. L’integrazione dipende dalla maturazione di ognuna di queste regioni, da quelle delle loro aree di associazione e dalla velocità a cui le regioni possono comunicare» (Ivi, p. 105). Sicuramente esperienze emotive e cognitive inadeguate possono compromettere a livelli più alti il complesso sistema neuronale che consente di stabilire legami tra le informazioni e le funzioni superiori, quindi di apprendere e di rispondere in modo competente e socialmente appropriato. Non si impara a leggere e scrivere alla scuola primaria. «La lingua scritta prima di diventare uno strumento con cui acquisire conoscenza, è essa stessa oggetto di conoscenza da parte di ogni bambino. Un oggetto su cui il bambino riflette e ipotizza regole di funzionamento, anche se in modo diverso a seconda dei contesti familiari più o meno alfabetizzati, molto prima di ogni insegnamento sistematico» (Ardito, 2008, p. 57). Il bambino è nella nostra cultura desideroso di imparare a leggere e scrivere, perché immerso fin dalla nascita in un mondo codificato di segni grafici. Quello che è necessario perché impari volentieri a leggere non è il comprendere l’utilità pratica della lettura, ma una certa consapevolezza che la capacità di leggere gli aprirà un mondo di simboli e significati, gli consentirà di non cadere nel finto sapere dell’ignoranza, comprendere il mondo e diventare padrone della propria esistenza. È allora importante lasciare uno spazio di ascolto e comprensione delle letture e scritture spontanee dei bambini. Permetterne inoltre la socializzazione e il confronto rappresenta da un lato un’importante occasione di monitoraggio sulle diverse teorie dei bambini sulla lingua scritta e dall’altro motiva tutto il gruppo a discutere sul loro modo di scrivere e socializzare le rispettive concettualizzazioni. «L’interazione sociale si rivela, infatti, particolarmente efficace, sia nel costruire e fare crescere nei bambini pregressi e strategie culturali di pensiero e apprendimento, sia nell’aiutarli a divenire maggiormente consapevoli del proprio pensiero. L’esplicitazione del pensiero di un altro può portare, in altre parole, ad una riflessione metacognitiva sulle proprie conoscenze e ad una loro successiva riorganizzazione» (Ardito, 2008, p. 110). L’apprendimento della letto-scrittura è un processo cognitivo-linguistico molto complesso che se da un lato richiede una significativa coordinazione percettiva e motoria, dall’altro necessita di un vero e proprio insegnamento. Come ricorda Vygotskij, l’insegnamento della letto-scrittura tende a tradursi nell’insegnare «ai bambini a tracciare lettere e farne delle parole, ma non si insegna loro la lingua scritta» (Vygotskij, 1978, p. 153). Nei sistemi alfabetici infatti la scrittura è una rappresentazione del linguaggio nelle unità più semplici, i fonemi e solo successivamente diventa una vera e propria rappresentazione dei significati. «La lettura e la scrittura si fondano su operazioni di “cifratura”, cioè operazioni che consentono la trasformazione di segni in suoni (lettura) e dei suoni in segni (scrittura), indipendentemente dal significato delle parole» (Savelli, 2006, p. VIII). Oggi sappiamo con certezza che le competenze implicate in questo processo sono tante: la lateralizzazione, lo sviluppo psicomotorio, l’integrazione visuomotoria, l’analisi visiva e uditiva e molte ancora. Il lavoro sulla consapevolezza fonologica, che poIII. Esiti di ricerca
trebbe essere avviato già alla scuola dell’infanzia, come capacità di percepire e riconoscere per via uditiva i fonemi che compongono le parole del linguaggio parlato e saper operare adeguate trasformazioni con gli stessi, è una condizione necessaria per l’apprendimento della lettura e scrittura, anche se non sufficiente. È quindi probabile che «il rapporto tra consapevolezza fonemica all’inizio della scuola elementare e prestazioni nel linguaggio scritto, in particolare per gli aspetti relativi alla decodifica, permanga ben oltre il primo anno di scuola con indici molto contenuti di Falsi Negativi e un indice di predizione di Veri Positivi (soggetti a rischio) superiore all’85%» (Iozzino, Campi, Paolucci Polidori, 2004, p. 4). Durante la scuola dell’infanzia è possibile evidenziare difficoltà dei bambini in termini di percezione, linguaggio, organizzazione spazio-temporale, simbolizzazione che non necessariamente sono segnali di rischio, ma sicuramente richiedono un intervento di potenziamento e arricchimento. È compito del team di insegnanti proporre esercizi e giochi volti a incentivare e promuovere la costruzione di certe competenze. «Queste attività dovrebbero essere proposte all’interno di un clima sereno, tenendo conto dei limitati tempi di attenzione dei bambini e senza togliere spazio ai momenti di gioco e di ricerca; solo in questo modo, infatti, è possibile garantire la piena partecipazione di tutti» (Trisciuzzi, Zappaterra, 2011, p. 59). È in questo senso che ha valore parlare di continuità tra cicli scolastici, se vi è l’effettiva possibilità di muoversi dentro una cornice pedagogico-didattica comune dove il passaggio di consegne non è un atto burocratico, ma un racconto di storie, di mediazioni, di significati condivisi. La ricerca ha evidenziato l’importanza del team di lavoro non solo perché la letto-scrittura è una competenza trasversale ma anche perché la riflessione sulle modalità apprenditive dei giovani alunni consente di condividere un’idea antropologica oltre che didattica, non sempre consapevole e collegiale. La presenza dell’insegnante dell’area logico-matematica è quindi indispensabile: infatti così come nella letto-scrittura «anche nella codifica verbale del numero, il riconoscimento della forma scritta (lettura di numeri) precede la capacità di produzione grafica (scrittura) secondo le caratteristiche percettive (…). L’acquisizione della corrispondenza numero-quantità, ossia della comprensione del significato del numero attraverso una rappresentazione astratta di quantità, è la capacità che caratterizza i processi semantici» (Lucangeli, Iannitti, Vettore, 2014, pp. 60-61). Il corpo docente deve poter insieme assumere sempre più la consapevolezza che la propria proposta pedagogico-didattica nelle sue forme più o meno perturbanti e condivise partecipa con forza al raggiungimento dei risultati attesi e di conseguenza dovrebbe essere valutata insieme e alla stessa stregua delle performance dei bambini. Lo scopo principale di ogni pratica è fornire un appoggio al lavoro di costruzione dei bambini, una “impalcatura” che consente al bambino di riuscire laddove non potrebbe da solo (Cfr. Pontecorvo, 1989). Inoltre spesso l’intervento dichiarato personalizzato si trasforma in una proposta individuale che non attiva il gruppo classe in termini cooperativi. Il percorso di ricerca-formazione ha evidenziato con forza come molti dei bambini segnalati all’inizio del percorso come “a rischio”, grazie ad un’appropriata conoscenza e intervento didattico personalizzato, hanno avuto accesso, dentro ai propri tempi cognitivi, motivazionali ed emozionali, all’apprendimento della letto-scrittura. Una pratica di osservazione sistematica e molare ha allontanato la facile traduzione delle difficoltà in disturbo e tutta la documentazione ha asanno IV | n. 2 | 2016
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sunto le forme di un vero e proprio «organizzatore di sorprese» (Cocever, Chiantera, 1996, p. 23). Gli insegnanti hanno imparato a declinare l’affermazione “L’ho provate tutte” e davvero ad individuare in maniera analitica le proposte di sostegno, in termini di azioni ma anche di modalità. L’abito dell’insegnante descrittivo, prima che interpretativo, ha permesso la costruzione autentica di una rete di rapporti con le famiglie e al tempo stesso con i servizi. Si è imparato a definire nel dettaglio «i comportamenti (abilità) e, nel contempo, le caratteristiche degli stessi e in che modo saranno manifestati dal bambino al termine dell’intervento educativo. In altre parole si tratta di descrivere quali parametri devono essere modificati (frequenza, intensità, durata)» (Pascoletti, 2008, p. 34). L’esperienza condivisa con il personale dei servizi sanitari ha permesso la condivisione di un linguaggio ma anche di una riflessione sullo specifico del riabilitare e dell’educare, sempre ecologicamente connessi ma distinti tra loro. Una precoce ed erronea identificazione delle difficoltà in disturbo si traduce spesso in una delega cieca ai servizi ma anche all’assunzione di un posizionamento scorretto. «Lo sguardo pedagogico e l’azione viva della didattica vengono sistematicamente sostituiti dallo sguardo diagnostico-clinico e da una didattica intesa come procedura tecnica da applicare in modo standardizzato. Gli insegnanti finiscono per leggere anche la realtà tramite la lente della diagnosi clinica mettendo l’accento sui sintomi, le incapacità e i problemi, non vedono le potenzialità, le capacità e gli interessi dei loro alunni» (Goussot, 2015, p. 31). Si è così riflettuto sull’importanza di una riappropriazione professionale contro la deriva delle professioni invertite visto che la tendenza alla delega può riguardare infatti non solo il bambino in situazione di difficoltà ma anche una sorta di abdicazione al proprio compito professionale, che spesso porta più a vigilare che a educare. «Assistere ed educare sono prestazioni differenti, spesso incompatibili, e bisogna imparare a comprenderlo. In fondo è ovvio: una prestazione assistenziale si riduce al vigilare affinché all’assistito non succeda nulla. Fare educazione significa invece fare di tutto perché all’educando succeda qualcosa» (Salomone, 1999, p. 88). Il ricorso continuo agli esperti infatti, oggi più che mai, rende tutte le professioni più insicure nella gestione di alcune situazioni e alla ricerca di continue conferme spesso oltre i propri compiti e le proprie competenze: «la disponibilità di consulenza professionale – non importa se qualificata o meno – diminuisce ulteriormente la capacità delle persone di negoziare i problemi che si trovano ad affrontare. […] Gli individui finiscono per essere estraniati dai loro sentimenti, non si fidano più dell’istinto, sono sempre più insicuri nella gestione dei rapporti e hanno bisogno della conferma dell’esperto» (Furedi, 2005, 122). All’inizio della ricerca i bambini, che gli insegnanti hanno segnalato come «in difficoltà» rispetto agli apprendimenti, erano pari al 15,7%; alla fine il numero si è notevolmente ridotto (3,5%). A essersi modificati sono stati i bambini, che mutano continuamente dentro ogni proposta educativa, ma anche lo sguardo di chi li ha accompagnati. La pratica osservativa e di scrittura ha interrogato la proposta didattica, in molti casi troppo identica a se stessa e poco aperta alla complessità dei bambini e delle bambine, che già al primo anno della scuola primaria, sono una pagina fittamente scritta in termini di saperi, abilità e competenze. «L’uso e la padronanza non sono l’unica espressione della competenza; la competenza racchiude in sé come oggetto non solo le conoscenze chiamate in causa, ma fattori meta-conoscitivi: l’accettazione dello stimolo a farne uso, il desiderio di comIII. Esiti di ricerca
pletare le conoscenze che si rilevassero, alla prova dei fatti, insufficienti e dunque lo stesso desiderio di aumentare la propria competenza» (D’Amore, Fandiño Pinilla, 2006, p. 157). Il percorso ha permesso agli insegnanti di attivare un contesto didattico, che in un’ottica di “speciale normalità”, ha individuato percorsi e traiettorie specifiche mettendole a disposizione di tutto il gruppo classe, che ne ha fortemente guadagnato sia in termini di apprendimento che di benessere a scuola. In termini di formazione è emerso con forza come il mondo della scuola non abbia più bisogno dei luoghi dell’informazione, ma di spazi di formazione autentica che consentano al pensiero e alla riflessione di attivarsi, un guardarsi da dentro e da fuori, un dare voce al significare, al documentare e al comprendere.
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III. Esiti di ricerca
Verso il canestro e oltre! Baskin per promuovere inclusione e prosocialità: uno studio pilota
Key-words: Social inclusion, baskin, prosociality, Intellectual and relational disability , inclusive sport, creative thinking, emotional intelligence.
III. Esiti di ricerca I paragrafi 1 e 2 sono da attribuire a Pasquale Moliterni; i paragrafi 3, 4 e 5 sono attribuire a Maria Elena Mastrangelo
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
The action research, that results, focuses on the hypothesis that an inclusive education, based on integrated sports (baskin) could promote prosocial behavior in young people with and without intellectual and relational disability. The research methodology involves the administration of a battery of validated questionnaires to assess the prosocial behavior and related dimensions such as the empathy quotient, emotional intelligence and creative thinking in two groups: one experimental and one control. The experimental group consists of 32 young people with intellectual and without disabilities , who practice integrated sports (baskin); The control group consists of 35 persons without disabilities, which have characteristics comparable with those of the experimental group, and they never practiced sports inclusive nor attended training courses together with people with disabilities. The questionnaires are administered before the activity (pre-test) and after four months of practice of baskin (post-test). To study and monitor the quality of the inclusive process in place, we are used traditional instrumentals of qualitative research, such as systematic observation, interviews and reflections on group dynamics. About statistical data analysis it is observed that a major variation dates the activity are found in the group with Disabilities. Non-parametric tests reveal a "beneficial effect" significant of Creativity and Emotional Intelligence, and other effects although not significant on prosociality. As for the group that has practiced the activity is improving, although not statistically significant, for Creativity and prosociality. The comparisons with the control group, showing an improvement for Creativity. The motor and sports education assumes, therefore, cultural meanings, educational and social ethics, as a privileged vehicle of inclusion and development of education to health and citizenship.
abstract
Pasquale Moliterni / Università degli Studi di Roma "Foro Italico" / pasquale.moliterni@uniroma4.it Maria Elena Mastrangelo / Università degli Studi di Roma "Foro Italico" / mariaelenamastrangelo@assori.it
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1. Aspetti teorico progettuali
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Per realizzare attività formative inclusive occorre focalizzare l’attenzione sui processi di integrazione e tener conto dei modelli culturali che li sostengono; in questa ricerca l’attenzione è volta soprattutto alla valorizzazione della corporeità e dell’azione motoria come fattori di sviluppo di processi formativi significativi ed inclusivi, così come avviene nei giochi sportivi e negli sport integrati. Nelle scienze motorie spesso l’attenzione è centrata sull’efficienza fisica e sui meccanismi dello sviluppo bio-fisiologico, sull’esercizio fisico e sulla prestazione. Il movimento è proiettato verso l’acquisizione di risultati valutati attraverso prove e test anche di tipo diagnostico prima e dopo l’esercizio, la didattica assume un significato legato a questo tipo di impostazione utilizzando modelli imitativi (modeling). Secondo Carraro e Lanza (2004) diventano fondamentali l’esecuzione del compito, lo sviluppo di gesti tecnici, la correzione dell’errore, la quantità di pratica da somministrare e la sua distribuzione e variabilità. Gli obiettivi formativi sono indirizzati ai risultati da raggiungere, tecnicamente corretti. Nelle scienze della formazione poniamo invece molta attenzione alla corporeità, al valore dell’azione motoria nei processi di conoscenza e di strutturazione del sé nelle proprie dimensioni relazionali; si spazia, metodologicamente, dall’osservazione, all’ascolto, al dialogo, finalizzando l’intervento allo sviluppo della creatività, della personalità, della relazione, della comunicazione e dell’autocontrollo con e attraverso il corpo. La motivazione all’apprendere per apprendere ha una rilevanza prioritaria. Quando poi si affrontano i temi dell’inclusione e dell’integrazione ci si avvale fortemente dell’attenzione a tali dimensioni al fine di organizzare i contesti allo scopo di raggiungere una più ampia partecipazione e inclusione, senza emarginare, categorizzare e classificare, ma considerando le possibilità e potenzialità di ciascuno, al fine di mettere tutti nelle condizioni di potersi esprimere e dare un contributo significativo all’esperienza personale e di gruppo. Diventa centrale la consapevolezza del valore del corpo inteso come espressione della personalità, come concrezione ed espressione relazionale, comunicativa, operativa, anche attraverso il gioco e lo sport. Da qui discende l’attenzione per una nuova cultura motoria e sportiva secondo profili di forte valenza antropologica e umanistica. Il corpo è infatti espressione della persona, luogo e strumento per dare significato alle esperienze umane e sociali. Il movimento, come concrezione dell’agire umano, diventa forma privilegiata di espressione dell’autonomia personale e concorre al processo di formazione integrale della persona. Come dice de Anna (in Moliterni, 2013) lo sport va assunto dunque nei suoi significati culturali, educativi ed etico sociali. Corpo e movimento mediano e connettono saperi di tipo scientifico-esplorativo e socio-relazionale e influiscono sulla concrezione culturale delle azioni umane. Il corpo è il mezzo e il mediatore della conoscenza e la corporeità è l’elemento unificante di tutte le possibilità espressive, conoscitive e relazionali e mezzo/contesto per risvegliare i potenziali comunicativi, in qualsiasi situazione esistenziale (Moliterni, 2013). L’attività motoria tende a costituire un sistema per favorire un approccio con persone in situazione di disabilità attraverso la costruzione di uno sfondo su cui proiettare e produrre le attività educativa e didattica. Il corpo può essere dunque
III. Esiti di ricerca
considerato “un organizzatore di mediazioni’’ (Canevaro, in Zanelli, 1986). Si tratta di adottare una prospettiva nella quale lo sport “[…] è centrato sulla persona, più che sul risultato” (Moliterni, 2013, p. 236), vale a dire uno sport che “favorisce processi di inclusione e di coesione dell’individuo nella collettività, anziché di emarginazione ed esclusione, oltre allo sviluppo di stili di vita più sani anche socialmente, recuperando la dimensione del benessere come esserebene” (Moliterni, 2013, p. 236). In tale prospettiva, come evidenziato anche da Magnanini (2016, p. 243), la Pedagogia speciale da più di vent’anni si è posta sempre con maggiore urgenza il problema dapprima della riflessione e poi della progettazione di percorsi sportivi integrati. Lo sport può divenire quindi uno dei luoghi privilegiati nei quali poter sperimentare l’incontro delle diversità e il loro positivo riconoscimento nella direzione dell’inclusione, così come espresso anche dalla Convenzione O.N.U. sui diritti delle persone con disabilità, che invita ad “assicurare che i bambini con disabilità abbiano eguale accesso rispetto agli altri bambini alla partecipazione ad attività ludiche, ricreative, di tempo libero e sportive, incluse le attività comprese nel sistema scolastico” (Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 2006). Il pensiero prosociale ha tra i suoi presupposti fondamentali quello di migliorare la qualità delle relazioni, della civiltà, della vita stessa (De Beni, 2000, p. 11), non può prescindere dalla creazione di un contesto inclusivo che permetta l’esperienza tra gruppi eterogenei e quindi il confronto tra tutte le differenze umane che siano esse di etnia, credo o di qualsiasi condizione di disabilità. Uno sport educativo, ovvero promozionale e proattivo, deve pertanto essere concepito soprattutto come déport e agon e far leva sul fair play e sulla competizione intesa come forma di cooperazione e di solidarietà. Le attività motorie e sportive, soprattutto nelle forme ludiche e ricreative, vanno orientate, dunque, verso una funzione educativa e non solo performativa e salutistica, verso l’essere ed il vivere bene per ognuno nella piacevolezza delle relazioni umane, rispondendo ai bisogni profondi di socialità, di reciprocità, di fiducia e solidarietà di ogni persona e divenire così “luoghi” di incontro, riconoscimento e riconciliazione tra sé e gli altri, tra le diversità personali e sociali (Moliterni in de Anna, 2016, pp. 273-274). In particolare il contributo della pedagogia speciale è rilevante in quanto fondandosi sui processi di integrazione, che presuppongono lo sviluppo dell’apprendimento in interazione con gli altri, permette di approfondire il ruolo fondamentale che assume la creazione di uno sfondo integratore, l’organizzazione degli spazi e degli ambienti in relazione al contesto educativo di apprendimento, sperimentando modalità e tempi di attuazione degli interventi formativi. Nell’ambito di questo dialogo tra principi sportivi ed educativi si colloca questo studio pilota che propone uno sport inclusivo, nello specifico il baskin, come mediatore per favorire processi di integrazione e promuovere la cultura dell’inclusione. Il Baskin nasce a Cremona nel 2003 ad opera di Antonio Bodini e Fausto Capellini; è l’unione di due realtà, di due mondi, quello dello sport, il basket, e quello dell’integrazione, con le sue teorie pedagogiche e le sue prassi. Il lavoro di ricerca condotto dai fondatori del Baskin ha prodotto una rivoluzione culturale, quella di creare uno nuovo sport, educativamente fondato e orientato, che sa valorizzare tutti, rendendo ognuno protagonista e indispensabile per il gioco. anno IV | n. 2 | 2016
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Non è uno sport esclusivamente per persone con disabilità, non è uno sport per persone senza disabilità, non è uno sport solo per maschi, o solo per femmine, ma è uno sport per tutti. Si svolge sullo stesso campo del basket, con i soliti canestri regolamentari ai quali però sono aggiunti dei doppi cesti laterali: è questa la particolarità: i doppi canestri laterali sono uno circa a un metro da terra e l’altro intorno ai due metri, è previsto un adattamento dei materiali, del regolamento, dei ruoli e delle consegne per garantire a tutti l’emozione di poter fare canestro. Ogni squadra è composta da 6 giocatori i quali sono identificati da uno specifico ruolo assegnato in base alle abilità di ogni atleta. Questo sport è pensato per includere e dare a tutti la possibilità in base ai propri limiti fisici di poter incidere sul risultato finale (Bodini, Capellini, Magnanini, 2010).
2. contesto ed ipotesi di ricerca
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Lo studio pilota nasce da una sinergia tra alcune componenti dell’AS.SO.RI onlus di Foggia, della Università degli Studi di Roma “Foro Italico”, della Facoltà di Scienze delle attività motorie e sportive dell’Università di Foggia, dell’Istituto di Istruzione Secondaria “Carolina Poerio” di Foggia, ed è sostenuto dal Rotary Club Foggia ”Umberto Giordano”. Lo studio pilota (ricerca-azione) si focalizza sull’ipotesi che una formazione inclusiva, basata su attività sportive integrate (come il baskin) possa promuovere comportamenti prosociali e dimensioni ad esso correlate quali empatia, intelligenza emotiva e creatività, in giovani con e senza disabilità intellettiva e relazionale.
3. Metodologia
L’impegno sinergico tra i partner ha consentito la costruzione di uno sfondo integratore, percorrendo le seguenti fasi:
1° step - FORMAZIONE: il 15 dicembre 2015 si è tenuto a Foggia, presso la Fondazione ASSORI, il seminario di formazione “Baskin – uno sport per l’inclusione sociale – progetto pilota” rivolto agli attori coinvolti nell’azione progettuale, agli addetti ai lavori e all’intera cittadinanza, curato dalla Sezione Dipartimentale di Scienze Umane e Sociali del Dipartimento di Scienze Motorie, Umane e della Salute dell’Università degli studi “Foro italico” di Roma, nella persona della docente di pedagogia speciale Angela Magnanini che ha sottolineato i principi a cui si ispira il modello di Sport per tutti, coadiuvata da Giovanni Minichillo, responsabile tecnico progetto baskin, che ha illustrato il regolamento e le caratteristiche specifiche di questo sport inclusivo. Sono intervenuti, in rappresentanza del Rotary club Foggia “Umberto Giordano” che ha sostenuto e finanziato l’azione progettuale, il Presidente Giuseppe Centra e la Presidente Commissione Progetti Maria Buono. 2° step - LE SQUADRE DI BASKIN: nelle prime due settimane del mese di gennaio del 2016 si è proceduto con la formazione delle squadre composte dai ragazzi III. Esiti di ricerca
e ragazze con disabilità che frequentano l’AS.SO.RI Onlus e dalle ragazze della classe terza I – indirizzo Linguistico dell’ I.I.S. “Carolina Poerio” di Foggia, nell’ambito del progetto di alternanza scuola lavoro previsto per l’a.s. 2015-2016. L’analisi della motivazione e la valutazione del senso di self-efficacy motoria sono state curate dalla prof. Annamaria Petito docente di Psicologia Clinica presso l’Università di Foggia, la valutazione delle abilità motorie propedeutica all’assegnazione degli specifici ruoli previsti dal regolamento del baskin è stata effettuata da Danilo La Macchia, docente di Basket presso il corso di laurea di Scienze Motorie e Sportive dell’Università degli studi di Foggia, e da Andrea Croce psicologo ed istruttore di baskin con l’assistenza della studentessa Sabrina Rizzi, coordinati dal prof. Dario Colella, Presidente del corso di laurea in Scienze motorie e sportive dell’università di Foggia. 3° step - PRE TEST: Prima di iniziare le attività motorie legate alla pratica del baskin è stata somministrata una batteria di test, validata scientificamente per valutare il comportamento prosociale, il quoziente di empatia, l’intelligenza emotiva ed il pensiero creativo a due gruppi: il Gruppo Sperimentale (Gruppo Attività) composto dalle ragazze senza disabilità della classe terza I - indirizzo Linguistico dell’ I.I.S. “Carolina Poerio” di Foggia, e dai ragazzi con disabilità della Fondazione ASSORI di Foggia; e il Gruppo di Controllo (Gruppo No Attività) composto prevalentemente dalla terza F – indirizzo Linguistico dello stesso Istituto che non ha praticato baskin. 4° step - GLI ALLENAMENTI E LE PARTITE: presso la palestra del Centro Polivalente per l’inclusione dell’AS.SO.RI onlus, dotata di campo di basket (trasformato in campo di baskin) sono state proposte attività motorie propedeutiche, fondamenti, tecniche e strategie specifiche del Baskin, con la frequenza di un incontro settimanale della durata di due ore, per un periodo di tempo compreso tra il 15 gennaio ed il 15 maggio del 2016. Gli allenamenti sono stati condotti da Danilo La Macchia e da Andrea Croce, col supporto dell’insegnante di Scienze motorie e sportive della classe Milvia di tullio, e di un educatore specializzato dell’AS.SO.RI con il compito di fungere da mediatore nel processo di inclusione. Negli ultimi due mesi gli allievi hanno acquisito le competenze per poter giocare vere e proprie partite di baskin, culminato positivamente nell’incontro conclusivo del 9 giugno, divisi in due squadre si sono confrontati in un match mozzafiato presso il palazzetto dello sport della città di Foggia. 5°step - POST TEST E INTERVISTE: a distanza di 4 mesi, è stata riproposta la batteria di questionari somministrata nella fase di pre test, agli stessi gruppi che hanno partecipato al pre test, agli allenamenti e alle partite di baskin. Rispetto alla composizione dei gruppi non si registrano differenze, il campione è rimasto invariato, non si è riscontrato l’effetto mortalità. I componenti del Gruppo Sperimentale hanno rilasciato Interviste focalizzate sulla valutazione del contesto inclusivo, sulla valenza pedagogica e sul benessere percepito in relazione all’attività svolta. 6°step - CONDIVISIONE DEI RISULTATI: il 9 giugno 2016 gli attori coinvolti nel progetto e nello studio pilota hanno discusso e condiviso i risultati del lavoro nell’ambito del convegno “Baskinsieme – promuovere l’inclusione attraverso lo sport: principi educativi e sportivi in dialogo” dove ognuno dei partner ha potuto esporre le conclusioni, le prospettive future e le evidenze scientifiche anno IV | n. 2 | 2016
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rilevate. Per dar voce ai protagonisti è stato realizzato e proiettato un video in cui ciascuno ha dato senso e significato all’esperienza vissuta. Lo studio pilota si colloca nell’ambito della ricerca-azione, ed utilizza strumenti di tipo quantitativo e qualitativo.
VALUTAZIONE QUALITATIVA DEI CONTESTI INCLUSIVI È stata svolta un’osservazione sistematica delle attività, ed utilizzate interviste focalizzate sugli indicatori dei contesti inclusivi ispirandosi a tre dimensioni specifiche (Booth, Ainscow, 2002).
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FIG. 1 - Le tre dimensioni dell’Index D " da " "e M. " Ainscow, " " " (ibidem)" 2002, 117, " " " t. Booth tratto & &
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Dimensione A: Creare Culture Inclusive " " " " " " " " " " Sezione A.1 Costruire comunità, Sezione A.2 valori " " " " " Affermare " inclusivi " "" " " " " " Questa dimensione crea una" comunità cooperativa " " " sicura," accogliente, " " " " " " " "e sti- " " " molante, in cui la valorizzazione di" ciascuno diviene il" "punto di" partenza per " " " " " " " " ottimizzare i risultati di tutti, diffondendo valori inclusivi condivisi e trasmessi & && a tutto il gruppo. I principi& e& i valori,& nelle culture inclusive, orientano le deA " " " " " " " " " " " " " " cisioni sulle politiche educative e gestionali e sulle pratiche quotidiane. " " " " " " " " " " " " Dimensione B: Produrre Politiche Inclusive " " " " " " " " " " " " Sezione B.1 Sviluppare la scuola per" tutti," Sezione" B.2 Organizzare "il sostegno " " " " " " " " " alla diversità " " " " " " " " " " " " " Questa dimensione assicura che i valori inclusivi permeino tutta la progetta& zione. Le politiche inclusive la partecipazione, forniscono aiuto & incoraggiano & & & && a tutti e riduconoA le spinte Ogni decisione chiare stra" " all’esclusione. " " implica " " """""""""""""""""""""""""""""""" " tegie per il cambiamento. tutte "le forme "di sostegno b " " " sviluppate " " vengono " " " se" " condo principi inclusivi e"in modo" coordinato di un quadro unitario. " " all’interno " " " " " " " " " " " " " " " " " " " " Dimensione C: sviluppare Pratiche Inclusive " " " C.2 " " " l’apprendimento, " " " Mobilitare " " " Sezione C.1 Coordinare Sezione risorse " " " " " " riflettono " "le culture " " e le" politiche " " " " " Questa dimensione promuove pratiche che " " " inclusive. Le attività formative" vengono progettate in modo da rispondere & allievi, e gli allievii sono incoraggiati a essere attivamente alla diversità degli & & & educazione, valorizzando && coinvolti in ogni aspetto della loro anche le loro coA " " " " " " " " " noscenze ed esperienze fuori della scuola. Il personale individua nella colla- " " " " " " " " " " " " " borazione con i colleghi, gli alunni, le famiglie e la comunità locale le risorse " " " " " " " " " " " materiali e umane per il sostegno all’apprendimento e alla partecipazione. A
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III. Esiti di ricerca
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INTERVISTE LIBERE E SEMISTRUTTURATE Sono state utilizzate interviste focalizzate sugli indicatori per promuovere contesti inclusivi, sulla valenza formativa e sul benessere percepito in relazione all’attività svolta, rivolte alle persone con e senza disabilità che compongono il gruppo sperimentale. In relazione alla strutturazione, sono state condotte interviste semistrutturate, il ricercatore propone domande e lascia libero l’intervistato di fornire risposte più o meno sintetiche. Le interviste hanno permesso di raccogliere informazioni prevalentemente qualitative.
DISEGNO SPERIMENTALE GRUPPI: Un gruppo sperimentale (gruppo Attività) formato da 32 giovani, di età compresa tra 16 e 35 anni che hanno partecipato all’azione progettuale “Baskinsieme” praticando attività motorie e sportive integrate (baskin); diviso in due sottogruppi: GS1 (gruppo attività non disabilità) composto da 21 ragazze senza disabilità, e GS2 (gruppo attività disabilità) composto da 11 persone con Disabilità Intellettiva e relazionale. Un gruppo di controllo (gruppo no attività) è composto da 35 persone senza disabilità, che presentano caratteristiche comparabili con quelle del gruppo sperimentale, e non hanno mai praticato attività sportive inclusive né frequentato percorsi formativi insieme a persone con disabilità. VARIABILI INDIPENDENTI: attività (si/no), disabilità (si/no) VARIABILI DIPENDENTI: comportamenti prosociali, quoziente di empatia, intelligenza emotiva, pensiero creativo. OBIETTIVO: verificare che all’interno di una stessa popolazione due o più raccolte di dati differiscano mediamente tra loro per effetto di uno o più fattori. I questionari vengono somministrati 2 volte, prima e dopo l’attività, a distanza di 4 mesi (pre test e post test). TEST DI IPOTESI: l’ipotesi nulla stabilisce che di fatto i diversi dati abbiano la stessa origine e che le differenze osservate siano dovute solo al caso. Al contrario, quando l’ipotesi nulla viene rigettata si conclude che almeno una coppia di gruppi differisce tra loro. TECNICHE: I test usati per le analisi sono di due tipi. 1. test di Kruskal-Wallis: per accettare o rifiutare l’ipotesi che l’appartenenza ad un determinato gruppo (attività, no attività e disabilità) comporti una variazione significativa sul punteggio di una certa variabile. 2. test di Friedman: per accettare o rifiutare l’ipotesi che le mediane tra le ripetizioni del test (pre e post) siano variate in modo significativo.
STRUMENTI DI MISURA DELLA RICERCA QUANTITATIVA La metodologia della ricerca prevede la somministrazione, prima dell’inizio dell’attività (pre test) e dopo quattro mesi di pratica del baskin (post test), della seguente batteria di questionari validata per valutare il comportamento prosociale, il quoziente di empatia, l’intelligenza emotiva ed il pensiero creativo Al gruppo sperimentale e al gruppo di controllo: Scala per la misura della prosocialità in adolescenti e adulti (Caprara, Steca, Zelli e Capanna, 2005) Con il termine prosocialità ci si riferisce a tutti quei “comportamenti che senza
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la ricerca di ricompense esterne o materiali, favoriscono altre persone, gruppi secondo il criterio di questi o fini sociali obiettivamente positivi aumentando la probabilità di generare una reciprocità positiva di qualità e solidale nelle relazioni interpersonali o sociali conseguenti, salvaguardando l’identità, la creatività e l’iniziativa degli individui o dei gruppi implicati” (Roche, 1995, p. 16). La prosocialità, in senso lato, è caratterizzata dalle abilità di Aiuto, Condivisione, Empatia, Conferma dell’altro, Unità, Solidarietà (Roche, 2002) Il Quoziente Empatia EQ (Simon Baron, Cohen, 2004) “L’empatia è l’unità o la capacità di attribuire stati mentali ad un’altra persona / animale, e comporta una risposta affettiva appropriato nel osservatore a stato mentale di un’altra persona. “ Questa definizione si basa sulla teoria di empatia di Baron-Cohen. che include sia una risposta cognitiva e affettiva alle emozioni di un altro individuo. Essere empatici significa entrare nel mondo interpersonale dell’altro e sentirsi a proprio agio, significa fluire con i significati del vissuto dell’altro passando dalla paura, alla tristezza, alla confusione, al terrore con l’altro, senza perdere la propria prospettiva (Rogers, 1980), Nella sua successiva reinterpretazione dell’empatia Rogers la intende come un processo comunicativo che consiste nel seguire e accompagnare le esperienze dell’altro mentre questi si auto esplora. Test sull’Intelligenza Emotiva (di Bitonto, Goleman, 2011) L’Intelligenza emotiva è definita come l’abilità di percepire correttamente, di valutare ed esprimere le emozioni, l’abilità di accedere e/o generare le emozioni che favoriscono i processi di pensiero, l’abilità di comprendere le emozioni e ciò che concerne la conoscenza emotiva, l’abilità di regolare le emozioni che favoriscono la crescita emotiva ed intellettiva (Salovey, Sluyter, 1997). Questa definizione mette insieme l’idea che l’emozione è in grado di rendere i processi di pensiero più intelligenti con l’idea che si possa pensare alle emozioni come qualcosa che ha una qualche razionalità intrinseca (come qualcosa di intelligente) . Test Creatività (Luca e Laura Varvelli GRAM-2013) La creatività possiede questi principali elementi: come carburante, la “conoscenza”. Più è diversificata e multidisciplinare più è potente ed esplosiva; come motore, il meccanismo della “immaginazione”, della capacità di “astrazione”, i metodi e la tecniche di creatività; come batteria di accensione, la motivazione, la curiosità, il desiderio d’autorealizzazione; come autista, “l’uomo esploratore”, l’intelligenza di saper guidare il proprio pensiero verso precisi obbiettivi. Un’auto (immaginazione), senza benzina (conoscenza), non va da nessuna parte e il carburante, da solo, serve a ben poco. Un’auto con la batteria (motivazione) scarica non parte nemmeno. Senza autista (uomo esploratore) l’auto rimane in garage. Un’autista senza meta (vision) spreca solo benzina. Pertanto definiremo così il processo creativo: «Creare consiste nell’estrapolare dalla mente, attraverso l’immaginazione ed il pensiero esplorativo, combinazioni di conoscenze ed esperienze che credevamo erroneamente estranee le une alle altre, ma che unite scopriamo avere il dono di generare un risultato “inedito” e “utile” (Valentini, 2007). Alle persone con Disabilità Intellettiva e Relazionale coinvolte nel progetto i questionari sono stati presentati con la modalità dell’intervista condotta da III. Esiti di ricerca
un unico intervistatore, al fine di garantire la comprensione dei vari item proposti e ridurre la variabile legata a differenze nella modalità di somministrazione, dipendenti dall’intervistatore.
4. Risultati
ANALISI QUALITATIVA Dall’analisi del contesto e dalle interviste emerge che sono stati soddisfatti gli indicatori per l’inclusione dall’Index for Inclusion (Booth, Ainscow, 2002). L’index è nato per la scuola, ma gli indicatori proposti possono adattarsi anche ad altri contesti formativi. Per ogni dimensione delll’index, sono stati rispettati i seguenti indicatori, che ci consentono di concludere che le attività sportive oggetto di studio sono state svolte in un contesto inclusivo: DIMENSIONE A. Creare culture inclusive: A.1.1 Ciascuno deve sentirsi benvenuto. A.1.2 Gli allievi si aiutano l’un l’altro. A.1.3 Gli insegnanti collaborano tra loro. A.1.4 Gli insegnanti e gli allievi si trattano con rispetto. A.1.5 C’è collaborazione tra gli insegnanti e le famiglie. A.2.1 Le attese sono elevate per tutti gli allievi. A.2.3 Gli allievi sono valorizzati in modo uguale. A.2.4 Insegnanti e allievi si trattano l’un l’altro come esseri umani oltre che come rappresentanti di un «ruolo». A.2.5 Il gruppo insegnante cerca di rimuovere gli ostacoli all’apprendimento e alla partecipazione. A.2.6 La scuola (il corrispettivo: i partner) si sforza di ridurre ogni forma di discriminazione. DIMENSIONE B. Produrre politiche inclusive: B.1.1 La selezione del personale e le carriere sono trasparenti. B.1.2 I nuovi insegnanti vengono aiutati ad ambientarsi. B.1.3 La scuola (Il contesto formativo) promuove l’accoglienza di tutti gli alunni della comunità locale. B.1.4 La scuola (Il contesto formativo) rende le proprie strutture fisicamente accessibili a tutte le persone. B.1.5 tutti i nuovi alunni vengono aiutati ad ambientarsi. B.2.1 tutte le forme di sostegno sono coordinate. B.2.2 Le attività di formazione aiutano gli insegnanti ad affrontare le diversità degli alunni. B.2.3 Le politiche rivolte ai Bisogni Educativi Speciali sono inclusive. B.2.6 Le politiche di sostegno personale e del comportamento sono collegate a quelle di sostegno allo sviluppo curricolare e all’apprendimento. B.2.7 Le pratiche che portano all’esclusione dalle attività disciplinari vengono ridotte. B.2.8 Gli ostacoli alla frequenza sono ridotti. B.2.9 Il bullismo viene contrastato. DIMENSIONE C. Sviluppare pratiche inclusive: C.1.1 L’insegnamento è progettato tenendo presenti le capacità di apprendimento di tutti gli allievi. C.1.2 Le lezioni stimolano la partecipazione di tutti gli allievi. C.1.3 Le lezioni sviluppano la comprensione della differenza. C.1.4 Gli allievi sono attivamente coinvolti nelle attività di apprendimento. C.1.5 Gli allievi apprendono in modo cooperativo. C.1.6 La valutazione contribuisce al raggiungimento degli obiettivi educativi per tutti gli allievi. C.1.7 La disciplina in classe è improntata al mutuo rispetto. C.1.8 Gli insegnanti (I partner) collaborano nella progettazione, insegnamento e valutazione. C.1.9 Gli insegnanti di sostegno promuovono l’apprendimento e la partecipazione di tutti gli alunni. C.1.11 tutti gli alunni prendono parte alle attività esterne all’aula (partite di baskin). C.2.1 Le diffe-
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renze tra gli allievi vengono utilizzate come risorsa per l’insegnamento e l’apprendimento. C.2.2 Le competenze degli insegnanti sono utilizzate al meglio. C.2.3 Gli insegnanti sviluppano delle risorse per sostenere l’apprendimento e la partecipazione. C.2.4 Le risorse della comunità sono conosciute e utilizzate. C.2.5 Le risorse della scuola (del contesto formativo) sono equamente distribuite così da sostenere l’inclusione. Dall’analisi del contenuto delle interviste emergono le seguenti tematiche significative e ricorrenti: 1) Benessere bio-psico-sociale, divertimento Il 100% dei partecipanti attraverso la pratica dello sport e la partecipazione attiva si sente gratificato, avverte un senso di benessere ed è motivato a profondere impegno divertendosi. Sul piano comportamentale si registra costanza nella frequenza e negli allenamenti, tenacia e determinazione nella consapevolezza di una meta da raggiungere, percezione di autoefficacia. Gli intervistati sentono soddisfazione e gratificazione nel partecipare all’attività sportiva e mostrano entusiasmo e alti livelli di motivazione. 2) Collaborazione, cooperazione, aiuto reciproco, acquisizione di competenze relazionali e prosociali, qualità nelle relazioni interpersonali Per l’80% degli intervistati relazionarsi con le persone in situazione di disabilità, condividere obiettivi e spazi comuni, cooperare per raggiungere un risultato si rileva una esperienza di scoperta dell’altro e del suo mondo, di espressione della propria persona, di incontro, di relazione e di solidarietà. Aumenta il senso di appartenenza alla squadra, la sensazione di vicinanza, la possibilità di condividere gioie e traguardi, la partecipazione attiva di tutti, persone con e senza disabilità. Gli intervistati raggiungono maggiori competenze affettivo-relazionali e prosociali. L’ambiente sportivo viene considerato uno spazio dove ci si sente accolti, apprezzati e valorizzati per la propria unicità. 3) Crescita personale, ampliamento di competenze e percezione positiva della disabilità L’80% delle persone senza disabilità riferisce di aver vissuto un’importante esperienza di crescita personale, il contatto con l’altro è stato motivo di riflessione, apertura mentale e scoperta di nuove emozioni. Le persone con e senza disabilità riferiscono di aver appreso i fondamenti di un nuovo sport e di aver avuto occasioni per imparare a gestire emozioni comprese la frustrazione e l’insuccesso. Emergono percezioni ed atteggiamenti sociali connotati positivamente verso la disabilità: i ragazzi senza disabilità “esprimono fiducia” nella possibilità che i compagni disabili possano acquisire abilità sportive specifiche, rivestire un ruolo sociale e auto realizzarsi.
ANALISI STATISTICA Per sintetizzare e rendere più fruibile la lettura dei dati, nell’analisi statistica il gruppo Attività non Disabilità sarà chiamato Gruppo Attività, il gruppo Attività Disabilità sarà definito Gruppo Disabilità. Lo schema è il seguente: – Statistiche descrittive: per ogni tipologia di gruppo vengono riportati i valori statistici fondamentali come media, deviazione standard, minimo e massimo, e la numerosità del campione. – Grafici a scatola: per ogni variabile viene mostrata la distribuzione del pun-
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teggio totale sotto forma di scatola, con i massimi e i minimi rappresentati da due barrette orizzontali, e l’intervallo principale della distribuzione dei dati sperimentali rappresentato con un rettangolo colorato. Eventuali dati fuori scala sono rappresentati da piccoli cerchi. Le distribuzioni vengono rappresentate con una prima suddivisione fatta sulla base del tipo di test (pre o post attività), e successivamente con una seconda divisione fatta sulla base del tipo di gruppo di appartenenza (attività, no attività o disabilità1). Non è stato possibile analizzare i dati ricorrendo a test parametrici (come tStudent o ANOVA) per i seguenti motivi: L’assunzione di normalità della distribuzione di probabilità dei dati non è verificata. Le numerosità dei campioni non sono abbastanza grandi. tuttavia è possibile utilizzare test non parametrici, perché le distribuzioni di probabilità dei dati (nonostante siano sconosciute, e quindi non esprimibili in una forma parametrica predefinita) sono simili tra loro. Inoltre la suddivisione dei gruppi è casuale. I test parametrici usati sono di due tipi: Test di Kruskal-Wallis: per accettare o rifiutare l’ipotesi che l’appartenenza ad un determinato gruppo (attività, no attività e disabilità) comporti una variazione significativa sul punteggio di una certa variabile. Test di Friedman: per accettare o rifiutare l’ipotesi che le mediane tra le ripetizioni del test (pre e post) siano variate in modo significativo2.—— !"#$%&'&()*++,&-&.,&"//010/2& & A67K$7;2/<2=>&,7=/<5&K&A65& O97Y253=5&"84/=2/&,7=/<5&K&A65& '3=5<<2[53Y/&"87=2:/&,7=/<5&K&A65& )65/=2:2=>&,7=/<5&Q&A65& A67K$7;2/<2=>&,7=/<5&K&A70=& O97Y253=5&"84/=2/&,7=/<5&K&A70=& '3=5<<2[53Y/&"87=2:/&,7=/<5&Q& A70=& )65/=2:2=>&,7=/<5&K&A70=&
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5. Discussione e conclusioni ""
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III." Esiti di ricerca
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parando a collaborare e cooperare in un processo di graduale apertura al mondo dell’altro, sottolineando l’importanza dell’esperienza del baskin per promuovere relazioni sociali e rispetto reciproco. I risultati sono in linea con quanto riportato in letteratura, molti studi sottolineano i benefici per gli studenti senza disabilità nel praticare attività inclusive. L’interazione dei ragazzi con disabilità con studenti senza disabilità ha mostrato un aumento delle abilità sociali e delle interazioni reciproche (Cole, Mayer, 1991). Sono scaturite dimensioni categorizzate nel miglioramento del concetto di sé, maggiore comprensione interpersonale, minor timore delle differenze umane, maggiore tolleranza (Peck, Donaldson, Pezzoli, 1992). I bambini, abituati alla presenza di un compagno diverso, hanno pensato che fosse naturale così, perché il messaggio che il contesto gli ha rimandato implicitamente è che fosse normale stare insieme (Canevaro 2007). È stato dimostrato come, a parità di condizioni, una persona isolata in contesti speciali manifesti un incremento di comportamenti patologici, probabilmente a causa dell’inadeguatezza degli stimoli proposti da questi contesti e per effetto dell’imitazione (de Anna, Gardou, Lombardi, Ricci, 2014). Prevenzione significa dunque massima integrazione possibile (Lancioni, 2003, p. 201). Le ricerche indicano che le relazioni sono più frequenti, positive ed equilibrate quando i bambini vengono educati in un ambiente integrato (Brinker, thorpre, 1986; Cole, Meyer, 1991) e quando gli insegnanti creano opportunità di collaborazione (Katz, Mirenda, 2002, p. 211). Rispetto all’analisi statistica le variazioni maggiori date dall’attività si riscontrano nel gruppo con Disabilità. I test non parametrici rivelano un effetto “benefico” significativo su Creatività ed Intelligenza Emotiva, ed altri effetti anche se non significativi su Prosocialità. Per quanto riguarda il gruppo che ha praticato l’attività si riscontra un miglioramento anche se non statisticamente significativo solo per Creatività e Prosocialità. I confronti con il gruppo di controllo con No Attività mostrano un miglioramento solo per Creatività. A tal proposito è da tenere presente che la breve durata dell’intervallo tra il Pre test ed il Post test (quattro mesi) non ha consentito di registrare cambiamenti significativi per variabili complesse, multifattoriali e trasversali come l’empatia e la prosocialità, tuttavia rispetto a dimensioni correlate ai comportamenti prosociali, come Intelligenza Emotiva e soprattutto Creatività, si registrano dei miglioramenti significativi, anche in un lasso di tempo così breve. La creatività può essere vista come condizione della libertà personale e dell’autosviluppo. L’uomo, osserva Fromm (1976), essendo dotato di ragione e di immaginazione, non può accontentarsi della passiva condizione di creatura. Egli è mosso dallo stimolo di trascendere il suo stato di creatura e l’accidentalità e passività della sua esistenza, diventando “creatore”. Cosciente di essere creato e di poter creare, per farsi partecipe della grande catena della vita universale l’uomo crea vita, oggetti, arte, idee. Nell’atto creativo – scrive ancora Fromm (1976) – trascende sé stesso come creatura, eleva sé stesso al di sopra della passività e accidentalità della sua esistenza entro il regno della volontà creativa e della libertà. Se vogliamo lavorare per lo sviluppo di abilità prosociali e prevenire i rischi dei comportamenti antisociali, l’educazione all’autotrascendenza prima di offrire espressione a un desiderio maturo di autorealizzazione spirituale, nell’età evolutiva mi pare si possa configurare proprio come educazione alla creatività (Riccardo Venturini, 2012). anno IV | n. 2 | 2016
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I ragazzi hanno beneficiato della pratica del baskin e hanno manifestato il proprio potenziale creativo imparando ad inserirsi e ad organizzare un gruppo che conta al suo interno gradi di abilità differenti. Hanno avuto l’occasione di sviluppare nuove capacità di comunicazione mettendo in gioco la propria creatività e instaurando relazioni affettive anche molto intense. Inoltre la condivisione degli obiettivi sportivi coi ragazzi con disabilità permette loro di apprezzare le ricchezze e le capacità che la diversità porta con sé. Rispetto all’intelligenza emotiva il gioco di squadra fornisce un contesto per far emergere delle sfide emozionali che sono solitamente suscitate nella relazione. Molto di ciò che rende la relazione interpersonale difficile per i ragazzi comprende il tipo di emozione con cui hanno a che fare. La pratica sportiva tende a suscitare emozioni anche molto intense: rabbia, ansia, imbarazzo, umiliazione, sollievo, piacere, orgoglio e gioia e può aiutare l’atleta a prendere coscienza della parte emozionale della sua esperienza nella relazione con i pari, inoltre un umore positivo facilita l’apprendimento e, siccome in queste occasioni i giovani riferiscono di divertirsi, aumenta la possibilità che possano apprendere e appaiono motivati, l’attività sportiva in gruppo diventa anche allenamento per le abilità sociali. Si crea, infatti, un contesto che offre un ampio ventaglio di possibilità di mettersi a confronto con innumerevoli abilità sociali ed affettive, quali iniziare un’interazione, gestire il disaccordo, chiedere aiuto, cooperare, avere a che fare con il fallimento oltre che con il successo. Riguardo ai ragazzi con disabilità è aumentato anche il senso di self-efficacy motoria, la fiducia nei propri mezzi e nelle potenzialità del corpo, la capacità di coniugare il sacrificio con il piacere, in un processo che porta allo sviluppo di comportamenti prosociali e di abilità relazionali. Anche le persone con disabilità più ostacolanti possono diventare gli artefici della vittoria grazie al regolamento del baskin che valorizza ogni ruolo per mettere in condizione ogni giocatore con disabilità, uomo, donna di incidere sul risultato della partita, ognuno può diventare campione di Baskin. Inoltre, l’analisi dei risultati fa emergere percezioni ed atteggiamenti sociali connotati positivamente verso la disabilità: i ragazzi senza disabilità “esprimono fiducia” nella possibilità che i compagni con disabilità possano acquisire abilità sportive specifiche, rivestire un ruolo sociale e auto realizzarsi. La maggior parte considerano il compagno con disabilità “persona” come gli altri, degna di rispetto, di pari dignità, una “risorsa per gli altri”, ricchezza, altri lo definiscono “soggetto speciale e sensibile”, qualcuno “persona bisognosa di aiuto”.i A tal proposito nasce l’esigenza di estendere il campo della ricerca coinvolgendo aspetti legati alla rappresentazione mentale e alla percezione della disabilità, aumentando la numerosità del campione, per ottenere risultati più significativi. Attualmente, sei mesi dopo la chiusura dell’azione progettuale, il 70% delle persone con disabilità e il 24% delle persone senza disabilità continua a praticare baskin presso l’AS:SO:RI onlus. Sono entrati in squadra anche altri due ragazzi con disabilità che provengono da altri sport e quattro giovani cestisti professionisti, il Rotary club continuerà a sostenere la pratica del baskin che entra a far parte stabilmente delle attività sportive proposte dall’AS.SO.RI onlus. ella persona2.Par
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III. Esiti di ricerca
Passi verso la felicità: il valore della Biodanza per promuovere l’inclusione
The aim of this paper is to deepen the reflection on well-being and happiness questioning on the possibility of considering the Biodanza as an inclusive practice to promote a global well-being for people with disabilities. "Living a good life", aspire to happiness and well-being seem to have become a valuable imperative in order to create a facilitating environment, in which the barriers are removed to the participation of persons with disabilities. The Bio-dance method is well suited as an educational perspective that focuses on the life, music and movement and known as “the dance of life”. Based on these premises, the ICF-CY mediation was used as conceptual orderer to find results of clinical Bio-dance in mental health, through the creation of a modifying environment that promotes well-being. Through the work of observation and analysis of the video recordings of the meetings of Bio-dance session which involved about 40 people, we tried to grasp the inclusive value of Biodance method and its contribution to promote the well-being of people involved. The conclusions that have been reached in Bio-dance method identify a positive environment in which it is promoted respect, tolerance, dialogue, and in which diversity is enhanced as in the inclusion process.Bio-dance method permits to establish genuine relationships with each other, in which no one feels judged and for this reason it is possible to express themselves fully, where everyone can express themselves and their resources.
© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
Key-words: well-being, biodance, functioning, inclusion
III. Esiti di ricerca
Italian Journal of Special Education for Inclusion
abstract
Elisabetta Ghedin / Dipartimento FISPPA, Università degli Studi di Padova / elisabetta.ghedin@unipd.it
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1. Il ben-essere come volano per una vita fiorente
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Attualmente la letteratura scientifica in molti ambiti (filosofico, sociale, economico, psicologico) tende a focalizzarsi sul costrutto del ben-essere considerandolo in modo pro-attivo con l’obiettivo di individuare trame per coltivare, mantenere e migliorare tutte le dimensioni collegate allo sviluppo umano (Sen, 2001). Walker (2005) insiste sul fatto che “we address human development not simply as abstract ideas, but as lived capacities at the level of everyday life’ (p. 104). Il focus in questo caso è su un “environment suitable for human flourishing” (p. 103). In questo panorama il ben-essere viene definito come la realizzazione del proprio potenziale fisico, emotivo, mentale, sociale e spirituale ispirato da un impegno armonioso in sintonia con se stesso, la famiglia e gli amici, la comunità e il mondo in generale. Per molte persone, il riferimento al ben-essere non è solo a quella che viene considerata la “buona vita” ma è al “vivere una buona vita”. In questa accezione si potrebbe fare riferimento al flourishing così come viene inteso da M. Nussbaum come una vita che fiorisce in tutte le sue potenzialità indicando le molteplici possibilità attraverso le quali ogni persona può realizzarsi (2000). Con il riferimento ad essa significa includere nelle percezioni soggettive anche una dimensione collettiva: si riflettono non solo preferenze individuali, ma valori costruiti in senso più ampio in particolare facendo riferimento ad una comprensione condivisa di come è fatto il mondo e di come dovrebbe essere. Inoltre tale visione del ben-essere include in sé anche una dimensione morale, in riferimento a sentimenti per trovare il proprio posto nel mondo, ed essa è criticamente associata al come si è in relazione con gli altri (Ghedin, 2015). Già da tale considerazione possiamo comprendere lo stretto legame esistente tra un’idea di ben-essere così concepita e quella che emerge nella Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) approvata nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tale classificazione ha infatti, come presupposto di base, la valorizzazione del ben-essere della persona nel suo contesto di vita. L’ICF, con il termine ben-essere, intende indicare “tutto l’universo dei domini della vita umana, inclusi aspetti fisici, mentali e sociali, che costituiscono quella che può essere chiamata buona vita” (OMS, 2007, p. 212). Quindi essa offre un quadro coerente di tutti quegli aspetti legati al ben-essere e che potremmo considerare come le sue componenti imprescindibili. Inoltre, concependolo come qualcosa di generale, globale e multicomponenziale, l’ICF amplia il campo di attenzione a degli aspetti nuovi, che non sono mai stati considerati nei modelli precedenti troppo legati ad una concezione biomedica, quali ad esempio l’educazione (Ghedin, 2014a), l’ambiente ed il lavoro (Canevaro, 2006) lo sport (Visentin, 2016). Considerare tali fattori come degli aspetti integranti il funzionamento della persona implica, nella prospettiva educativa, l’idea di promuovere il progetto di vita, fondamentale per ognuno. Tenendo presente tutto ciò, possiamo evidenziare come la classificazione ICF sia fondamentale per un’educazione inclusiva che si basi su una prospettiva del ben-essere che cerchi di sviluppare la pienezza della vita della persona, permettendo di tenere uniti tutti gli aspetti del suo funzionamento e considerandola nella complessità e nell’unicità della sua intera esistenza (Ghedin, 2014b). Nell’ICF al centro c’è una persona che cerca di attribuire significati a quanto gli accade sulla base di III. Esiti di ricerca
conoscenze condivise con altri (concetto di partecipazione nell’ICF intesa come “il coinvolgimento in una situazione di vita” OMS, 2007, p. 41) e che è attore delle sue trasformazioni (concetto di attività nell’ICF intesa come “l’esecuzione di un compito o un’azione da parte di un individuo” OMS, 2007, p. 41). Considerare le persone come attori sociali vuol dire allora sottolineare che esse non sono singole unità che si limitano a reagire a situazioni problematiche o stressanti, ma persone che agiscono sulla base di scopi e di progetti (Santi, 2004), nell’ambito di sistemi di interazione interpersonale, cooperativa o competitiva in cui sono inseriti (Zani e Cicognani, 1999) e all’interno di ambienti che facilitano questa assunzione di ruolo. Matilde Leonardi (2005) a tal proposito scrive: La nuova classificazione ha il vantaggio di essere uno strumento che consente di classificare il funzionamento di un individuo, nonché gli ostacoli da rimuovere e gli interventi da effettuare. Dunque un sistema “di misura” della disabilità non più legato alla sommatoria di ciò che manca a una persona, ma un’accurata valutazione del funzionamento e dell’ambiente. Un metodo che impone di prendere in considerazione non solo la patologia ma l’intera persona con i suoi problemi e le sue capacità e l’ambiente in cui vive (p. 85).
Quindi spostando l’attenzione da ciò che determina una condizione di disabilità nella persona, al suo funzionamento positivo, su come vive la propria dimensione di salute e su ciò che può essere promosso per migliorarla significa guardare alla persona in ottica dinamica, come capace di continui cambiamenti di cui essa stessa è protagonista ed in tal senso “l’ICF fornisce gli strumenti per poter monitorare le prestazioni, tenendo conto del gradimento dei beneficiari. Non considerandoli cittadini-consumatori ma attivi e consultati nella loro cittadinanza” (Canevaro, 2001, p. 6). Lo spostamento di attenzione verso la valorizzazione della dimensione positiva della vita degli individui, e quindi il ben-essere piuttosto che il mal-essere, può ricoprire maggiore importanza di quanto non sembri. Il ben-essere offre un’aspirazione inclusiva, in quanto mette d’accordo tutti, e offre la possibilità per impegnarsi verso un obiettivo positivo comune che non crea discriminazioni. “I nuovi termini vengono anche percepiti come meno stigmatizzanti per le persone disabili, riducendo gli atteggiamenti negativi e di rifiuto della gente verso i disabili in generale e verso le persone con disabilità psichiatrica in particolare. I concetti positivi utilizzati nella nuova terminologia si adattano agli scopi degli interventi di sensibilizzazione e informazione dell’opinione pubblica che possono ulteriormente ridurre lo stigma nella società” (Liberman, 2012, p. 7). Questo sistema che ha a cuore il ben-essere delle persone e che si interessa al funzionamento di ognuno pone “l’accento su ciò che noi abbiamo in comune, come esseri umani, come persone, come cittadini, rende più facile il rispetto reciproco e l’adattamento alle situazioni che ci rendono diversi” (Leonardi, 2005, p. 76). Sembra essere giunto il momento di porre l’accento sugli atteggiamenti positivi di ciascuno di noi, in questo senso abbiamo cioè bisogno di contagi e di mettere in circolazione “cose positive”1. Valorizzare i funziona1
A. Canevaro, Relazione introduttiva Summer School Sipes, Settembre 2016.
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ELISAbETTA GhEDIN
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menti (in termini di beings and doings a cui ciascuno di noi da valore) potrebbe portare ad individuare positive dimensioni di ben-essere che permettono a ciascuno di noi di fiorire e prosperare (ICF-CY, 2007; Pollard, Lee, 2003).
2. La Biodanza come proposta inclusiva
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A tal proposito ben si inserisce il discorso sulla biodanza-sistema Rolando Toro, intesa come sistema per l’integrazione e lo sviluppo dei potenziali umani, “danza della vita”, attraverso una pedagogia a mediazione corporea. La biodanza ha origine nel 1960 grazie all’opera di Rolando Toro, psicologo e antropologo cileno ma anche poeta e pittore, che si è ispirato a molteplici aree del sapere per elaborare tale sistema. È a partire da una riflessione sull’umanità e sulla realtà storica generale che ha inizio il suo lavoro, quando, nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale, con la tragedia dell’Olocausto e delle bombe atomiche si è mostrato un livello di disumanità che fino allora era considerato del tutto inimmaginabile. Rolando Toro soffrì profondamente per queste atrocità, non capacitandosi di come fosse possibile che l’uomo stesso, il quale nell’ultimo secolo aveva compiuto grandi progressi sia da un punto di vista culturale che civile, avesse potuto dar origine a tali eventi distruttivi; tuttavia si rese conto di non poter guardare la vita solo attraverso queste malvagità, poiché contemporaneamente percepì nell’intimo di aver sperimentato la bellezza più assoluta nel corso delle sua esistenza, grazie alle realtà dell’amore, della famiglia, del vincolo con la natura e con il mondo che lo circondavano. Mosso da queste emozioni contraddittorie che provava dentro di sé decise di creare una nuova prospettiva che recuperasse il significato più profondo dell’esistenza. “biodanza”, dove il prefisso bios derivante dal greco significa “vita” e danza “movimento emozionato” può essere tradotta come “la danza della vita”. “Danzare la vita” significa “riscattare il valore intrinseco dell’esistenza, espresso nell’unicità di ogni momento vissuto” (Toro, 1997, p. 10), risvegliare quella vitalità che è intrinsecamente presente in ogni gesto naturale dell’uomo, fare esperienza in modo diretto di tutto ciò che è esistente, sensibilizzare alla vita che è presente in sé, nell’altro ed in ogni elemento della natura. Ciò può essere sperimentato con un sistema pedagogico, la biodanza, che pone al centro il corpo ed il movimento e la relazione con l’altro come espressione di vita. A tal proposito R. Toro scrive: ho ideato una metodologia finalizzata allo sviluppo di un processo evolutivo di trasformazione affettiva: la biodanza, con la quale propongo una forma di rinascita, un’educazione che abbia, come riferimento di base la vita, e che ci dia accesso alla felicità; una sociologia dell’amore.
La danza della vita si rifà al significato originario che tale pratica assumeva all’interno dei popoli primitivi, dove veniva utilizzata come modalità comunicativa 2
Si ringrazia la dott.ssa Giovanna benatti, direttore della Scuola di biodanza Vicenza Centro Gaja, per i preziosi suggerimenti nella stesura del paragrafo.
III. Esiti di ricerca
che però è lentamente scomparsa con il processo di civilizzazione. Rolando Toro, rifacendosi alle origini, promuove una danza concepita come una realtà olistica, nella quale viene coniugato l’aspetto corporeo, emotivo, sociale, intellettuale e spirituale dell’uomo. La danza “costituisce l’unità dell’uomo e del suo ambiente, dell’individuo e del suo gruppo, del corpo e dello spirito” (Garaudy, 1985, p. 19). Garaudy la ritiene un’esperienza intensa e per tale ragione non concettualizzabile attraverso la parola, che crea un’idea dell’individuo completamente nuova poiché non viene più immaginato come un essere chiuso in sé, ma diviene solidale con il tutto; il soggetto sente il movimento all’interno di sé, crea una comunità con gli altri uomini e percepisce con forza il mondo che lo circonda. La biodanza viene concepita dall’ideatore come un vero e proprio modo di vivere, che utilizza la danza coniugata alla musica, come metodo, per far sì che la persona attraverso il movimento possa vivere completamente l’attimo presente recuperando la dimensione più ampia dell’esistenza. Rolando Toro ha lavorato per cinquant’anni cercando di elaborare quello che può essere definito un nuovo modo di vivere, che offra la “possibilità per l’essere umano di ritrovare in se stesso il proprio valore, di recuperare la capacità di stabilire legami affettivi profondi, seguire i propri istinti innati, integrandoli in modo coerente nel proprio stile di vita e, in questo modo, riqualificare il tempo che si vive” (Toro, 1997, p. 7). Una caratteristica fondamentale del sistema biodanza è rappresentata dall’universalità, in quanto è un metodo educativo che ha un’applicazione eterogenea e trasversale. Fin dalle origini ci si è resi conto, come tale pratica, promuovendo l’espressione di sé e la relazione con l’altro, potesse portare degli importanti benefici a diversi gruppi di soggetti; per tale ragione può essere promossa sia come pratica educativa, con gruppi di bambini e adolescenti, o di adulti ed anziani, sia con “gruppi specifici” come ad esempio famiglie, medici, operatori sociali. L’innovazione principale della biodanza è data dal fatto di fondare il proprio sistema sul “Principio biocentrico”, e sulla diversità e differenza considerati come valore biologico indispensabile per assicurare l’evoluzione della specie che consiste nel porre al centro la vita, come nucleo centrale di ogni azione che viene promossa. La “danza della vita” permette alla persona di essere completamente consapevole di se stessa, vivendo pienamente ogni gesto; ma la dimensione corporea rappresenta anche quel mezzo attraverso il quale viene stabilito un legame con le altre persone e che ci definisce come esseri di relazione che tendono verso l’altro3. Il sistema biodanza si fonda sulla realtà dell’incontro, e sul fatto che l’iden-
3
Grazie anche alle neuroscienze, alle scoperte relative al funzionamento dei neuroni specchio e agli studi sullo sviluppo infantile (Trevarthen,1993), si è fatta strada l’idea della intercorporeità come prima forma di intersoggettività, come forma di conoscenza preverbale implicita e costitutiva dell’identità umana. “Prima e al di sotto della lettura della mente metarappresentazionale si trova l’intercorporeità – la reciproca risonanza di comportamenti sensoriali-motori intenzionalmente significativi – quale principale fonte di conoscenza diretta degli altri”. “Non è possibile concepire se stessi come un Sé, senza radicare questo processo di valutazione in una fase precedente in cui prevale la condivisione. Anche nella maturità un sistema multiplo di condivisione dell’intersoggettività, rafforza, sostiene e consente le nostre operazioni sociali”. V. Gallese (2009), “The two sides of mimesis. Girard’s Mimetic Theory, embodied simulation and social identification”, Journal of Consciousness Studies, 16, (4), 2009, pp. 21-44(24).
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tità personale, oltre che alla musica, è permeabile alla relazione con l’altro. A tal proposito Rolando Toro (1997) afferma infatti: Ci connettiamo con la Vita quando ci connettiamo con l’altro, quando ci sentiamo capaci di profonda empatia, al punto che due esseri ne formano uno soltanto, universale; il flusso e riflusso dell’energia vitale si stabilisce, gli sguardi si accendono nella passione degli occhi dell’altro, il contatto si intensifica, in uno stato di sincronizzazione totale, di eutonia, di fluidità e di ritmo unificatore.
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Potremmo quindi dire che “l’integrazione affettiva con l’altro da una parte facilita e intensifica la percezione di sé, dall’altra stimola il rispetto per chi si ha davanti. É possibile che due sconosciuti, realizzando l’incontro in una sessione di biodanza, si risveglino ad un’esperienza nuova in cui l’estraneo si trasforma in un simile” (Toro, 2013, p. 141). Questo ci permette di affermare che la biodanza favorisce lo sviluppo di un atteggiamento di accettazione incondizionata nei confronti delle altre persone, indipendentemente dal sesso, etnia di appartenenza e condizione di salute, combattendo quindi il generarsi di comportamenti discriminatori e di pregiudizi. Risulta opportuno precisare che tale sistema si colloca nel più ampio panorama delle scienze umane, proponendosi come una prospettiva educativa, che vuole promuovere il valore umano di ciascuno, rappresentando, in tal senso, una realtà inclusiva per tutte quelle persone che si trovano in una condizione di difficoltà, ma non solo. Tale realtà inclusiva può essere intesa in termini di autentica opportunità di scelta e di iniziativa di ognuno e insieme a tutti nel contesto. Offrire un modello di contesto inclusivo collegato a libertà e sviluppo prevede di immaginare una comunità aperta, dove essere inclusi non è un semplice “stare dentro”, ed essere esclusi un semplice “stare fuori”. Sembra piuttosto un voler/poter essere dentro sempre ridiscusso e condiviso, contrapposto ad un restare fuori dogmatico e subíto (Santi, Ghedin, 2012, p. 102). L’ambiente inclusivo si preoccupa di favorire la partecipazione di ciascuno e come sostiene Marisa Pavone (2010), attribuisce valore all’individuo, lo riconosce nella propria unicità, lo accoglie e lo avvolge, affinchè egli possa sentirsi totalmente appartenente alla comunità, apportando a questa il proprio contributo, grazie ai suoi talenti e alle risorse personali (Pavone, 2010, p. 142). La biodanza può essere intesa come una realtà inclusiva e positiva di questo tipo, poiché si fonda sulla convinzione che la partecipazione di ogni singolo componente del gruppo che si viene a costituire per danzare insieme, rappresenti un arricchimento per tutti gli altri. Sulla base di queste premesse le domande di ricerca che ci hanno guidato nella riflessione sono: può la biodanza essere considerata una pratica inclusiva e promotrice di un ben-essere globale per le persone con disabilità? Quali sono i facilitatori (mediatori) ambientali che ci orientano in questo percorso?
III. Esiti di ricerca
3. Metodo
4
La ricerca vede la partecipazione di diversi professionisti5: ricercatori, psicologi e psicoterapeuti, operatori di biodanza, che si propongono di evidenziare il valore della biodanza nella promozione del ben-essere personale e sociale; l’obiettivo è quello di individuare gli esiti della biodanza clinica nella salute mentale, utilizzando la mediazione della classificazione ICF (International Classification of Functioning, Disabilty and health). Qui l’ICF viene utilizzato per il suo valore di “ordinatore concettuale” come metodo di condivisione della conoscenza, un linguaggio comune per sostenere azioni concrete. Attraverso il lavoro di osservazione ed analisi delle registrazioni video degli incontri di biodanza del gruppo “Davide e Golia” di Vicenza e di Malo (Vi) si è cercato di cogliere il valore inclusivo della biodanza e il suo contributo a favorire il ben-essere delle persone coinvolte. Partendo dal congiungimento dei principi della biodanza con il sistema di classificazione del funzionamento ICF si è cercato di procedere con un’osservazione il più possibile accurata che permettesse di descrivere e di comprendere pienamente la realtà educativa della biodanza. La ricerca si è sviluppata in tre fasi:
1. discussione del gruppo di ricerca con l’obiettivo di costruire un repertorio (di essere e fare) di osservazione che veda fondersi i principi biocentrici su cui si basa la biodanza e le dimensioni dell’ICF (tab. 1)6; 2. videoregistrazione e analisi delle sessioni di biodanza attraverso il repertorio individuato; 3. analisi dei dialoghi avvenuti nelle sessioni di biodanza (ogni sessione aveva inizio con una vivencia di parola)7. 4 5
6 7
Cristina Lorenzin laureata in Scienze umane e pedagogiche, Dipartimento FISPPA; Università degli Studi di Padova, ha osservato, analizzato e codificato i video che sono stati registrati durante alcuni degli incontri di biodanza del gruppo “Davide e Golia” di Vicenza, realizzati tra settembre e novembre del 2014. Il gruppo di ricerca è costituito da: Elisabetta Ghedin, ricercatrice del Dipartimento FISSPA dell’Università degli Studi di Padova; Giovanna benatti, direttore della Scuola di biodanza Vicenza Centro Gaja; Stefano La Mela, coordinatore della Scuola di biodanza Vicenza e Resp. area clinica presso il Centro Gaja di Vicenza; Andrea Spolaor, psicologo e psicoterapeuta, coordinatore dei gruppi di auto-mutuo aiuto del “Davide Golia”; Claudia Corsini, psicologo e psicoterapeuta, responsabile di uno dei gruppi di auto-mutuo aiuto del “Davide e Golia”; Roberta Rosa, ricercatrice dell’Università degli Studi di Napoli, Dipartimento di Scienze Motorie e del benessere. In particolare è opportuno precisare che si è deciso di utilizzare l’ICF-CY, cioè la versione per bambini ed adolescenti, in quanto questa è stata realizzata aggiungendo e modificando alcuni codici preesistenti nell’ICF, quindi rappresenta una classificazione più dettagliata e precisa, tanto che i codici modificati sono poi stati integrati nel processo di aggiornamento dell’ICF. Così viene definito dalla biodanza quel momento iniziale durante il quale ogni singolo soggetto partecipante aveva la possibilità di presentarsi ai compagni e successivamente di rivolgersi a loro esprimendosi nella piena libertà, parlando delle proprie emozioni, dello stato d’animo provato in quella determinata circostanza, oppure di qualsiasi aspetto della sua vita che decideva di condividere con gli altri). I facilitatori introducevano la tematica che avrebbe guidato le danze durante quel determinato incontro ed in generale con le loro parole cercavano di incoraggiare le persone all’autodeterminazione e ad assumere un atteggiamento positivo ed attivo nei confronti della propria vita.
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Tab. 1: Le dimensioni del Protocollo di Biodanza e la loro relazione con i codici dellâ&#x20AC;&#x2122;ICF
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La categorizzazione qualitativa corrisponde ai seguenti valori: 100% - tutti; 99% - 75% la maggior parte; 74% - 50% abbastanza; 49% - 25% pochi; 24% - 0% quasi nessuno/ nessuno.
III. Esiti di ricerca
4. Persone coinvolte e strumenti utilizzati
Quando ci riferiamo alle persone coinvolte intendiamo indicare tutte quelle che hanno preso parte agli incontri di biodanza del gruppo “Davide e Golia” di Vicenza e Malo (Vi)9. Ciascuno dei partecipanti offre un contributo fondamentale, la peculiarità di tale realtà consiste proprio nella sua eterogeneità, che ne rappresenta il suo punto di forza; vengono, infatti, integrate al suo interno persone con caratteristiche differenti e tale diversità viene concepita come una ricchezza che contribuisce al miglioramento del gruppo stesso10. Il cuore del gruppo, su cui si è concentrata la ricerca, è rappresentato da persone con disabilità che prendono parte agli incontri. Sono persone che presentano disturbi mentali di diversa natura e gravità che scelgono volontariamente di partecipare all’attività di biodanza. Nelle registrazioni si è potuto osservare il comportamento di circa 40 persone, tra uomini e donne di età compresa tra i 22 anni e i 65 anni. Alcuni di essi frequentano tali incontri da molti anni, un paio addirittura dal momento della fondazione di tale gruppo di biodanza, altri invece hanno iniziato solamente in tempi più recenti. Il repertorio individuato ha costituito l’esito di un dialogo tra diversi professionisti spinti dall’intento di creare un legame tra principi biocentrici della biodanza e dimensioni e codici di ICF (tab. 1). Il repertorio ha rappresentato lo strumento strutturato costruito per “leggere” una specifica realtà educativa caratterizzata dalla presenza di un gruppo di persone.
5. Risultati
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Si procede ora con il riportare i risultati, ottenuti dall’osservazione delle registrazioni degli incontri, suddivisi sulla base del principio della biodanza di riferimento. Le categorie sono state raggruppate in riferimento ad una serie di dimensioni significative: ritmo; potenza, controllo volontario, resistenza, coordinazione, equi9
Il Davide & Golia nasce a Vicenza nella primavera del 1998 dall’attività di un gruppo di volontari della Caritas Diocesana Vicentina assieme ad un’équipe di operatori impegnati nel sostegno di persone con malattia mentale. L’obiettivo è stato sin da subito quello di promuovere l’automutuo aiuto in ambito psichiatrico proponendo nello specifico una serie di attività per migliorare il ben-essere attraverso le relazioni (“fare assieme”), la condivisione di interessi comuni, la fiducia, l’amicizia. Nei 17 anni di attività di biodanza, il lavoro di confronto e supervisione che ne è scaturito tra gli insegnanti dell’Associazione Gaja con in primis la sua Direttrice, la dott. ssa Giovanna benatti e il responsabile del Davide & Golia, dott. Andrea Spolaor assieme ai suoi collaboratori, hanno portato allo sviluppo di un modello specifico di biodanza che è stato denominato successivamente “biodanza clinica”. Dopo una sua prima applicazione in contesti psichiatrici, si è sviluppata in altre realtà come la disabilità psico-fisica e la tossicodipendenza, con una diffusione che ad oggi è internazionale. 10 Gli incontri prevedono solitamente la presenza di due facilitatori, nello specifico un operatore di biodanza ed uno psicologo e psicoterapeuta che hanno il compito di introdurre le attività sia attraverso le parole che con l’esempio, di coinvolgere i partecipanti, di farli riflettere sull’importanza di tali danze, di incoraggiarli ad assumere un comportamento positivo e quindi di affiancarsi al loro percorso personale di crescita, fornendo loro supporto (scaffolding, bruner, 1997) in ogni momento.
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librio, sinergismo, elasticità, estensione, agilità, leggerezza, flessibilità, fluidità, espressione (come si può notare in tab. 1). Per quanto riguarda il Ritmo emerge, innanzitutto, la consapevolezza che ogni persona coinvolta ha della propria identità e del proprio corpo (b1644), degli altri partecipanti dei quali ne riconosce l’identità (b11421) e dello spazio in cui si trova; infatti quasi nessuno dimostra di avere delle difficoltà ad orientarsi (b1144). Tutti sembrano capaci di sviluppare, mantenere e gestire le relazioni con gli altri partecipanti, riuscendo, in tal senso, a dare un ritmo ai propri comportamenti, a gestire gli stati d’animo, le emozioni, gli impulsi, agendo secondo le convenzioni sociali (d7202, che riguarda appunto la capacità di saper regolare i comportamenti nelle interazioni), non manifestando comportamenti aggressivi o stravaganti (d720). Inoltre dai dati emersi si evidenzia la capacità, di tutte le persone con disabilità, di riuscire a mantenere una distanza sociale contestualmente e socialmente adeguata durante le sessioni di biodanza (d7204). Per quanto riguarda l’indipendenza nelle interazioni sociali (d7203) non è stato riportato come risultato complessivo la totalità, ma “la maggior parte”, poiché durante le sessioni svolte si è rilevato il bisogno di alcune persone di essere stimolate e incoraggiate a stabilire delle relazioni con gli altri, tendendo ad assumere in mancanza di tale sostegno degli atteggiamenti di chiusura. Nel riferirci alle interazioni interpersonali dobbiamo evidenziare come queste comprendano sia una componente verbale che una non verbale. Per quanto riguarda il linguaggio verbale (d330) si può notare come poco più della metà delle persone con disabilità partecipanti agli incontri riesca ad esprimersi in modo fluido e regolare; dall’osservazione delle registrazioni si nota, infatti, la tendenza di alcuni a parlare piuttosto lentamente e di altri al contrario, di esprimersi in modo così rapido da non riuscire a controllare pienamente ciò che viene detto. bisogna, inoltre, sottolineare la presenza di una persona nel gruppo che non si esprime mai attraverso l’utilizzo del linguaggio verbale, preferendo altre modalità di espressione. Tuttavia, si può sostenere che la maggior parte dei partecipanti agli incontri di biodanza, riesce ad esplicitare il proprio pensiero con coerenza e logica (b160) e ciò risulta chiaramente evidente ascoltando i dialoghi durante la vivencia di parola iniziale; solo pochi, infatti, dimostrano delle difficoltà nel controllo del proprio pensiero, intervenendo con pensieri casuali e a sproposito. Queste è frutto della capacità della maggioranza di focalizzare l’attenzione in un determinato momento su uno stimolo specifico (d160). È significativo l’alto livello di concentrazione che si può notare quando all’inizio dell’incontro i membri del gruppo si siedono in cerchio ed esprimono i propri pensieri. Tale attenzione è presente anche nei momenti in cui il facilitatore spiega e mostra con il proprio esempio le attività. Inoltre in presenza di qualche stimolo distraente la maggior parte riesce comunque a rimanere focalizzata sull’attività in corso di esecuzione. Ugualmente soprattutto dall’osservazione delle attività svolte a coppie o in piccoli gruppi è possibile notare come molte di queste persone con difficoltà riescano a condividere l’attenzione (b1403), ad esempio focalizzando congiuntamente lo sguardo su un determinato stimolo esterno o svolgendo insieme un’azione per giungere ad un risultato. Per quanto riguarda il linguaggio non verbale, durante le danze la parola scompare lasciando posto solamente alla musica e alla libera espressione corporea. Si è ritenuto quindi fondamentale concentrarsi sull’osservazione di tutti quei gesti, quelle espressioni, quei movimenti che seppur difficili III. Esiti di ricerca
da rilevare permettono alle persone di entrare in Sinergia con altri ad esempio incontrando il passo dell’altro. È particolarmente importante evidenziare che la maggior parte delle persone con disabilità interagisce con gli altri attraverso il linguaggio del corpo, riuscendo anche a comprendere i gesti comunicativi utilizzati da questi (d3150). Gli abbracci, i sorrisi, i cenni con il capo, le braccia aperte per accogliere le altre persone sono tutte modalità che vengono messe in atto dalla maggior parte dei partecipanti per incontrarsi e interagire reciprocamente e che ci dimostrano la capacità delle persone con disabilità di produrre gesti con il corpo per comunicare dei messaggi (d3350). Durante gli incontri di biodanza, le persone coinvolte cercano di stabilire, attraverso modalità differenti, delle relazioni tra loro, ecco perché si fa riferimento al costrutto dell’Estensione inteso come possibilità di ritrovarsi nell’altro. Dall’analisi delle registrazioni è emerso come solo poco più della metà delle persone in situazione di disabilità dimostri un atteggiamento estroverso, espansivo e socievole; negli altri è possibile notare, invece, la prevalenza di timidezza e riservatezza negli atteggiamenti (b1260). Ugualmente si può notare un risultato simile, anche se con una percentuale leggermente più alta, per quanto riguarda l’apertura all’esperienza, la curiosità, la fantasia ed il desiderio di sapere, intesa come Agilità, mentre in alcuni è presente una certa passività e un alto livello di distrazione (b1264). Un aspetto estremamente significativo, è legato al fatto che nella maggior parte dei partecipanti si riscontra uno stile personale amichevole, cooperativo ed accomodante (b1261) e la prevalenza, durante gli incontri di biodanza, di uno stato d’animo sereno e positivo (b1265). Le persone che partecipano alle sessioni di biodanza sono in grado di relazionarsi con gli altri membri del gruppo con una certa serenità, ciascuno in modo differente e personale; c’è chi accoglie gli altri in modo estroverso, avvicinandosi e cercando di stabilire in tutti i modi un contatto, chi invece essendo molto più timido ed insicuro aspetta che siano gli altri a prendere l’iniziativa ma poi li accoglie con un abbraccio. In merito alla Leggerezza, intesa come capacità di offrire fiducia e responsività; essere capaci di regolare i comportamenti nelle interazioni e di guardare intenzionalmente l’altro, il numero di persone che dimostrano una certa sicurezza in sé (b1266) è circa la metà. Questo dato globale ci fa riflettere sulla possibile mancanza di coraggio e la prevalenza di una certa dose di insicurezza nei partecipanti. bisogna inoltre precisare che l’insicurezza e la timidezza riscontrate non si traducono mai in una totale mancanza di azione da parte dei componenti del gruppo. La maggior parte dei partecipanti dimostra una certa disposizione ad agire con energia, anche se non deve essere tralasciato il fatto che talvolta alcuni risultino piuttosto passivi lasciandosi guidare nei movimenti dagli altri soggetti con cui danzano in coppia o nei piccoli gruppi (b1252). Questo dato viene confermato in riferimento alla Potenza intesa come livello di energia e capacità di resistenza (b1300), motivazione e incentivo ad agire (b1301) e propositività, quindi disposizione ad agire in modo intraprendente (b1255). Circa il 35% delle persone tende infatti ad agire soprattutto quando è guidata dagli altri, incoraggiata e sostenuta durante l’azione stessa. Tuttavia questo non deve mettere in ombra il fatto che una percentuale molto più elevata di partecipanti, dimostra, invece, di agire perchè sostenuta da una forte energia, motivazione e volontà che si traduce in un comportamento positivo ed intraprendente nelle varie attività (d710) inteso come Coordinazione in relazione ad un contesto che valorizza anno IV | n. 2 | 2016
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queste interazioni. Un altro aspetto che riguarda l’azione, e che si collega all’Eutonia, è l’elevata capacità da parte di quasi tutte le persone di riprodurre quanto mostrato dai facilitatori e di copiare (“intesa come componente basilare dell’apprendere…” ICF-CY, p. 137) i movimenti assunti dai compagni (d130) . Il Controllo volontario che valorizza il funzionamento psicomotorio, sottolinea come la maggior parte delle persone dimostri di saper controllare gli eventi psicologici e motori a livello del corpo (b147). Si è cercato anche di rilevare il grado di decisionalità dei partecipanti e ritenendo l’esecuzione di qualsiasi atteggiamento (ad esempio parlare, sedersi, muoversi, interagire con gli altri) come il frutto della messa in atto di una scelta, si è visto che la totalità delle persone in condizioni di disabilità è capace e compie numerose decisioni durante gli incontri di biodanza (d177). La biodanza incoraggia ciascun individuo, considerato unico per le proprie peculiarità, a diventare protagonista della propria esistenza, e le persone con disabilità rispondono tutte a questo invito positivamente, dimostrando per la maggior parte di essere capaci di intraprendere delle decisioni e di assumere dei comportamenti autonomi. Inoltre, è emerso che, la maggior parte delle persone dimostra di essere in grado di una buona flessibilità cognitiva (b1643), capacità di organizzazione e pianificazione delle azioni (b1641), e capacità di espressione di giudizi (b1645). Dalle registrazioni emerge, la presenza da parte di alcuni di difficoltà dovute ad un’alterazione della rapidità dei movimenti, per cui tra questi c’è chi si muove molto lentamente e presentando una certa rigidità (rallentamento che si riscontra anche nel linguaggio, come indicato sopra), inoltre uno di essi talvolta dimostra un’attività motoria eccessiva (b1470). In termini di Flessibilità, una netta maggioranza dimostra di essere estremamente competente in tutte quelle azioni che implicano una buona motricità delle braccia e delle mani, come nel manipolare (d4402) cambiare posizione corporea, assumendone di differenti, alzandosi, sedendosi, sdraiandosi quando necessario (d410). Per quanto riguarda la capacità di mantenere l’attenzione per un periodo lungo di tempo (d161) e di rifocalizzarla su uno stimolo diverso qualora necessario (b1401), è emerso che più della metà delle persone con disabilità partecipanti ci riesce, ma c’è anche un numero abbastanza consistente di questi che faticano a rimanere concentrati e tendono a distrarsi dopo un breve periodo in cui stanno svolgendo un determinato compito. Dimostrano anche un certo grado di Creatività in modo da sporgersi verso l’esterno per raggiungere qualcosa (d4452), spostare il baricentro del corpo, adattando o muovendo il peso, da una posizione ad un’altra (d4106). Un ulteriore aspetto che emerge con chiarezza, da una visione globale delle registrazioni, riguarda la tendenza della maggior parte a prestare il proprio aiuto agli altri attraverso diverse modalità (d6601, d130, d6603). Il facilitatore stesso, nel suo ruolo di supporto, cerca di motivare i membri a non assumere un atteggiamento di chiusura nei confronti degli altri ma ad aprirsi a loro, in modo da potersi Esprimere insieme ad essi, come possiamo comprendere da tali parole: “è bene che il gruppo si integri; integrazione vuol dire anche vederci e vedere gli altri. Perchè se vogliamo aprirci dobbiamo anche vedere gli altri, perchè loro ci consentono anche di vederci e noi consentiamo loro di vedersi. Questo può avvenire solo con l’apertura di ognuno di noi e solo aprendoci ci possiamo dare la possibilità di esprimere vitalità, bellezza, apertura”. Gli stessi partecipanti rivelano l’importanza che assume per loro tale realtà; c’è chi afferma: “sono contenta di III. Esiti di ricerca
essere qua anche quest’anno perchè ritrovo i miei amici e trovo la mia compagnia”; e chi addirittura concepisce il gruppo di biodanza come una sorta di seconda famiglia: “oltre ad una famiglia di sangue ho voi, una famiglia affettiva.”; “non vedevo l’ora di fare Biodanza, speriamo che prosegua anche il prossimo anno perchè qui si sta bene, si trova affetto, si prova gioia, insomma è una bella famiglia”. Tale atteggiamento solidale è riscontrabile attraverso tutti quei piccoli gesti, che alle volte sono difficili da cogliere, ma che evidenziano l’affetto e la cura che i membri del gruppo hanno l’uno per l’altro. Qualora infatti emerga una situazione di difficoltà per qualche membro del gruppo che può consistere in un problema nell’esecuzione di un movimento, nell’espressione del proprio pensiero, o ad esempio in quelle circostanze nelle quali qualcuno rimane in disparte per il proprio carattere introverso, si può notare come la maggior parte dei partecipanti intervenga offrendo sostegno nelle relazioni (3150) nella comunicazione (d3350), e nel movimento (b760). La biodanza, si propone come un’attività che cerca di promuovere la libera espressione di sé e delle proprie emozioni, e questo ben si esprime attraverso il costrutto della Fluidità. Tale dimensione si manifesta attraverso le espressioni del volto, dello sguardo, dei movimenti; la componente emozionale e affettiva emerge anche attraverso il linguaggio non verbale in termini di orientamento rispetto agli altri (b11421) e il fatto che quasi tutti esprimono stati d’animo congruenti alle situazioni (b1520). Inoltre i facilitatori invitano a far sì che tali atteggiamenti non rimangano ristretti all’ambito del gruppo di biodanza, ma li incentivano ad esprimersi in questo modo anche nella realtà quotidiana nella sua interezza. A tal proposito riportiamo le seguenti affermazioni poiché estremamente significative: “quello che riusciamo ad avere qua dentro dobbiamo cercare di portarlo anche fuori, anche se è solo un tocco a una spalla di una persona, ma magari è una cosa che prima non facevi”; “non teniamo Biodanza in questo posto, questo posto è magnifico, è un luogo protetto. Siamo qua, sappiamo tutti cos’è la Biodanza, quindi esprimiamo quello che abbiamo da dire, l’emozione, la felicità, la vitalità […] Abbracciare una persona, essere gentile, dire una parola dolce fuori di qua, ci fa sentire magnifici[...] e anche l’altra persona vedrà la magnificenza”; “mi piacerebbe che la Biodanza la vivessimo anche fuori, che quel che ci piace della Biodanza, che spesso è l’abbraccio, spesso è il bacio, è il guardare una persona e sentirsi guardato, amato, voluto bene, noi riuscissimo a portarlo fuori e viverlo anche fuori. Se no non funziona o meglio funziona qui dentro ma appena usciamo, se addirittura torniamo in brutte case o in brutte situazioni dove non c’è la stessa felicità, l’effetto della Biodanza non solo svanisce ma diventa come un boomerang negativo; tanto siamo stati bene qua, tanto ci accorgiamo di stare male da un’altra parte”. Gli incontri di biodanza rappresentano dei momenti estremamente positivi nella vita di queste persone. Questi ultimi, che vivono spesso nella loro quotidianità momenti di solitudine, situazioni famigliari complesse, disagi legati alla loro condizione deficitaria, come emerge ascoltando le loro parole quando raccontano di se stessi e della loro vita, trovano nella realtà della biodanza un contesto estremamente inclusivo. I seguenti interventi testimoniano questo: “qui mi trovo bene, trovo un angolo di serenità; uno dei pochi angoli di serenità che riesco a trovare.”; “Qui si sta in compagnia, noi qua ci facciamo compagnia perchè la vita è dura”; “Io sono qua e sono felice della Biodanza, perchè vengo qua e in anno IV | n. 2 | 2016
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questo posto mi sento molto felice”; “Sono felice di danzare con voi, con la musica, l’armonia che si crea […]. Aspetto giovedì con gioia.”; “Eppure con tutti i limiti fisici sento molto la danza in profondità, forse perchè mi manca. Ho fatto delle esperienze di danza, addirittura la sento in profondità e la musica è quello che addirittura mi stordisce, ma si traduce in gioia”. In tale ambiente si sentono pienamente accettati, si esprimono liberamente e ciò permette loro di acquisire piena consapevolezza del proprio corpo e della propria identità. L’ambiente, infatti rappresenta una dimensione fondamentale nel promuovere il funzionamento delle persone. Nell’ICF infatti si legge “vivere in un ambiente facilitatore è la condizione essenziale affinchè una persona possa vivere con dignità la propria condizione di persona, malgrado la disabilità”. In questo caso la biodanza, attraverso l’organizzazione e la strutturazione dell’ambiente (musica, danza, dialoghi) è in grado di modellare un ambiente modificante arricchito di ecofattori positivi (benatti et al., 1997) in modo che anch’esso contribuisca ad aumentare la capacità dell’individuo di imparare ad imparare a stare bene. Feuerstein (2005) lo definisce modellamento dell’ambiente in cui si crea una sinergia, una reazione a catena educativa (p. 132). Alle volte viene evidenziato proprio il divario tra il fatto di sentirsi realmente bene in questo ambiente, sereni ed accettati e di non riuscire a provare tali sensazioni anche al di fuori. In relazione alla necessità di ampliare la dimensione relazionale al di fuori del contesto di biodanza c’è chi sostiene di provare ad estendere tale modo di relazionarsi anche nella quotidianità: “Quando son qua trovo calore e vivacità, quando esco quest’empatia penso di darla nella vita di relazione. C’è quest’empatia che, vivacità che abbiamo che viene fuori anche nel quotidiano, ma c’è e sto cercando di tirarla fuori.” e chi spera di riuscire a farlo: “son sempre contento di venire qua perchè c’è un gruppo, ci scambiamo cose buone ecco […] speriamo di riuscirle a portare anche al di fuori”. I dialoghi ci permettono di porre attenzione sul fatto che alcuni partecipanti soffrano per non sentirsi capiti, non venire spesso ascoltati ed apprezzati dalle persone che vivono con loro la quotidianità. Ciò risulta evidente anche dalle seguenti parole: “Mi succede molte volte di esprimere a parole le emozioni e non vengono accolte sto male e non mi sembra di farmi ascoltare. Qua si, ma fuori non mi ascoltano. É possibile che non mi ascoltino perchè non sono una donna che sa lavare, stirare ed essere autonoma? E ancora: Voglio andare a casa e stare bene, io qua mi sento capita ma quando torno a casa mia le cose sono sempre come prima. […] Se potessi buttare via tutte le cose gli darei un calcio”. I facilitatori stessi li invitano a non aver paura a lasciarsi andare completamente ai propri sentimenti; ed i partecipanti lo fanno perchè sentono che ciascuno all’interno di tale ambiente viene accettato incondizionatamente. Il facilitatore, tramite le sue parole contribuisce alla creazione di un contesto inclusivo facendo sì che ciascuno si senta una risorsa importante all’interno della realtà di gruppo che si viene a creare. “Ognuno di noi è facilitatore del gruppo, ognuno è parte importante. Se Biodanza esiste è perchè c’è ognuno”; oppure Trovarsi in un cerchio di Biodanza ci fa sentire proprio questo, noi siamo tutti collegati. Tutti diversi […] però tutti siamo fondamentali e indispensabili e questo lo dobbiamo portare fuori”. Queste frasi con cui il facilitatore si rivolge alle persone che prendono parte alle sessioni di biodanza, hanno il chiaro intento di sottolineare il valore di ognuno, per far sì che ciascuno percepisca sé come un essere unico, quindi si favorisca la maturazione di un’immagine positiva del soggetto nei confronti di se stesso che è fonIII. Esiti di ricerca
damentale soprattutto per il costituirsi di un certo livello di fiducia ed autostima. Non esiste, infatti, nella biodanza un modo ritenuto giusto di esprimersi, di muoversi, di danzare, di emozionarsi, ognuno è completamente libero di esprimere se stesso nella sua pienezza; ed è per tale ragione che durante gli incontri di biodanza vediamo la maggior parte di queste persone con disabilità completamente coinvolte in quello che fanno, emozionate, tranquille e serene. In vista del benessere della persona è importante che questa assuma delle strategie esistenziali attive, che agisca senza timore intervenendo nella realtà, affinchè non sia spettatrice della propria esistenza ma protagonista. Il facilitatore, in tal senso, spiega come molte volte i troppi pensieri blocchino l’azione, invitando i partecipanti a vivere mettendosi in gioco: “la vita ha bisogno anche di impeto, perchè non sia un’azione molle ma determinata e concreta per far sì di andare nella vita come è giusto che sia. Nel senso che possiamo darci la possibilità di vivere e di andare avanti assumendo quello che è il nostro sentire perchè molte volte ci perdiamo nel pensiero. Non agiamo perchè pensiamo troppo. […] Viviamo di più.” Con la biodanza Rolando Toro ha cercato di ideare un vero e proprio modo di vivere, in cui venisse recuperato il valore dei gesti, si risvegliasse la sensibilità addormentata, affinchè ciascuno fosse realmente presente nel mondo, ritrovando il piacere di incontrarsi, guardarsi ed emozionarsi. Questa vitalità promossa dalla biodanza emerge con chiarezza da tali parole estremamente significative: “Volevo dire che dopo tanti anni di lavoro mi trovo in pensione, la vita può essere cattiva, mille sfaccettature di cattiva, ma può anche sorprendere. Io ho trovato questa situazione, la musica diventa realtà, diventa danza; dopo quarant’anni di lavoro che sei indifferente a tutto, non sei né contento, né scontento mi sorprende che ci sia un posto dove sono veramente sereno e vivo. Mi sorprendo ogni volta che vengo qua di essere contento”.
6. Discussione
La biodanza sembra essere in grado di promuovere realmente lo sviluppo della persona nella sua interezza considerando la dimensione corporea, l’attività e la partecipazione, e tale approccio olistico non può che favorire il funzionamento della persona. Da un punto di vista corporeo, le informazioni che abbiamo ricavato ci permettono di affermare che tale attività favorisce il controllo che essi esercitano sul proprio corpo, la mobilità delle articolazioni e la fluidità. Da un’osservazione attenta si può notare, che se talvolta all’ inizio delle sessioni di biodanza le persone tendono a muoversi poco, a lasciarsi guidare dagli altri, a non prendere l’iniziativa, successivamente, è riscontrabile un cambiamento da parte di molti, che sembrano molto meno rigidi, più agili nelle movenze ed energici. Il corpo è anche un potente mezzo di comunicazione che le persone dimostrano di utilizzare per entrare in relazione con gli altri; è in tal senso evidente il piacere di incontrarsi, a dimostrazione di ciò il fatto che non rimangono mai per conto proprio, tendono sempre ad avvicinarsi, ad essere solidali e a cooperare tra loro, creando un gruppo estremamente unito, e questo li fa stare estremamente bene. Inoltre grazie alle attività sensoriali, corporee, alle interazioni che si vengono a creare, le persone sperimentano nel contesto della biodanza moltissime emo-
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zioni e stati d’animo che si sentono liberi di esprimere. Esse riscoprono la propria unicità, ed in questo modo sperimentano la gioia di esistere, che diventa in tale contesto contagiosa, ritrovando il piacere legato al corpo, alla capacità di emozionarsi e di entrare in relazione con l’altro con il quale durante la danza si viene a stabilire un legame affettivo ed empatico significativo, tanto che si parla di biodanza come poetica dell’incontro. Quindi i partecipanti percepiscono la propria individualità e al contempo la similitudine con gli altri, non percependosi come “diversi” ma come appartenenti ad un gruppo. L’ambiente facilitante della biodanza, permette di superare quelle barriere che ostacolano la partecipazione di coloro i quali vivono delle situazioni di disagio; durante le sessioni è assente qualsiasi giudizio e le persone vengono motivate ad esprimersi, a mettersi in gioco pienamente, senza nessun timore. Quindi la “la danza della vita” corrisponde a quell’idea di realtà inclusiva delineata da Roberto Medeghini, cioè una comunità aperta, democratica nella quale si riconosce e si risponde alla diversità e al diritto di essere se stessi (Medeghini, 2011, p. 62). In conclusione potremmo evidenziare il potenziale estremamente positivo della biodanza; essa, creando un ambiente inclusivo in cui la differenza non viene vista in modo negativo ma al contrario come una ricchezza, in cui non ci si focalizza sulla parte malata delle persone con disabilità, ma si cercano di sviluppare le risorse e le potenzialità presenti in ciascuno, promuove quel ben-essere soggettivo e sociale che se presenti congiuntamente fanno sì che la persona possa aspirare alla felicità nella sua completezza. Da tale ricerca è emersa l’efficacia della biodanza sulla regolazione del proprio comportamento, sulla gestione dello stress, sulla promozione di un certo grado di serenità, ottimismo, autonomia, sulla padronanza dell’ambiente in cui si trova, sull’adozione di azioni autonome, e sull’instaurare relazioni positive con gli altri (Stuek e Villegas, 2012, Gianelli et al., 2014). Rendere partecipi le famiglie delle persone con disabilità che prendono parte alle sessioni di biodanza, così come i servizi che hanno cura di loro, o avvalersi del contributo dei facilitatori sarebbe stato sicuramente positivo poiché avrebbe permesso di avere a disposizione più risorse ed informazioni. I dati che sono stati ricavati grazie alla ricerca condotta, rappresentano sicuramente degli elementi importanti che ci permettono di evidenziare gli aspetti positivi che emergono durante le sessioni di biodanza ed il senso di ben-essere che effettivamente le persone provano all’interno di questa realtà inclusiva che si viene a creare; tuttavia non rendono possibile una generalizzazione dei risultati ottenuti ad altri contesti, ed in questa direzione il contributo offerto dalle famiglie, dai facilitatori e dai servizi si rivelerebbe fondamentale. In particolare, ad esempio gli sviluppi futuri della ricerca potrebbero orientarsi a coinvolgere i componenti della realtà famigliare o i servizi che hanno cura delle persone in condizione di disabilità. In questo modo si potrebbe approfondire se questo stare bene, evidente durante gli incontri di biodanza, continuasse anche nella realtà esterna, in modo da stabilire se con tale pratica vi possano essere dei cambiamenti e miglioramenti nella quotidianità dei partecipanti. Il sistema biodanza crea i prerequisiti per raggiungere il ben-essere poiché rafforza l’autostima del soggetto che viene stimolato a tirar fuori le proprie risorse e potenzialità, favorisce le strategie di coping, cioè quelle strategie mentali che servono per affrontare le situazioni problematiche, riuscendo a gestire lo stress III. Esiti di ricerca
ad esse correlate in modo positivo. Incoraggia inoltre le persone con disabilità ad assumere un atteggiamento attivo nei confronti della propria vita, affinchè i progressi che vengono raggiunti durante gli incontri di biodanza, quali il miglioramento delle relazioni sociali, lo sviluppo di un senso di identità, di appartenenza e di un certo grado di serenità, non rimangano eventi sporadici che si realizzano solamente nel corso della sessione, ma l’obiettivo è far sì che tali progressi vengano estesi alla vita quotidiana. La biodanza rappresenta per i partecipanti un momento di gioia, di serenità, poiché si viene a creare un contesto all’interno del quale ciascuno si sente considerato e valorizzato, in cui ognuno può esprimersi, emozionarsi, muoversi liberamente, acquisendo così piena consapevolezza di sé; inoltre durante tali incontri le persone con disabilità sviluppano relazioni con gli altri e si viene a costituire in questo modo una realtà di gruppo, considerata da molti dei partecipanti come una seconda famiglia. L’indagine che è stata condotta, dovrebbe essere approfondita per permetterne una generalizzazione dei risultati ad altri contesti, tuttavia già grazie alle informazioni raccolte si può concepire il sistema biodanza come un ambiente inclusivo, poiché pone attenzione alla qualità della presenza di ogni soggetto in tale realtà. Questo ci dimostra come debbano essere messi in atto percorsi educativi che coinvolgano la piena partecipazione della persona con disabilità, poiché promuovere un’educazione che concepisca il ben-essere come un obiettivo fondamentale significa porre al centro la persona nella sua globalità e specificità, non considerandola per la condizione di disabilità che si trova a vivere, ma riconoscendola come capace di autodeterminarsi e come soggetto responsabile in grado di scegliere la direzione che la propria vita deve assumere per poter aspirare alla propria personale felicità.
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III. Esiti di ricerca
Il sistema educativo maori come pratica di resistenza: l’agency nativa e le politiche educative tribali
Key-words: Indigenous education, Maori Studies, postcolonial studies, Identity politics
IV. Altri temi
Italian Journal of Special Education for Inclusion
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© Pensa MultiMedia Editore srl ISSN 2282-5061 (in press) ISSN 2282-6041 (on line)
In this paper I would like to introduce some aspects of the maori pedagogy, exploring some important historical facts that influenced the construction of an educational system in New Zealand. Focusing on the organization of a “maori way” to educate the future generation, after the cultural revolution of the 70', the Maori develop an indigenous schooling system as a way to decolonize themselves and the native culture itself. Some scholars consider this practice as a kind of decolonization strategy to rebuild an indigenous pedagogy. The native agency is an historical force that drives the process of a cultural change and a tool by which the Maori success and claim back their autonomy and their right to a self-determination as the indigenous people of New Zealand. One of the most popular groups of the Cultural Revolution is the Kohanga Reo Movement. The actions of this group were fundamental to understand how an indigenous pedagogy was rebuilt and help to construct a new sense of belonging between the maori communities called Maoriness.
abstract
Chiara Carbone / Università degli studi Roma TRE / chiara.carbone@uniroma3.it
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1. La colonizzazione del sistema educativo
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Per descrivere il percorso storico delle istituzioni scolastiche, si deve partire dall’incontro tra gli Inglesi e i Maori, al fine di comprendere in maniera più esaustiva l’impatto e le conseguenze che questo primo confronto culturale ha avuto sul sistema tradizionale educativo dei nativi. Nel 1769 James Cook giunge in Nuova Zelanda sulla costa est dell’isola del nord, gettando l’ancora nella Poverty Bay1. Nel suo diario di bordo Cook prende nota del suo primo incontro bellico con i Maori, esperienza piuttosto fallimentare che fece perdere al militare inglese due dei suoi migliori uomini. Cook ritenta un approccio con i Maori nel 1773 compiendo il suo secondo ed ultimo viaggio in Nuova Zelanda. Questo secondo tentativo si rivela più fruttuoso e il capitano inglese inizia a commerciare con i Maori introducendo nuovi alimenti e degli oggetti che suscitano molto fascino tra i capi tribù: le armi. La presenza europea in Nuova Zelanda inizia ad essere più capillare verso la fine del ‘700, quando le baleniere e i cacciatori di foche si insediano a Dusky Sound (sulle coste dell’isola del Sud) costruendo delle basi di rifornimento. Anche i commerci con l’Inghilterra proseguono a ritmo sostenuto e ben presto si celebrano i primi matrimoni misti tra i militari e capitani delle navi inglesi e le donne maori, date in spose dai capi villaggio per mantenere saldi i patti commerciali. Nel 1814 l’Inghilterra con la paura che la Francia potesse avere degli interessi a trasformare la Nuova Zelanda in una delle sue colonie nel Pacifico, chiede al pastore Samuel Marsden di fondare la prima missione nella città di Rangihoua (Walker, 1990). Nel 1816 la Church Missionary Society si occupa della costruzione della prima scuola missionaria e il pastore Samuel Marsden riceve l’incarico di occuparsi della “civilizzazione” dei nativi. Negli anni successivi la corona promuove lo sviluppo dell’insediamento europeo in Nuova Zelanda, che si trasforma in una colonia di popolamento a differenza dell’Australia che in quegli stessi anni diventa una colonia penale. Il potere della regina si consolida con il trattato di Waitangi nel 18402, da questo momento con la firma dell’accordo sottoscritto dai capi Maori e dai funzionari inglesi, si può datare l’inizio della colonizzazione della Nuova Zelanda. Nel 1847 George Gray il primo governatore britannico adotta le direttive 1 2
La poverty Bay è la baia in corrispondenza della cittadina di Gisborne sulla costa est della Nuova Zelanda Il trattato di Waitangi (1840) fu imposto dal governo inglese ai Maori per attuare il progetto di occupazione delle terre delle tribù. Proposto in una situazione di emergenza (le guerre con i Maori non terminavano e la Francia si stava facendo avanti) venne firmato dai capi e dal governatore in carica all’epoca. Il documento, composto da 3 articoli, fu redatto in duplice copia, una versione in maori e una versione in inglese; le due versioni però non coincidevano nei contenuti e si potevano interpretare diversamente. La problematicità riguardava l’errata traduzione dei concetti di sovranità e di possesso della terra. Nella versione maori del testo si parla di governabilità o kawanatanga che veniva esercitata dall’Inghilterra, mentre la sovranità sulla terra o rangatiratanga restava privilegio dei maori. Invece nella versione inglese si designava la regina come unica autorità in Nuova Zelanda, nominata unica sovrana che aveva diritto di prelazione sulle terre maori (Corteggiani, 2002).
IV. Altri temi
dell’Educational Ordinance e si adopera per costruire un nuovo sistema scolastico con lo scopo di “removing of Maori children from the «demoralising influence of Maori villages» in order to hasten their assimilation to «the habits of the european»” (Walker 1990, p. 146). L’introduzione di un sistema scolastico speciale e concepito per i Maori è impiegato come strumento tattico per realizzare il progetto coloniale, focalizzato sul processo di assimilazione e di omologazione della cultura maori ai costumi europei. policies of control and assimilation through education were justified by the idea that Maori were in a state of barbarism and hence, in need of deliverance through education (Hokowhitu 2003, p. 190).
I missionari in questo periodo incoraggiano i Maori ad adottare le usanze degli Europei, la loro condotta morale e il loro sistema economico e commerciale. Inizialmente i nativi vedono i missionari come un mezzo per accrescere alcune delle loro abilità, utili per contrattare con i pakea, ma ben presto comprendono che l’intento e le parole degli anglicani erano tutt’altro che innocenti (Hokowhitu, 2003). Verso la metà del 1860 i gruppi di resistenza maori creano problemi alle missionary schools e all’élite europea, che considera l’insurrezione e il comportamento dei nativi una minaccia al loro sistema. Attraverso il potere del governatore Grey, la classe politica della colonia afferma la propria supremazia culturale, politica ed economica obbligando i Maori a ricevere un certo tipo di educazione. In parlamento3 si discute dell’educazione della popolazione ritenendo che i nativi non civilizzati dal modello educativo inglese potessero organizzare più facilmente delle rivolte. Nel 1867 i parlamentari adottano un provvedimento che provoca dei forti cambiamenti sociali, Il “Native School Act” con il quale le scuole missionarie lasciano spazio all’istituzione di un sistema scolastico più invasivo, che risponde in maniera più efficace ai bisogni dell’élite europea. Le Native Schools “were placed in the heart of Maori communities like trojan horses. Their task was to destroy the less visible aspects of Maori life: beliefs, value systems, and the spiritual bonds that connected people to each other and to their environment” (Smith 1986, p. 2). Le strategie di assimilazione attraverso l’imposizione del modello pedagogico inglese sono giustificate dall’esigenza di mantenere una stabilità sociale nella colonia. Nelle classi delle Native Schools i libri di testo enfatizzano le prodezze dell’Inghilterra e gli insegnanti chiariscono ai giovani maori il significato della Union Jack (la bandiera inglese); la retorica imperialista difende la politica coloniale della corona e il potere dell’élite si consolida attraverso il controllo dei programmi educativi: il governo controlla e sceglie quale tipo di conoscenza trasmettere alle generazioni dei giovani maori. La classe degli anziani e dei tohunga4 che nei vil3 4
Il Parlamento Neozelandese si formò nel 1854, il primo passo verso l’autonomia legislativa e governativa del paese. Nella cultura dei Māori, un tohunga è un uomo esperto depositario di conoscenze profonde e raffinate. I tohunga possono essere esperti navigatori, scultori, navigatori o insegnanti. Peter
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laggi esercita una forte influenza sui membri delle comunità si oppone e resiste. Il potere tradizionale non cede al fascino europeo e alle politiche di assimilazione, ma nel 1899 attraverso una circolare rivolta a tutti gli ufficiali che rappresentano l’amministrazione coloniale nei villaggi, il governo predispone che “complaints have reached the governement that native tohunga are increasing in number and they are disturbing the native mind and becoming assertive… take effective steps to bring the offenders to justice” (Hokowhitu 2003, p. 192). Nel 1907 un altro atto del parlamento (Tohunga Suppression Act) limita i poteri dei tohunga e sancisce loro il divieto di educare e di esercitare le loro funzioni. Questo è un chiaro segnale per impedire ancora una volta la trasmissione dei tikanga maori5 nei villaggi e per invalidare il sistema filosofico e pedagogico nativo, considerato barbaro e primitivo. Le Native Schools che si possono considerare come dei collegi (boarding schools) offrono dei curricula scolastici diversi per ragazzi e ragazze. Ai giovani sono consigliate delle professioni manuali legate al lavoro nei campi o nell’edilizia. Le donne per incorporare il modello femminile vittoriano6 sono formate per eccellere nei lavori domestici (Jahnke, 2016), per trasformarsi nelle mogli ideali degli agricoltori e degli operai maori. Questa struttura riflette le gerarchie sociali e la scolarizzazione serve “as a social filter, determining the composition of a new middle class, deciding who would enter the white collar professional occupations and who would not” (Fairburn 1975, p. 9 in Hokowhitu 2003, p. 193). Le condizioni rimangono immutate fino agli anni 50, periodo in cui l’urbanizzazione delle aree metropolitane altera nuovamente la situazione socio-economica delle famiglie maori. La ricerca di un impiego costringe molte famiglie a lasciare i loro hapu e a trasferirsi nelle nuove “States housing zones”, aree destinate all’espansione metropolitana. Le Boarding Schools sono sostituite da un sistema scolastico pubblico. Il limite imposto nell’accesso all’educazione, il confino dei Maori all’interno di alcune categorie professionali (agricoltura e edilizia), la violenza che comincia a dilagare negli slums sono fattori che contribuiscono a delimitare la popolazione Maori in una condizione di povertà e di arretratezza socio-economica. Secondo il punto di vista del governo le difficoltà della scolarizzazione dei nativi e il fallimento delle politiche d’inclusione sono dovute alla resistenza dei Maori verso i valori europei e l’omologazione culturale; la loro strategia è talmente radicale che:
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Buck in The Coming of the Maori analizza l’etimologia della parola: tohunga viene dal termine tohu che significa guidare o dirigere. La parola tikanga ha una vasta gamma di significati, tra i quali cultura, costume, etica, formalità, tradizioni, modo, significato, protocollo, stile. La dottoressa Pihama descrive così la morale vittoriana: “The notion of the ‘Victorian’ woman comes from an idea that certain values, practices, expectations and roles of women were derived from the Victorian era. This era relates to the rule of Queen Victorian spanning from 1837-1901. The Victorian era, Industrialisation was a critical event that contributed to changes in the roles of English women”(Pihama 2001: 160-162).
IV. Altri temi
Maori often viewed other Maori who achieved educational success as white Maori or plastic Maori (Hokowhitu 2003, p. 195).
Nel 1955 per la prima volta il ministero dell’Educazione cambia atteggiamento invitando un gruppo di leaders ad intervenire durante un’assemblea dell’Educational Department, occasione in cui viene discussa la necessità di inserire nei piani di studio scolastici l’insegnamento dei tikanga maori. Il governo Neozelandese agli inizi degli anni ’60 riconosce che la questione dell’educazione dei Maori sta diventando un problema nazionale, così il primo ministro Walter Nash commissiona all’esperto Jack Hunn di studiare il problema dell’inclusione scolastica e di compilare un report con delle possibili soluzioni. Hunn (1961) nel suo report considera di fondamentale importanza integrare i tikanga maori nei programmi di studio statali. L’idea dell’integrazione scolastica promossa da Hunn si articola ancora su delle posizioni etnocentriche, poiché si accetta l’idea di inserire nei curricula scolastici i tikanga maori perché “keep Maori happy but which otherwise had little relevance to modern life”(Butterworth 1973, p. 15 in Hokowhitu 2003, p. 196). Tutti gli studi statistici effettuati dal governo in questi anni sulle metodologie educative, sul successo scolastico degli studenti pakea e Maori si basano fondamentale sul pregiudizio che i Maori non conformandosi ai valori della classe dominante hanno dei deficit nell’apprendimento, un’incapacità intellettuale e culturale che gli impedisce di migliorare le proprie condizioni. Dagli anni ’70 in poi lo scenario neozelandese cambia totalmente. Le influenze del ‘68, gli scontri per i diritti civili degli afroamericani, le battaglie portate avanti da Martin Luther King e da Malcom X, arrivano a nutrire il sentimento di rivalsa dei Maori nei confronti dell’egemonia culturale dei pakea. Gli anni ’70 sono un momento di fermento in tutto il Pacifico, anche a Tahiti i cugini Ma’ohi protestano contro gli esperimenti nucleari della Francia e riscattano la loro cultura da un presunto oblio culturale (Aria, 2007).
2. Il rinascimento Maori e il movimento del Kohanga Reo
Al fine di comprendere le politiche educative contemporanee è necessario dedicare più attenzione ad un momento storico caratterizzato da un revival della cultura nativa: il Rinascimento Maori (Walker, 1990). Dalla metà degli anni ’70 fino la fine degli anni ’80 in Nuova Zelanda diversi gruppi di studenti universitari cominciano a riflettere sull’identità nativa, dando inizio ad una serie di processi di risignificazione della loro storia e delle loro tradizioni, un periodo caratterizzato da contestazioni e proteste7. Il culmine della 7
Quando si fa riferimento al periodo delle proteste e delle rivendicazioni sulle terre tre episodi sono emblematici: la Maori Land March del 1975, l’occupazione del campo da gioco del Raglan Golf Club e l’occupazione di Bastion Point del 1978. Nel 1975 fu organizzata una protesta per la riacquisizione dei diritti di proprietà sulle terre confiscate ai Māori con il Trattato di Waitangi, questa manifestazione si trasformò in una marcia che attraversò tutto il territorio dell’isola del Nord: da Auckland il corteo raggiunse il parlamento a Wellington. La protesta fu guidata da Whina
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polemica esplose nel 1978 all’Università di Auckland quando un gruppo di studenti maori impedì a dei colleghi di performare una finta haka, poiché la rappresentazione decontestualizzava e ridicolizzava la loro cultura. Dagli anni ’70 in poi gruppi di anziani maori sono convocati dal Ministero dell’Educazione, poiché l’emergenza di risolvere la questione educativa dei nativi rientra tra le necessità del governo, soprattutto a causa delle proteste e delle rivendicazioni. Si comincia a delineare una nuova politica governativa: secondo gli esperti del ministero è necessario introdurre dei nuovi piani di studio, dei curricula che includano nella programmazione scolastica dei corsi sui tikanga maori. Nel settembre del 1972 un gruppo di attivisti maori presenta al governo una petizione con più di 30.000 firme per inserire l’insegnamento della lingua maori in tutte le scuole del paese. I leaders di questa iniziativa fondano un movimento dal basso che cambia il destino del sistema educativo, il Kōhanga Reo Movement (Walker, 1990). Il termine kōhanga reo è tradotto in inglese con l’espressione “the language nest” e si basa su un approccio educativo fondato sui principi e sugli ideali culturali maori: Te Kohanga Reo was the result of Maori communities want for an education that maintained their own lifestyles, language and culture while also enhancing life chances, access to power and equality of opportunity (Pihama, Smith, Taki, Lee 2004, p. 34).
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Questo nuovo modo di concepire l’educazione coinvolge tutte le whanau (famiglie), i genitori degli alunni partecipano attivamente a tutte le iniziative scolastiche. Ancora oggi la metodologia del kohanga reo considera lo spazio pubblico della scuola8 e lo spazio familiare non identici ma complementari, le sfere possono dialogare e costituire insieme un ambiente ideale per il bambino. Whanau play an integral part of the decision-making process and have control over what the children learn, how they should learn it and who is involved in that learning.Whanau members are also expected to play a role in the educating of their child whether that be through the continuing
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Cooper, leader carismatico che si adoperò molto per cambiare il destino delle tribù Maori. La terra sulla quale fu costruito il Raglan Golf Club apparteneva alla tribù dei Tainiu Awhiro. Il governo però vendette quegli ettari alla società sportiva senza chiedere pareri agli anziani maori. Tra il 1975 e il 1978, Eva Rickard guidò diverse proteste e occupazioni presso il Raglan Golf Club. La protesta del 12 febbraio del 1978, con 250 membri della tribù Tainui Awhiro e di alcune tribù alleate segnò un momento importante nel periodo delle contestazioni. La protesta si concentrava sulla denuncia della profanazione dei cimiteri sacri, il governo aveva violato le credenze religiose e i diritti dei Tainui Awhiro. Anche a Bastion Point l’oggetto della contesa è la terra. Bastion Point è un pezzo di terra sulla costa di orakei, a nord est di Auckland, che si affaccia sul porto di Waitemata. Prima della colonizzazione la terra apparteneva alla tribù, garantendo ai suoi membri la sopravvivenza. La zona infatti si affaccia sul mare ed è ricca di risorse per i pescatori locali. I Ngāti Whātua occupano la terra nel 1978 contestando la proprietà del Governo e la validità del trattato di Waitangi. Il primo Kohanga reo è stato fondato nel 1982 a Wainuiomata, a nord di Wellington.
IV. Altri temi
of the practice of tikanga Maori in the home, or through participation within te kohanga reo (Bishop 1998, p. 5 in Pihama, Smith, Taki, Lee 2004, p. 35).
L’approccio pedagogico si basa sull’oralità e sulla trasmissione della conoscenza (l’insegnamento della lingua nativa, le storie e le mitologie delle tribù) da una generazione di esperti chiamati kaumatua (anziani rispettati) ai mokopuna (i bambini). I bambini che possono accedere ai programmi del kohanga reo9 hanno un’età compresa tra 0-6 anni e le loro attività quotidiane si svolgono nei marae10. Il movimento del kōhanga reo riconosce che il sostegno e il mantenimento dell’unità familiare sono gli strumenti fondamentali per la crescita, lo sviluppo e l’educazione dei bambini. Il successo di questa formula educativa è tale che oltre agli asili nido, attraverso dei provvedimenti normativi il ministero istituisce scuole primarie e secondarie. Il ruolo ufficiale della lingua maori nel sistema educativo della Nuova Zelanda è sancito dall’Education Act del 1989 e da leggi successive che permettono l’istituzione delle Kura Kaupapa Maori (scuole elementari e medie), delle Whare Kura (scuole superiori) e delle Wananga (università). to strengthen the language programme, a group of Maori introduced a Maori Language day, which was taken over by the education system and eventually extended to one week (Walker 1990, p. 211).
L’esempio del kōhanga reo è diventato popolare e preso come modello educativo da altre culture del pacifico, in particolare alle Figi, Tonga e Samoa. A colossal success which has been adopted by other indigenous people with languages at risk, Te Kohanga Reo still challenges the colonizing, monocultural bias of mainstream education , and women, Maori women, are steering this extraordinary canoe, opening the way (Te Awekotuku 1991, p. 12).
L’esperienza politica e l’impegno delle educatrici nel sistema del kōhanga reo ha permesso alle insegnanti di mettere in campo un’agency molto forte legata alla loro identità, come sostiene Sandy Keepa, una delle donne coinvolte nel progetto educativo del primo kōhanga reo del 1982: For myself, I came from Rotorua, and I looked around for support, some whanau context to make me feel okay. And for me was the Kōhanga, the whanau, feeling accepted being with people who know where you come from, who acknoledge your Maoriness and reinforce that (Sandy Keepa nell’intervista rilasciata a Pat Rosier del periodico femminsta Broadsheet November/December 1990 n. 183). 9
Kohanga reo oltre che il nome del movimento è il termine che si usa per i indicare le parole asilo nido o scuola dell’infanzia. 10 Il marae è l’unità principale in cui si svolgono le cerimonie più importanti per i Māori come i matrimoni, i funerali ed i compleanni. È allo stesso tempo un luogo di culto dedicato agli antenati e uno spazio in cui si concentra l’attività politica della comunità.
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Le rivendicazioni portate avanti dal kōhanga reo concretizzano il progetto di rivitalizzare la lingua maori riportandola in auge. Le politiche linguistiche fanno parte di un più ampio progetto politico di rinascita: Kohanga is the empowerment of Maori women and for me it’s a political thing. It’s me determinating what i want for my child. By sending your child to a Kohanga you are malking a political statement (Sandy Keepa 1990, p. 183).
Fare riferimento a questi movimenti rivoluzionari del passato neozelandese11 rende possibile la descrizione dell’ambiente culturale vivace e dinamico in cui si sono sviluppate le nuove pedagogie indigene, ricostituendosi in delle nuove metodologie educative efficaci per riabilitare la cultura e l’identità maori.
3. La pedagogia Maori: i concetti principali Matauranga Maori is a body of knowledge that seeks to explain phenomena by drawing concepts handed from one generation of Maori to another. Accordingly, Matuaranga Maori has no beginning and is without end. It is constantly being enhanced and refined” (Winiata 2001 in Mead 2003, p. 321).
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Analizzando le fonti che permettono di descrivere la pedagogia Maori, è interessante notare come una ricca e viva produzione accademica sull’argomento, sostiene l’idea per cui prima dell’arrivo degli Europei in Nuova Zelanda, i Maori già avessero un sistema scolastico. Linda Tuhiwai Smith12 e Graham Hingangaroa Smith (1993) sostengono l’ipotesi per cui nelle tribù il sistema educativo fosse funzionale alla vita dei villaggi, rispecchiando un approccio più olistico che si fonda sui concetti chiave del pensiero nativo (Stucki 2010, p. 165). Il concetto cardine della pedagogia maori risiede nel principio dell’Ako, comunemente inteso come il processo che coinvolge la volontà e la pratica “di imparare e d’insegnare” (Pere 1982, p. 25). Nella società tradizionale maori l’educazione, intesa come condivisione della 11 In questi stessi anni i Maori che negli anni ’50 e ’60 sono riusciti ad eccellere in altri ambiti disciplinari, riescono ad imporre la propria influenza nelle Università neozelandesi. Nel 1975 Hirini Moko Mead fu nominato direttore del primo corso di laurea in Māori Studies. A seguito di diverse battaglie accademiche portate avanti dal professore maori nel 1979 la Victoria University inserì nella propria offerta formativa un Master in Māori Studies. Mead riuscì ad istituire una cerimonia di laurea, che seguiva il protocollo cerimoniale tradizionale e supervisionò i lavori per la costruzione del primo marae universitario, il Te Herenga Waka inaugurato nel 1986. 12 Linda Tuhiwai Smith è professoressa di Indigenous Education presso l’Università di Waikato a Hamilton in Nuova Zelanda ed è una delle figlie del famoso antropologo Hirini Moko Mead, più volte citato in questo articolo. Linda Smith nei suoi scritti propone un’analisi molto critica del ruolo che ha giocato la ricerca scientifica occidentale nel processo di colonizzazione delle culture native; il suo lavoro è considerato un importante contributo alla ricerca di una nuova e decolonizzata metodologia indigena.
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conoscenza è stata vitale per la sopravvivenza sociale, economica, politica e spirituale delle whanau (famiglie), degli hapu (clan) e delle iwi (tribù). Ako was based on the knowledge that pertained to the interests of the wider group, knowledge that ensured the physical and spiritual wellbeing, the uniqueness of the each iwi (Pihama, Smith, Taki, Lee 2004, p. 16).
Il mana13 (la potenza e il prestigio) di ciascun gruppo è direttamente proporzionale alla conoscenza custodita, protetta e tramandata all’interno dei gruppi familiari. Per conoscenza i Maori intendono l’insieme dei valori, delle genealogie e dei miti che appartengono a ciascuna tribù, tutto ciò che mantiene saldo e vivo il legame con gli antenati (Mead, 2003). Condividere la conoscenza attraverso l’Ako è un beneficio per l’intera collettività e uno strumento per la sua sopravvivenza. Per Joan Metge14 la conoscenza si riferisce “to the all-encompassing nature of ako as education through exposure” (Metge 1986, p. 3). La studiosa descrive l’insegnamento e l’apprendimento come “informal, semi- continuous, embedded in the ongoing life of the community, open and inclusive” (Metge 1986, p. 3). Gli anziani e i tohunga si occupano dell’educazione dei più giovani in uno spazio comunitario chiamato whare wānanga (Pihama, Smith, Taki, Lee, 2004). La metodologia adottata dagli insegnanti non si basa su particolari tecniche o metodi, l’approccio è piuttosto informale e si plasma alle necessità e alle abitudini degli studenti. L’insegnamento non è un’attività separata dal resto della quotidianità dei giovani maori, ma s’inserisce piuttosto in un quadro dinamico e fluido, non vincolato da norme rigide. Soprattutto in una visione di continuità e di costanza della pratica educativa, Rose Pere15 sostiene: Traditional Maori learning rested on the principle that every person is a learner from the time they are born (if not before) to the time they die (Pere 1982, p. 54).
L’Ako è parte integrante della creazione, della trasmissione, della concettualizzazione e dell’articolazione del pensiero maori. È un concetto relazionale che esiste se posto in un rapporto di reciprocità con altri elementi e nozioni, il sog-
13 Il termine mana è stato definito dal linguista William Williams nel suo dizionario con diversi significati. Può essere interpretato come autorità e controllo oppure può definire il grado di prestigio e d’influenza che possiede un soggetto all’interno della comunità; inoltre la parola mana può essere tradotta con il termine potere, e infine può essere definita con gli aggettivi: valido, impegnativo e autorevole (William 1957: 172). Sul concetto di mana sono noti nelle scienze sociali gli studi di Marcel Mauss, Eldson Best, Raymond Firth, Lévi-Strauss. 14 Alice Joan Metge è un’antropologa e un’educatrice. La studiosa si è formata presso l’Università di Auckland con una laurea in Master of Arts, conseguendo poi un dottorato alla London School of Economics. Si occupa di mediazione dei conflitti tra governo e Maori e di educazione interculturale. 15 La Dottoressa Rangimarie Turuki Rose Pere (tribù dei Ngati Tuhoe) è una leader Maori e un Tohunga. Si occupa di educazione e sviluppo ed è stata un’attivista nel Kohanga Reo Movement.
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getto cresce e si forma perché in relazione alla sua famiglia, al suo clan e alla sua tribù. Ako was determined by and dependent on Maori epistemologies, values, knowledge and constructions of the world (Pihama, Smith, Taki, Lee 2004:, p. 13).
Anche Rose Pere nella descrizione dell’Ako sostiene “(traditional) institutions do not stand in isolation, but actually merge into each other” (1990: 5). Quindi è proprio la fusione tra i vari significati connessi con i valori e i concetti maori che restituisce valore alla nozione di Ako e la colloca in una determinata epistemologia che ha le sue fondamenta nella teoria della kaupapa maori16. Fortemente connesso al concetto di Ako è il concetto della genealogia (whakapapa): conoscere la propria genealogia ed essere in grado di recitare l’albero genealogico lega i Maori con il loro passato e con gli antenati e celebra allo stesso tempo il loro legame con la terra. Conoscere le proprie radici, studiare la tradizione, interiorizzare i concetti del pensiero maori sono gli elementi costitutivi della pedagogia dell’Ako. In una società senza scrittura l’oralità e l’ascolto sono gli strumenti utilizzati dagli educatori per narrare e trasmettere la conoscenza:
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through the medium of stories, games, waiata (song), karakia, whakapapa and much more, all of which provided the child with explanations as to their place in the scheme of things, their positioning in society, descriptions of places, events and people of historical significance, aspects of tribal lore necessary for the child to be knowledgeable of and the day to day expectations of them within the whanau (Pihama, Smith, Taki, Lee 2004, p. 15).
L’educazione persegue l’obiettivo di preparare i giovani maori ad affrontare tutti gli aspetti della vita comunitaria, conferendo loro tutti gli strumenti necessari alla loro socializzazione. Un tipo di socializzazione che conferisce l’opportunità ad ogni giovane di prendere parte attivamente alla collettività secondo le proprie attitudini e abilità, come afferma Rose Pere: Teaching and learning was not a «bits and pieces process» but was an integrated developmental type of philosophy, which sought at all times to acknowledge and validate the «absolute uniqueness» of the child and their position in their whanau, hapu and iwi (Pere 1982, p. 2).
Tra gli strumenti con cui gli insegnanti formano i giovani, i canti o waiata hanno un ruolo fondamentale perché strumento efficace per tramandare i miti e le storie di ogni tribù. Hemara (2000) definisce le waiata come “mixed media or educational tools that were used to teach very young children about things
16 La kaupapa Maori research è una cornice filosofica ed una metodologia di ricerca nata in risposta alle speculazioni intellettuali prodotte in gran parte della ricerca occidentale sui Maori (Smith 1999, p. 183).
IV. Altri temi
such as tribal lore, genealogical origins, to commemorate feats and tragedies, encourage them to avenge deaths and take on leadership roles.” Ancora oggi gli insegnanti Maori che sposano la metodologia dell’Ako, promuovono l’apprendimento delle waiata e si schierano in favore di un approccio olistico all’educazione: They are not only concerned about advancing academic outcomes (one manifestation of te taha hingengaro – intellectual well-being), social skills (taha whanau) and sporting type achievements (one manifestation of taha tinana – physical well-being), but the taha wairua (spiritual) dimensions of their students (Lee 2005, p. 6).
Secondo questo approccio gli educatori spesso impiegano pratiche pedagogiche che supportano e promuovono una rigenerazione culturale per gli studenti maori e contribuiscono a nutrire il loro senso di Maoriness17. Abbracciando questa prospettiva gli insegnanti tentano di costruire una comunità di apprendimento, dove ogni studente si sente parte integrante di un progetto condiviso, nel quale il loro contributo intellettuale è apprezzato ed incoraggiato. Nel tentativo di indagare, analizzare e teorizzare l’Ako, l’insegnamento diventa una potente metodologia di decolonizzazione perché promuove la diffusione tra gli studenti maori di una visione critica del modello culturale dominante, da decostruire e da mettere in discussione attraverso programmi formativi alternativi delle istituzioni educative tribali. Soprattutto dalle iniziative portate avanti dal Kohanga Reo (Immersion Maori Language Nests) e dalla Kura Kaupapa Maori (Immersion Maori Language Primary Schools) è evidente il tentativo di sviluppare una forma di resistenza verso il sistema educativo pakea che ha fallito nei confronti dei Maori e dei loro bisogni. Come ha affermato Tariana Turia18: Why Maori should leave their children within an education system that has consistenly failed them, and will continue to do so whether bicultural frameworks are in place or not? (Tariana Turia in Hokowhitu 2003, p. 200).
Gli educatori e gli accademici impegnati in queste forme di rivitalizzazione della lingua e della cultura nativa, promotori di un sistema educativo indigeno, s’interrogano sulle connessioni tra le diverse metodologie pedagogiche e le diverse istituzioni che hanno il potere di sperimentarle; considerando alla base del loro pensiero le diverse strategie utilizzate per costruire la categoria dell’altro, che in epoca coloniale sono state determinanti per l’assoggettamento culturale della popolazione nativa, cercano di sviluppare metodi e ricerche che decostruiscono e decolonizzano le teorie e le informazioni divulgate dalla classe politica fino agli inizi degli anni ’90. 17 Il termine Maoriness sta ad indicare una qualità, un’ appartenenza culturale ed un aspetto dell’identità (Meredith 1998:7). 18 Tariana Turia, sottosegretario agli Affari indigeni è diventata nel 2004 uno dei due segretari di partito del Maori Party.
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La resistenza e la resilienza messe in pratica dall’agency nativa hanno creato nuove forme di socializzazione e nuovi spazi culturali ed educativi, in cui la costruzione di una nuova forma di indigeneità cerca di superare la frammentazione delle soggettività culturali dei Maori, da riabilitare attraverso una pedagogia che privilegia un approccio olistico basato sugli elementi cardine del sistema sociale nativo.
4. La pedagogia maori come pratica di resistenza
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Il Rinascimento Maori e le politiche sociali ed educative adottate negli anni 80 si collocano in un processo di trasformazione che non è dato semplicemente da una rivoluzione culturale, ma da un profondo mutamento nella percezione dell’alterità e della Maoriness tra i Maori. Nel processo stesso di decolonizzazione si situa la crescita di una coscienza collettiva che si basa sulla specificità dell’essere Maori. La decolonizzazione pone l’accento sulle strategie da adottare per affrancarsi dalla cultura dominante del colonizzatore, ma considera ancora la cultura dominante al centro del discorso; invece la Maoriness come posizione che privilegia la consapevolezza e una coscienza di classe, pone al centro del mutamento l’uomo e la donna maori (G. Smith, 2003). Soprattutto sono le azioni collettive a trasformare la realtà, l’agency nativa è il perno del cambiamento e della trasformazione, la condivisione della contestazione e della rivendicazione si muovono sullo stesso binario della formulazione di proposte e di strumenti concreti con i quali affrontare le sfide della rivoluzione culturale. Uno degli elementi chiave è l’educazione e la trasmissione del sapere alle generazioni future. Per rafforzare la necessità di una rivoluzione educativa, che tiene conto dell’inclusione dei Maori nella società, si deve elaborare una proposta alternativa al modello scolastico neozelandese: […] The maori language nests set in motion a string of schooling and education intervention undertaken by Maori People themselves. These initiatives were initiated as “alternatives” ideas, developed as resistance initiatives developed outside the mainstream system. This is one of the very reasons for their success – they were able to unhinge themselves from the gate – keeping reproductive elements of the dominant controlled system (Smith 2003, p. 5).
Per costruire delle pedagogie indigene con le quali educare le nuove generazioni è necessario sostenere tutte le azioni che facilitano il passaggio da un modello scolastico di stampo inglese ad un sistema educativo culturalmente più adatto ai bisogni delle tribù. È doveroso costruire una teoria del pensiero filosofico che sia d’ispirazione per tutti i Maori. Agli intellettuali degli anni ’90 è assegnato il compito e la responsabilità di costruire le fondamenta della Kaupapa Maori Theory19. Definita come l’insieme dei concetti della filosofia maori sui quali 19 La Kaupapa Maori Theory è un’elaborazione intellettuale che ha le sue origini nella Critical Race Theory, cfr Haynes 2008.
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si fonda una visione del mondo nativo, caratterizzata da dei principi culturali fondamentali, la Kaupapa Maori Theory serve ad elaborare una base teorica con la quale legittimare, riconoscere e diffondere un modello di autodeterminazione ed emancipazione culturale. Graham Smith (2003) riassumendo i punti chiave della Kaupapa Maori Theory, sostiene che tra questi un ruolo chiave deve essere assegnato al principio pedagogico. In questo modo si può costruire una strategia di decolonizzazione, un modello alternativo che sia in grado di superare il perpetuarsi della logica coloniale di controllo e dominio sulle generazioni di maori. In questo quadro assume significato la necessità di elaborare una pedagogia indigena come forma di resistenza e di superamento dello stesso processo di decolonizzazione. Where indigenous people are in educational crises, indigenous educators and teachers must be trained to be ‘change agents’, to develop transformation of the undesirable circumstances. They must develop a ‘radical pedagogy’ (a teaching approach for change). Such pedagogy must also be informed by their own cultural preferences and respond to their own critical circumstance (G.H. 2003, p. 11).
Il concetto di Ako è un prodotto e allo stesso tempo uno strumento della Kaupapa Maori Theory, è un’elaborazione della visione tradizionale della trasmissione delle conoscenze e del sapere, è un tramite con il quale il mutamento sociale e culturale si affermano. La rivoluzione culturale degli anni ‘80 e ‘90 è il momento in cui la “pedagogia degli oppressi” si trasforma in una “pedagogia dell’azione” o come viene definita da Graham Hingangaroa Smith in una “transformative praxis” ovvero in una pratica di resistenza rispetto al passato coloniale e alle politiche di decolonizzazione.
5. Conclusioni Indigeneity in terms of Maori language, culture, history, flora and fauna are the features that define Aotearoa New Zealand from any other place on earth. They are the things that make us unique. The challenge is whether there is the maturity and the will to take cognisance of a substantial Maori population in the near future and the implications of this for the way we prepare our teachers; to recognise the importance of Maori language, culture and history which define us from the rest of the world by infusing these in school programmes (Jahnke 2006, p. 16).
La scelta di presentare in questo contributo gli effetti della colonizzazione sul sistema educativo maori è stata necessaria per comprendere e approfondire la serie di strategie di resistenza e di adattamento che i Maori hanno adottato nel corso degli anni. L’impatto con la cultura europea ha generato diversi conflitti e tensioni, ma soprattutto nuovi equilibri che in una visione dinamica e di cambiamento hanno interessato tutte le sfere della vita comunitaria dei Maori. In questo quadro le pratiche educative e la trasmissione del sapere tradizio-
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nale hanno subito delle trasformazioni a seguito dell’attuazione di politiche pubbliche, in un primo momento orientate a realizzare un progetto politico di assimilazione culturale, poi tramutate in un approccio volto all’integrazione, per poi confluire nelle strategie d’inclusione scolastica costruendo una realtà biculturale. Seguendo il principio antropologico secondo cui le culture sono dinamiche e si trasformano, riarticolandosi in nuove forme di organizzazione sociale (Clifford, 2013), il sistema tradizionale educativo maori non è scomparso ma si è ricostituito adattandosi agli slittamenti di potere e alle prerogative politiche della classe egemone in un dato momento storico. Coerente a questa prospettiva è l’idea che la pedagogia dei nativi sia una risposta e un prodotto della colonizzazione, perché si basa, oltre che su dei principi tradizionali, sulle politiche identitarie e si manifesta come pratica di autodeterminazione. In questo quadro il lavoro degli intellettuali/insegnati maori è stato fondamentale poiché collocandosi nel dibattito internazionale della Critical Race Theory e degli studi postcoloniali, sono riusciti ad elaborare una cornice teorica nella quale inserire le loro riflessioni, hanno costruito la Kaupapa Maory Theory, un modello attraverso il quale sostenere le riforme in ambito educativo e sociale. Molti pedagogisti e studiosi maori (Jahnke 2016; Murray 2005; Smith 1992) ritengono proficuo promuovere, migliorare e sostenere lo sviluppo di standard educativi che permettano a tutte le tribù di trovare un modello pedagogico e delle strategie d’inclusione scolastica adatte alle proprie esigenze. Una responsabilità di cui si fanno carico gli insegnanti e gli specialisti delle associazioni tribali sparse in tutti il territorio neozelandese, i cui componenti si trovano nuovamente a negoziare con la loro alterità, percepita come elemento di specificità culturale. Nonostante attraverso queste strategie postcoloniali si è cercato di superare il processo di otherness (L.T., Smith 1999), con l’elaborazione di teorie che rendono diversa e specifica una certa visione del mondo si rischia, come sostiene John Willinsky (1988), di perpetuare le percezioni della differenza culturale tra i discendenti dei colonizzatori e dei colonizzati; lo studioso inoltre sottolinea come nella creazione di pedagogie alternative esiste la tendenza tra chi le elabora ad identificarsi come “separati” dagli altri che sono diversi dal gruppo di riferimento per lingua, cultura e provenienza geografica. L’ipotesi di Willinsky è applicabile alla realtà neozelandese, poiché di fatto con la costruzione di un sistema scolastico indigeno si è rafforzato il biculturalismo; i Maori e i pakea (i discendenti europei) sebbene conviventi sullo stesso territorio mantengono separate le sfere sociali e culturali. L’esempio conferma che la Nuova Zelanda si basa su un modello educativo biculturale (Sullivan 1994) che riproduce la “separazione” di cui parla Willinsky. Quest’osservazione sostiene l’idea che la pedagogia indigena è uno spazio di resistenza uno strumento con il quale nutrire il senso di appartenenza, la Maoriness che distingue e separa le tribù dalla società pakea. Allo stesso tempo il sistema delle Kura Kaupapa Maori (le scuole maori) è un prodotto della resilienza che i Maori hanno sviluppato con l’adattamento della tradizione alle politiche sociali ed educative contemporanee. La costruzione della teoria della Kaupapa Maori si articola su paradigmi occidentali quando utilizza il carattere distintivo della specificità culturale per rafforzare le politiche dell’identità, che contribuiscono a perpetuare il biculturalismo in Nuova Zelanda. Al contrario sempre la Kaupapa Maori Theory diventa strumento di cambiamento e di mutamento culIV. Altri temi
turale quando attraverso un adattamento e una forza creativa, rielabora i concetti del passato, come l’Ako, modellando il futuro delle nuove generazioni di Maori con la diffusione di nuove forme di conoscenza e di trasmissione del sapere. Al momento queste due tendenze convivono nello stesso spazio di riflessione, soprattutto in ambito pedagogico. Se l’imperialismo ha diffuso e radicato l’idea che il concetto di alterità e le sue applicazioni generano conflitto nella società e che di conseguenza diverse culture tendono ad escludersi e a dividersi (Wang 2006), il compito delle nuove metodologie pedagogiche è andare nel senso opposto. Le specificità culturali devono essere riconosciute ma non devono chiudersi nei recinti dell’identità e quindi creare divisioni ma supportarsi le une con le altre: […] The emphasis…is on the needs and the rights of humans, including that of education, to be based on the acceptance of all differences and the support of each otherness (Petrou, Angelides and Leigh 2009, p. 446).
Gli studiosi delle scienze dell’educazione e i pedagogisti maori, consapevoli dei limiti delle teorie sulla differenza culturale, del biculturalismo e delle ormai radicate concettualizzazioni dell’alterità, sono chiamati a costruire dei modelli pedagogici dinamici che rappresentino una forza storica e culturale per il mutamento. Mantenere saldi i legami con gli antenati e nutrire le proprie radici aiuta i giovani a sviluppare quella forza creativa che consente loro di intraprendere nuove strade e di formulare nuove articolazioni della loro cultura. La volontà di condividere nuove strategie e nuovi modelli educativi, considerando la specificità culturale come una risorsa e l’alterità come caratteristica che reciprocamente va sostenuta, può indirizzare sia i Maori che i pakea verso il superamento delle divisioni, delle discriminazioni e delle dinamiche esclusive che si insidiano nei processi educativi e culturali.
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IV. Altri temi
1. Recensione
Errani A. Mazzetti M. (a cura di), Terre di Mezzo. Permanenze e cambiamenti nella realizzazione professionale delle persone disabili, Liguori, Napoli 2015, pp. 273 di Valeria Friso / Università degli Studi di Bologna / valeria.friso@unibo.it
Il tema del lavoro è sicuramente – nei Paesi dell’Unione Europea, ma anche in Italia – uno dei temi più attuali e analizzati negli ultimi anni e, molto spesso, è presente anche fra i temi che vengono discussi in molti dibattiti pubblici. I livelli di riflessione che si possono incontrare sono molteplici e gli approcci sono multiformi. Ci si può imbattere in discussioni superficiali o parziali, come in approfondimenti argomentati e ragionati; si possono ascoltare disquisizioni dal taglio più divulgativo o maggiormente scientifico. Spesso il tema è affrontato dal punto di vista economico, qualche volta politico e, altre volte ancora, psicologico. Più raramente il discorso diventa veramente multidisciplinare per superare confini che sembrerebbero prestabiliti. Seguendo il dibattito, ci pare di poter affermare che, troppo spesso, restino fuori dal discorso sul mondo del lavoro alcune fasce della società che pure ne fanno parte. Ecco che il testo “Terre di Mezzo”, invece, aiuta il lettore a porsi domande relative a questi aspetti. In tal senso, propone di pensare al lavoro e alla professionalità delle persone con disabilità ricordando che “la realizzazione professionale non si limita al posto di lavoro, ma è un percorso che, come le tessere di un mosaico, si compone di più aspetti, tempi e contributi” (p. 1). Il coro di voci dato dalla presenza di molti autori aventi background diversi stimola alla riflessione, dando voce a quelle esperienze che permettono ai curatori di far riflettere sul bene comune e sulla buona politica. Il testo si presenta come un insieme armonioso e allo stesso tempo variegato, composto da sei contributi che descrivono la declinazione di alcuni concetti teorici in azioni concretamente realizzate. Il primo contributo è di Leonardo Callegari e sottolinea l’importante sforzo da compiere quotidianamente nel pensare e realizzare concrete ed effettive azioni di inclusione sociale delle persone con disabilità (e non azioni fittizie, fini a loro stesse). Gli indicatori che vengono proposti – declinati in dimensioni, aspetti ed elementi – derivano da una focalizzazione generale sulle caratteristiche proprie delle imprese, profit e non, e da una focalizzazione specifica relativa ai caratteri identificativi di quei contesti maggiormente adatti all’inclusione di persone svantaggiate. Ecco che, da queste indicazioni, scaturisce la possibilità di individuare “azioni da porre in essere per promuovere-agire funzioni di mediazione, condizioni facilitanti nei contesti lavorativi e la collaborazione con le imprese” (p. 26). Reciprocità ed empatia sono aspetti che rientrano completamente nel discorso dal momento che l’autore, a partire da fondamenti teorici, invita a riflettere sul contesto prossimale che l’azienda è chiamata ad assumere, per poter sviluppare un approccio inclusivo. Se alla disabilità, che è un aspetto spesso soggetto a stigmatizzazioni, aggiungiamo l’elemento del genere, le statistiche europee fotografano una situazione Italian Journal of Special Education for Inclusion
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che sembra rimarcare sempre più una condizione sfavorevole per le donne. Le riflessioni sviluppate da Giovanna Cantoni, nel secondo contributo del testo, portano i lettori a interrogarsi sull’importanza che il ruolo dell’istruzione è chiamato a svolgere relativamente a temi legati al “genere”. Esistono barriere e fattori che ostacolano l’inclusione lavorativa, ma, ancor prima, l’inclusione scolastica: questi possono essere superati, se non ci si dimentica di mettere in atto azioni che abbiano come focus anche la socializzazione oltre che l’apprendimento. Successivamente, si incontra il progetto sperimentale So.F.F.I.O., attraverso la narrazione di Elisabetta Bernardini e Federica Bartoletti. Quali sono gli elementi che facilitano la realizzazione dell’inclusione in una pubblica amministrazione? Come promuovere benessere e permettere la realizzazione professionale di tutti i lavoratori compresi quelli disabili? Analizzate le specifiche caratteristiche del contesto lavorativo pubblico, presentati gli strumenti usati nello svolgimento del progetto e restituita una prima lettura dai dati emersi da questa sperimentazione in progress, si intravede chiaramente come, in questo contesto, sia in atto un reale processo di cambiamento a più livelli che coinvolge tanto i vertici quanto la base. Cambiamento è una parola chiave anche del contributo di Raphael Decerf e Illari Pierini che, con parole semplici e incisive, riescono a ripercorrere quegli elementi nodali che, attraverso un’esperienza decennale, hanno contribuito a sviluppare percorsi di inserimento lavorativo e di educazione, in una cooperativa sociale che si occupa di giardinaggio, agricoltura biologica e vivaismo. Le testimonianze e gli esempi presenti in questo capitolo permettono di riflettere su quella quotidianità che ogni azione educativa è chiamata a vivere, in un orizzonte di significato dato dal saper andare oltre il visibile e il routinario. Matteo Mazzetti, nel contributo successivo, descrive come lavora quello che viene chiamato “gruppo produttivo” di questa cooperativa. La descrizione, come in tutti i contributi, non si limita all’elencazione di una serie di azioni, ma inserisce le stesse in un quadro teorico, pedagogico ed educativo. L’accompagnamento viene pensato e agito come una vera relazione d’aiuto, dove si guarda al processo identitario che evolve anche grazie all’assunzione di un ruolo, dove l’educatore e la cooperativa hanno ruoli fondamentali, intelligibili e multiprospettici. Facendo riferimento alla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, Patrizia Sandri – in quello che è l’ultimo contributo della curatela – evidenzia, in modo preciso e con sensibilità pedagogica, l’importanza di continuare a promuovere azioni inclusive grazie all’attenzione all’autonomia, al concetto di appartenenza e al lavoro: elementi fondanti una vita adulta. Questi tre aspetti ritornano nel testo e svelano la loro piena valenza pedagogica quando sono considerati effettivamente all’interno di un concreto Progetto di Vita delle persone adulte con disabilità, tanto più se si tratta di disabilità complessa. “L’essere posto in “situazione”, del resto, è l’essenza di ogni azione educativa ed è fondamentale per introiettare il ruolo lavorativo” (p. 250). È proprio questo che emerge dalla ricerca qui proposta, ricerca condotta con gli operatori del servizio “Senza Muri” di Ozzano dell’Emila, che si occupa di percorsi socio-riabilitativi di giovani con disabilità complessa. Oltre alla descrizione dell’organizzazione del servizio educativo sono stati individuati i valori, i quadri culturali e teorici alla base delle scelte operative degli educatori.
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L’intreccio di teoria e pratica che si incontra lungo tutto il testo – e che i curatori, Angelo Errani e Matteo Mazzetti, hanno ben saputo equilibrare – conduce il lettore a trasformare elementi complessi sfidanti in opportunità, situazioni di possibile esclusione in realtà vantaggiose per tutti. È soprattutto in quest’ottica che il testo lascia il segno: la generatività di nuove situazioni inclusive emerge dall’intreccio tra riflessione e azione. Il testo potrà essere utile a tutti coloro che sono impegnati nell’area della disabilità, avendo come scenario progettuale irrinunciabile la possibilità di un ruolo sociale che solo l’inclusione lavorativa può dare.
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2. Recensione
Charles Gardou, Nessuna vita è minuscola. Per una società inclusiva. Mondadori Università, Milano, 2016, pp. 80 di Ines Guerini / Università Roma Tre / ines.guerini@uniroma3.it
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Un testo che tutti dovrebbero leggere. Le piccole dimensioni non ingannino il lettore: Nessuna vita è minuscola racchiude nelle sue pagine un intero universo di concetti su cui è doveroso iniziare a riflettere e per cui siamo grati a Charles Gardou di essersene fatto carico, senza rinunciare tuttavia alla chiarezza espositiva che caratterizza il volume. All’autore va infatti il grande merito di aver scritto un testo la cui lettura appassionerà tanto gli studiosi e i ricercatori – che già lo stimano –, quanto gli studenti universitari che si accingono a studiarlo e in generale chiunque desideri compiere un affascinante viaggio verso la società inclusiva che Gardou auspica possa generarsi da una rivoluzione culturale, pari a quella verificatasi nell’età dei Lumi. Tutto ciò affinché l’inclusione non sia semplicemente «una nuova musica rarefatta, una danza con parole venute artificialmente a sostituirsi a quelle anticamente forgiate intorno alla nozione d’integrazione» (p. 1). Il lettore perdoni questa breve, ma doverosa, introduzione al testo e si lasci ora guidare lungo la sua articolazione. Aprono il volume le straordinarie parole di Alain Goussot, al quale dobbiamo anche la traduzione del volume stesso, che ci presenta la rivoluzione culturale di cui Gardou si fa promotore e ci ricorda che «al di là delle differenze culturali e fisiche tutti gli esseri umani sono uguali» (Goussot, 2016, p. XIV). Il testo procede con il prologo, Quando appare un concetto…, a cura dello stesso autore e si estende lungo i cinque capitoli che lo compongono. Cinque, come cinque sono gli assiomi che «costituiscono i pilastri su cui bisogna appoggiare l’edificio da costruire» (p. 3). Ed ecco quindi che si pongono le fondamenta per realizzare la società inclusiva o meglio quella “casa comune” che Charles Gardou ci presenta e ci invita ad abitare insieme; tutti insieme, nessuno escluso, perché «Nessuno ha l’esclusività del patrimonio umano e sociale», come recita il titolo del primo capitolo in cui l’autore riflette sui concetti di esclusione e inclusione, fino a preferire quello appunto di società inclusiva. L’inclusione viene allora a configurarsi non come una tendenza o una moda da seguire, quanto piuttosto come un processo obbligato e destinato a non concludersi, affinché non esista più un mondo dei “normali” e un mondo dei “disabili” o dei “diversamente abili” – così come non esistano più un mondo dei “normali” e uno degli “stranieri”, uno dei “normali” e uno degli “omosessuali” –, ma un unico, immenso ed eterogeneo universo. A questo proposito e in pieno accordo con l’approccio dei Disability Studies, che l’autore cita nel primo capitolo, ci vengono in mente le parole di Alain Goussot che nell’introduzione scrive: «la discriminazione è anche il prodotto di un meccanismo psico-sociale e culturale che fa dell’altro appartenente ad una miRecensioni
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noranza (disabile, immigrato, omosessuale, gruppo etnico-culturale minoritario o gruppo politico minoritario) una non-persona che viene marginalizzata in un non-luogo: in un ghetto sociale, in una periferia, in una riserva, in una istituzione chiusa» (Goussot, 2016, p. IX). Parlare d’integrazione o d’inclusione quindi risulta non essere più adatto, poiché come lo stesso autore si chiede e ci chiede, è necessario continuare «a parlare di bambini o di adulti integrati, a scuola o nei luoghi professionali come se si dovessero incorporare gli elementi esogeni che non fanno parte di un insieme comune?» (p. 37). La risposta a questa domanda così importante nell’attuale configurazione eterogenea della società sembra delinearsi meglio nel secondo capitolo, L’esclusività della norma non è di nessuno; la diversità siamo tutti noi, dove Gardou ci invita a riflettere sulla disumanizzazione delle persone disabili che atteggiamenti e comportamenti normanti mettono in atto. Tale operazione viene compiuta citando le abominevoli conseguenze che la categorizzazione e l’indicizzazione comportano, arrivando dunque a considerare esse stesse come un’altra conseguenza della dittatura. Charles Gardou ci ricorda quindi che «le persone disabili non appartengono a un tipo umano a parte […]. Non sono “strani stranieri” dai comportamenti bizzarri, confusi, anaffettivi, lontani, da identificare con la loro sindrome […]. Non sono riducibili alla loro carrozzella, al loro bastone bianco o alla loro protesi» (p. 18). Allo stesso modo se si continua a collocare le persone disabili in una classe di esclusi e a identificarle con esse, le persone «sono spogliate della loro identità e del loro nome. Qualcosa che assomiglia a una perdita di sé e a un internamento» (p. 23). Tale ragionamento prosegue nel terzo capitolo, Né vita minuscola né vita maiuscola, che si apre con delle semplici quanto meravigliose parole: «la storia più bella dell’uomo è la sua diversità» (p. 28), che ci conducono mano a mano verso la costruzione di una società inclusiva la cui scommessa «è quella di riunificare gli universi sociali gerarchizzati per forgiare un “noi”» (p. 26) e che per forza di cose viene costruita «contro le istituzioni politiche, i comportamenti e gli usi che sminuiscono i più fragili» (p. 32). Perché dunque è così importante parlare di un unico quanto differenziato “noi”? Perché altrimenti si finisce per «Vivere senza esistere (che) è la più crudele delle esclusioni». Eccoci giunti al quarto capitolo del libro, dove Gardou ci presenta il concetto di liminalità, ossia la condizione in cui la maggior parte delle persone disabili si trova a vivere: «nello stesso tempo dentro e fuori […]. Nelle mani degli altri che decidono per loro; che le prendono in carico senza prenderle in considerazione come soggetti e attori della propria storia e di un racconto comune» (pp. 40-41). Se internato, o se lontano da qualsiasi contesto sociale, l’essere umano dunque finisce per vivere o meglio sopravvivere, senza esistere davvero. Per esistere l’essere umano necessita degli altri ma se il contatto con gli altri e la relazione umana si esauriscono con la presa in carico dei propri bisogni, ecco allora che si sta agendo esclusivamente per la sopravvivenza della persona e non per la sua esistenza. Restituire invece alle persone disabili la propria voce è non solo fondamentale, perché il contrario viola i principi di ogni costituzione, quanto indispensabile per sviluppare processi di empowerment, altro concetto su cui
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l’autore ci invita a riflettere. L’empowerment, ossia il rinvigorimento delle proprie capacità, si scontra allora con l’assistenzialismo che rinchiude le persone dentro i confini del loro stesso essere che, come nel caso delle persone con disabilità, «curate da tutti, possono morire del fatto di non esistere per nessuno» (p. 40). Al contrario Gardou ci fa riflettere sul fatto che le persone disabili «non sono più esclusivamente da curare o riadattare, ma sono degli attori solidali, capaci d’impegnarsi in un’azione politica» (p. 66). Azione resa necessaria per «conquistare l’autonomia in una società concepita “dai validi per i validi”» (p. 66). È così che l’autore nell’ultimo capitolo, Ogni essere umano è nato per l’equità e la libertà, ci spiega il modello sociale dei Disability Studies a cui fa riferimento citando Michael Oliver. Equità e libertà sono principi costituzionali universali, eppure Gardou (citando il suo precedente libro Le handicap par ceux qui le vivent) afferma che «essere disabile vuol dire vedersi minacciato di essere determinato unicamente dal proprio handicap e sottoposto al comportamento degli altri, a forme di reclusione e di assoggettamento» (p. 63). Sarebbe invece opportuno ricordare che «una società inclusiva è una società senza privilegi, senza esclusività né esclusioni»; eccoci giunti all’epilogo di Nessuna vita è minuscola, il cui solo titolo concluderebbe in maniera più che esaustiva questa recensione. Tuttavia ci sia consentito ribadire che «essere inclusivi non vuol dire fare dell’inclusione per correggere a posteriori i danni dell’iniquità, delle categorizzazioni e degli ostracismi. Vuol dire ridefinire e ridare senso alla vita sociale nella casa comune […] (p. 70). È tutto ciò forse una chimera? Lo stesso Gardou se lo domanda. Nient’affatto; «la trasformazione delle menti e delle pratiche richiederà del tempo, ma è necessaria: coltivare la terra per favorirne il ricco sviluppo» (p. 70). È con questo messaggio e con l’augurio di aver destato grande curiosità nel lettore, che intendiamo salutarlo e invitarlo a riflettere sui concetti presenti in Nessuna vita è minuscola, poiché – illuminati dalle parole di Charles Gardou (così come dalle riflessioni dell’emerito professore Alain Goussot, a cui va ancora il nostro ringraziamento per la traduzione del libro e per tutti i suoi insegnamenti) – riteniamo che una società giusta, una società equa, una società in cui chiunque sia libero di autodeterminare il proprio destino è la società verso cui dobbiamo tendere. È quella casa comune di cui tutti noi dovremmo essere felici di possederne le chiavi, poiché l’unica in grado di migliorare la qualità della vita di ciascun componente.
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