Giornale Italiano della Ricerca Educativa Italian Journal of Educational Research RIVISTA SEMESTRALE anno IX – numero 16 – Giugno 2016
Direttore | Editor in chief ACHILLE M. NOTTI | Università degli Studi di Salerno Condirettori | Co-editors PIETRO LUCISANO | Sapienza Università di Roma PIER CESARE RIVOLTELLA | Università Cattolica di Milano Comitato Scientifico | Editorial Board JEAN-MARIE DE KETELE | Université Catholique de Lovanio VITALY VALDIMIROVIC RUBTZOV | City University di Mosca GIOVANNI BONAIUTI | Università degli Studi di Cagliari ETTORE FELISATTI | Università degli Studi di Padova MARIA LUCIA GIOVANNINI | Università di Bologna MARIA LUISA IAVARONE | Università degli Studi di Napoli “Parthenope” PERLA LOREDANA | Università degli Studi di Bari Aldo Moro PATRIZIA MAGNOLER | Università degli Studi di Macerata GIOVANNI MORETTI | Università degli Studi di Roma Tre ELISABETTA NIGRIS | Università degli Studu di Milano-Bicocca Comitato editoriale | Editorial management MARIA CINQUE | Università di Roma LUMSA ANNA SERBATI | Università degli Studi di Padova ROSA VEGLIANTE | Università degli Studi di Salerno Note per gli Autori | Notes to the Authors I contributi, in formato MS Word, devono essere inviati all’indirizzo email del Comitato Editoriale: rivista@sird.it Ulteriori informazioni per l’invio dei contributi sono reperibili nel sito www.sird.it __________________ Submissions have to be sent, as Ms Word files, to the email address of the Editorial Management: rivista@sird.it Further information about submission can be found at www.sird.it Consultazione numeri rivista http://ojs.pensamultimedia.it/index.php/sird
Codice ISSN 2038-9736 (testo stampato) Codice ISSN 2038-9744 (testo on line) Registrazione Tribunale di Bologna n. 8088 del 22 giugno 2010 Finito di stampare: Giugno 2016 Abbonamenti • Subscription Italia euro 25,00 • Estero euro 50,00 Le richieste d’abbonamento e ogni altra corrispondenza relativa agli abbonamenti vanno indirizzate a: Pensa MultiMedia Editore s.r.l. - Via A. Maria Caprioli, 8 - 73100 Lecce - tel. 0832.230435 www.pensamultimedia.it - info@pensamultimedia.it Editing e stampa Pensa MultiMedia Editore s.r.l. - Via A. Maria Caprioli, 8 - 73100 Lecce - tel. 0832.230435 www.pensamultimedia.it - info@pensamultimedia.it Progetto grafico copertina Valentina Sansò
Obiettivi e finalità | Aims and scopes Il Giornale Italiano della Ricerca Educativa, organo ufficiale della Società Italiana di Ricerca Didattica (SIRD), è dedicato alle metodologie della ricerca educativa e alla ricerca valutativa in educazione. Le aree di ricerca riguardano: lo sviluppo dei curricoli, la formazione degli insegnanti, l’istruzione scolastica, universitaria e professionale, l’organizzazione e progettazione didattica, le tecnologie educative e l’e-learning, le didattiche disciplinari, la didattica per l’educazione inclusiva, le metodologie per la formazione continua, la docimologia, la valutazione e la certificazione delle competenze, la valutazione dei processi formativi, la valutazione e qualità dei sistemi formativi. La rivista è rivolta a ricercatori, educatori, formatori e insegnanti; pubblica lavori di ricerca empirica originali, casi studio ed esperienze, studi critici e sistematici, insieme ad editoriali e brevi report relativi ai recenti sviluppi nei settori. L’obiettivo è diffondere la cultura scientifica e metodologica, incoraggiare il dibattito e stimolare nuova ricerca. ___________________________________ The Italian Journal of Educational Research, promoted by the Italian Society of Educational Research, is devoted to Methodologies of Educational Research and Evaluation Research in Education. Research fields refer to: curriculum development, teacher training, school education, higher education and vocational education and training, instructional management and design, educational technology and e-learning, subject teaching, inclusive education, lifelong learning methodologies, competences evaluation and certification, docimology, students assessment, school evaluation, teacher appraisal, system evaluation and quality. The journal serves the interest of researchers, educators, trainers and teachers, and publishes original empirical research works, case studies, systematic and critical reviews, along with editorials and brief reports, covering recent developments in the field. The journal aims are to share the scientific and methodological culture, to encourage debate and to stimulate new research. Comitato di referaggio | Referees Committee Il Comitato di Revisori include studiosi di riconosciuta competenza italiani e stranieri. Responsabili della procedura di referaggio sono il direttore e il condirettore della rivista. ___________________________________ The Referees Committee includes well-respected Italian and foreign researchers. The referral process is under the responsability of the Journal’s Editor in Chief and Co-Editors. Procedura di referaggio | Referral process Il Direttore e Condirettore ricevono gli articoli e li forniscono in forma anonima a due revisori, tramite l’uso di un’area riservata nel sito della SIRD (www.sird.it), i quali compilano la scheda di valutazione direttamente via web entro i termini stabiliti. Sono accettati solo gli articoli per i quali entrambi i revisori esprimono un parere positivo. I giudizi dei revisori sono comunicati agli Autori, assieme a indicazioni per l’eventuale revisione, con richiesta di apportare i cambiamenti indicati. Gli articoli non modificati secondo le indicazioni dei revisori non sono pubblicati. Per consultare il codice etico consultare il link: http://ojs.pensamultimedia.it/index.php/sird/about/editorialPolicies#custom-0 ___________________________________ Editor in chief and co-editor collect the papers and make them available anonymously to two referees, using a reserved area on the SIRD website (www.sird.it), who are able to fulfill the evaluation grid on the web before the deadline. Only articles for which both referees express a positive judgment are accepted. The referees evaluations are communicated to the authors, including guidelines for eventual changes with request to adjust their submissions according to the referees suggestions. Articles not modified in accordance with the referees guidelines are not accepted.
indice
EDITORIALE DI PIETRO LUCISANO
Studi 11
PAOLA AIELLO, UMESH SHARMA, MAURIZIO SIBILIO
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CRISTINA COGGI
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MARIA LUCIA GIOVANNINI
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PIETRO LUCISANO
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RENATA VIGANÒ
La centralità delle percezioni del docente nell’agire didattico inclusivo: perché una formazione docente in chiave semplessa? The role of teachers’ perceptions for inclusive teaching: why plan teacher education on simplex theory? Modelli teorici e strumenti di valutazione degli esiti in università Theoretical models and evaluation tools of learning outcomes in Higher education TecO all’Università: quali usi e funzioni? TecO at University: which uses and purposes? La misura delle misure e la validità educativa The Measure of measurement and educational validity Ricerca educativa fra pratiche e politiche istituzionali educational research between practices and institutional policies
Ricerche 85
ANNA V. ANTONOVA, MARIA A. CHUMAKOVA, IRENE STANZIONE
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LUCIA CHIAPPETTA CAJOLA, MARINA CHIARO, AMALIA LAVINIA RIZZO
il benessere educativo: validazione di un questionario sul benessere a scuola educational well-being: validation of a questionnaire on well-being at school Progettazione e valutazione inclusive per gli allievi con disabilità. dati da una ricerca esplorativa inclusive planning and inclusive evaluation for students with disability in italian school. Results from an exploratory research
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Italian Journal of Educational Research
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LOREDANA PERLA, VIVIANA VINCI
didattica per competenze nei Licei. Una ricerca collaborativa ScuolaUniversità competence-based teaching in Licei (High Schools). A School-University collaborative research
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ANDREA PINTUS
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ELEONORA RENDA, ANNA SALERNI, DANIA MALERBA
La valutazione della qualità dei servizi rivolti all’educazione e alla cura della prima infanzia: uno studio sull’attendibilità dello strumento valutativo Acei-iGA evaluating quality in early childhood education and care service: a study of the consistency of Acei-iGA assessment tool il tirocinio universitario secondo i tutor aziendali: un punto di vista centrale per un modello circolare e integrato Placement tutors’ perceptions about University traineeship: a central point of view for a circular and integrated model
esperienze 175
DILETTA PERETTI, RAFFAELA TORE
didattica Universitaria di Qualità in un’ottica inclusiva. il modello dUQ-G, per la gestione della progettazione di un corso di insegnamento Quality of didactic in University for an inclusive vision. The dUQ-G model, for project management of a course
informazioni 189
indice
GIOVANNI MORETTI
“La ricerca nelle scuole di dottorato in italia. dottorandi, dottori e docenti a confronto”: la decima edizione del seminario SiRd “The research at doctoral Schools in italy. comparing doctoral candidates, Ph.d.s and Teachers”: the tenth edition of SiRd conference
anno IX | numero 16 | Giugno 2016
editoriale PIETRO LUCISANO
Certamente è difficile trovare qualcuno che affermi di non avere a cuore i bambini, la loro esperienza educativa, la scuola, qualcuno che consideri non rilevante il fatto che per questo è necessario avere insegnanti preparati sul piano disciplinare e in grado di costruire esperienze educative che favoriscano l’apprendimento, la motivazione, la crescita di abiti sociali adeguati e così via. Non credo sia una tematica solo da pedagogisti, credo sia un argomento di buon senso che interessa genitori, nonni, zii e poi anche gli altri che nella loro esperienza sociale con questi bambini e adolescenti e giovani avranno comunque a che fare. Il Governo si è speso per realizzare il progetto della buona scuola creando discussioni e attese. Mentre attendiamo, e vediamo anche alcune azioni parzialmente positive in particolare sul versante del reclutamento degli insegnanti, non possiamo non prendere atto della lentezza e della confusione con cui, in modo assolutamente coerente con il passato, viene gestito il percorso di formazione degli insegnanti. Come al solito siamo in ritardo, come al solito non sappiamo con chiarezza se si attiverà o no un altro ciclo di TFA, e siccome ormai l’estate avanza il rischio, è di dover come al solito realizzare percorsi affrettati, a programmazione delle aule già avvenuta, cercando e impegnando i docenti all’ultimo momento. Così non funziona e non c’è bisogno di avere sistemi avanzati di valutazione per sapere che non funziona, si sa già prima di procedere. È importante abbiamo ripreso il dialogo con i colleghi disciplinaristi assumendo che non ci sono spazi da difendere, ma che bisogna costruire insieme le professionalità necessarie per la formazione degli insegnanti. Dico bisogna costruire perché se è vero che ci ne sono alcuni formatori sia tra i pedagogisti sia tra i disciplinaristi che si preoccupano di didattica, è altrettanto vero che i numeri sono largamente al di sotto dei fabbisogni formativi e che queste professionalità non si improvvisano. Sia per la ricerca educativa e didattica sia per le didattiche disciplinari occorre che si trovino incentivi per promuovere ricerca e attenzione. Senza ricerca la didattica, disciplinare e non, rischia di essere un insieme di ricettari retti sul principio di autorità e su piccole sperimentazioni, che dell’empirico si portano appresso quasi solo il carattere di non generalizzabilità. Costruire insieme richiede il superamento dell’atteggiamento valutativo e l’assunzione del punto di vista dell’altro. Non è difficile trovare i limiti negli interventi dei nostri colleghi disciplinaristi ed è altrettanto facile per loro giudicare gli errori e le ingenuità del nostro lavoro. Così invece di cercare di comprendere insieme come venirne fuori diventiamo esperti del “vostra culpa” e ci appassioniamo a capire quanti crediti spetteranno a ciascuno, sapendo già, lo sappiamo noi come i disciplinaristi, che ad oggi Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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questi crediti vedranno impegnati colleghi che con la ricerca didattica e con la didattica disciplinare hanno poca consuetudine. È necessario che, mentre si cerca di affrontare l’emergenza, ci si doti di una strategia che permetta nel medio periodo di far crescere una cultura della formazione dei docenti attraverso una molteplicità di iniziative formative, che costruiscano una comunità di ricercatori in grado di lavorare per una prospettiva comune con un chiaro taglio interdisciplinare e pluridisciplinare, una comunità che si confronti nella ricerca teorica e empirica, che dunque disponga di fondi per realizzare questa ricerca. È necessario che si attivino dottorati interdisciplinari finalizzati alla formazione di ricercatori con queste caratteristiche, che si valorizzi la ricerca didattica nelle carriere dei pedagogisti e dei ricercatori impegnati nella didattica disciplinare e che questa comunità di ricerca abbia la possibilità di un confronto reale con la scuola e con gli insegnanti. Per parte nostra il successo dell’incontro annuale dei dottorandi mostra una crescita di attenzione e di qualità delle persone che stiamo formando anche se è evidente a tutti noi che, in assenza di prospettive di reclutamento, la formazione attraverso i dottorati rischia di essere un impegno che non produce risultati dato che i nostri migliori giovani ricercatori sono destinati a lunghi e talvolta interminabili percorsi di precariato. Una strategia di medio termine richiede che si trovi una soluzione alla frammentazione della nostra comunità scientifica attraverso l’identificazione di obiettivi prioritari. La SIRD ha tentato di realizzare con il suo Manifesto una proposta in questa direzione, ma i risultati finora non sono stati adeguati. I nostri gruppi di lavoro stanno procedendo e dopo il convegno di Padova sul progetto TECO e il Convegno di Bari sulla Formazione degli insegnanti, abbiamo in cantiere un’importante occasione promossa dall’Osservatorio sulle Didattica e le didattiche disciplinari con l’obiettivo strategico di superare le contrapposizioni e gli isolamenti storici tra il mondo della Pedagogia e della Didattica e il mondo dei diversi saperi disciplinari. Il convegno di dicembre si propone di costruire un gruppo di dialogo e confronto, che produca da un lato, una riflessione congiunta sulle modalità più idonee per avvicinare gli allievi delle diverse età ai diversi saperi e facilitare l’acquisizione di conoscenze e competenze nei diversi campi disciplinari; dall’altro lato avvii una serie di ricerche interdisciplinari su queste tematiche (sviluppando e consolidando esperienze che per ora appaiono ancora sporadiche). Merita in proposito ricordare che abbiamo alle spalle un lungo percorso che vede alla fine degli anni Ottanta, in Sapienza, la sperimentazione di un percorso di formazione universitaria per insegnanti promosso, con un Finanziamento CNR, da Visalberghi e Corda Costa, per la componente pedagogica e da Carlo Bernardini, Matilde Vicentini e Giulio Cortini e Lucio Lombardo Radice, Bruno Bertolini e tanti altri colleghi. Merita ricordarlo non solo perché è un errore ricominciare sempre da capo, ma anche per tenere bene fermo il punto che queste iniziative hanno comunque bisogno di un supporto strutturale. Ed è questo che insieme dobbiamo chiedere al Ministero, e ai nostri interlocutori politici, un piano quinquennale finanziato per dare modo alle università di realizzare l’ambizioso obiettivo di fare in modo che gli insegnanti entrino in classe preparati sia sul merito sia sul metodo del loro mestiere. Un piano quinquennale finanziato e non a costo zero. Sono i mezzi che decidiamo di mettere in gioco che determinano quanto ci si tiene all’obiettivo.
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La centralità delle percezioni del docente nell’agire didattico inclusivo: perché una formazione docente in chiave semplessa? Paola Aiello • Università degli Studi di Salerno – paiello@unisa.it Umesh Sharma • Monash University, Melbourne – umesh.sharma@monash.edu Maurizio Sibilio • Università degli Studi di Salerno – msibilio@unisa.it
The role of teachers’ perceptions for inclusive teaching: why plan teacher education on simplex theory? Il lavoro presenta una lettura in chiave semplessa del costrutto dell’agentività proposto da Albert Bandura applicato all’ambito della didattica inclusiva. L’argomentazione elaborata riconosce al docente un ruolo proattivo nelle prassi didattiche volte a realizzare il successo formativo di tutti e ciascuno, mettendo in evidenza i meccanismi percettivi dell’insegnante che intervengono nella realizzazione dell’atto traspositivo. L’obiettivo è proporre una formazione docente basata su percorsi formativi riflessivo-proattivi ed orientata alla piena consapevolezza da parte dei docenti delle proprie risorse personali e del proprio potenziale trasformativo e generativo.
Keywords: inclusion, teaching, agency, simplexity, teaching profession, didactic transposition.
Parole chiave: inclusione; agire didattico, agentività, semplessità, professionalità docente, trasposizione didattica.
Paola Aiello, professore associato di “Didattica e pedagogia speciale” presso il Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione (DISUFF) dell’Università degli Studi di Salerno, è autore dell’articolo. Umesh Sharma, professore associato e coordinatore dei corsi di “Special Education” presso la Facoltà di Educazione della Monash University di Melbourne, è coautore dell’articolo. Maurizio Sibilio, professore ordinario di “Didattica e pedagogia speciale” presso il Dipartimento di Scienze Umane, Filosofiche e della Formazione (DISUFF) dell’Università degli Studi di Salerno, è coautore e coordinatore scientifico dell’articolo. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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studi
This work presents an interpretation of the construct of agency proposed by Albert Bandura from a simplex perspective within the field of inclusive education. The thesis proposed acknowledges the proactive role of the teacher in choosing teaching strategies aimed at guaranteeing school achievement of all students independent of their needs and abilities. It highlights the teachers’ perceptive mechanisms that intervene during the didactic transposition. The objective is that of proposing teacher education courses that are based on reflectiveproactive training paths and are oriented towards teacher cognisance of their own resources and their transformative and generative potential.
La centralità delle percezioni del docente nell’agire didattico inclusivo: perché una formazione docente in chiave semplessa?
1. Premessa
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La centralità che ha assunto l’azione negli studi sulla didattica degli ultimi decenni ha stimolato la riflessione scientifica sui possibili meccanismi che ne sono alla base e che imprimono ad essa una direzionalità educativa ed inclusiva, inducendo i docenti a compiere scelte caratterizzate dalla necessità di un allineamento consapevole dell’insegnamento ai bisogni educativi del discente (Sibilio, 2016). L’azione in didattica, intesa come “intelligenza pratica, frutto dell’adattamento procurato dall’interazione con gli altri attori della vita scolastica, a cominciare dagli alunni, nelle condizioni d’esercizio del lavoro di aula” (Damiano, 2013, p. 275), è per sua natura un oggetto complesso, quindi intellegibile solo a partire da diverse prospettive disciplinari. Del resto, l’azione ha da sempre rappresentato un campo di indagine che ha interessato vari domini scientifici: dalle scienze umane, che ne hanno interpretato la dimensione soggettiva, alle scienze naturali, che ne hanno fornito una spiegazione oggettiva in termini di meccanismi neurofisiologici. Dalla convergenza di questi orientamenti si è generata una posizione di sintesi riconducibile ad uno specifico punto di vista che indaga l’azione in una prospettiva sistemica, connessa agli studi sulla persona che apprende, soffermandosi sui meccanismi naturali, sui correlati fisiologici e sui fattori bio-chimici, senza negare il ruolo svolto dalle costruzioni socio-culturali e dai condizionamenti ambientali (Bertagna & Triani, 2013), riportando, infine, il discorso sull’“autopoiesi biologica in transazione adattiva dell’ambiente” (Orefice, 2006, p. 6) come matrice anche degli studi sulla formazione e sulla didattica. Tali filoni di ricerca, che pongono un’ontologia complessa dell’agire didattico, affondano le proprie radici nella bioeducazione (Frauenfelder, 1983, 1994) che ha gradualmente condotto ad un’apertura verso lo studio del potenziale di educabilità rintracciabile nel rapporto tra nature e nurture, a cui si collegano attualmente gli studi sulla didattica enattiva (Rossi, 2011), sulla neurodidattica (Rivoltella, 2012) e sulla didattica semplessa (Sibilio, 2012; 2014a). Il potenziale di educabilità, inteso come possibilità e disposizione all’apprendimento, sembrerebbe introdurre vari gradi di libertà (Bartra, 2014; Dehaene, 2009; Sibilio, 2015) fortemente condizionati dai meccanismi percettivi e dal contesto che orientano ed organizzano l’azione fino a tradurla in atto. Sulla scia di queste suggestioni, si inserisce una chiave di lettura delle dinamiche complesse dell’azione didattica in linea con la proposta della teoria o nozione di semplessità di Alain Berthoz, fisiologo della percezione e dell’azione del Collège de France, che ha consentito di avviare un’analisi critica, corroborata dalle evidenze empiriche derivanti dagli studi neurofisiologici, delle dinamiche che influenzano l’agire didattico ed entrano in gioco nel caratterizzare l’atto che, anche quando ha una funzione traspositiva, si dimostra organizzatore della percezione stessa e del mondo percepito (Berthoz, 2003). Alain Berthoz, infatti, propone una visione della percezione come scelta tra la massa di informazioni disponibili, di quelle pertinenti rispetto all’azione conside-
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rata (2013), intendendo la percezione come una decisione che elimina le ambiguità, legando il passato al presente e al futuro e creando ordine nel rapporto tra soggetto ed interazione con il mondo. Secondo questa prospettiva diventa estremamente rilevante considerare, in ambito didattico, ciò che il docente sceglie di percepire quando il suo agire didattico è finalizzato alla destrutturazione di approcci tradizionali lineari (Sibilio, 2016) e all’adozione di strategie inclusive. A partire da tale premessa, si intende proporre una possibile lettura dell’atto traspositivo finalizzato all’inclusione, come sintesi compiuta delle “percezioni, delle azioni, dei diversi elementi di intenzionalità” (Berthoz, 2011, p. 120) e delle scelte che operano i docenti, esercitando la propria agentività in modalità proattiva nelle dinamiche inclusive, spesso condizionate dalle loro credenze, dai loro atteggiamenti e sentimenti, dalla percezione di autoefficacia. In particolare, il contributo intende evidenziare alcune delle motivazioni per le quali una formazione docente in chiave semplessa possa rivelarsi efficace, consentendo l’attivazione di un processo riflessivo-proattivo per fronteggiare la complessità dei contesti scolastici odierni.
2. Inclusione e formazione: focus sulle dimensioni implicite dell’agire didattico inclusivo Nello scenario delle teorizzazioni sul valore dell’educazione inclusiva emerge sempre con maggiore forza che essa rappresenta il traguardo di una didattica efficace, frutto di un’azione condivisa (Booth, 2011), volta a valorizzare tutte le differenze soggettive e ad affermare l’equità dei diritti, sia ad un livello istituzionale macro che ad un livello micro, implicando l’agire professionale finalizzato a realizzare il successo formativo di tutti e ciascuno (Sibilio & Aiello, 2015). La logica dell’inclusione, infatti, pone l’accento sull’esigenza di rispondere ai differenti bisogni manifestati dagli studenti durante il percorso scolastico, con l’obiettivo di rimuovere le barriere che ostacolano l’apprendimento e favorire, in tal modo, la partecipazione di tutti gli alunni alla vita scolastica indipendentemente da eventuali situazioni di disabilità, da diversità linguistico-culturali o da svantaggio economico-sociale al fine di prevenire fenomeni di marginalizzazione e discriminazione (UNESCO, 1994; 2000). Tale prospettiva, riconoscendo la specificità evolutiva di ciascuno, richiama la necessità di una rimodulazione dell’attività didattica basandola sull’individuazione di modalità e strumenti in grado di tenere conto delle peculiarità e delle naturali inclinazioni degli studenti. A tal proposito, la comunità è chiamata ad adottare un approccio inclusivo nella pianificazione, nell’implementazione, nel monitoraggio e nella valutazione delle politiche educative per accelerare ulteriormente il raggiungimento degli obiettivi dell’Education for All e per contribuire a creare delle società più inclusive (UNESCO, 2008). In questo scenario, i docenti si configurano come “leve del cambiamento” (Ainscow, 2005), ovvero agenti strategici dei processi di inclusione sociale e scolastica per i quali è fondamentale una formazione specifica che possa fornire loro le competenze necessarie a tradurre sul piano prassico i principi fondanti della logica inclusiva. Il conseguimento di tale finalità, in Italia, paese nel quale già dagli anni Settanta si è realizzata l’integrazione degli alunni disabili nei contesti ordinari, la prospettiva
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della full inclusion ha evidenziato la necessità di uno sviluppo professionale che partisse dalla formazione iniziale ed in servizio degli insegnanti e che fosse finalizzata alla padronanza delle competenze e all’internalizzazione di un habitus professionale costituito da “disposizioni ad agire” (Rossi, 2011, p. 127) che, integrando la dimensione esperienziale, costituisce una matrice di percezioni, inclinazioni e azioni, rendendo possibile lo svolgimento di compiti differenziati sulla base di schemi che consentono di risolvere situazioni problematiche analoghe (Bourdieu, 1972). Il concetto di habitus, nel caso specifico del docente, ha consentito di esprimere un agire didattico orientato a fronteggiare la complessità dei processi di insegnamento-apprendimento nell’eterogeneità che caratterizza i contesti scolastici contemporanei attraverso un riprodursi di pattern di azione che, nella pratica professionale, generano specifici comportamenti di risposta a determinati stimoli contestuali (Perrenoud, 2010; Magnoler, 2011). In una visione della mente umana proattiva e generativa, oltre che reattiva, appare interessante una riflessione finalizzata ad orientare la professionalità docente per la realizzazione di un agire didattico inclusivo verso una piena consapevolezza di come si creino mondi possibili attraverso l’esercizio dell’agentività personale, generando azioni mirate a scopi formativi ed educativi. Come precisa Bandura,
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l’intenzionalità e l’agentività sollevano la questione fondamentale di come le persone azionino i processi cerebrali che caratterizzano l’esercizio dell’agentività e conducono alla realizzazione di particolari intenzioni. Tale questione va oltre i correlati cerebrali dell’input sensoriale e dell’output motorio e tocca la produzione intenzionale di eventi cerebrali nel pensare a corsi di azioni future, valutare il loro probabile valore funzionale in varie circostanze e organizzare e guidare le soluzioni scelte (Bandura, 2000, p. 26).
Ciò suggerisce, dunque, una formazione dei docenti in cui sia prioritario il richiamo a competenze di attenta sorveglianza sulle dinamiche che intervengono nel proprio agire didattico (Cerri, 2012, p. 147) e su quelle dimensioni cognitive implicite che intervengono nondimeno nell’agire con direzionalità inclusiva. Sebbene nel tempo si sia sviluppato uno specifico filone di ricerca volto a far emergere l’hidden degli atteggiamenti, delle preoccupazioni, dei sentimenti che agiscono nelle pratiche didattiche inclusive (Forlin, Earle, Loreman & Sharma, 2011), rimangono in gran parte inesplorati molti aspetti legati alla relazione tra percezione ed azione per una didattica che sia efficacemente inclusiva e, quindi, a quei processi di elaborazione cognitiva condizionati non solo da predisposizioni bottom-up, ovvero processi di elaborazione dalle sensazioni ai concetti, ma soprattutto da meccanismi top-down, ossia forme di anticipazione percettive che derivano dall’intenzione verso il mondo esterno e che conducono ad un’interazione che proietta nel mondo le nostre intenzioni. Per il conseguimento di tale finalità, la semplessità si offre alla ricerca sulla didattica inclusiva come strumento concettuale utile a comprendere quei meccanismi di regolazione dell’agentività professionale con la finalità di orientare la formazione dei docenti verso un’attività consapevole di preparazione dell’atto traspositivo, anticipandone le conseguenze. L’invito è ad una percezione cosciente che implica la consapevolezza non di ciò che il docente fa, ma di ciò che anticipa.
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3. Percezione e agire didattico inclusivo in chiave semplessa La teoria della semplessità, proposta da Alain Berthoz (2011), informa sui molteplici meccanismi di adattamento all’ambiente degli organismi viventi, proponendo una serie di proprietà e di principi semplessi come soluzioni possibili per decifrare la complessità del reale. L’applicazione di tale teoria alla didattica in Italia (Sibilio, 2014a; 2014b; 2015) ha corrisposto alla necessità di una proposta che arginasse i pericoli di una possibile deriva descrittiva della complessità che, per molti anni, ha rappresentato la metateoria di riferimento degli studi sulla pedagogia e sulla didattica. In questa prospettiva, la nozione di semplessità si è rivelata una suggestione utile a rintracciare soluzioni e comportamenti orientati a risolvere la tradizionale tensione dualistica tra chi insegna e chi apprende (Sibilio, 2015), attraverso l’individuazione di regole semplici fruibili nell’agire, espressioni di principi biologici di adattamento degli esseri viventi che procedono attraverso la riduzione della dimensionalità dei problemi, affrontando la complessità semplicemente agendo, giocando d’anticipo (Petit, 2014). In questo ripensamento della didattica in termini semplessi si è reso necessario ripercorrere le tappe dell’applicazione del pensiero complesso agli studi sulla pedagogia e sulla didattica fino a proporre un’analogia del sistema didattico con i sistemi complessi adattivi, per rintracciarne successivamente i principi e le proprietà che regolano il fenomeno didattico, tenendo in debito conto i pericoli derivanti da un trasferimento diretto dei risultati prodotti nell’ambito delle scienze dure alla pratica educativa e didattica (Sibilio, 2014a). Con la medesima cautela, la proposta di Berthoz si propone ancora come nozione o teoria utile per la ricerca didattica volta a decifrare le dinamiche di interazione di quell’insieme complesso di meccanismi che influenzano l’agire dei docenti per una didattica efficace e, dunque, inclusiva. D’altra parte, come accade in molte professioni, in qualsiasi forma di agire degli insegnanti sono inevitabilmente implicati, in maniera non sempre consapevole, meccanismi attenzionali imprescindibili dalle percezioni, dalle intenzioni educative e dalle decisioni di agire che si legano a quel groviglio inestricabile di conoscenze, ipotesi, interpretazioni, esperienze, credenze insite nell’azione (Sibilio, 2015). Vi è da sottolineare, a tal proposito, che queste influenze agiscono sulle aspettative di rendimento di ogni discente, sul sostegno accordato e sulla considerazione della propria capacità di intervento con evidente ricaduta sull’auspicato successo formativo, partendo dal potenziale educativo di ogni alunno (Darling-Hammond, Bransford, LePage, Hammerness & Duffy, 2005; Rivkin, Hanushek & Kain, 2005; Schwerdt & Wuppermann, 2011). In particolare, la semplessità consente di rintracciare i legami tra percezioni ed azioni che intervengono nel realizzare l’atto traspositivo come momento finale di un processo di ristrutturazione attraverso cui il sapere sapiente diviene sapere insegnato e poi, appreso (Chevallard, 1985). Tale processo di “designazione e di trasformazione dei contenuti del sapere come contenuti da insegnare” (Rossi & Pezzimenti, 2012, p. 169) è regolato, infatti, da meccanismi di selezione e di scelta da parte del docente che sono imprescindibili dalla considerazione del vissuto del discente alla base di qualsiasi forma di personalizzazione o di individualizzazione. In questo senso, la selezione rappresenta un principio regolativo della didattica inclusiva in quanto consente di individuare quelle informazioni che potrebbero contribuire alla costruzione di senso dei contenuti proposti, in considerazione de-
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gli stili cognitivi, del mondo esperienziale del discente e del proprio Umwelt. La nozione di senso, pertanto, richiamando Berthoz, avrebbe come fondamento l’atto traspositivo, possibile, intenzionale e soprattutto desiderato (Berthoz, 2011). In tale selezione opererebbero i meccanismi decisionali del docente, in quanto la scelta delle informazioni sarebbe condizionata da quelle che si rivelano “pertinenti ai fini dell’azione” (Berthoz, 2011, p. 14) ed influenzata non solo da forme di anticipazione percettive, ma anche dai meccanismi per i quali il docente proietta sul mondo le proprie intenzioni e le proprie ipotesi. In questa prospettiva, la selezione operata dal docente contribuirebbe, in maniera non sempre consapevole, a “creare un rapporto con il discente e con la disciplina, una situazione di successo o di insuccesso che influenza le concezioni personali dell’allievo su di sé e sulla materia studiata” (Nigris, 2012, p. 72). Nella visione proposta da Berthoz, la decisione su quale aspetto o su quale oggetto porre l’attenzione, alla base della selezione, esercita una funzione sulla percezione e, secondo questa interpretazione, i meccanismi attenzionali coincidono con l’intenzione da cui deriva una specifica configurazione delle sensazioni attese e ancorate nelle azioni. A tal proposito, appare lecito supporre un possibile collegamento con le capacità causative del docente riassumibili nel concetto di agentività, così come è stato proposto da Albert Bandura (1977). L’agentività verrebbe, in tal caso, identificata con gli atti compiuti intenzionalmente dal docente in quanto dotato della facoltà di generare azioni mirate a determinati scopi e di una mente creativa, generativa e proattiva in grado di creare mondi o per lo meno avere l’illusione di sfuggire al proprio Umwelt (Berthoz, 2011). Nell’ambito della pedagogia e della didattica dell’inclusione il concetto di Umwelt ha già stimolato la riflessione sulle modalità più efficaci per perfezionare e per affinare il processo di apprendimento, creando le condizioni della strutturazione dell’universo soggettivo del discente a partire dai suoi bisogni educativi e dai possibili strumenti di azione (Sibilio, 2015; Aiello, 2016). L’idea sarebbe strettamente connessa al concetto di proazione e di anticipazione probabilistica che fonda la rappresentazione di un cervello che non si limita a simulare la realtà, ma ad emulare un mondo possibile (Berthoz, 2011). L’anticipazione e la previsione consentirebbero, in particolare, di confrontare i dati dei sensi con le conseguenze delle azioni passate e di prevedere gli effetti delle azioni in corso. In quest’ottica, per progettazione didattica inclusiva si intenderebbe una preparazione dell’atto traspositivo anticipandone le conseguenze (per quanto possibile), valutandone il loro valore funzionale in varie situazioni, organizzando e guidando l’esecuzione delle opzioni scelte, in altre parole “una vera e propria ‘metodologia della previsione’” (Rivoltella, 2014, p. 18). Nel porre l’atto al centro di qualsiasi analisi sul funzionamento degli esseri viventi, Berthoz si sofferma sulla relazione tra attenzione-percezione-azione, consolidando un’idea già maturata nell’ambito dell’approccio fenomenologico e nella recente ricerca neuroscientifica. Ribaltando il tradizionale paradigma per cui percezione e azioni si manifestano come elementi consecutivi e discreti, la visione di Berthoz poggia sulle evidenze empiriche che confermano l’inscindibilità della percezione e dell’azione, per cui la percezione è funzione dell’azione (Sibilio, 2014a). In questo senso, una riflessione in ambito didattico che recepisca la reciprocità dinamica e funzionale tra azione e percezione si fonda sul concetto di Umwelt e, quindi, sulla possibile creazione attraverso atti traspositivi di mondi possibili in funzione dei bisogni educativi del discente, accogliendo l’ipotesi per cui “nel corso
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dell’evoluzione sono comparsi meccanismi che permettono di adattare il repertorio delle informazioni pertinenti in funzione degli scopi, dei desideri, delle credenze di ciascuno di noi in ogni istante” (Berthoz, 2011, p. 37). Tale adattamento anche in didattica è, dunque, reso possibile dalla facoltà di cambiare l’oggetto del proprio interesse in ragione o di stimoli esterni (esogeni) o di stimoli interni al soggetto stesso (endogeni), dipendente da un “un meccanismo che configura il mondo per le nostre azioni e le nostre intenzioni, di cui si trova traccia a tutti i livelli del sistema nervoso, dai più elementari a quelli più apertamente cognitivi” (Berthoz, 2011, p. 40). Se il cervello, quindi, decide su quale aspetto o su quale oggetto porre l’attenzione, inducendo ad una selezione ed esercitando una funzione sulla percezione, il docente diviene agente causale attivo in grado di modificare il corso degli eventi, anticipando e prevedendo gli esiti della sua azione ed influendo sui risultati formativi dei suoi discenti. La dimensione sempre probabilistica di tale anticipazione e previsione includerebbe necessariamente l’imprevisto nella relazione insegnamento-apprendimento, docente-discente, negando ogni forma di determinismo e logiche lineari rigidamente causali, seppur lasciando spazio all’ “idea che dal disordine possa emergere l’ordine” (Berthoz, 2011, p. 17).
4. Agentività e semplessità per una didattica inclusiva La riflessione sui meccanismi che condizionano in maniera implicita l’agire didattico, corroborata dagli studi sviluppatisi nell’ambito delle scienze dure e, in particolare, degli studi sulla semplessità, induce a considerare l’importanza di costrutti che sono al centro della dimensione internazionale della ricerca sulla professionalità docente per favorire l’inclusione. A tale proposito, l’attenzione è stata rivolta negli ultimi decenni a valutare quanto il docente si senta capace di esercitare un’influenza su ciò che fa, inducendo a recuperare il senso delle responsabilità individuali nel produrre gli effetti sperati e capitalizzando le opportunità offerte da un contesto socio-strutturale preordinato. Ciò ha implicato nella ricerca educativa uno slittamento del focus dell’indagine sulle competenze professionali del docente che orientasse gli studi sulle abilità non tecniche dell’insegnante, ossia quelle abilità di tipo comportamentale, sociale e cognitivo che non sono specifiche dell’expertise dell’insegnante, ma che intervengono nel processo di insegnamento-apprendimento, assumendo una funzione centrale. Questo filone di studi nei Paesi in cui ancora non si è concretizzata, come in Italia, un’impostazione dell’organizzazione delle istituzioni scolastiche caratterizzata dal superamento di un sistema dual track, scuole ordinarie e scuole speciali, si è concentrato prevalentemente su specifiche indagini relative agli atteggiamenti, alle opinioni e alle preoccupazioni riguardo all’integrazione dei soggetti con disabilità nei contesti scolastici ordinari (Sharma, Forlin, Loreman & Earle, 2006; Changpinit, Greaves & Frydenberg, 2007; Sharma, Moore & Sonawane, 2009; Woodcock, Hemmings & Kay, 2012; Ahsan, Sharma & Deppeler, 2012). In particolare, tali ricerche hanno mostrato che gli atteggiamenti positivi verso l’inclusione rappresentano una determinante significativa del suo successo, in quanto esercitano un’influenza sulle prassi didattiche quotidiane con una ricaduta sul clima della classe e sulla performance degli studenti (Avramidis & Norwich, 2002; Jordan, Schwartz, & McGhie-Richmond, 2009; Vianello & Di Nuovo, 2015). Nondimeno in Italia, la necessità di recepire informazioni da sottoporre ad
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analisi critica per favorire le dinamiche di inclusione ha raccolto le suggestioni emergenti dalla riflessione su questi specifici temi e si è posta come obiettivo quello di fornire ai docenti un’opportunità di riflessione sui loro sentimenti, atteggiamenti, preoccupazioni e livelli di efficacia verso l’inclusione, impiegando strumenti di valutazione validati scientificamente e adattati al contesto italiano, come le scale Sentiments, Attitudes and Concerns towards Inclusive Practices – Revised (SACIE-R) e Teacher Efficacy for Inclusive Practices (TEIP) (Sharma, Loreman & Forlin, 2012; Aiello et al., 2016). Per quel che concerne lo specifico dei costrutti agentività e teacher efficacy, essi si collegano alla necessità che il docente eserciti la facoltà di generare azioni finalizzate a produrre effetti formativi ed educativi, facoltà che sembra essere fortemente condizionata dal senso di efficacia, quale elemento chiave dell’agentività. La scelta delle azioni da intraprendere sarebbe condizionata “dalle percezioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati” (Bandura, 2000, p. 23), lasciando spazio all’idea che i processi di pensiero che regolano l’avvio delle transazione con l’ambiente abbiano una ricaduta sugli effetti prodotti dalle azioni e che, secondo il principio della causazione personale, le persone contribuiscono in maniera proattiva alla scelta della azioni di compiere. La riflessione sui meccanismi di percezione e di azione che esercitano un’influenza sugli esiti formativi dei discenti induce a considerare i fattori fondamentali dei sistemi generativi delle competenze dei docenti, restituendo al docente un ruolo proattivo nelle dinamiche di inclusione. La scelta delle azioni da compiere, dunque, non sarebbe solo una risposta agli input che arrivano dall’esterno, piuttosto una conseguenza delle alternative che vengono prese in considerazione, del modo in cui si anticipano, si prevedono e si valutano i risultati immaginati, inibendo tutte le soluzioni automatiche e apprese, operando attraverso un esercizio dell’agentività che interviene in modo intenzionale e generativo. In questa visione, la semplessità si è rivelata uno strumento concettuale utile ad individuare le regole semplici che governano il flusso di azioni didattiche finalizzate alla realizzazione di un atto traspositivo che produca i suoi effetti sui risultati formativi di tutti i discenti, implicando la dimensione proattiva del docente nelle prassi didattiche inclusive.
5. Conclusioni L’orizzonte teorico tracciato da Berthoz, applicato all’ambito didattico, appare fortemente collegato agli studi di Bandura sull’agentività ed offre una chiave interpretativa nuova della causazione personale, arricchendo di nuovi significati la riflessione sulle dinamiche di insegnamento-apprendimento. I costrutti agentività e teacher efficacy appaiono, infatti, recepire la relazione circolare tra azione e percezione che lega dinamicamente la cognizione ai processi di interazione, di elaborazione, di decodifica, di simulazione e di proazione. In questo senso, l’inscindibilità tra percezione ed azione richiama le funzioni endogene ed esogene dell’interazione in didattica, avvalorando l’agentività del docente, che può essere indagata in chiave semplessa come l’espressione di proprietà e principi che proiettano le elaborazioni percettive del docente nell’atto traspositivo. Alla luce degli studi su questi specifici temi e raccogliendo le suggestioni emer-
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genti dalla ricerca in ambito neuroscientifico in una prospettiva interdisciplinare, si renderebbe necessario un ripensamento della formazione dei docenti che comprenda una preliminare conoscenza dei meccanismi regolatori dell’agire didattico, auspicando la realizzazione di percorsi formativi riflessivo-proattivi per una maggiore consapevolezza da parte dei docenti delle proprie risorse personali e del proprio potenziale trasformativo e generativo. Nella teorizzazione sulle mutue influenze tra insegnamento e apprendimento per realizzare dinamiche inclusive volte a favorire il successo formativo di ciascun discente, i docenti svolgerebbero una funzione importante, risolvendo situazioni problematiche, assumendo decisioni, operando scelte, progettando azioni e valutandone gli esiti. In questo difficile compito, assumono di fatto rilievo le elaborazioni percettive insieme ai fattori ambientali, in quanto l’agire educativo si caratterizza non solo per contestualità e situatività, ma anche per intenzionalità (Striano, 2001). Le azioni didattiche, infatti, si organizzano in ragione di elementi contestuali, sono regolate da specifiche situazioni e, nel contempo, sono sostenute da intenzioni educative che richiedono una continua riflessione sui processi regolatori (Perla, 2013) che le guidano e le orientano. L’incontro tra Alain Berthoz e Albert Bandura appare, quindi, come una nuova prospettiva della formazione docente che riposiziona l’azione e la riflessione nei percorsi di qualificazione e di sviluppo professionale del docente in una scuola che sia in grado di affermare il diritto all’apprendimento e di valorizzare le differenze individuali.
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Modelli teorici e strumenti di valutazione degli esiti in università
Cristina Coggi • Università di Torino – cristina.coggi@unito.it
Theoretical models and evaluation tools of learning outcomes in Higher Education Definire ed esplicitare gli esiti, vale a dire i risultati di apprendimento degli studenti, è un’esigenza rilevante per l’Università. Si tratta di un problema con una storia relativamente recente, di cui richiameremo qualche passaggio. Proporremo quindi alcuni elementi di riflessione sui modelli che si adottano, sugli strumenti di misura correlati, per individuare infine qualche linea di approfondimento per la ricerca.
Keywords: learning outcomes, competences, ranking, higher education, formative assessment, critical thinking.
Parole chiave: esiti di apprendimento, competenze, classificazione, università, valutazione formativa, pensiero critico.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Relevant requirement for the University is to define and explain the results, the learning outcomes of students. It’s a problem with a relatively recent history, of which we’ll discuss some steps. Then we’ll propose some elements of reflection about the models that are adopted, on related measurement tools, to finally find new challenges for research.
Modelli teorici e strumenti di valutazione degli esiti in università
1. La valutazione dei learning outcomes nelle università americane In America il problema di valutare la qualità degli esiti universitari si è posto da
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tempo, a partire dagli anni ’80, con il movimento dell’assessment (Kuh, Ewell, 2010). Nel decennio successivo si è sviluppata una crescente richiesta alle Università di esplicitare i traguardi raggiunti dagli studenti e dar conto degli stessi. Nel 2006 il National Report del Dipartimento dell’Educazione Statunitense ha dichiarato l’accountability dell’università pubblica una delle quattro priorità per il futuro delle università (Spellings, 2006). Si ritiene infatti che l’Università sia “responsabile almeno parzialmente del progresso intellettuale degli studenti negli anni universitari” e che questo debba essere documentato, attraverso indagini che comparino i learning outcomes in ingresso con quelli in uscita dai percorsi formativi (Liu, 2009). Nell’aprile 2009 trecentoventuno istituzioni universitarie di 50 Stati hanno aderito al “Sistema volontario di Accountability” (VSA). Lo scopo era quello di valutare il cuore dei risultati formativi nelle università pubbliche e nei college, focalizzandosi su abilità comuni, multidisciplinari, formate a livello universitario, individuandole essenzialmente nelle abilità di comunicazione scritta, nel pensiero critico e nel ragionamento analitico (Liu, 2009). Per la misura, sono stati dunque selezionati tra i diversi strumenti disponibili tre test, che offrivano garanzie di validità e affidabilità: – il CLA (Collegiate Learning Assessment) del CAE (Council for Aid to Education); – le ETS Proficiency Profile, trasformato poi in MAPP (Measure of Academic Proficiency Profile, Liu, 2011); – il CAAP (Collegiate Assessment of Academic Proficiency) dell’ACT. I tre test presentano però differenze nel formato degli item, nelle modalità di somministrazione e qualche diversità anche nella valutazione di abilità integrative1. Date le disparità tra i test e la possibilità per le Università di scegliere liberamente quale utilizzare, si è posto presto il problema della confrontabilità dei risultati degli stessi. La questione è stata ampiamente dibattuta in letteratura. Sono state condotte ricerche per verificare la comparabilità dei dati (Test Validity Study, Shulenberger, Keller, 2010), con esiti ritenuti meritevoli ancora di ulteriori approfondimenti. Secondo i ricercatori del CAE comunque, tutti e tre i test forniscono indicatori affidabili dell’apprendimento degli studenti e sono sensibili al progresso che avviene all’interno di un’università nelle abilità misurate, ma non è chiaro se le scale riferite allo stesso costrutto valutino effettivamente la stessa proprietà (es. capacità critica) e se i loro punteggi di valore aggiunto possano essere sostanzialmente confrontati (Steedle, Kugelmass, Nemeth, 2016).
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Le abilità in matematica e in lettura sono valutate solo dall’ETS PP e dal CAAP.
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2. Valutare i risultati di apprendimento al termine dei curricoli universitari europei Le Università europee sono dal 1999 coinvolte nel processo di Bologna, finalizzato a rendere il più possibile equivalenti e/o comparabili i percorsi formativi accademici e i risultati in uscita. Ricerche europee hanno iniziato a studiare la fattibilità di indagini comparative, simili a quelle americane, allo scopo di accertare il conseguimento di traguardi di competenza nei diversi Paesi (AHELO, OCDE, 2013). A tal fine sono state pianificate le rilevazioni delle cosiddette “competenze generali e trasferibili”, riconducendole ai medesimi costrutti individuati dagli americani: pensiero critico, ragionamento analitico, abilità nella comunicazione scritta e problem solving. Quando è stato necessario definire il test per la misura, le scelte tra gli strumenti disponibili con adeguate qualità psicometriche erano ridotte, con pochissimi competitori nel mercato globale (Douglass, 2012). L’opzione è caduta su uno dei tre test utilizzati dal VSA: il “CLA Higher Education” del CAE, che è stato somministrato insieme ad un test a scelta multipla australiano dell’ACER2. Sono state avviate inoltre indagini pilota su specifiche abilità disciplinari e si è provveduto ad approfondire i problemi di misura del valore aggiunto.
3. L’indagine TECO italiana: valutare le competenze di carattere generalista Lo studio italiano realizzato dall’ANVUR nel 2012 (TECO), sulle “competenze generali e trasferibili” ha adottato il test americano CLA, rinnovato, nella versione CLA+. Lo scopo dell’indagine è stato quello di produrre risultati originali per l’Italia e di analizzare il problema della possibilità di confrontare gli esiti tra Stati (Kostoris, 2014). Si è trattato di un incarico con un ruolo di prestigio per il nostro Paese, in quanto lo studio ha affrontato un problema chiave che è alla base della possibilità di effettuare graduatorie di comparazione internazionale. L’indagine è stata condotta su un campione di 5.900 studenti italiani e di 4.800 studenti americani. Dal rapporto di ricerca ANVUR 2014 emerge che le distribuzioni dei risultati dei due campioni sono pressoché sovrapponibili, nelle medie e nei quartili (con differenze in alcune sottoscale). Le norme sono analoghe, quindi la comparabilità pare possibile. Si tratta di approfondirne scopi, modalità ed effetti.
4. Riflessioni e sfide Il breve iter dei tentativi di misura dei learning outcomes in Università, che abbiamo sintetizzato, sollecita qualche riflessione. a. Dipendenza delle scelte europee da quelle americane L’Europa ha mutuato dall’America le strategie di valutazione degli esiti di apprendimento in Università, con alcuni adattamenti degli strumenti. Occorre interro-
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garsi però se i traguardi europei debbano essere i medesimi di quelli americani, individuati inizialmente negli USA nel 1991 per le università e i college, e se i costrutti e gli strumenti scelti siano pienamente adeguati oggi al contesto europeo ed italiano in specifico. Più in generale, ci si può domandare se l’università europea debba omologarsi a quella americana o se la sua missione non sia piuttosto quella di concorrere allo sviluppo socio-economico e sociale delle singole nazioni e, in forma più integrata, allo sviluppo della società europea, mantenendo in questa fase storica alcune sue specificità, anche di eccellenza in alcuni campi. b. Problemi edumetrici da affrontare Prendendo atto delle scelte effettuate a livello europeo, restano comunque aperti alcuni problemi, per esempio edumetrici. Si tratta di limiti metodologici emersi dallo studio europeo di fattibilità (AHELO, Tremblay, Lalancette, Roseveare, 2012) rispetto alla valutazione dei learning outcomes (Wolf, Zahner, Benjamin, 2015) e che erano già stati identificati da ricerche americane (Liu, 2009; Douglass, 2012).
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1. Un problema rilevante riguarda il campionamento degli studenti nei vari Paesi, che a livello universitario diventa difficilmente controllabile. 2. Emerge inoltre che sui risultati cognitivi incidono la motivazione e la persistenza degli studenti nel terminare il test, a fronte della scarsa possibilità di riconoscimento dello sforzo erogato dagli stessi. 3. Il diverso formato con cui vengono somministrati i test (con item a scelta multipla o semi-strutturati) può inoltre orientare la misurazione verso costrutti diversi, a dispetto dell’intenzione di rilevare una medesima abilità. Questo rende di fatto complessa l’interpretazione degli esiti. 4. Gli strumenti adottati risultano fortemente saturati nella lingua scritta, in quanto valorizzano abilità di lettura rapida su testi diversi, anche di tipo scientifico, e abilità di argomentazione scritta. Favoriscono così alcune fasce della popolazione e alcune tipologie di percorso universitario, come i curricoli scientifici e/o quelli storico-filosofici, in cui è previsto un esercizio sistematico del pensiero critico-analitico su materiale verbale. Questo è confermato peraltro dall’indagine TECO (2014). Diventano quindi problematici eventuali ipotetici confronti tra corsi di studio della medesima università, sulla base dei dati ottenuti con i test in oggetto. 5. Rispetto alla comparabilità tra Paesi con il CLA incidono: le caratteristiche specifiche della lingua in cui viene riadattato il test, che possono renderlo più o meno complesso; il tipo di testo scelto (che cambia le graduatorie tra Paesi) e, per la parte semi-strutturata del test, la differenza di severità tra i valutatori, che dipende dalle abitudini professionali di correzione dei diversi Paesi (Zahner, Steedle, 2014). 6. Rispetto all’utilizzo delle misure di learning outcomes per l’accountability si pone il problema se utilizzare un disegno longitudinale oneroso, cioè svolgere rilevazioni sulla stessa coorte a distanza di anni (con rischio di mortalità sperimentale) o un disegno a coorti incrociate (che suppone però la comparabilità di coorti estratte da popolazioni potenzialmente differenti, quella delle matricole e quella dei laureandi).
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c. Questioni etiche Un ulteriore problema riguarda le prove. Gli items che valutano il pensiero critico spesso coinvolgono anche questioni etiche, che però non vengono prese in considerazione nelle chiavi di correzione3. Occorre però riflettere sul significato implicito di queste scelte che privilegiano la logica formale rispetto al ragionamento etico. d. Effetti possibili sulla didattica e sull’apprendimento Impostare in modo accentrato gli strumenti di valutazione degli esiti, secondo un modello di accountability guidata da test, porta a definire degli standard da raggiungere: tende quindi a dare orientamenti stringenti alla didattica, riducendone la flessibilità, per favorire la conformità agli standard delle prestazioni e dei programmi dei corsi (Rebora, 2013). L’operazione richiede dunque in generale particolare cautela, anche in considerazione del fatto che comportamenti di adattamento al sistema, portano ad affinare le competenze richieste agli studenti anche su curricoli che non le prevedono come dimensioni rilevanti. Questo si evidenzia, per esempio, in sperimentazioni recenti, condotte negli USA (Anderson, Reid, 2013; Pascarella, Martin, Hanson et alii, 2014) e in diversi altri contesti, sullo sviluppo del pensiero critico in università, tentato anche nei confronti delle professionalità educative con esiti deludenti (Yücel Toy, Ok, 2012). L’uso poi di test strutturati nella valutazione finale può favorire l’incremento dell’impiego di prove oggettive nei corsi universitari, ancor più a fronte di un numero elevato di iscritti. Tale utilizzo però, secondo la ricerca, incide negativamente sull’abilità di elaborazione degli studenti e favorisce l’apprendimento in superficie (Biggs, 2011).
5. Quesiti di sfondo Abbiamo evidenziato alcune sfide per l’affinamento della ricerca sull’accountability secondo i modelli che sono stati adottati. Potremmo spostare l’attenzione ora sull’uso dei risultati TECO e AHELO e sulle evidenze che se ne possono far emergere, per ricondurre la riflessione sulle scelte preliminari che guidano tali valutazioni. a. Quali evidenze stiamo raccogliendo in Italia? Si può osservare che i costrutti misurati dal CLA+ risultano parzialmente riconducibili a quelli accertati dalle prove PISA (problem-solving su questioni autentiche). Si può dunque supporre che gli esiti regionali delle due indagini correlino, a meno che le università presentino, ai sensi dell’accountability, effect size molto diversi tra loro. Se proviamo a correlare, per esempio, gli esiti medi regionali italiani del PISA in matematica (2012) con le medie dei punteggi per regione del CLA+ (indagine TECO
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Per esempio, nella “Prova Parchi” del CLA+ non si controlla se lo studente adotta criteri egualitari o di privilegio nelle decisioni, ma se i processi di analisi sono adeguatamente esercitati e le scelte sono argomentate in modo stringente e linguisticamente corretto.
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2014), si rileva una correlazione elevata (r=0,81) e significativa (con p<0,001), con una retta di regressione cui si allineano molti esiti del CLA+ (v. fig. 1).
Fig. 1 – Retta di regressione tra i punteggi del PISA- matematica 2012 e il CLA plus.
28 Le graduatorie regionali che risultano dai dati PISA di matematica non vengono dunque sostanzialmente mutate da anni di Università. Il sistema formativo universitario italiano ha quindi difficoltà a spostare le graduatorie delle secondarie, che a loro volta sono correlate alla stratificazione culturale e sociale4, naturalmente con lodevoli eccezioni, rispetto agli ambiti misurati. Si può ipotizzare in alternativa che variando il tipo di competenze misurate come esiti finali dell’Università, si potrebbero ottenere graduatorie differenti, in grado di apprezzare apporti dell’Università non previsti dalle rilevazioni TECO. b. Quali evidenze stiamo raccogliendo in Europa? A fronte di uno sforzo così ingente e condiviso tra tanti Paesi e di rilevanza per le politiche, occorre domandarsi su quali aspetti dell’apprendimento degli studenti ci si sta focalizzando. Il sistema di misurazione dei risultati adottato dall’Europa opera infatti scelte esplicite (in analogia con quanto avviene in America), centrandosi in primo luogo sui processi cognitivi e privilegiando in maniera rilevante, oltre al problem-solving, soprattutto il pensiero critico. Sia il CLA sia il CLA+ attribuiscono infatti a tale processo un peso singolare, a discapito delle altre operazioni intellettuali. Questo definisce una personalità modale che le università si propongono di formare e che caratterizza i risultati degli studenti in merito ad alcune dimensioni cognitive acquisite, trascurando altri aspetti della formazione. Si presuppone, almeno implicitamente, che il senso critico, misurato con il CLA, caratterizzi futuri professionisti in grado di incidere sul mercato competitivo nazionale e mondiale e sullo sviluppo sociale. In una logica di accountability, dovremmo dunque riscontrare che gli esiti degli sforzi formativi delle università, così misurati, caratterizzino dei laureati poi in grado di favorire lo sviluppo economico e il be-
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Come risulta dai rapporti TECO e PISA.
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nessere sociale dei Paesi. Per evidenziare questo risultato occorrerebbe intraprendere una ricerca approfondita, in analogia con gli studi avviati da McClelland5, che cercava le connessioni tra il potenziamento della motivazione al successo, ottenuto con l’educazione6, e l’indice di sviluppo dei Paesi 25 anni dopo7. Per tentare di esplorare, in forma pilota, nel nostro caso, l’ipotesi di connessione tra esiti universitari e andamenti dell’economia dei Paesi, potremmo provare a correlare i punteggi medi CLA8 dei 9 Paesi considerati dall’indagine AHELO 2012 con il PIL nazionale corrispondente9. Il tentativo evidenzia un coefficiente di correlazione molto basso (r=0,16, ovviamente non significativo con p=0,68), che non attesta alcun legame tra le abilità intellettuali rilevate nei laureati con il CLA e il PIL del loro Paese (v. fig. 2).
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Fig. 2 – Retta di regressione e correlazione tra punteggi medi del CLA e il PIL di 9 Paesi
Se invece supponiamo che i laureati contribuiscano allo sviluppo sociale e umano di un Paese, per verificare tale ipotesi possiamo connettere gli esiti di apprendimento in uscita dalle università con indici come il FIL (o GNH: “Gross national happiness”), finalizzato a misurare “la somma non solo degli esiti economici nei Paesi, ma anche degli impatti ambientali netti, della crescita culturale e spirituale dei cittadini, della salute mentale e fisica e della solidità dei sistemi politici e aziendali”. La correlazione però si conferma non significativa, e per 5 Paesi (v. tab. 1) diventa addirittura negativa, con rho di Spearman= – 0,7 (p=0,18).
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9
Gli studi di McClelland hanno suscitato interesse e di ambito non solo in ambito psicologico, ma anche economico (S.P. Schatz, “Achievement and Economic Growth: A Critique”, The Quarterly Journal of Economics, vol. 79, n. 2, 1965, pp. 234-245). Con attività di lettura nell’infanzia. Calcolato con il fabbisogno di energia elettrica. Si ipotizza che le graduatorie ottenute con il CLA siano sufficientemente stabili da poter rappresentare le competenze dei laureati di un Paese per più anni e che quindi le competenze dei laureati 2012 siano indicative di quelle che si sarebbero potute ottenere anni prima, nei laureati provenienti dalle medesime università già entrati nel mondo del lavoro, in grado quindi di contribuire al PIL del Paese. Misurato con l’FMI, l’anno successivo (2013-14).
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CLA
FIL (o GNH)
Messico
16
8
USA
17
4
Kuwait
32
7
Colombia
35
5
Korea
41
1
!
Tab. 1 – Esiti medi del CLA per Paese e l’indice FIL (o GNH) di 5 Paesi
Emerge dunque che la graduatoria per Paese delle abilità intellettuali dei laureati, misurate dal CLA, non consente di prevedere quella definita dall’indice di sviluppo sociale, umano ed economico del Paese stesso.
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Siamo dunque chiamati a formare e valorizzare “têtes critiques”, supponendo, ma non riuscendo a dimostrare, che siano utili per il mercato competitivo mondiale, sul modello delle selezioni americane? Dobbiamo preoccuparci invece di educare “têtes bien faites” e personalità responsabili e creative per sviluppare i contesti sociali e le economie locali e mondiali in modo sostenibile ed equo?
Se optiamo per la seconda ipotesi dobbiamo metterci nella prospettiva di cambiare il modello di valutazione dei risultati di apprendimento, adottando strategie più variate, che difficilmente si connettono con la costruzione di graduatorie tra università, basate su pochi indicatori. Questo però suppone di riflettere sui modelli formativi e di comparazione delle università. c. La priorità è il ranking internazionale? Affrontando le questioni in maniera più globale, occorre domandarsi se è essenziale che l’Europa faccia prevalere un modello neoliberista per la valutazione dei risultati del sistema universitario, assumendo un paradigma come quello della “World Class University” (WCU), con il ranking. Tale sistema si propone di classificare le università in una graduatoria mondiale sulla base della capacità di promuovere risultati competitivi degli studenti, attrarre docenti e studenti di alto livello, ottenere finanziamenti elevati e realizzare ricerca di qualità (Cheol Shin, Kehm, 2013). Secondo studi condotti in prestigiose università (es. Berkeley), il sistema di valutazione connesso a tale paradigma rischia di non essere adeguatamente informativo e orientativo per consentire alle singole istituzioni, specie se grandi, di individuare metodi e comportamenti organizzativi che possano rendere più produttiva la ricerca, migliore la didattica, più efficienti i servizi erogati e più elevati gli esiti. In questa comparazione inoltre le università europee rischiano di non essere adeguatamente valorizzate (Van der Wende, 2009). Dunque dobbiamo forse cercare modelli diversi da quelli ranking per dar conto degli esiti conseguiti.
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5. Modelli alternativi attuali La missione dell’università è molto ampia e complessa e lo sono anche gli esiti conseguiti. Occorre dunque un modello di rilevazione dei risultati di apprendimento altrettanto articolato e non ridotto a pochi dati per un puro ranking competitivo. Si stanno sviluppando dunque a livello internazionale, in diverse università, proposte alternative. Ne riportiamo alcune a titolo esemplificativo. A. New Flagship model: un modello GLOCAL L’Università di Berkeley, per esempio, propone un modello GLOCAL, denominato “New Flagship model” (Douglass, 2014). Tale proposta, senza ignorare gli standard internazionali di eccellenza, va nella direzione di espandere più significativamente il ruolo delle Università nelle società di appartenenza, secondo una logica anche di differenziazione. Oggetto della valutazione è la rilevanza regionale e nazionale delle stesse per poi accertare l’influenza e il prestigio globale. Secondo il “New Flagship model (Douglass, 2016)” l’Università è chiamata a darsi una molteplicità di scopi, quali: costituire un ambiente di apprendimento e di ricerca produttivo, creare nuova conoscenza e preservare quella del passato, contribuire a una società più giusta e prospera, favorire l’avanzamento individuale delle capacità umane e svolgere una funzione di monitoraggio costante della società nella quale si trova inserita. L’Università si propone dunque di formare studenti civicamente impegnati, di promuoverne la creatività, la cultura e abilità di alto livello e anche su questi aspetti viene orientata la valutazione. B. Proposta di ampliamento dei traguardi da valutare e trasformazione degli strumenti Alcuni consorzi di università americane recentemente stanno andando nella direzione di creare strumenti alternativi per l’apprezzamento dei risultati. 1) Ne è un esempio significativo lo strumento proposto dalla rete SERU, promossa dall’Università di Berkeley (Thomson, Douglass, 2009), che ha lo scopo di valorizzare diversi aspetti dell’esperienza accademica degli studenti, attraverso un questionario e scale di autovalutazione. Tale strumento ha evidenziato face validity e validità concorrente con i punteggi medi attribuiti dai docenti nei corsi universitari (California GPA) (Douglass, Thomson, Zhao, 2012). 2) Allo stesso modo, all’interno del progetto “Rising to the challenge”10 è stato realizzato e validato dall’American Association of State Colleges and Universities (AASCU) uno strumento di autovalutazione (Degrees of Preparation), che si propone di rilevare negli studenti: – le abilità utili per avere successo in un mondo globalizzato (valorizzando, per esempio, le esperienze di studio e lavoro all’estero, l’apprendimento delle lingue straniere…);
10 AAC&U, AASCU, APLU, Rising to the challenge. Meaningful Assessment of Student Learning, FIPSE, 2010 (http://files.eric.ed.gov/fulltext/ED519804.pdf).
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– la preparazione al lavoro (es. esperienze di lavoro durante il percorso universitario); – lo sviluppo del coinvolgimento civico (si rilevano, per esempio, le fonti di informazione utilizzate più frequentemente, indicatori di coinvolgimento politico, capacità di lavoro in gruppo, attività di volontariato, pensiero critico e capacità comunicative, senso civico…). La maggior parte delle scale strutturate risultano valide e capaci di discriminare tra matricole e laureandi. 3) All’interno del Values Project (Rhodes, 2010) viene privilegiato il giudizio di esperti multipli. Per la valutazione sono stati individuati da più di cento Facoltà 15 apprendimenti considerati irrinunciabili al termine dei curricoli universitari e sono state realizzate rubriche per valutare analiticamente il livello raggiunto dallo studente in ciascuno di essi. Le rubriche hanno coperto tre aree. – Per le “abilità cognitive e pratiche” si rilevano le capacità di: indagare e analizzare; pensare criticamente; creare; comunicare in forma scritta; comunicare oralmente; raccogliere informazioni e comunicarle in termini matematici; individuare, valutare e usare le informazioni; lavorare in gruppo; risolvere problemi; leggere. – Per rilevare la “responsabilità personale e sociale” si valutano: la conoscenza e il coinvolgimento civico (locale e globale); le conoscenze e competenze interculturali; il ragionamento etico; il possesso delle conoscenze fondamentali e delle abilità di apprendimento per la vita. – Si rileva inoltre l’“integrazione e il transfer delle conoscenze apprese”. Le rubriche, una volta validate e riferite a criteri e livelli uniformi, sono state applicate alla valutazione degli e-portfoli degli studenti, che consentono di mostrare adeguatamente e in maniera ampia il percorso universitario e le acquisizioni dei laureandi. Si tratta di strumenti utili per valutare apprendimenti complessi che non potrebbero essere apprezzati da test standardizzati11. Anche Università di Paesi emergenti come la Cina (Hong Kong) propongono di arricchire la gamma di apprendimenti da valutare, includendo oltre ai traguardi cognitivi anche quelli affettivi, come le trasformazioni di atteggiamenti e valori, lo sviluppo dell’empatia e di comportamenti etici (Tam, 2014). Si aprono quindi nuove sfide per la ricerca docimologico-didattica sui problemi considerati. Ne prospetteremo alcune.
6. Direzioni di ricerca sulla valutazione degli esiti Possiamo soffermarci brevemente su cinque ambiti di studio meritevoli di approfondimento.
11 Modelli più articolati di valutazione dei risultati di fine scuola secondaria in vista dell’accesso all’università o al mondo del lavoro si stanno elaborando in letteratura secondo nuovi paradigmi sostenuti da grandi università, come quella di Stanford (L. DarlingHammond, G. Wilhoit, L. Pittenger, Accountability for College and Career Readiness: Developing a New Paradigm, Stanford Center for Opportunity Policy in Education, 2014 (https://edpolicy.stanford.edu/sites/default/files/publications/accountability-collegeand-career-readiness-developing-new-paradigm.pdf).
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1) Alla luce della ricerca internazionale, è possibile pensare in Italia di integrare il modello attuale di valutazione per dar conto meglio della ricchezza degli esiti della formazione universitaria, delle trasformazioni dei curricoli e delle istanze provenienti anche dal mondo del lavoro. Si tratta di rilevare, oltre al pensiero critico, dimensioni trasversali aggiuntive, ritenute essenziali come risultati di apprendimento delle università, come il pensiero creativo, le abilità di comunicazione orale, le competenze di cittadinanza attiva di tipo globale, il ragionamento etico… 2) Particolare attenzione dovrebbe essere riservata alla creatività. L’Europa e l’Italia soprattutto hanno visto nell’innovazione, non solo tecnologica, la possibilità di sviluppo della propria produzione e cultura. Quindi i curricoli formativi dovrebbero dare rilevanza alle caratteristiche divergenti del pensiero, considerate una dimensione importante dello sviluppo intellettuale a tutti i livelli scolastici, ma in particolare in università (Orlando, 2012). Per questo occorrerebbe sviluppare coerentemente strumenti in grado di rilevare anche questi aspetti, per dar conto dei progressi ottenuti. 3) Rispetto alla rilevazione attuale delle competenze di carattere generalista, rimane aperta la questione delle modalità più adeguate per condurre rilevazioni in alcuni settori specifici, come quello educativo, in cui la ricerca in diversi contesti, da tempo sottolinea che le abilità di pensiero critico, al centro delle rilevazioni, ottengono misure medio-basse. Del resto il CLA+, nella versione americana, non indica, tra le aree di studio per le quali sono previsti i compiti di performance del test, il settore dell’Educazione. Forse i futuri educatori ed insegnanti andrebbero valutati con strumenti adeguatamente riadattati o almeno dovrebbero essere esclusi dai campioni per la misura delle competenze generaliste, nel caso che si continuino ad utilizzare gli strumenti del TECO. 4) Attualmente è previsto che la ricerca di valutazione dei learning outcomes per l’Italia transiti alla seconda fase, in cui si richiede di individuare per i diversi settori disciplinari le conoscenze irrinunciabili, esito della formazione e quindi della valutazione. A questo proposito emergono alcune questioni. Per curricoli come quello degli insegnanti, che prevedono modelli di formazione anche con aspetti più clinici come per i medici, è rilevante centrarsi sulla modalità con cui le conoscenze vengono mobilitate per affrontare i problemi che si pongono nei contesti di lavoro. In questa linea si è sviluppata una corrente di ricerca, detta traslazionale (Montgomery, 2014), e sono stati pubblicati studi applicativi, per esempio dall’Università di Boston, che propongono di adottare per la valutazione degli insegnanti in formazione, un portfolio di evidenze. Si tratta di uno strumento che consente (attraverso studi di caso, strumenti per rilevare gli aspetti etici, rubriche, progetti…), di verificare i progressi in itinere e le competenze conseguite dai futuri docenti (La Velle, 2015). 5) Risulta inoltre complesso definire le conoscenze specifiche irrinunciabili di tipo fattuale, concettuale, procedurale, metacognitivo (Anderson, Krathwohl, 2001) per i percorsi con profili d’uscita più variati e/o meno definiti. Un confronto nazionale tra università, con una ricerca connessa, potrebbe portare ad una prima ricognizione delle stesse. 6) Preoccupati di valutazione sommativa non dobbiamo perdere di vista il valore formativo che deve avere la valutazione anche in università. Nella logica di connettere i risultati a un miglioramento della didattica e degli esiti degli studenti, occorre approfondire, anche le strategie di valutazione in itinere, in una logica di valutazione regolativa e formativa. Si tratta di ripensare la valutazione legata ai corsi secondo un approccio più attento ai processi attivati e più ri-
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spondente ad esigenze di chiarezza e autenticità e quindi di sviluppo di competenze. Occorre come docenti assumere l’impegno di una valutazione trasparente, riferita a criteri espliciti e in grado di offrire feed-back formativi agli studenti, restituendo loro la responsabilità di monitorare i propri processi di acquisizione, in vista di un apprendimento per la vita e della maturazione della working readiness. Sarà utile allo scopo approfondire l’uso di scale, questionari, rubriche, schede di autovalutazione e portfoli, anche con il supporto delle tecnologie (in particolare per gli studenti non frequentanti).
7. Conclusione La valutazione formativa e scelte adeguate per la valutazione sommativa finale possono accompagnare meglio la transizione attuale. Occorre passare da un’università finalizzata a potenziare il capitale culturale e intellettuale per una società della conoscenza applicata, ad un’università che forma competenze e prepara cittadini responsabili per un mondo globalizzato. Questo esige una didattica e una valutazione profondamente rinnovati in Università.
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TECO all’Università: quali usi e funzioni?
Maria Lucia Giovannini • Università di Bologna – marialucia.giovannini@unibo.it
TECO at University: which uses and purposes?
Il contributo propone, mediante un modello d’uso della valutazione, un’analisi della sperimentazione TECO relativa alla valutazione degli esiti dell’apprendimento di natura generalista all’università. Dopo alcuni brevi riferimenti all’attuale contesto socioculturale e politico-istituzionale dell’università, viene presentato tale modello in cui gli scopi della valutazione e le connesse scelte valoriali hanno un ruolo guida rispetto agli usi intenzionali dei risultati della valutazione. Sulla base di tale ottica viene discussa l’importanza di esplicitare gli orizzonti culturali e valoriali sottesi a scopi e usi, salvaguardando i criteri del rigore scientifico e della validità valutativa per consentire un democratico confronto tra i diversi utilizzatori circa gli usi appropriati e impropri dei risultati.
Keywords: learning assessment; purpose of assessment; use of assessment results; validity; higher education; pilot test TECO.
Parole chiave: valutazione degli apprendimenti; scopo della valutazione; uso della valutazione; validità; università; test TECO.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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The paper aims to discuss the use of TECO assessment of generic learning outcomes in Italian Universities. A brief overview of the social, cultural, institutional and political context of higher education and educational assessment is followed by the description of an assessment model use whose specificity lies on a purpose and value oriented approach. This model emphasizes the relevance of making explicit cultural beliefs and values underlying assessment purposes and uses in compliance with scientific criteria and assessment validity with the aim of developing a democratic debate about uses and misuses of the results.
TECO all’Università: quali usi e funzioni?
Premessa
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Negli a.a. 2013-2014 e 2014-2015 hanno avuto luogo rispettivamente la fase 1 e la fase 21 della sperimentazione relativa alla valutazione sugli esiti effettivi dell’apprendimento di natura generalista dei laureandi italiani, svolta dall’ANVUR tramite il test TECO (TEst sulle COmpetenze generaliste). Essa è stata concepita prendendo come riferimento lo studio di fattibilità AHELO (Assessing Higher Education Learning Outcome) dell’OCSE e le competenze considerate sono state misurate tramite un adattamento del test CLA+ (Collegiate Learning Assessment), costruito e validato scientificamente dal CAE (Council for Aid to Education)2 (Kostoris Padoa Schioppa, 2012; ANVUR, 2015). Nello specifico, il test si compone di due moduli dei quali il primo, denominato Performance Task o Prova di Prestazione, intende rilevare mediante domande a risposta aperta le competenze relative alle capacità di ragionamento analitico e soluzione di problemi nonché all’efficacia e alla tecnica di scrittura, mentre il secondo, denominato Selected Response-Questions o Prova a Risposta Multipla, contiene 20 domande a risposta chiusa che intendono misurare le capacità di lettura critica, di criticare un’argomentazione e di ragionamento scientifico e quantitativo. Per quanto concerne le modalità di somministrazione ai “laureandi” aventi diritto di partecipare alla sperimentazione3, il test è stato compilato on-line e ha avuto una durata complessiva di 90 minuti (60 per il primo modulo e 30 per il secondo). Oltre al livello individuale sulle competenze trasversali oggetto di rilevazione, sono stati raccolti dati relativi ad alcune caratteristiche dei laureandi compresa la riuscita negli studi e alcuni dati di carattere socioeconomico familiare o personale4 (ibidem). In relazione agli esiti della valutazione degli apprendimenti rilevati dal test TE-
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Per quanto concerne la fase 2, che ha coinvolto una ventina di sedi universitarie, si ha notizia delle pianificazioni della somministrazione effettuata dagli atenei; i risultati invece non sono stati ancora diffusi. Nella fase 1 le università coinvolte sono state 12. Il sistema CLA è nato primariamente per fornire ai docenti e ai responsabili dei programmi di studio elementi di informazione e comparazioni con opportuni benchmarks, utili per migliorare i percorsi formativi. Esso comprende inoltre materiali e performance tasks che possono essere usati in classe dagli studenti per migliorare le proprie competenze (Kostoris Padoa Schioppa, 2012, p. 51). Esula, quindi, dagli intenti originari del sistema CLA una qualsiasi forma di classificazione (ranking). Potevano accedere al test studenti del primo ciclo universitario e studenti del ciclo unico a metà percorso con determinate caratteristiche relative all’anno di iscrizione e al numero di crediti acquisiti; per far riferimento a loro in TECO viene utilizzato il termine “laureandi” (Kostoris Padoa Schioppa, 2012, p. 10). Per l’interpretazione dei dati sono inoltre state prese in considerazione altre informazioni relative a caratteristiche della sede universitaria e del corpo docente, nonché al tasso di occupazione e di crescita nell’ultimo triennio a livello regionale.
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CO, il presente contributo intende porre l’attenzione sulla problematica relativa a chi e a che cosa servono le informazioni raccolte e sugli usi proposti. I potenziali destinatari e utilizzatori dei risultati sono infatti molteplici, ma a seconda del tipo di stakeholder può variare lo scopo per cui viene effettuata la valutazione, come pure la scelta dei learning outcomes da rendere oggetto di rilevazione. Nel contempo, la problematica dell’uso dei risultati valutativi non può essere disgiunta a nostro avviso dagli scopi e dalle funzioni assegnate alla valutazione, come pure dal processo valutativo stesso, nonché da scelte valoriali più ampie. In relazione alla problematica delineata, viene innanzitutto fatto un sintetico riferimento agli elementi di contesto che stanno alla base della sperimentazione del test TECO e viene presentata la cornice teorica sull’uso della valutazione da noi prescelta. Vengono poi riportate le ragioni, formali e sostanziali, presentate nei documenti ufficiali relativi a TECO, e vengono esplicitati gli usi dei risultati in essi indicati. Oltre alla coerenza interna tra tali “dichiarazioni”, vengono analizzati gli usi previsti alla luce dei riferimenti teorici precedentemente delineati e in relazione a una funzione formativa della valutazione in una direzione trasformativa tesa a sostenere la riuscita formativa degli studenti e l’innovazione didattica piuttosto che a classificare e a sanzionare i Corsi di studio e le università.
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1. Il contesto di riferimento 1.1 La metafora dei missili balistici e dei missili intelligenti Per far riferimento a un contesto sociale caratterizzato da forti trasformazioni, che coinvolgono anche le finalità assegnate all’educazione e ai processi di insegnamento/apprendimento a vari livelli, richiamiamo la metafora dei missili balistici e intelligenti proposta da Bauman (2012) in relazione all’ingresso nella “modernità liquida”. Nel caso dei missili balistici la direzione, il percorso e il punto di atterraggio sono prestabiliti e calcolati con precisione in base alla conoscenza della posizione del bersaglio da colpire; quando però il bersaglio si sposta in modo irregolare e imprevedibile diventa necessario un missile intelligente, cioè «un missile che possa cambiare la sua direzione durante il volo in base al mutare delle circostanze, che possa localizzare immediatamente gli spostamenti del bersaglio, apprendere da essi tutto ciò che occorre e che può essere desunto dalla direzione e dalla velocità attuali del bersaglio, ed estrapolare dalle informazioni raccolte il punto in cui le loro traiettorie possono incrociarsi. Tali missili intelligenti non possono sospendere, e tanto meno porre fine, alla raccolta e alla elaborazione delle informazioni durante il percorso, perché il loro bersaglio non smette mai di muoversi e di cambiare direzione e velocità e l’operazione di seguire il luogo dell’incontro deve essere costantemente aggiornata e corretta. […] I missili intelligenti, a differenza dei loro antichi cugini balistici, apprendono durante il percorso. Quindi, ciò di cui innanzitutto hanno bisogno di essere provvisti è la capacità di imparare, e di imparare rapidamente» (ibidem, p. 27). Un processo di insegnamento/apprendimento volto alla “produzione di missili intelligenti” deve dunque puntare a promuovere negli studenti la formazione delle cornici cognitive e delle predisposizioni che consentano loro di orientarsi autonomamente in situazioni non familiari e in continuo cambiamento, aggiornando e ampliando in modo flessibile conoscenze e abilità possedute. In particolare per i sistemi di istruzione si tratta di sfide impegnative che richiedono trasformazioni anche da parte dei professionisti dell’educazione, investimenti e risorse, ma so-
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prattutto la consapevolezza della rilevanza di tali trasformazioni da parte dei decisori politici. Occorre infatti ancorare tale esigenza di migliorare i sistemi di istruzione e formazione e di renderli più efficaci rispetto ai mutamenti radicali dell’attuale contesto a finalità più generali, esplicitando il modello di scuola e di università nonché di società ad essi sotteso. Il miglioramento è rispondente a fini egualitari e democratici o alle esigenze di un mercato del lavoro competitivo e della globalizzazione economica e finanziaria? 1.2 Risultati di apprendimento attesi-acquisiti e qualità della didattica
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Un termine sempre più utilizzato nell’ambito formativo è sicuramente quello di competenza. Benché non esista una definizione unanimemente condivisa e manchi un accordo sulla possibilità e modalità di misurarla, a livello internazionale è ormai acquisito l’orientamento a formulare gli obiettivi dei percorsi formativi in termini di competenze attese (Luzzatto, 2011). In seguito all’intesa intergovernativa denominata “processo di Bologna”5 non solo è stata rielaborata “l’architettura” dei cicli formativi, ma è stato approvato a Bergen nel 2005 il Framework for the Qualifications of the European Higher Education Area, cui ogni singolo Paese deve ricondurre il Quadro di riferimento nazionale dei titoli di istruzione superiore. Un elemento fondamentale di tale Framework è costituito dai “descrittori di Dublino”, che precisano cinque tipologie di risultati di apprendimento (learning outcomes) che gli studenti universitari devono dimostrare di aver acquisito per poter ottenere il titolo corrispondente al Corso di Studio frequentato. Per assicurare la qualità nelle istituzioni di istruzione superiore che costituisce un aspetto molto importante ai fini della reciproca fiducia tra i Paesi coinvolti nel processo, nel medesimo incontro di Bergen i Ministri dell’istruzione superiore dei Paesi aderenti all’area europea dell’istruzione superiore hanno condiviso il documento Standards and Guidelines for Quality Assurance in the European Higher Education Area elaborato dall’ENQA (European Association Quality Assurance in Higher Education). L’elemento iniziale e fondamentale precisato da tali linee guida (European Standards and Guidelines – ESG) è costituito dall’autovalutazione da parte delle singole istituzioni formative, cui segue il miglioramento che rappresenta l’obiettivo primario della valutazione e per il cui conseguimento devono operare i diretti responsabili dei programmi formativi; solo successivamente si inserisce in tale processo la valutazione esterna, in dialogo con i rapporti di autovalutazione. Gli elementi considerati sono essenzialmente di tipo qualitativo e non sono previsti usi a scopi classificatori (ranking). La coerenza del sistema di valutazione e di assicurazione della qualità degli atenei italiani con gli ESG viene ribadita anche dalla legge 240/2010 e le procedure di accreditamento dei Corsi di studio da parte dell’Agenzia Nazionale di Valutazione (ANVUR) secondo lo schema AVA (Autovalutazione, Valutazione periodica, Accreditamento)6 derivano dalle linee guida europee. Tuttavia in tale legge viene delineata nel contempo la necessità di valorizzare la qualità e l’efficienza delle Università e conseguentemente di introdurre «meccanismi premiali nella distribuzione delle risorse pubbliche sulla base di criteri definiti ex ante, anche mediante
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Cfr. www.processodibologna.it/ Cfr. il Decreto Legislativo 19 del 27 gennaio 2012 e ANVUR, 2013.
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accreditamento periodico delle università» (art. 5, 1 comma a). In tal modo, a nostro avviso, si cerca di usare la valutazione a scopi classificatori diversamente dall’impostazione delle linee guida europee. 1.3 L’importanza crescente delle competenze chiave/trasversali/generali Oltre all’affermarsi progressivo del termine competenza/e, sono emerse le espressioni competenze chiave, competenze trasversali, competenze generaliste o generiche. In documenti di diversa natura, così come in letteratura, si ritrovano anche espressioni quali general academic skills, key competences, cross-curricular competencies, transversal or transferable competences, soft skills, life skills, key skills, core skills, essential skills, necessary skills, generic skills, employability skills, transferable skills. È evidente che la diversità nel sostantivo (skill, competence) e nei diversi aggettivi ad esso affiancati fa emergere un problema di attribuzione/costruzione e riconoscimento dei significati di ciascuna di esse e dei diversi presupposti teorici; non c’è infatti condivisione di quali abilità/competenze considerare, come pure di quanto esse siano indipendenti da uno specifico ambito disciplinare o contesto di attivazione7. L’estendersi dell’uso delle suddette espressioni rispecchia l’importanza crescente attribuita alle competenze in oggetto. In proposito, una tappa importante a livello di linee di indirizzo elaborate dall’Unione Europea è costituita dalla Raccomandazione del Parlamento e del Consiglio 2006/962/CE relativa alle competenze chiave per l’apprendimento permanente (Commissione Europea, 2006), tesa a un rinnovamento dei curricola al fine di far acquisire agli studenti le otto competenze chiave individuate8 e renderli in grado di apprendere lungo tutto il corso della vita. Anche in relazione all’attuazione della strategia Europa 2020 (Commissione Europea, 2010), viene ancora una volta sottolineata l’importanza cruciale per i sistemi di istruzione e formazione di promuovere, tra l’altro, lo sviluppo di competenze trasversali – comprese quelle connesse alla capacità di apprendere, all’uso delle tecnologie digitali, alla cittadinanza attiva e all’imprenditorialità – rispetto al raggiungimento degli obiettivi relativi a uno sviluppo intelligente, sostenibile e inclusivo, in grado di dotare tutti i cittadini delle conoscenze e capacità utili a incentivare competitività e innovatività dell’economia europea ma anche a favorire la coesione e l’inclusione sociale e l’empowerment personale. Per quanto concerne il ruolo dell’università nella promozione delle competenze
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Il fenomeno del transfer di tali abilità/competenze costituisce un aspetto problematico. Gli studi ci dicono che molte di esse, sviluppate in un contesto, difficilmente vengono attivate dal soggetto in altri contesti se il soggetto stesso non viene adeguatamente preparato a farlo. Questo fenomeno pone una seria sfida a tutti coloro che intendono sviluppare in contesti formativi, dunque in qualche modo separati dalla realtà e dalla concretezza della vita quotidiana, competenze che dovranno un domani essere utilizzate al di fuori di essi. Le competenze chiave delineate nel quadro proposto, intese come una combinazione di conoscenze, abilità e attitudini necessarie per adattarsi in modo flessibile a un mondo in rapido mutamento e per la realizzazione personale, la cittadinanza attiva, la coesione sociale e l’occupabilità, sono le seguenti otto: 1) comunicazione nella madrelingua; 2) comunicazione nelle lingue straniere; 3) competenza matematica, scientifica e tecnologica; 4) competenza digitale; 5) imparare a imparare; 6) competenze sociali e civiche; 7) spirito di iniziativa e imprenditorialità; 8) consapevolezza ed espressione culturale.
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trasversali/per la vita, un riferimento interessante è rappresentato dal progetto Tuning9, inaugurato nel 2000 e fortemente sostenuto dalla Commissione europea, che propone come obiettivo principale quello di contribuire alla realizzazione del Processo di Bologna attraverso una metodologia utile a progettare, rivedere, sviluppare e valutare curricola e corsi di studio, rendendoli comparabili e trasparenti in termini di risultati di apprendimento attesi dagli studenti. A tal fine, nell’ambito del progetto, un ruolo di vitale importanza viene assegnato non solo alle competenze specifiche delle varie aree disciplinari, ma anche alle competenze “generali/trasferibili”, indispensabili in una società in continua trasformazione e in quanto tali comuni a ogni corso di studio. Tali competenze, per la cui individuazione è stato attuato un processo di consultazione a livello europeo coinvolgendo datori di lavoro/imprese, neolaureati e accademici, sono state classificate in tre gruppi: 1) competenze strumentali, che comprendono abilità cognitive (ad es. capacità di analisi e sintesi), metodologiche (ad es. capacità di organizzazione e pianificazione, di presa di decisione e di risoluzione di problemi), tecnologiche (ad es. capacità di utilizzo di dispositivi tecnologici e di gestione delle informazioni) e linguistiche (ad es. capacità di comunicazione scritta e orale nella lingua madre e in una seconda lingua); 2) competenze interpersonali, che fanno riferimento ad abilità individuali quali le capacità di espressione delle proprie opinioni/sensazioni, di interazione sociale e collaborazione, di critica e autocritica; 3) competenze sistemiche, che richiedono l’acquisizione preliminare dei precedenti due tipi di competenze, riguardano abilità concernenti sistemi integrati e prevedono una combinazione tra conoscenza, sensibilità e comprensione (ad es. capacità di ricerca, di apprendimento, di adattamento a nuove situazioni, di gestione di progetti, di creatività e spirito d’iniziativa). Anche nei Descrittori di Dublino, ai quali abbiamo fatto riferimento a proposito degli obiettivi di apprendimento, è rintracciabile la presenza di alcune competenze trasversali: autonomia di giudizio, abilità comunicative, capacità di apprendere, conoscenza e capacità di comprensione applicata. Rispetto alla loro utilizzazione nella progettazione della didattica per learning outcomes nei diversi Corsi di laurea di primo e secondo livello delle università italiane, da un’indagine realizzata dal CARED dell’Università di Genova è emersa la consapevolezza da parte dei coordinatori dei Corsi di studio di dover considerare le competenze trasversali oltre agli specifici obiettivi formativi relativi alle discipline accademiche (Luzzatto, Mangano, Moscati & Pieri, 2013). Una successiva ricerca relativa all’a.a. 2014-2015, condotta dall’Università di Genova e dalla Fondazione Giovanni Agnelli, ha rilevato e messo in luce una non completa chiarezza del concetto di tale tipo di competenza da parte di tutti i coordinatori, ma allo stesso tempo la loro consapevolezza di aver bisogno di essere formati per realizzare Corsi di studio che prevedano attività organizzate in maniera tale da poter sviluppare e/o irrobustire le competenze trasversali10 (Luzzatto & Mangano, 2015)11.
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Il sito del progetto Tuning è: http//www.unideusto.org/tuningeu/. All’Università di Deusto è in atto uno studio di caso sull’apprendimento delle competenze trasversali (generic competences) nel quale ha largo spazio la funzione formativa della valutazione (cfr. Villa Sanchez & Poblete Ruiz, 2008). 10 Le competenze trasversali considerate nell’indagine sono otto: risolvere problemi, analizzare e sintetizzare informazioni, formulare giudizi in autonomia, comunicare efficacemente, apprendere in maniera continuativa, lavorare in gruppo, essere intraprendenti, saper organizzare e pianificare. 11 Tale ricerca rientra in un progetto di ampio respiro al quale hanno partecipato anche
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L’esigenza che l’università sviluppi le competenze trasversali è stata d’altra parte espressa in modo generalizzato dal mondo imprenditoriale e l’attenzione dei datori di lavoro verso tali competenze viene giustificata sulla base della crescente complessità delle organizzazioni: i laureati assunti risultano carenti nelle soft skills – così vengono chiamate nell’ambito lavorativo le competenze trasversali –, ritenute necessarie per un positivo inserimento nelle aziende, mentre risultano preparati negli ambiti disciplinari. È quanto emerge da varie ricerche, tra le quali l’indagine condotta dalla Fondazione Agnelli sui “nuovi” laureati (Fondazione Giovanni Agnelli, 2012) e quella realizzata dal CARED dell’Università di Genova (Luzzatto, Mangano, Moscati & Pieri, 2011; Mangano, 2014). 1.4 Le rilevazioni internazionali e lo studio di fattibilità AHELO L’importanza attribuita alle competenze “trasversali” dei giovani adulti e degli adulti emerge anche da varie indagini internazionali. L’indagine ALL (Adult Literacy and Life Skills – Competenze alfabetiche funzionali e abilità per la vita), realizzata anche in Italia negli anni 2003-2004, è nata all’interno della cornice del progetto DeSeCo (Definition and Selection of Competencies)12 per l’individuazione delle competenze indispensabili a garantire cittadinanza attiva e occupabilità (Gallina, 2003, 2006). Poco meno di un decennio più tardi è stata realizzata l’indagine internazionale PIAAC (Programme for International Assessment of Adult Competencies), volta a misurare il livello di possesso delle competenze o abilità chiave (key skills) nell’elaborazione delle informazioni considerate essenziali per la piena partecipazione di cittadini adulti al mercato del lavoro e alla vita sociale di oggi (Di Francesco, 2013). Un’altra importante iniziativa è rappresentata dallo studio di fattibilità AHELO (Assessment of Higher Education Learning Outcomes), lanciato dall’OCSE nel 2008 e condotto in prospettiva comparata coinvolgendo 249 istituzioni universitarie in 17 Paesi per valutare la possibilità – in termini di fattibilità pratica e scientifica – di sviluppare misure comparative dei risultati di apprendimento degli studenti universitari in grado di consentire un confronto a livello internazionale tra contesti differenti per lingua, cultura e caratteristiche dei sistemi di istruzione superiore (Tremblay, Lalancette & Roseveare, 2012; OECD, 2013a, 2013b). Benché sia stato esplicitato fin dall’inizio l’obiettivo di fondo posto alla base dell’iniziativa, individuato nel fornire alle singole istituzioni universitarie informazioni utili a promuovere il miglioramento dei risultati di apprendimento degli studenti, lo studio
il Consorzio AlmaLaurea e Unioncamere attraverso Excelsior, che hanno indagato – rispettivamente – la percezione che i laureati hanno circa l’acquisizione o meno di competenze trasversali in ambito universitario e l’interesse che i datori di lavoro mostrano rispetto al possesso o meno di tali competenze nei laureati che prevedono di assumere (cfr. http://www.dafist.unige.it/?page_id=1898). Il Consorzio AlmaLaurea ha scelto di inserire, all’interno del questionario di fine corso per i laureandi/neolaureati, alcune domande volte a indagare le loro percezioni in merito all’acquisizione di sette competenze trasversali – risolvere problemi, analizzare e sintetizzare informazioni, formulare giudizi in autonomia, comunicare efficacemente, apprendere in maniera continua, lavorare in gruppo, essere intraprendenti – definite a partire dal più vasto insieme di competenze considerate nel progetto Tuning sopra menzionato. 12 Cfr. Rychen & Salganik, 2003, 2007.
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AHELO è stato accolto con cautela e scetticismo in alcuni ambienti accademici innescando un vivace dibattito tra gli stakeholder circa la sua natura e le sue finalità. Come si legge nel rapporto pubblicato dall’OCSE nel 2012 (Tremblay et al., 2012), le perplessità e le preoccupazioni espresse si sono concentrate su vari aspetti quali le difficoltà implicate dal confronto tra università e contesti diversi, i rischi associati all’uso di test standardizzati, il potenziale impatto sull’autonomia delle istituzioni e sulla libertà accademica, il focus posto da AHELO sulle competenze generiche, alcune questioni di carattere metodologico e pratico. Tuttavia, l’aspetto rilevato come maggiormente problematico è indubbiamente rappresentato dal rischio di un uso improprio dei dati da parte dei governi e dei responsabili politici, in particolare dalla possibilità che i risultati delle rilevazioni effettuate vengano utilizzati – in un’ottica di mera accountability – per elaborare graduatorie delle università e dei corsi di studio e per basare su tali classifiche meccanismi di riallocazione delle risorse imperniati sulla logica dei premi per i migliori e delle sanzioni per i peggiori. A questo proposito viene precisato che in tal modo, piuttosto che favorire il miglioramento della qualità complessiva dei sistemi di istruzione superiore, si finirebbe per rafforzare le situazioni di eccellenza, ovvero le università con prestazioni già elevate, mentre le università poco “performanti” subirebbero dei tagli di risorse che accentuerebbero ulteriormente i loro problemi. Benché l’OCSE abbia chiarito la propria posizione su tale questione (OECD, 2008), evidenziando la necessità di «”sganciare” i risultati delle valutazioni dalle decisioni inerenti l’uso dei finanziamenti pubblici per evitare ogni effetto perverso» (Tremblay et al., 2012, p. 59), e benché AHELO non sia mai stato concepito come uno strumento per stilare graduatorie, il rischio che i dati prodotti generassero ulteriori classifiche o fossero utilizzati nell’ambito dei sistemi di classificazione esistenti ha avuto un posto di rilievo tra le preoccupazioni espresse dagli stakeholder13. Nel terzo dei volumi relativi allo studio di fattibilità AHELO (OECD, 2013b), si fa riferimento alla richiesta espressa da alcuni Paesi di voler AHELO al servizio di obiettivi di politica pubblica più ampi rispetto a quelli di fornire informazioni e feedback utili al miglioramento delle università e dei sistemi di istruzione superiore. Viene pertanto evidenziata la necessità di affrontare tale problema per non compromettere la natura low-stakes e formativa di AHELO e viene precisato che una lezione fondamentale tratta da tale studio è l’importanza di stabilire e comunicare chiaramente lo scopo perseguito. AHELO è stato pensato per effettuare una diagnosi a livello delle singole istituzioni e per promuovere al loro interno, alla luce delle evidenze raccolte, il miglioramento della didattica e dei risultati di apprendimento degli studenti. Si ribadisce dunque che esse non sono state concepite come: misure della performance delle singole istituzioni universitarie; misure della performance dei sistemi di istruzione superiore dei singoli Paesi; misure della qualità dei docenti o della didattica; misure per la valutazione dei singoli studenti; strumenti per l’accountability; strumenti per stilare graduatorie. Per quanto concerne i possibili sviluppi futuri dell’iniziativa, considerando le preoccupazioni espresse da alcuni stakeholder si afferma che, oltre a ribadire e a sottolineare con maggiore enfasi che AHELO è inteso come uno strumento uti-
13 In una lettera del 2008 agli alti funzionari dell’OCSE, ad esempio, il presidente dell’American Council on Education (ACE) ha affermato che anche se «l’intenzione dell’OCSE non è quella di sviluppare un altro sistema di classifica, è altamente probabile che i risultati saranno utilizzati per classificare le università» (Tremblay et al., 2012, p. 57).
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lizzabile dalle istituzioni universitarie per sostenere il miglioramento dei risultati di apprendimento degli studenti, può essere utile esaminare la necessità di forme di garanzia e di tutela per assicurare che AHELO rimanga fedele al suo scopo e non venga utilizzato impropriamente.
2. La cornice teorica di riferimento sulla valutazione e gli interrogativi di ricerca Già da quanto delineato finora è emersa la problematicità, oltre che la complessità, degli usi della valutazione, che costituisce appunto uno dei principali temi sviluppati dai ricercatori in concomitanza con lo sviluppo stesso dei modelli valutativi. Data l’impostazione del presente contributo, di seguito presentiamo gli elementi fondamentali del modello14 di uso della valutazione degli apprendimenti che assumiamo. Gli usi dei risultati, propri del momento decisionale, non fanno parte della valutazione15, tuttavia vanno messi in relazione agli scopi intenzionali e alle specificità della valutazione stessa. Infatti, nel processo di progettazione di “impianti valutativi”16 in ambito educativo/formativo, lo scopo principale attribuito alla valutazione costituisce, a nostro avviso, il “criterio orientatore” di tutti gli altri elementi/momenti della valutazione (partono da quello e a quello ritornano), così come degli usi del processo valutativo e dei suoi risultati17. A loro volta, gli scopi della valutazione, da individuare a diversi livelli di generalità18, sono connessi con scelte di fondo più ampie19. In questo framework, pertanto, la valutazione
14 Il termine modello viene qui utilizzato per intendere la cornice concettuale (rete di concetti e di loro interrelazioni) che intende esplicitare il significato del concetto di uso della valutazione. In relazione alla domanda come è stato elaborato tale modello? rispondiamo che esso è l’esito di un’integrazione tra modelli precedenti ed esiti di valutazioni realizzate dalla scrivente. In relazione, invece, alla domanda qual è la funzione/valenza del modello? rispondiamo che in questa sede esso assume una funzione prevalentemente prescrittiva, ossia il modello intende esprimere ciò che dovrebbe essere l’uso della valutazione. 15 Il momento decisionale non fa parte della valutazione ma è successivo ad essa (Gattullo, 1986). 16 Utilizziamo l’espressione “impianto di valutazione” anziché “disegno” o “progetto di valutazione” perché queste due ultime espressioni vengono usate per far riferimento ai soli aspetti tecnico-procedurali (ad es. Rog, 2005). In molti contesti, nei processi valutativi l’attenzione viene posta prevalentemente sugli aspetti strumentali per cui, spesso, viene perso di vista l’insieme complessivo all’interno del quale si pone lo strumento di misurazione e valutazione; inoltre, le scelte di fondo rimangono in ombra e non vengono esplicitate. 17 In letteratura esiste il modello di Patton che, per la valutazione dei programmi/progetti, focalizza la sua attenzione su un altro principio organizzatore, ossia l’uso. Il principio degli “usi” della valutazione da parte dei diversi stakeholder coinvolti costituisce infatti la guida della valutazione (cfr. per esempio Patton, 2008). 18 Per esempio, Yarbrough, Shulha, Hopson & Caruthers (2011, p. 82) utilizzano, in ordine decrescente di generalità, questi tre termini: purpose, goals, objectives. 19 A questo proposito va ricordata, tra i docimologi italiani, la posizione di Gattullo (1978) che esprimeva la sua diffidenza nell’affrontare il discorso sull’uso dei test di profitto in una dimensione esclusivamente tecnica con queste parole: «[L’uso dei test] è comunque
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non va identificata soltanto con la sua dimensione tecnica e neppure metodologica con il rischio di cadere nel riduzionismo del «mito del metodo» (Kerlinger, 1960); essa richiama necessariamente, in modo più o meno diretto, gli aspetti valoriali e gli schemi concettuali sottesi20. In base all’intenzionalità propria delle azioni formali in ambito educativo, gli scopi devono essere ben esplicitati – il che richiede una chiarezza anche dei costrutti cui fa riferimento la valutazione stessa, nonché un legame con finalità educative più generali – e devono essere tenuti presenti nei diversi momenti e fasi della valutazione (cfr. Fig. 1). Di qui la necessità non solo di un impianto valutativo internamente coerente, ma anche di un’esplicitazione e argomentazione trasparente circa i presupposti delle scelte e dell’agire da parte dei valutatori. Quanto agli usi intenzionali – vale a dire previsti insieme all’impianto valutativo stesso –, occorre che essi svolgano una funzione pertinente, credibile e utile rispetto agli scopi e all’impianto della valutazione, pena il loro scadere in usi non validi e inappropriati (cfr. Fig. 1). Ciò non significa che vadano esclusi usi non previsti dei risultati; vengono richieste però la pertinenza del legame con gli scopi del processo valutativo di cui rappresentano il prodotto e delle evidenze aggiuntive di validità. A proposito della validità, le nostre scelte teoriche la considerano un costrutto “unitario” non riconducibile solo alle caratteristiche della prova di rilevazione – e pertanto ai vari tipi di validità quali per esempio la validità di contenuto o la validità predittiva –, bensì anche all’impianto valutativo e dunque allo scopo perseguito e alle condizioni d’uso dei risultati ottenuti. Né lo strumento utilizzato per raccogliere i dati né i risultati ottenuti possono essere quindi ritenuti validi in modo assoluto: uno strumento che fornisce informazioni valide in relazione a uno scopo può non essere ugualmente valido in relazione ad altri scopi; la responsabilità della validità, inoltre, non ricade soltanto su chi progetta e costruisce lo strumento, ma anche su chi lo utilizza e ne usa i risultati, richiedendo solide argomentazioni a supporto delle decisioni. La definizione di validità in termini di uso è stata espressa da Cronbach (1988) e in particolare da Messick (1989). Per quest’ultimo la validità è un complessivo giudizio valutativo del grado in cui l’evidenza empirica e i presupposti/costrutti teorici «supportano inferenze e azioni adeguate e appropriate basate sui risultati valutativi» (p. 13, corsivo nell’originale). È una definizione ripresa più recentemente da Kane, che considera come condizione della validità la plausibilità delle inferenze e degli assunti di riferimento e l’argomentazione utilizzata (Kane, 2006, 2013). Occorre precisare che nell’ambito dell’educational measurement il termine va-
condizionato dalle scelte di fondo sulla funzione formativa e/o selettiva della scuola» e «la consapevolezza della soggettività della valutazione non si accompagna, nella maggior parte dei casi, a quella che i giudizi formulati acquistano un valore oggettivo, perché giuridico, a livello di comunicazione sociale» (p. 246). 20 La nostra prospettiva educativa, per esempio, comporta un uso critico della “ragione” (Giovannini, 1995) e un impegno etico tali da poter assicurare a tutti, innanzitutto tramite percorsi intenzionalmente formativi irrinunciabili ed equi, un uguale diritto alla crescita culturale e personale, valorizzando anche, nel contempo, le differenze individuali. Pertanto, anziché rappresentarci il sistema di istruzione (superiore compresa) come entità “economica” che “eroga servizi” a favore di utenti/clienti, seguendo Dewey lo pensiamo invece come occasione privilegiata per mettere in pratica e fare propri i valori pedagogici democratici.
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lidità è stato usato in modo differenziato; tuttavia – come fa notare Baker (2013) – sin dal 199921 gli esperti di valutazione degli apprendimenti e i costruttori di prove strutturate sono giunti ad accettare una definizione di validità unificata e complessiva in riferimento allo scopo della valutazione. In base al presupposto che i test sono sviluppati per produrre informazioni per un particolare scopo, essa viene ricondotta all’utilità di tali informazioni al fine di prendere le dovute decisioni. Nel caso in cui i risultati siano utilizzati in modo non appropriato rispetto alle funzioni e agli scopi intenzionali, si producono delle conseguenze negative e impreviste sugli studenti e sui docenti ma anche sull’intero sistema d’istruzione.
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Fig. 1 – Modello d’uso della valutazione
Negli Standards for educational and psychological testing del 1999 (AERA, APA & NCME, 1999) viene infatti specificato che quando le applicazioni del test22 si allontanano dagli intenti originali, chi usa i risultati dovrebbe essere in grado di segnalare gli usi inappropriati e di avviare/commissionare studi sulla loro validità formale per raccogliere qualsiasi prova evidente di validità, utile a convalidare le nuove azioni proposte (Standard 1.4, 1999). Indicazioni simili si ritrovano nell’edizione più recente degli Standards (AERA, APA & NCME, 2014). Il capitolo sulla validità inizia proprio con uno standard generale (1.0) che sta alla base dei 25 standard indicati per la validità ed è ritenuto applicabile a tutti i test e a tutti i potenziali utilizzatori: «Dovrebbe essere resa esplicita una chiara articolazione di ogni interpretazione dei risultati destinata a uno specifico uso e dovrebbero essere fornite appropriate evidenze di validità a supporto di ogni interpretazione che si intende fare» (ibidem, p. 23). In questo documento si evidenzia chiaramente che è scorretto l’uso della frase “il test è valido”, in quanto
21 Il 1999 è l’anno in cui sono stati pubblicati gli Standards for educational and psychological testing (AERA, APA & NCME, 1999). A proposito del rapporto validità e uso cfr. Shepard (2013). 22 Con tale termine, riferito al contesto di istruzione, vengono intese non solo le prove a scelta multipla o a risposta aperta ma anche prove di prestazione, compreso il portfolio (AERA et al. 2014, p. 183).
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nessun test consente interpretazioni che siano valide per tutti gli scopi e per tutte le situazioni. Pertanto chi costruisce il test (test developers) dovrebbe esporre in modo chiaro gli intenti sulla base dei quali interpretare i risultati e, dunque, usarli. Così pure occorrerebbe delimitare chiaramente la/e popolazione/i cui è destinato il test e descrivere chiaramente il/i costrutto/i che il test intende rilevare e valutare. Ulteriori indicazioni le ritroviamo anche nel capitolo Educational testing and assessment della pubblicazione relativa gli Standard del 2014 nel quale gli usi dei risultati delle prove di valutazione dell’apprendimento sono ricondotti agli scopi della valutazione degli apprendimenti formativa, sommativa e certificativa/selettiva, con una sottolineatura dell’importanza di considerare le eventuali conseguenze negative sul piano educativo di usi non appropriati (AERA et al., 2014). Inoltre, viene specificato tra l’altro che chi fa la supervisione in vari momenti della valutazione deve essere in grado di formare in modo efficace gli altri soggetti coinvolti per argomentare loro una spiegazione logica del rapporto tra test utilizzati, scopi perseguiti dai test e interpretazioni dei punteggi dei test per gli usi previsti (Standard 12.4). Pure nel capitolo Uses of tests for program evaluation, policy studies and accountability della medesima pubblicazione viene ripetutamente sottolineata la necessità di fornire informazioni chiare su come si intendono utilizzare i risultati e sui cambiamenti che si pensa di promuovere, insieme alle avvertenze per evitare gli usi inadeguati (Standard 13.7). Per identificare e minimizzare le conseguenze negative viene indicato di monitorare l’impatto degli usi (Standard 13.8), mentre vanno integrati i risultati del test con informazioni provenienti da altre fonti se ciò migliora la validità dell’interpretazione complessiva (Standard 13.9). Il tema dell’uso della valutazione viene affrontato anche nel volume The Program Evaluation Standards (Yarbrough et al., 2011) con l’introduzione, tra i criteri di qualità delle valutazioni di programmi/progetti, di quelli relativi all’utilità23. Essi sono stati infatti introdotti allo scopo di incrementare la misura in cui i soggetti portatori di interessi in relazione al programma/progetto valutato trovano sia il processo sia i risultati della valutazione capaci di rispondere ai loro bisogni. In particolare, va sottolineato lo standard di utilità numero otto (U8): «Preoccupazione per le conseguenze e gli effetti»24, in cui viene sottolineato che le valutazioni
23 Le altre aree di standard di qualità delle valutazioni sono le seguenti: fattibilità, rispetto, precisione, responsabilità della valutazione. 24 Gli altri sette standard relativi all’Utilità sono i seguenti: U1 Credibilità del valutatore. Le valutazioni devono essere effettuate da persone qualificate che stabiliscano e mantengano credibilità nel contesto della valutazione; U2 Attenzione agli stakeholder. Le valutazioni devono prestare attenzione a tutta la gamma di individui e gruppi coinvolti nel programma e interessati dalla sua valutazione; U3 Negoziazione dei fini. I fini della valutazione devono essere individuati e continuamente negoziati sulla base delle esigenze degli stakeholder; U4 Esplicitazione dei valori. Le valutazioni devono chiarire e specificare i valori individuali e culturali alla base di scopi, processi e giudizi; U5 Pertinenza delle informazioni. Le informazioni raccolte nel corso della valutazione devono essere al servizio dei bisogni identificati ed emergenti degli stakeholder; U6 Significatività dei processi e dei prodotti. Le valutazioni devono elaborare attività, descrizioni e giudizi in modo tale da incoraggiare i partecipanti a riscoprire, reinterpretare o rivedere le loro conoscenze e comportamenti; U7 Tempestività e adeguatezza nelle comunicazioni e nei rapporti di valutazione. Le valutazioni devono prestare attenzione alle esigenze di informazione continua del loro diversi interlocutori.
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devono promuovere un uso responsabile e adattabile degli esiti e devono prestare attenzione alle conseguenze negative non volute e agli usi impropri25. Per quanto concerne gli usi della valutazione, in letteratura troviamo diverse tipologie e proposte di classificazione26, tuttavia spesso viene fatto riferimento a un uso: a) strumentale (per assumere decisioni o risolvere problemi); b) concettuale (per modificare il modo di pensare dei destinatari); c) per la legittimazione (legitimative utilization) (per supportare una decisione politica già assunta); d) simbolico (per dare rilevanza simbolica al soggetto decisore dell’uso della valutazione). Rispetto a tale tipologia, così come ad altre, preferiamo una semplificazione che risponde anche a una nostra esigenza di chiarezza concettuale. Infatti pensiamo che sia importante, nell’esplicitare il concetto di uso, tenere distinto il “processo pratico” all’interno del quale viene inserita la “valutazione” (gli elementi del suo processo o i suoi risultati) dallo scopo che tale processo pratico intende perseguire. Pertanto, come compare nella Figura 2, preferiamo far riferimento all’uso per conoscere (specifico dei ricercatori) e all’uso per prendere decisioni. Un altro aspetto del modello qui proposto sono i meccanismi di mediazione: oltre ai meccanismi di utilizzo (tra i quali consideriamo la diffusione degli elementi del processo e degli esiti della valutazione), possiamo farvi rientrare i meccanismi di resistenza e i meccanismi di influenza. Precisiamo che nella Figura 2 viene utilizzata l’espressione “validità d’uso” non tanto per introdurre un nuovo tipo di validità quanto piuttosto, rispetto alla problematica in oggetto, per attirare l’attenzione anche da parte degli utilizzatori sul problema della validità e della pertinenza degli usi rispetto all’impianto valutativo e agli scopi da esso indicati, nonché sulle conseguenze negative.
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Fig. 2 – Modello d’uso della valutazione – Dettaglio del momento d’uso
25 Va sottolineato che, per rispondere alla finalità di proporsi come strumento da utilizzare in diversi ambiti culturali, gli Standard valorizzano in modo particolare gli aspetti “formali” e/o “processuali” tralasciando di sottolineare gli aspetti valoriali. Questi, infatti, vengono presi in considerazione solo come elementi “portati” dai vari stakeholder, che vanno esplicitati (Standard U3 e U4) ma che non possono far entrare in conflitto i diversi stakeholder poiché è necessario giungere a una negoziazione. In questo aspetto sembra che gli Standard seguano il modello di Patton (utilization-focused evaluation) (Patton, 2008). 26 Cfr. per esempio Mark & Henry (2004), Kirkhart K.E. (2000), Johnson K., Greenseid L.O., Toal S.A., King J.A., Lawrenz F., & Volkov B. (2009).
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Infine, considerando qui gli usi dei risultati di una valutazione degli apprendimenti, non possiamo non tener presente che nel dibattito scientifico sulla valutazione degli apprendimenti viene sempre più sottolineato che la funzione di valutazione di bilancio (assessment of learning) dovrebbe essere preceduta da una valutazione a sostegno dell’apprendimento (assessment for learning) e che la valutazione stessa può produrre apprendimento (assessment as learning)27. In relazione ai nostri presupposti teorici e alle indicazioni delineate dagli Standard (in particolare quelli del 1999 e 2014 relativi alla valutazione degli apprendimenti), ci poniamo i seguenti interrogativi sulla sperimentazione TECO: quali sono le indicazioni sugli scopi di tale sperimentazione fornite esplicitamente oppure ricavabili come indizi dalle intenzionalità circa l’uso dei risultati? A chi dovrebbe soprattutto servire? C’è coerenza tra gli scopi/intenti della valutazione e gli usi dichiarati? Quanto è prevalente una funzione formativa nell’uso dei risultati relativi agli apprendimenti degli studenti rispetto a quella classificatoria? In che misura gli usi degli esiti di TECO possono essere trasformativi nel senso di riuscire a sostenere il miglioramento e lo sviluppo degli apprendimenti degli studenti e dei docenti nonché dell’organizzazione della quale essi fanno parte? Nel prossimo paragrafo cercheremo di rispondere – seppur brevemente – a questi interrogativi facendo diretto riferimento ai documenti dell’ANVUR.
3. Le ragioni della sperimentazione TECO e le dichiarazioni sugli usi dei risultati La sperimentazione TECO, come si è detto, si è proposta di valutare il livello delle competenze generaliste acquisite dagli studenti universitari del nostro Paese, focalizzando l’analisi sulla capacità di lettura, di analisi critica, di soluzione di problemi nuovi di tipo logico, interpretativo o scientifico-quantitativo, e di comunicazione. Come viene dichiarato nel Rapporto finale relativo al 2014 (ANVUR, 2015), si tratta «di competenze essenziali almeno quanto quelle più legate alle materie specifiche di laurea, che l’Università ha il dovere di porre al centro della sua attività formativa, anche perché necessarie per la migliore adattabilità al mercato del lavoro e alla vita presente e futura delle persone, e dunque fondamentali per accrescere l’occupabilità e l’empowerment personali» (pp. 14-15). Quanto alle ragioni poste alla base della sperimentazione, sono state distinte in «formali» e «sostanziali» (ANVUR, 2015, p. 11, 17). Le prime sono connesse al sistema di accreditamento iniziale e periodico dei corsi di studio e delle sedi universitarie, in base al quale «i risultati effettivamente raggiunti dagli studenti universitari in termini di competenze, sia specialistiche che generaliste, devono essere non solo confrontati con quelli attesi, ma anche accertati, perché, in prospettiva, vanno considerati ai fini dell’accreditamento e della valutazione periodica» (ibidem, p. 17). Le seconde risultano invece «collegate all’interesse da parte dei principali stakeholder (le imprese, le Università, gli studenti e le loro famiglie, il contribuente italiano e la Pubblica Amministrazione) ad avere una sempre migliore qualità didattica nelle nostre Università» (ibidem, p. 11). In particolare, in relazione ai vari stakeholder che hanno interesse per gli esiti effettivi dell’apprendimento di natura generalista, vengono precisate le seguenti specifiche esigenze (ibidem, p. 18): 27 Cfr. per esempio Assessment Reform Group, 1999; Earl, 2003; OECD, 2005; Black & Wiliam, 2009; Wiliam, 2007.
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– per le imprese, «individuare laureati di qualunque settore disciplinare, ricchi di quelle competenze trasversali (capacità di analisi critica, di decisione, di comunicazione e altre), che per le aziende sono fondamentali e che nessuno in Italia verifica e certifica»; – per le università stesse, «diagnosticare meglio per accrescere la qualità dell’offerta formativa»; – per gli studenti, con le famiglie, «potenziare il loro capitale umano quale fonte di benessere culturale e soddisfazione personale e insieme quale strumento per l’occupazione e l’occupabilità futura in un mercato del lavoro avaro»; – per i contribuenti e la Pubblica Amministrazione, «conoscere l’efficacia in termini di risultati delle risorse che essi devolvono all’istruzione universitaria, chiedendo che all’autonomia degli Atenei si accompagnino responsabilità (accountability) e la valutazione, tanto più in una fase di crisi profonda».
4. Linee di analisi e proposte È nostra intenzione, a questo punto, cercare di rileggere la valutazione TECO alla luce del modello d’uso da noi elaborato, presentato precedentemente. Un primo dato che emerge dall’analisi del testo dell’ANVUR è una duplice sovrapposizione concettuale in relazione al concetto di stakeholder: da un lato, infatti, possiamo rilevare la co-presenza in esso di aspetti riconducibili sia al concetto di utilizzatore sia a quello di beneficiario; dall’altro, si evince che alla domanda “che cosa” dovrebbero utilizzare o “di che cosa” dovrebbero beneficiare gli stakeholder, il riferimento alla valutazione delle competenze, nel testo, si sovrappone a quello del loro sviluppo didattico. Infatti, quanto affermato in relazione agli studenti e alle loro famiglie, per esempio, richiama non tanto l’uso della valutazione quanto piuttosto l’utilità per gli studenti – e per le loro famiglie – dello sviluppo delle competenze trasversali promosse dall’università. In questo caso, studenti e famiglie, di fatto, sono considerati beneficiari delle attività didattiche tese allo sviluppo di competenze trasversali e non utilizzatori dei risultati della valutazione28. Un secondo dato, che emerge dalla rilettura di TECO nella prospettiva del modello d’uso da noi assunto come riferimento, è il diverso tipo di uso dei risultati della valutazione previsto per gli altri soggetti (ANVUR, università, imprese, contribuenti e pubbliche amministrazioni). L’ANVUR, le università e le imprese sono considerati utilizzatori in quanto inseriscono i risultati di TECO all’interno di processi decisionali tesi a raggiungere specifici scopi, rispettivamente, accreditare e valutare, migliorare la qualità dell’offerta formativa, individuare i laureati in possesso di competenze trasversali. Nel caso, invece, del contribuente e della Pubblica Amministrazione, viene sottolineato l’uso conoscitivo del risultati di TECO la-
28 Anche nel caso in cui tale “beneficio” derivi dal fatto che i risultati siano stati utilizzati dalle Università per rivedere i curricula dei corsi di studi e che questa rivisitazione abbia portato a un miglioramento della didattica e a un incremento nello sviluppo delle competenze trasversali negli studenti, non possiamo, a rigore, fare una lettura che porti a considerare gli studenti come utilizzatori della valutazione; non sono stati loro infatti, ad aver inserito i risultati della valutazione in nuovi processi pratici (conoscenza o processi decisionali) bensì le università.
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sciando sullo sfondo – in modo implicito – il loro possibile uso al fine di prendere decisioni (il decidere, per esempio, di non investire più risorse)29. A partire da queste prime considerazioni, abbiamo proceduto a una ricostruzione di un possibile quadro esaustivo degli utilizzatori e dei possibili usi e scopi ad essi connessi che plausibilmente potrebbe essere associato alla rilevazione TECO allo scopo di farne emergere potenzialità d’uso, per quanto accettabili o meno. In questa direzione, dapprima abbiamo “riletto” come utilizzatori a pieno titolo almeno degli esiti della valutazione tutti gli stakeholder richiamati dai documenti ANVUR; in secondo luogo, abbiamo ipotizzato ulteriori utilizzatori tra quelli non contemplati dai medesimi documenti. Nel primo caso, ciò ha significato considerare come utilizzatori della valutazione – e non solo come beneficiari – in primo luogo anche studenti e famiglie e in secondo luogo pure i contribuenti e le pubbliche amministrazioni. Inoltre, abbiamo aggiunto come utilizzatori di TECO in processi decisionali almeno i docenti30 e i giornalisti in quanto espressione dei mezzi di comunicazione sociale. Successivamente abbiamo individuato alcuni possibili e plausibili usi dei risultati di TECO che studenti, famiglie, giornalisti e docenti potrebbero fare. In modo analogo abbiamo proceduto in relazione ai contribuenti e alle pubbliche amministrazioni, esplicitando a quale scopo potrebbero utilizzare i risultati di TECO in un processo decisionale, oltre a quello di tipo conoscitivo. A questo proposito, risulta plausibile che la situazione sia diversificata tra gli uni e le altre: nel caso del contribuente i dati di TECO potrebbero essere plausibilmente utilizzati per decidere di non votare più – in caso di esiti negativi – a favore del decisore responsabile della situazione dell’Università e/o di non destinare più risorse (5x1000 oppure lasciti o donazioni) all’Università così come nel caso delle Pubbliche Amministrazioni. Infine, abbiamo anche integrato uno dei possibili scopi d’uso della valutazione per le Università, ossia la diffusione di pratiche didattiche rivelatesi efficaci nel promuovere lo sviluppo delle competenze trasversali. Sintetizziamo qui questa “rilettura”, indicando in corsivo gli utilizzatori e gli scopi da noi inseriti a integrazione di quanto previsto dai documenti ANVUR: – ANVUR: accreditare e valutare; – Università: migliorare la qualità dell’offerta formativa; formare i docenti e diffondere pratiche didattiche efficaci; – imprese: individuare laureati in possesso di competenze trasversali; – studenti: scegliere dove iscriversi; autoregolare i processi di apprendimento delle competenze trasversali; – docenti: autoregolare i processi di insegnamento delle competenze trasversali; – famiglie degli studenti: scegliere dove iscrivere i figli; intraprendere azioni di pressione sull’Università per promuovere il miglioramento della didattica; – contribuente: eleggere decisori politici; destinare risorse economiche;
29 È interessante sottolineare come non vengano inseriti tra gli stakeholder i ricercatori, scelta che sembra rimarcare l’interpretazione eminentemente pratica della valutazione tramite il test TECO. A proposito dell’uso (conoscitivo) dei risultati di TECO da parte di ricercatori, cfr. per esempio Peracchi (2014) e Reale & Zinilli (2014). 30 Inserire i docenti tra gli utilizzatori potenziali di TECO significa prendere in considerazione non solo il piano didattico dei curricula dei corsi di studi in capo alla struttura universitaria, quanto le scelte didattiche effettuate a livello di singolo insegnamento in merito al processo di insegnamento/apprendimento.
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– Pubblica Amministrazione: destinare risorse economiche; – giornalista/mass media: divulgare una notizia; influenzare l’opinione pubblica. La rilettura in questa prospettiva della rilevazione di TECO ci fornisce uno schema di riferimento per trattare in modo più articolato un aspetto rilevante di ogni modello d’uso: vale a dire le potenziali distorsioni legate all’uso dei risultati. Infatti, sebbene il termine valutazione sia spesso proposto come «parola d’ordine, sinonimo di prova, rigore, trasparenza, democrazia» (Damiano, 2011, p. 10), i rischi e pericoli di usi distorti sono stati ampiamente evidenziati in letteratura (per es. AERA et al. 1999, 2014; Daniel, 2009; Van Vught, 2009; Hazelkorn, 2011; Olds & Robertson, 2011; Rauhvargers, 2011) e sono stati più volte richiamati anche nei rapporti del progetto AHELO. L’uso distorto dei risultati richiama ed evidenzia una mancanza di validità nel sistema di valutazione. Il concetto di uso distorto (misuse) o inappropriato (inappropriate use) può riferirsi principalmente a tre dimensioni del modello d’uso da noi assunto come riferimento31: – la prima dimensione riguarda la mancata coerenza interna tra i vari elementi del modello d’uso (in questo caso si può parlare anche di uso incoerente); – la seconda dimensione è relativa a un utilizzatore, a un uso o a uno scopo non previsti intenzionalmente (in questo caso si può parlare di uso non intenzionale); – la terza dimensione tocca invece gli assunti teorici e i valori che guidano l’interpretazione dello scopo e, di conseguenza, dell’uso dei risultati. In relazione alla prima dimensione della distorsione – la mancanza di coerenza interna tra gli elementi del modello d’uso – un esempio può essere la situazione in cui i risultati di TECO, scaturiti da un campionamento accidentale, vengano utilizzati all’interno di processi decisionali finalizzati a valutare (scopo) l’intera università. In questo caso è evidente la mancanza di coerenza praticooperativa che emerge dal non rispetto del criterio della validità esterna dei risultati di TECO. Un esempio di uso distorto della seconda dimensione (uso non intenzionale) si può rilevare nel caso in cui il tipo d’uso dei risultati, invece di essere quello del “prendere le decisioni”, sia quello – peraltro non preso in esame in dettaglio nel nostro modello – di tipo simbolico o di legittimazione32. Infine, l’uso distorto del terzo tipo è quello più complesso da esemplificare in modo sintetico poiché, da un lato, tocca aspetti spesso impliciti in molti documenti e, dall’altro, è di natura relativa ossia emerge solo in relazione a soggetti che sostengono differenti assunti teorici e valoriali. In questo caso, infatti, due soggetti con presupposti teorico-valoriali diversi possono ritenere, l’uno, uno specifico uso come appropriato, mentre l’altro inappropriato o distorto. Questo tipo di distorsione può essere esemplificato dal caso in cui lo scopo del valutare l’università venga interpretato differentemente: da un lato, chi concepisce la valutazione come
31 Ribadiamo che stiamo utilizzando il concetto di uso distorto in relazione agli utilizzatori. In letteratura, infatti, troviamo autori che ne parlano anche a proposito dei valutatori. In questo caso, alcuni autori preferiscono parlare di valutazione distorta e non di uso distorto. 32 Va, tuttavia, sottolineato che può sussistere il caso in cui vi sia un uso non intenzionale, ma nel contempo coerente al suo interno.
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uno stilare una classifica in una prospettiva economico-allocativa; dall’altro, chi la concepisce come un processo con una funzione formativa in una prospettiva pedagogica. In questo caso, per esempio, le affermazioni di Hazelkorn (2011), che sostiene che «molti paesi [...] hanno usato le classifiche per guidare la profonda ristrutturazione dei loro sistemi di istruzione superiore [...] e hanno scelto di premiare i risultati eccellenti e le istituzioni di élite piuttosto che migliorare la capacità e la qualità di tutto il sistema» rivelano come, a partire da un principio di equità distribuitiva a cui viene associata la funzione della valutazione, sia possibile interpretare come un uso distorto quello di classificare le università. In questa sede non è possibile sviluppare ulteriormente queste riflessioni. Quanto accennato, tuttavia, ci consente di puntualizzare alcuni aspetti di tipo metodologico che riteniamo possano favorire lo sviluppo del dibattito sulla valutazione. In questo contributo, infatti, abbiamo proposto un approccio metodologico all’analisi del fenomeno valutativo delle rilevazioni degli apprendimenti su larga scala che ha privilegiato una prospettiva contestuale (socio-culturale, istituzionale e politica) dell’uso connesso in modo argomentato agli scopi che prendono forma all’interno di una cornice teorico-valoriale. Questo approccio, tra l’altro, consente di far emergere con chiarezza, per esempio, il fatto che TECO non avendo adottato una prospettiva pedagogica (attenzione ai processi di “apprendimento/insegnamento” implicati in tutte le dimensioni del reale) abbia scelto di non considerare gli studenti come utilizzatori dei risultati per sviluppare i propri processi di autoregolazione e neppure i docenti per fornire loro un supporto formativo33. E questo, generalizzando, implica che le scelte valutative sono fortemente influenzate da aspetti di tipo culturale, teorici e valoriali. Quali indicazioni si possono trarre da questo tipo di considerazioni? Riteniamo che la prima e più rilevante conseguenza sul piano metodologico sia quella di considerare, come criterio di qualità degli impianti di valutazione, l’esplicitazione chiara dei presupposti teorici e degli orizzonti culturali con cui si affronta l’intero processo valutativo sino a comprendere, in base a evidenze argomentate, i potenziali usi in funzione di specifici scopi, dal momento che sono questi ultimi due aspetti che, culturalmente condizionati, orientano le scelte del processo valutativo stesso. Tale esplicitazione ha a nostro avviso molteplici conseguenze positive. Dapprima il far emergere l’implicito rende possibile effettuare un confronto argomentato sulle scelte sottoponendole al dibattito culturale-politico. In secondo luogo, consente di prevenire scelte che potrebbero indirizzare – anche attraverso il filtro dei documenti a livello europeo – la valutazione verso forme riduttive e non pienamente democratiche34. Infine, consente di richiamare i decisori politici a una complessità del momento decisionale che, sebbene successivo al processo valutativo (Gattullo, 1986), tenga conto non solo di scelte ideologiche o di suggestioni personali ma anche di “elementi” valutativi che, per la loro condivisione all’interno della comunità scientifica, siano riconoscibili dagli altri (credibili) e, in quanto tali, anche apprezzabili per il loro valore.
33 A livello europeo e internazionale è presa ampiamente in considerazione la formazione all’insegnamento universitario; in proposito ci permettiamo di far riferimento a Giovannini (2010). 34 Molto interessante in proposito è il contributo di apertura di Domenici & Lucisano (2011) del dibattito “Valutazione, conoscenza, processi decisionali” proposto dalla rivista Educational, Cultural and Psychological Studies, cui ha partecipato anche la scrivente (Giovannini, 2012).
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La misura delle misure e la validità educativa
Pietro Lucisano • Università La Sapienza di Roma- pietro.lucisano@uniroma1.it
The Measure of measurement and educational validity
L’articolo, a partire da un’analisi critica delle caratteristiche psicometriche del test utilizzato per l’indagine TECO sulle competenze effettive di carattere generalista dei laureati italiani, sviluppa una riflessione sulle cautele necessarie per costruire strumenti di misura validi e affidabili e sui rischi che comporta l’uso di strumenti di misura non adeguati soprattutto se utilizzati non a fini di ricerca ma per una valutazione di tipo amministrativo e politico. Viene inoltre esaminato il problema dell’impatto sulla validità della rilevazione del rapporto di fiducia tra valutatori e valutati e indicati alcuni suggerimenti per riportare la pratica delle rilevazioni scientifiche al ruolo naturale di affiancamento e collaborazione con chi lavora nella scuola e nelle università.
Keywords: evaluation, measurement, validity, reliability, test.
Parole chiave: valutazione, misura, validità, affidabilità, test.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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The article proposes a critical analysis of the psychometric properties of TECO test, developed to assess the general competences acquired by graduates in Italian universities. Then we focus on the cautions that should be observed in order to build reliable tools and the risks involved in the use of unsuitable tests, especially if they aren’t developed for research purposes but as an instrument of administrative and political evaluation. The article also examines the possible impact of confidence between evaluators and evaluated on the reliability of the assessment, and provides suggestions to bring scientific practice back to its natural role of assistance and cooperation with educational and academic staff.
La misura delle misure e la validità educativa
Subito dopo la presentazione della indagine TECO in Sapienza, spinti dalle perplessità suscitate dagli interventi ascoltati, dopo un confronto con i colleghi di Psicometria decidemmo di inviare alla Ministra Carrozza e al sottosegretario Marco Rossi Doria una lettera nella quale esprimevamo alcune preoccupazioni sull’uso dei test a fini valutativi. Nell’occasione raccogliemmo le firme di 101 colleghi che rappresentavano largamente i colleghi dei settori della Pedagogia sperimentale (M-PED/04) e della Psicometria (M-PSI-03).
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“Gentile Ministro Carrozza, fin dal suo insediamento, Lei ha posto l’accento sulla rilevanza del tema della valutazione in ambito scolastico. Come docenti di Pedagogia Sperimentale e Psicometria, condividiamo da sempre la rilevanza di questo tema. Ciononostante Le scriviamo per sottolineare il disagio che viviamo a fronte di un uso talvolta inappropriato degli strumenti di misura degli apprendimenti e, in particolare, delle prove strutturate. Specifici errori nella costruzione o nell’uso di questi strumenti, invece di contribuire a diffondere una seria cultura della valutazione rischiano di generare incidenti di percorso, gettando discredito su pratiche scientifiche che nel tempo hanno consolidato procedure e modelli di analisi rigorosi e affidabili. La Docimologia e la Psicometria sono state espropriate ai settori scientifici di competenza e affidate a consulenti ed esperti con il risultato di alimentare sospetti e resistenze nei confronti dei processi di selezione e valutazione. Nell’offrirle la nostra collaborazione vorremmo anche sottolineare che se i problemi dell’assessment e della valutazione sono veramente rilevanti è necessario avviare una strategia di formazione che doti il paese delle competenze necessarie ad evitare il rischio che le opportunità derivate da un corretto modello di valutazione degli apprendimenti vengano invalidate da un uso improprio delle metodologie di costruzione delle prove e di rilevazione, analisi e interpretazione dei dati. Qualora fosse interessata ad approfondire questa tematica volentieri metteremmo a Sua disposizione le nostre competenze e le nostre prassi di lavoro. Ringraziandola fin d’ora per la Sua attenzione,”
La lettera non ha avuto risposta alcuna, probabilmente a causa di impegni più rilevanti. La lettera fu però occasione di discussioni all’interno della comunità pedagogica perché molti colleghi dei settori disciplinari di Pedagogia generale e di Didattica scrissero per protestare sulla nostra scelta di limitare le firme ai soli settori di Pedagogia sperimentale e di Psicometria, poiché, argomentavano, la questione dell’uso dei test presentava non solo problemi tecnici, ma problemi di ordine pedagogico e didattico. Credo che quei colleghi avessero sostanzialmente ragione. Il rilievo principale che deve essere mosso a queste indagini amministrative dell’INVALSI e dell’ANVUR è, infatti, prima ancora che sulla validità degli strumenti, sulla loro efficacia educativa e sugli scopi che muovono le stesse ricerche. Anche se la questione della validità rimanda al senso dei costrutti teorici che sono alla base di questi lavori e alle finalità stesse per le quali vengono rilevati i dati in questione.
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Tuttavia stabiliamo un piano di dialogo condiviso. Non vi è dubbio sul fatto che sia necessario migliorare la conoscenza del funzionamento dei processi educativi e dei loro esiti e che per questo sia utile integrare le informazioni di cui disponiamo. Né può essere ragionevolmente messo in discussione il fatto che accanto a misure di tipo amministrativo quali le risorse disponibili in termini di personale e strutture, le caratteristiche del territorio, le caratteristiche del personale, il tempo dedicato alle diverse attività, sia necessario avere misure valide e affidabili di variabili di prodotto o di profitto. Siamo ancora d’accordo che le tradizionali variabili di profitto come voti agli esami o durata del percorso di studi siano poco affidabili e che sia necessario dotarsi di strumenti di misura più idonei. Su questa base iniziò l’avventura della IEA negli anni Sessanta e indubbiamente il lavoro di questa Associazione ha contribuito in modo rilevante alla crescita di consapevolezza dei problemi educativi presenti nei diversi sistemi formativi. Visalberghi ha lungamente combattuto il pregiudizio idealista che riteneva che la materia dell’educazione fosse da considerarsi estranea a pratiche di verifica di tipo scientifico: “una tale pretesa di misurare lo spirito appare a taluni talmente irriguardosa per lo spirito stesso da destinare senz’altro all’insuccesso qualunque tentativo di mostrar loro che queste pratiche diaboliche non sono poi tanto diaboliche, cioè non negano il mondo di valori in cui essi hanno fede” (1955, p. 13). Tuttavia già prima della IEA a cui partecipò con entusiasmo sin dalle prime ricerche Visalberghi segnalava la necessità di utilizzare il termine misura con misura, cioè con discrezione ed equilibrio, con prudenza: “L’abito stesso del misurare implicando l’attitudine a vedere un più e un meno dove il giudizio affrettato scorge qualità assolute, è esso stesso un abito di riflessività, di moderazione, di prudenza”. Al tempo stesso esprimeva una preoccupazione: “Come si spiega allora che la tendenza contemporanea a “misurare” tutto si accompagni spesso ad atteggiamenti completamente opposti?” (1955, p. 11). In parte, credo, si spieghi con l’idea che le misure costituiscano in sé già una soluzione dei problemi. Come se la semplice presenza delle bilance nelle famiglie americane potesse da sola ridurre il sovrappeso, mentre non sarebbe difficile produrre evidenze della stretta correlazione tra presenza delle bilance nelle case e aumento del peso. Già: perché la misura in realtà ha un rapporto dialettico con la valutazione, essa nasce dalla valutazione e confluisce nella valutazione, ma la valutazione che si effettua dopo la misura richiede che si metta in moto qualche cosa, nel caso del sovrappeso: dieta, ginnastica, diuretici. Se queste cose non si fanno le misure successive saranno una virtuosa ripetizione delle misure precedenti, utili magari a verificarne l’affidabilità, ma non a cambiare le cose. La prudenza proposta da Visalberghi richiamava poi al fatto che le operazioni di costruzione di strumenti di misura per la verifica del profitto educativo richiedono una certa professionalità nella predisposizione degli strumenti e altrettanta professionalità nella interpretazione dei risultati. Delle tecnicalità necessarie ad approntare questi strumenti si sono occupati sia pure con prospettive diverse pedagogisti sperimentali, psicometristi, sociologi convenendo sulle caratteristiche delle prove e sui percorsi necessari per costruirle, validarle, interpretarle1. Anche se molte discussioni sono ancora in corso possiamo dire che esistono anche in Ita-
1
A dire il vero la comunità pedagogica ha maturato una lunga consuetudine con il problema della valutazione. Voti ed esami sono stati a lungo un argomento di studio sia a livello internazionale sia a livello nazionale basti pensare ai lavori di Visalberghi, Gat-
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lia riferimenti solidi con i quali confrontarsi per operare con questi strumenti. Tuttavia negli ultimi anni non poche polemiche hanno accompagnato la decisione del MIUR di utilizzare prove di profitto come criterio di valutazione dell’efficacia del lavoro delle scuole e degli insegnanti. Queste polemiche hanno visto da una parte coloro che non volevano in alcun modo essere valutati, dall’altra chi riteneva che le misurazioni dovessero essere censuarie ed essere poi usate come criterio premiale per l’attribuzione di risorse alle scuole e ai docenti. È rimasta sottotraccia la voce di chi chiedeva che non si rinunciasse alla ricerca, alle misure e a operazioni di valutazione e intervento, ma che queste attività dovessero essere svolte con la necessaria professionalità. Il fatto che l’INVALSI abbia impiegato 15 anni a raccogliere con sforzo le indicazioni proposte ancora in fase di indagini pilota (Lucisano, 2003) e che ancor oggi non tenga conto di alcune di queste è facilmente documentabile, così come sono evidenti i fenomeni di disaffezione, skimming e cheating, che non si sono mai presentati nella conduzione delle indagini internazionali nel nostro paese. Il caso dell’ANVUR e del progetto TECO è una nuova conferma del fatto che invece di utilizzare l’esperienza e le misure e le valutazioni maturate in anni di lavoro si pensi di poter ricominciare tutto da capo, e di come la confusione tra ricerca e prassi di controllo amministrativo non possa che portare a scacchi dannosi non solo per il grande spreco di risorse, ma anche per la disaffezione che generano e il discredito che ne viene alla comunità scientifica tutta.
1. Del TECO e dei limiti della comprensione “Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e vi sarà perdonato; date e vi sarà dato; una buona misura, pigiata, scossa e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio”. (Luca 6,36-38)
Per verificare se la qualità del nostro lavoro rimane inalterata nonostante il blocco degli scatti, la riduzione delle risorse, il mancato turn over, le riforme demenziali, e per verificare se non abbiamo approfittato della autonomia si decide che è necessario valutare i risultati di apprendimento degli studenti universitari. L’ANVUR (e non solo la professoressa Kostoris) decide che per farlo è necessario anche per l’università avere una misura degli esiti in uscita che aiuti chi decide a premiare i buoni e a punire i cattivi, e identifica questa misura a partire dalle competenze generaliste. Se la sperimentazione avrà successo, a partire dal 2014 i risultati di questo test verranno utilizzati per l’accreditamento degli atenei e ai fini dei finanziamenti “premiali”. In realtà la stessa definizione di competenze generaliste è poco chiara, ma in
tullo e Calonghi, ma anche al lavoro di Andreani Dentici. Le cose essenziali sono state dette e scritte e in qualche momento anche ascoltate dal Ministero della Pubblica Istruzione. Poi dall’inizio del nuovo millennio il dibattito è ripreso come se prima non fosse avvenuto nulla.
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America le misurano. Forse sarebbe stato necessario mettersi d’accordo su cosa sono queste competenze, ma da qualche parte bisogna pur cominciare. Per fare un test è necessario un framework di riferimento che definisca e operazionalizzi ciò che si intende misurare, in tutte le ricerche si procede a questo modo, persino l’INVALSI lo fa. Invece un gruppo di esperti ANVUR sceglie un test americano che si propone di misurare il pensiero critico, il CLA plus, di proprietà dell’organizzazione CAE (Council for Aid to Education), lo acquista a caro prezzo e lo traduce ad altrettanto caro prezzo. Il test è prodotto da una società privata americana, ha qualche buona referenza e anche molte critiche. Il test viene ribattezzato test di competenze generaliste. Non si consultano gli esperti nazionali, del resto va di moda affidarsi ai privati che sono notoriamente più efficienti e più spicci. Il test utilizzato è composto di due parti. La prima, a risposta aperta (Performance Task), propone agli studenti di reagire ad alcune situazioni stimolo formulando risposte scritte e si propone di misurare tre aspetti: la capacità di ragionamento analitico e soluzione di problemi, l’efficacia di scrittura e la tecnica di scrittura. La seconda parte (Selected Response Question) è costituita da 20 item a risposta chiusa con quattro alternative. La CLA tuttavia è prudente nel proporre il suo test come strumento per misurare il valore aggiunto o stabilire standard che definiscano i livelli di prestazione2. Il test negli Stati Uniti ha avuto un’ampia diffusione, consensi e critiche (Kuh, 2006 Benjamin, Shavelson Bolus, 2007, Banta, Pike 2007). Possin (2013), ad esempio, si chiede “Ma quanto vale la bontà di questo test nel misurare ciò che i suoi autori hanno sostenuto, al “Council for Aid to Education” (CAE), che esso misuri, cioè la capacità di pensare criticamente, di ragionare in modo analitico, di risolvere problemi e di utilizzare la lingua scritta per comunicare?” ed esprime seri dubbi sulle modalità di costruzione e di correzione della parte aperta della prova, in particolare si sofferma sui rischi di riduzione che si corrono nella valutazione delle domande aperte concludendo di aver diagnosticato nel CLA “una patologia grave, se non fatale”. Zahner (2014) pur sostenendo la tesi della sostanziale bontà dello strumento non può evitare di fornire dei coefficienti alfa imbarazzanti per concludere poi che tutto si risolve utilizzando un calcolo dell’alfa che considera assieme i risultati dei due subtest quello a risposte aperte e quello a risposte chiuse3. Mongkuo, Lucas e Walsh nel 2013 esordiscono nel loro saggio volto appunto a stabilire l’efficacia psicometrica dello strumento in questi termini: “A review of the literature indicates that none of the CLA studies that we know of have tested the psychometric properties of the CLAPTDI for reliability and validity”4. Dunque si tratta di un test che, mentre si propone come un modo totalmente
2 3
4
Anche se la tentazione di utilizzare il test definendone standard ha trovato ovviamente sostenitori vedi ad esempio Hardison, Vilamovska, 2009. “Traditionally, CLA scores have been very reliable at the institution level (α=.80) (Klein et al., 2007), but not at the individual student level (alternate forms reliability = .45). This is due to the fact that, at the individual student level, the CLA was only a single PT or Analytic Writing Task (Make-an-Argument and Critique-an-Argument). Reliability was achieved only when CLA scores were aggregated across all students at a participating institution” (Zahner, 2014). Per poi concludere “As for its contribution to research, while the CLA, as a measure of learning in terms of reasoning and communicating in higher education, tracks remarkably well sociological factors at the individual, social and institutional levels, no CLA
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innovativo per affrontare la misura simultanea di dimensioni importanti quali il pensiero critico, il ragionamento analitico e le competenze di comunicazione scritta, sembra assai più solido nelle dichiarazioni di principio che nelle risultanze empiriche. Ci sarebbero elementi di preoccupazione. Non è dato di vedere una item analisi nel sito dell’ANVUR, nella relazione si fa rapidamente cenno al rapporto di item analisi della CLA (2014) ma solo per affermare che in sostanza la distribuzione dei punteggi degli studenti italiani non è poi molto diversa da quella degli studenti americani, ma vengono riportati i risultati in dettaglio e dunque è possibile riesaminare i dati della ricerca. Così mi sono attrezzato per calcolare qualche indicatore. Mi limito alle Selected Response Question, cioè ai 20 item a risposta chiusa che si propongono di misurare una serie di competenze di natura diversa, prevalentemente di carattere scientifico-quantitativo. “In esse, gli studenti devono scegliere la risposta corretta, scartando i tre distractor [sic], sulla base delle informazioni riportate o deducibili dalla documentazione fornita (anche questa include lettere, dialoghi, tabelle, fotografie, grafici, articoli di giornale o simili). Le domande in SRQ sono dirette a testare tre aspetti: a) la capacità di lettura critica (Critical Reading – CRE) di un breve testo, corredato, di solito, da un grafico o da un semplice strumento di analisi quantitativa; b) la capacità di criticare un’argomentazione (Critique an Argument – CA), selezionando, per esempio, la posizione più convincente tra quelle diverse, espresse da persone differenti e spiegando perché; c) la capacità di ragionamento scientifico e quantitativo (Scientific and Quantitative Reasoning – SQR), a fronte di informazioni ed evidenze sia qualitative che quantitative” (ANVURa, 2014, p. 12). Questa seconda parte del test prevede dunque di misurare tre costrutti decisamente impegnativi: la lettura critica, la critica di un’argomentazione e il ragionamento scientifico e quantitativo. Nonostante la complessità delle tre dimensioni considerate per ciascuna di esse la prova prevede un numero assai ridotto di domande: 8 per la lettura critica, 5 per la critica di una argomentazione e 7 per il ragionamento scientifico e quantitativo. Anche un inesperto si sarebbe reso conto che sono troppo poche, se fosse possibile misurare abilità complesse con poche domande non si capirebbe tutto l’armamentario che la IEA o il PISA mettono in campo per poi restituire indicazioni molto prudenti. A occhio poi mentre i primi due costrutti sembrano appartenere allo stesso dominio il terzo appare significativamente distante. L’assenza di un framework che definisca con chiarezza che cosa si intende per capacità generaliste e come la loro misura possa essere un criterio per attivare misure di discriminazione nei finanziamenti alle università, ci impedisce di andare a fondo, ma certo un Comitato Scientifico autorevole avrebbe dovuto porsi questo problema. Ma si procede, si prevede una popolazione di 21.872 unità, si preiscrivono 14.907 persone, e si raggiunge un campione di 5807 studenti presi da 12 università del paese tanto che nella stessa relazione ci si pongono dubbi sulla possibilità di una self selection bias. In questa fase vengono poste in essere procedure curiose per motivare gli studenti a partecipare con forme di incentivi di tutti i tipi. Il clima generato è lo stesso delle prove INVALSI ed evidentemente i sottoprodotti sono
to date has tested the psychometric properties of the instruments used in this type assessment nor its construct validity. This void raises serious questions about the reliability of CLA findings as guide for understanding and designing policies to improve student learning” (Mongkuo, Lucas, Walsh, 2013).
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gli stessi cheating, skimming e teaching to the test (Corsini, Zanazzi, 2015, p. 322). L’item analisi di un test è una procedura di controllo delle caratteristiche di uno strumento di misura largamente condivisa dalla comunità scientifica. La procedura può essere attuata con impostazioni diverse: quella dell’item analisi classica (Classical Test Theory) o quella più recente dell’Item Response Theory (IRT); entrambe le procedure tentano di dare conto delle due principali caratteristiche di uno strumento di misura la sua validità e la sua affidabilità. Queste procedure prevedono che uno strumento di misura prima di essere utilizzato venga sperimentato su un campione con le stesse caratteristiche della popolazione su cui le misure verranno successivamente assunte. Entrambe le procedure tendono a controllare la coerenza interna dello strumento. Per quanto riguarda la validità gli indici possono dare soltanto un esito indicativo, poiché la coerenza interna ci dice solo se i diversi item che compongono la prova avendo lo stesso andamento stanno più o meno misurando la stessa cosa, ma su cosa sia questa cosa è questione di modelli teorici. Se al posto di un test di “competenze generaliste” fosse usato un test di scuola guida, l’indicatore di coerenza interna (alfa di Cronbach o Kuder Richardson 21, o altro) risulterebbe comunque alto se il test di scuola guida è ben fatto. Si assume che lo strumento di misura di una abilità dovrebbe avere un alfa di Cronbach di almeno 0,8. Se si osserva la tabella 1 in cui vengono riportati gli esiti dell’analisi dei 20 quesiti della prova TECO, si può constatare che sia l’alfa di ciascuno dei sub test sia l’alfa dell’intero test sono largamente al di sotto degli standard accettabili. L’alfa è un indicatore sensibile alla numerosità dell’unità di analisi, tende a crescere in relazione alle dimensioni del campione e al numero di domande esaminate. Nel nostro caso il numero di osservazioni avrebbe dovuto comunque spingere l’alfa verso valori alti. Il risultato, comunque lo si voglia leggere, denuncia una sostanziale inaffidabilità dello strumento. In particolare l’alfa degli item di ragionamento scientifico e quantitativo è così bassa da porre interrogativi sostanziali sulla natura delle domande e sul loro impatto sui destinatari. Per completezza ho provato a fare sia per ciascuno dei sub test sia per la prova complessiva una analisi fattoriale. L’esito è che mentre i primi due sub test si presentano monofattoriali (pur spiegando una quantità di varianza decisamente bassa), il secondo test presenta due fattori e la prova complessiva finisce per distribuirsi in cinque fattori segno che le cose misurate sono più di tre e sensibilmente diverse tra loro, tanto che i 5 fattori estratti spiegano solo il 13% della varianza del campione esaminato. SRQ
Fattori e % varianza spiegata Alfa
N. item 1 fatt. 2 fatt. 3 fatt. 4 fatt.
Lettura critica
,485
8
11,0
Critica di una argomentazione
,421
5
20,5
Ragionamento scientifico e quantitativo
,268
7
13,3
5,8
Intero test
,567
20
5,0
4,4
5 fatt.
Tot. 11,0 20,5 19,1
1,8
1,4
1,3 13,9
!
Tab. 1 – Alfa di Cronbach e componenti fattoriali del test Selected Response Question
SRQ
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Fattori e % varianza spiegata
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Item ID
66
P
R
a
b
1
0,835
0,142
0,707
-2,447
Flag(s)
2
0,682
0,182
0,762
-1,116
3
0,825
0,210
0,855
-1,989
4
0,734
0,205
0,755
-1,477
5
0,778
0,276
1,108
-1,316
6
0,743
0,237
0,837
-1,410
7
0,662
0,220
0,775
-0,975
8
0,448
0,225
0,944
0,189
9
0,749
0,214
0,766
-1,560
10
0,302
0,105
0,496
1,658
11
0,896
0,253
0,771
-2,940
F
12
0,894
0,290
0,854
-2,697
F
13
0,507
0,209
0,704
-0,096
14
0,258
0,050
0,462
2,252
15
0,512
0,145
0,626
-0,136
16
0,620
0,134
0,517
-1,024
17
0,652
0,178
0,635
-1,086
18
0,376
0,185
0,848
0,586
19
0,073
0,062
0,935
2,594
20
0,771
0,227
0,838
-1,600
F
Tab. 2: Statistiche e parametri degli item della prova SRQ
Le analisi mostrano, dunque, che lo strumento risulta inaccettabile dal punto di vista psicometrico, sia per problemi di validità, sia per problemi di affidabilità. Ora poiché ci rendiamo conto che questo potrebbe essere frutto di un incauto acquisto basato sulla fiducia nei privati, del resto chi non avrebbe comprato un suv Volksvagen assolutamente non inquinante? Certo un try out dopo la traduzione, che in genere comporta non pochi problemi, sarebbe stato prudente, ma bisognava produrre in fretta risultati. La questione deontologica va posta però sull’uso delle misure ricavate a questo modo dopo la somministrazione della prova. È infatti impensabile che nell’item analisi della CLA non fossero presenti questi dati, e che in presenza di questi dati nessun membro del Comitato scientifico abbia mosso i rilevi necessari. A questo punto dei professionisti avrebbero dovuto, sia pure con rammarico prendere atto della inaffidabilità del percorso intrapreso e della sua inadeguatezza rispetto all’obiettivo ambizioso di avere un criterio per stabilire i finanziamenti premiali e con pazienza riprendere a tessere il filo della ricerca per raggiungere l’obiettivo che si proponevano. Se i SUV inquinano non si mettono in circolazione. Ma siccome si era speso tanto per costruirli i SUV sono stati messi in circolazione. Per i SUV la Volksvagen aveva provveduto a taroccare il software che aveva il compito di fornire le misure di inquinamento. Per il TECO non si è fatto neanche questo, si confidava nel fatto che la cultura della valutazione del Paese fosse tale che di fronte a tabelle fitte di numeri nessuno si sarebbe dato la pena di controllare. E poi solo i bambini non capiscono che non si possono controllare i valutatori e che sta male dire che il re è nudo. E così i risultati della ricerca TECO sono stati presentati in pompa magna alla presenza di colleghi e autorità. Come se niente fosse, con misure che non misurano nulla, si è pubblicato un corposissimo rapporto, con più di 150 pagine di tabelle, nel quale sulla base di stati-
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stiche e grafici si traevano una serie di conclusioni e valutazioni. Non basta. Successivamente per poter utilizzare un cospicuo cofinanziamento si è pubblicato un secondo rapporto sulle università del Sud, che concludeva evidenziando i noti limiti degli studenti del mezzogiorno. Ora se possiamo perdonare le ingenuità e gli errori fino al momento della raccolta dei dati e attribuirli a inesperienza, la pubblicazione dei risultati e le analisi su dati inaffidabili è in malafede. Mi chiedo come persone qualificate nel comitato scientifico abbiano potuto avallare questa prassi. Forse qualcuno non è stato reso avveduto, ma qualcuno doveva sapere. Ho posto in altra sede il problema di un codice deontologico per la ricerca e mi chiedo se nel caso di cui stiamo parlando non si debba andare oltre alla condanna deontologica (Lucisano, 2012) e porre il problema del possibile danno erariale che si è realizzato con la spesa richiesta da questa ricerca e con il mantenere attivo negli anni successivi il contratto con la società che ha prodotto il test e nel proseguire senza significative variazioni la ricerca i cui costi sono esposti nel sito dell’ANVUR e sono decisamente elevati. Senza considerare poi il danno di immagine e di credibilità che ne è derivato alla comunità scientifica tutta con il rischio evidente che l’opinione pubblica finisca con il credere che le pratiche del testing siano poco serie e poco utili, mentre è una vita che ci battiamo per affermare il contrario. E anche se siamo predisposti alla comprensione, anche nei confronti di chi si improvvisa del nostro mestiere, possiamo comunque ricordare che La confessione, film di Andò che parla proprio di economisti impegnati a salvare il mondo, ci ricorda che anche nella confessione senza pentimento non c’è perdono. Ora l’ANVUR ha deciso di non utilizzare più il CLA+ e, tuttavia, rimane ancorato all’idea di costruire lo strumento di misura delle abilità generaliste buono per tutte le università e tutti i corsi di laurea, stavolta di costruirlo in casa, procedendo forse con più cautela, ma nel rispetto di tempi in realtà strettissimi, cercando più alleanze, ma evitando le domande fondamentali, quelle relative al senso e all’utilità di questa operazione che rischia ancora di appartenere alla valutazione amministrativa e piuttosto che alla valutazione diagnostica e mi permetto scientifica. A questo ha unito l’idea di costruire prove disciplinari per valutare le competenze in uscita dai singoli corsi di studio, prove che rischiano di diventare il sillabo dei corsi di studio e di normalizzare l’insegnamento universitario staccandolo dal suo rapporto organico con la ricerca. Per non limitarci alla critica possiamo di nuovo affermare, come abbiamo fatto ripetutamente per l’INVALSI, che un sistema di valutazione dovrebbe dotarsi di un impianto che consenta di tarare prove valide e affidabili, complete di ancoraggi per i confronti diacronici, di utilizzarle su campioni statistici, rinunciando all’idea che i test siano uno strumento di controllo amministrativo, e di restituire le prove e i loro standard alle università per la loro autovalutazione. Questo non solo migliorerebbe la qualità, ridurrebbe i costi, ma farebbe crescere quella cultura della valutazione educativa che ha tra gli assunti la fiducia e non il controllo, e così alla fine del discorso non possiamo che ritornare al suo inizio.
2. Non è solo questione di strumenti Nel dare ragione ai pedagogisti generali che reclamavano attenzione al significato educativo complessivo delle operazioni di testing amministrativo su popolazione, è necessario richiamare che tra gli elementi da considerare nella validità di una misura vanno considerati aspetti quali il tipo di rapporto che si stabilisce tra misuratori e misurati.
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Infatti se è vero che ogni operazione di misura nasce da valutazioni è anche vero che la partecipazione di chi viene misurato muove anch’essa da valutazioni. I misurandi fanno le loro valutazioni sia sulle intenzioni dei misuratori sia sulle caratteristiche delle prove e queste valutazioni incidono sui risultati delle misure stesse. Se il misurando non ritiene utile impegnarsi nella prova, o se non si fida del valutatore non sarà motivato a collaborare Alcuni di questi problemi sono presi in considerazione quando si considera la validità di aspetto di una prova (face validity) ma probabilmente bisognerebbe approfondire il problema considerando la validità dell’interazione, che appunto comporta l’esame della fiducia che si instaura tra misuratore e misurato. Le valutazioni dei misuratori riguardano perché misurare, cosa misurare, chi misurare, come misurare, come interpretare i dati, come comunicare i risultati. Una cosa è misurare per fare pubbliche graduatorie, un’altra è misurare per aiutare a migliorare. Così come è diverso misurare nelle scuole di ogni ordine e grado solo la capacità di leggere, scrivere e far di conto e dichiarare che queste sono il risultato della scuola o misurare invece ad esempio i valori che la scuola trasmette ai ragazzi, le capacità acquisite dai ragazzi di scegliere libri o film rilevanti. Protagora diceva che “l’uomo è misura di tutte le cose di quelle che sono perché sono e di quelle che non sono perché non sono”. La scelta di che cosa misurare può mettere in luce tanti tipi di scuole diversi e produrre risultati differenti e forse opposti. La scelta di cosa misurare e di cosa valutare non è indifferente essa produce risultati come il teaching to the test, l’abbandono da parte dei docenti e degli studenti di parti rilevanti del curricolo, la percezione della ricerca come controllo e così via. Così un paese che non è in grado di valutare e di apprezzare la sua tradizione educativa rischia di perdere la sua cultura senza peraltro guadagnare nulla. Sul chi misurare si è speso molto inchiostro, i seguaci della valutazione amministrativa ritengono che al MIUR spetti il compito di realizzare un giudizio universale, su tutti. Questo richiederebbe una quantità incredibile di risorse oppure la scelta di un approccio casareccio, amministrativo appunto. I test li somministrano gli insegnanti, le prove a questo modo vengono bruciate di anno in anno, non esistono le condizioni per ancoraggi e confronti diacronici. Quando coordinavo lo IEA Reading Literacy per l’Italia, adottammo una strategia diversa: nell’indagine campionaria tarammo un secondo strumento che fu poi messo a disposizione delle scuole per la loro autovalutazione, mettemmo loro a disposizione gli standard nazionali e locali, gli standard in relazione a variabili indipendenti di rilievo (Visalberghi, Corda Costa 1995). Le scuole interessate potevano usare le prove che erano state somministrate da somministratori esterni preparati ad hoc, e interpretarne i risultati. Il nostro lavoro era chiaramente volto ad aiutare le scuole e non a giudicarle. Così anche l’interpretazione dei dati e la comunicazione dei risultati rappresentano un elemento importante del patto da stipulare con chi accetta di collaborare alla ricerca. Se la ricerca porterà a classificare la mia scuola tra le ultime, a mettere un marchio di inadeguatezza sui miei studenti sarò poco propenso a collaborare, anzi forse da educatore avrei il dovere deontologico di non collaborare. Infine preso atto della capacità dell’ANVUR di comprendere dopo qualche anno che la prova utilizzata per il TECO non funziona, ciò che stupisce è il progetto di farne in tempi rapidissimi altre ex novo migliori. Fare una prova richiede tempo. Non si può pensare di spremere l’uva e bere vino. Il valore delle cose dipende dal tempo necessario per realizzarle e se ne occorre tanto bisogna avere il coraggio di investirlo tutto. La smania di realizzare tutto e subito, probabilmente per pressioni politiche è dannosa alla cultura della valutazione e alle pratiche di misurazione.
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Del resto poiché non siamo in presenza di enormi disponibilità di investimenti per le cure è inutile affannarsi in screening di massa. Scegliamo i temi più rilevanti per valutare, valorizzare, migliorare il nostro sistema formativo, lavoriamo insieme, sperimentiamo gli strumenti assieme alle scuole e alle università, ricostruiamo il dovuto clima di collaborazione, formiamo esperti in grado di interpretare i dati. Credo ci sia molto da fare e gli sforzi che si faranno sono misurabili.
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Ricerca educativa fra pratiche e politiche istituzionali
Renata Viganò • Università Cattolica del Sacro Cuore - Renata.vigano@unicatt.it
Educational research between practices and institutional policies
Il tema della ricerca educativa è affrontato nella prospettiva di una sua lettura critica con riferimento alla sfera delle pratiche e a quella delle politiche istituzionali. La riflessione muove da una sintetica presentazione dello scenario globale in cui si situa oggi la ricerca educativa e delle principali ricadute sui sistemi educativi e formativi. La ricerca risulta profondamente rimessa in questione dalle tendenze in corso e necessita di un sostanziale impegno di revisione in tutte le sue articolazioni, dall’assetto epistemologico allo sviluppo di metodologie di indagine adeguate e innovative. Un breve approfondimento sui temi dei rapporti fra ricerca educativa, politiche istituzionali e pratiche pone in luce alcuni snodi problematici e concorre a dare evidenza alle direzioni di lavoro utili. Sono infine presentate alcune lessons learned dall’esercizio della ricerca educativa, con particolare attenzione agli atteggiamenti e all’habitus professionale che devono connotare chi fa ricerca.
Keywords: educational research, practices, institutional policies.
Parole chiave: ricerca educativa, pratiche, politiche istituzionali.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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The theme of educational research is faced with the prospect of a critical interpretation with reference to the sphere of institutional policies and practices. The reflection moves by a brief presentation of the global scenario in which lies today educational research and major impact on education and training systems. Research is deeply called into question by the ongoing trends and needs a substantial commitment to review at all his issue, from the epistemological structure to the development of appropriate methods of investigation. A brief study on the relationship between educational research, institutional policies and practices highlights some troublesome issues and helps to give evidence at working directions. Some lessons learned from the exercise of educational research are finally presented, with special attention to attitudes and professional habitus that must characterize who does educational research.
Ricerca educativa fra pratiche e politiche istituzionali
Premessa
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Una riflessione sui temi oggetto del presente contributo necessita di una premessa. La questione è ampia, complessa e oggetto di un dibattito articolato; né può essere compresa se non in forza di un accostamento interdisciplinare. I contorni e i limiti di un testo come quello proposto nelle pagine seguenti escludono, come è evidente, l’ambizione di un’analisi esaustiva e corrispondente a tali criteri. Si intende piuttosto fornire un quadro sintetico di alcuni fattori e snodi fondamentali della tematica per corroborarne la comprensione critica e orientare l’attività di ricerca educativa alla luce degli aspetti che tale analisi pone in risalto. In questa prospettiva sono prima forniti alcuni elementi di scenario per poi volgere l’attenzione all’influsso esercitato, sul rapporto oggetto di analisi, dalle tendenze espresse dagli organismi transnazionali; ci si sofferma quindi sull’impatto affatto superficiale o secondario di queste dimensioni sulla ricerca educativa. Il quadro problematico così delineato trova un approfondimento specifico nella presa in conto dell’opacità e non piena intellegibilità sia delle politiche e del policymaking sia delle pratiche, come interlocutori ineludibili ma complessi della ricerca. Al termine del contributo sono sinteticamente delineate alcune possibili lessons learned del percorso esperienziale e riflessivo presentato, con particolare attenzione a competenze e skills utili a chi svolge ricerca educativa inteso a interloquire in maniera significativa con la pratica e le politiche istituzionali.
1. Elementi di scenario La riflessione sul rapporto tra ricerca educativa, pratiche e politiche istituzionali non può prescindere dalla conoscenza dello scenario complessivo entro cui le dinamiche riguardanti tali dimensioni si sviluppano. La cosiddetta globalizzazione penetra, in maniera differenziata e non senza problematicità, in tutte le articolazioni della vita sociale, civile, politica e culturale, con le luci e le ombre che la caratterizzano: dischiude prospettive inedite e nuovi orizzonti di crescita e miglioramento ma apre altresì a rischi e criticità cui non si è preparati a rispondere, infonde entusiasmi e offre possibilità ma genera anche timori, resistenze, chiusure. Né è possibile restarne fuori. Per dirla in termini metaforici, la corrente avanza con continui cambiamenti di direzione e ritmo: abbandonarsi alla corrente significa lasciarsene trascinare; andare controcorrente rischia di portare al naufragio poiché non tiene conto della realtà. Occorre perciò imparare a navigare in maniera diversa senza perdere il senso della direzione né abbandonare il timone. Tra le caratteristiche strutturali più importanti dei sistemi socio - economici dei paesi industrializzati rientrano, oltre all’elevata complessità, la progressiva tendenza alla dematerializzazione delle attività produttive e il conseguente crescente peso assunto dalla conoscenza come fattore produttivo. Sempre più quest’ultima è un fattore essenziale di successo, discriminante nella competizione internazio-
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nale tra individui, imprese, sistemi-paese. La conoscenza è anche base per la crescita personale e professionale di tutte le categorie sociali. Di essa necessita l’employability, risorsa per affrontare un mercato del lavoro sempre più esigente e complesso. I sistemi formativi sono strutturalmente interpellati da tale dinamica generale e hanno dinanzi a sé un compito arduo: scenari, tendenze e prospettive sono difficili da comprendere; orizzonti e sfide sono nuovi e mutevoli; obiettivi e strategie sono soggetti all’intreccio dinamico di variabili transnazionali, nazionali e locali (Viganò, 2011). Sul versante sia pubblico sia cosiddetto privato del sistema di istruzione e formazione alcuni snodi risultano immediatamente evidenti, ancorché assai complessi da governare e non esaustivi della molteplicità di quelli esistenti: la presenza vincolante del dialogo sociale e della concertazione nell’innovazione e nello sviluppo della formazione continua, secondo una logica di lifelong learning; l’esigenza di migliorare la qualità e la quantità dell’accesso e impiego dei finanziamenti comunitari, che sempre più richiedono competenze precise per accedervi; la complessità del sistema di programmazione e gestione degli interventi formativi, orientato verso l’autonomia e il decentramento ma ad un tempo rispondente a necessità di integrazione nel sistema comunitario; il bisogno di ancorare lo sviluppo di politiche della formazione a basi informative complete e sistematiche e a una ricerca non occasionale, atta a supportare decisioni che intercettino esigenze impellenti ma che siano anche orientate da strategie di medio e lungo termine (Grek, Lawn, Ozga, 2011). Lo scenario diffuso non sarebbe del tutto comprensibile se oggetto di attenzione fosse solo il pur articolato insieme di aspetti sociali, economici, politici, amministrativi e organizzativi. Si può a ragione evocare l’emergenza educativa per additare le conseguenze nefaste e i rischi indotti dalla progressiva erosione dell’educazione come orizzonte di impegno sociale e istituzionale. L’onda lunga di ideologie pervasive che hanno minato la responsabilità educativa di soggetti e istituzioni, i conseguenti atteggiamenti sistematici di delega fra i diversi soggetti pubblici e privati, la latitanza di una riflessione culturale e di una ricerca scientifica e pedagogica autorevole, il connesso dilagare di modelli e pratiche orientate a criteri privi di un fondamento ideale radicato nel principio del rispetto della persona, non possono essere ignorati come fattori concorrenti alla criticità del quadro attuale (Derouet, Derouet-Besson, 2008). Aver espulso l’educazione dal nucleo generativo dei sistemi di istruzione e formazione, confinandola nella sfera del privato familiare o addirittura individuale, ha indebolito la capacità culturale, politica e sociale di apprezzare l’importanza dell’educazione medesima e ha ingenerato danni gravi nel tessuto sociale e politico ma altresì nei sistemi economici e nella cultura amministrativa e organizzativa. Non si costruisce la comunità – patrimonio fondamentale senza cui non si superano crisi e difficoltà – senza alimentarla di significati, valori condivisi che riempiono di senso i concetti stessi di capitale umano e sociale. Le azioni e i sistemi formativi finiscono allora per ridursi a pratiche di ingegnerizzazione di modelli orientati a performances di modesta visione e a terreno di conquista di interessi economici e commerciali, perdendo il rapporto essenziale con l’orientamento al servizio alla persona e alla società. Occorrono respiro e tempra culturale e politica per impegnarsi in tale direzione, per motivi non di mera filantropia ma di investimento strategico su un bene fondamentale che può resistere nel tempo, rigenerarsi e affrontare sfide sempre più complesse e inedite.
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2. L’influsso degli orientamenti transnazionali
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Nell’attuale sistema dei rapporti economico-politici globali, la formazione non è più un settore dai contorni definiti, meno ancora un mero servizio a carattere erogativo in cui alcune o molte persone, prese individualmente, vanno ad acquisire contenuti secondo un paradigma di mera ricezione; costituisce invece un terreno permanente, complesso e dinamico, di confronto e di scambio tra tutti i soggetti sociali a vario titolo coinvolti. La globalizzazione muta non solo la struttura e le funzioni dei processi formativi ma anche il modo di pensare e realizzare la formazione (Rivzi, Lingard, 2010). La rilevanza della conoscenza implica un aggravio sempre più oneroso per i sistemi formativi, posti dinanzi a sfide inedite e alla difficoltà di capire scenari e prospettive, quindi di individuare obiettivi e strategie. “La ricchezza dell’Europa è nel sapere e nella capacità delle sue persone: questa è la chiave per la crescita, l’occupazione e la coesione sociale”. Così si esprimevano nel marzo 2007 i firmatari della Dichiarazione di Berlino: Merkel, Barroso e Poettering, alla presenza di tutti i leader dei 27 Paesi dell’Unione. L’analisi delle tendenze internazionali nel campo delle politiche formative e della ricerca, osservate in particolare nell’ultimo ventennio, delinea la complessità del rapporto in questione ma dà anche risalto alla presenza di orientamenti sempre più trasversali a paesi diversi, assunte e legittimate da organismi sovranazionali come l’OCSE e l’Unione Europea i quali hanno conseguentemente influito sulle politiche nelle varie realtà nazionali (Normand, 2006, 2007; Viganò, 2011; Hanusek, Woessmann, 2007; Henry, Lingard, Rizvi, Taylor, 2001). In particolare nel 2007 la Commissione Europea, facendo proprie le indicazioni espresse dall’OCSE, individua tre sfide per i sistemi educativi, a cui riferire la politica europea dell’educazione e della formazione, ancorandola alla qualità della conoscenza1. La prima sfida muove dalla preoccupazione per la scarsa qualità dei prodotti della ricerca in campo educativo e insiste sui processi di elaborazione della conoscenza scientifica. Alla frammentazione disciplinare e metodologica e all’eterogeneità dei risultati consegue il mancato impatto della ricerca. Come via risolutiva è indicata la promozione di agenzie e programmi di ricerca nazionali connessi con bisogni espressi in sede di organi di responsabilità e decisione politica; il finanziamento della ricerca va condizionato al conseguimento di obiettivi specifici e al rispetto dei criteri di qualità. In concreto, la Commissione Europea sollecita la ristrutturazione delle istituzioni esistenti, la messa in atto di centri specifici di ricerca sulla base di priorità nazionali di là dalle consuetudini accademiche, la promozione di sistemi di qualità con particolare riferimento a metodi corrispondenti ai requisiti della ricerca evidence-based. La seconda sfida riguarda la promozione della conoscenza scientifica tra i responsabili politici e i professionisti, con l’obiettivo di accrescere la capacità di impiegare i risultati della ricerca per favorire lo sviluppo di sperimentazioni controllate e di una cultura della valutazione. Tale orientamento è rivolto anche a genitori, organizzazioni e media. La terza sfida attiene al lavoro di mediazione necessario fra la produzione di conoscenza scientifica e la sua diffusione e implementazione. Secondo la Commis-
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Cfr. il Rapporto della Direzione Generale Istruzione e Cultura, Towards more Knowledge-based Policy and Practice in Education and Training, 2007.
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sione, ciò impone l’adozione di nuovi tipi di trasmissione e di disseminazione dei risultati della ricerca con l’impiego di networks, piattaforme, siti web, media. Tale mediazione è facilitata da partnership, reti e agenzie che non appartengono in via esclusiva al mondo accademico poiché vi concorrono professionisti operanti in organismi dell’amministrazione centrale e territoriale, in agenzie di consulenza e di supporto alle decisioni, in centri di documentazione e di knowledge management. In sintesi, le tre sfide descrivono le coordinate di un quadro prospettico in cui la cosiddetta evidence-based policy induce una profonda trasformazione nella produzione di conoscenza scientifica in campo formativo (Lessard, 2006). Secondo l’approfondita analisi sviluppata da R. Normand, tale ricerca nei contesti nazionali risulta sempre più condizionata dalla governance europea, in forza anche della Strategia di Lisbona e dell’Open Method of Coordination (Keeling, 2006). Nella nuova modalità di produzione e legittimazione della conoscenza, per esempio nei processi di generazione delle questioni e delle problematiche e di riconoscimento della loro pertinenza, intervengono perciò non solo i referenti scientifici ma anche gli stakeholders (Gibbons, 1994; Martens, Wolf Dieter, 2010).
3. Una ricerca educativa “sottosopra”?
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Appartiene all’esperienza di chi opera nel campo della ricerca educativa, di là dalla consapevolezza e rielaborazione critica degli aspetti di scenario e di contesto sopra menzionati, aver incontrato qualche fatica e incertezza nella propria attività, a seguito delle ricadute concrete delle trasformazioni di cui si è detto. A ben guardare, in verità, nelle comunità scientifiche sono ancora presenti residui arroccamenti vòlti a preservare situazioni per così dire “di nicchia” o tentativi di temperare gli effetti indesiderati di tale impatto con vere e proprie strategie di costruzione di reti autoreferenziali. Entrambe le reazioni sono comprensibili sul piano dell’analisi delle dinamiche connesse con la situazione generale ma, di là da ogni possibile valutazione di merito, non costituiscono posizioni sostenibili. In realtà, gli effetti sulla ricerca educativa sono connessi non solo con aspetti di natura organizzativa o di convergenza attorno ad oggetti di ricerca che soddisfano le attese espresse dagli stakehoders. Una riflessione non superficiale e lucida induce a considerare che l’insieme delle dimensioni dei piani che articolano la ricerca è messo in discussione dal quadro di tendenze in corso (Woessman, 2008). Quest’ultimo interpella innanzitutto l’assetto epistemologico della pedagogia, già in sé complesso e con snodi che ad oggi sussistono come densi di problematicità e aperti al dibattito critico e dialettico: paradigmi, modelli, sistemi referenziali sono rimessi in gioco da un orizzonte assai più dinamico, differenziato, incerto, opaco e incognito (Viganò, 2010, 2011). La definizione dell’oggetto della ricerca educativa ne è conseguentemente interessata: è possibile tracciarne i contorni? Rispetto a quale raggio di significatività? (Viganò, 2010). La metodologia della ricerca e i metodi di indagine – sempre in bilico tra esigenze di rigore scientifico e corrispondenza alla vocazione pratica – sono ulteriormente sollecitati a un impegno di innovazione critica e sostanziale affatto banale, anche perché particolarmente esposti al rischio da un lato di appiattirsi su criteri esogeni e perdere così la centratura educativa specifica o, dall’altro lato, di concedere spazio eccessivo a modulazioni creative ma deboli sotto il profilo della consistenza scientifica.
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È evidente l’impatto sugli assetti organizzativi e istituzionali della ricerca ed è diffusamente esperita la fatica di approdare a una soluzione che soddisfi le esigenze diversificate a cui essa dovrebbe corrispondere. Occorre assicurare il controllo dei costi e il buon impiego dei finanziamenti ma anche la sensibilità alle specificità disciplinari e di contesto; va garantito il supporto necessario affinché il capitale umano e sociale impegnato nella ricerca possa esprimersi al meglio in condizioni e prospettive professionali adeguate ma bisogna rispettare altresì il principio di efficienza che ogni sistema di buon governo e buona amministrazione della ricerca deve garantire, e così via. A tale aspetto sono connesse le questioni inerenti i criteri di riconoscimento, valutazione e promozione della ricerca educativa. Dire in che cosa consista la qualità della ricerca educativa e come possa essere valutata e promossa non è mai stato facile, di là dalle soluzioni e dagli accordi operativi più o meno condivisi; oggi è assai più arduo non solo per la molteplicità e varietà degli interlocutori considerati ma anche in ragione degli aspetti di complessità pervasiva menzionati (Scheerens, Hendricks, 2004). Vi è da domandarsi se sia davvero sensato tendere a definire criteri univoci, se la varietà di situazioni e di soggetti annoverabili nella categoria degli stakeholders renda possibile convergere su criteri che siano in grado di ben corrispondere all’ancora più variegato insieme di priorità specifiche. Occorre percorrere con impegno e anche umiltà la strada faticosa della mediazione e del compromesso accettabile che è in sé suscettibile di modifiche e miglioramenti ed è ben altro da soluzioni troppo approssimative e assunte senza consapevolezza di limiti e cautele di impiego. Le trasformazioni in atto obbligano a riflettere criticamente anche sul linguaggio della ricerca educativa, sulle modalità di comunicazione degli esiti e di diffusione dei risultati. I destinatari prioritari delle forme di presentazione della ricerca sono sempre stati per lo più gli appartenenti alla comunità scientifica, al più le varie categorie di committenti o soggetti finanziatori oppure, su un altro piano, gli operatori e i professionisti della pratica educativa. Per queste tipologie si sono sviluppate modalità comunicative adattate: dai report agli executive summary, dalle varie modulistiche alle riviste didattiche e alle iniziative divulgative. In realtà, la questione in oggetto è altra: nelle situazioni menzionate il destinatario non è parte integrante del processo ideativo e attuativo della ricerca, che resta appannaggio esclusivo del ricercatore a cui compete individuare poi ciò che di questo processo è pertinente e utile mettere a conoscenza dell’interlocutore. Nello scenario considerato invece l’universo composito degli stakeholders assume ruoli diversi e può entrare come soggetto determinante nei vari aspetti dello sviluppo della ricerca: dall’individuazione delle priorità alla definizione dell’oggetto, dai vincoli condizionanti l’impianto metodologico e il percorso attuativo alla tipologia degli obiettivi attesi e delle evidenze che ne attestano il raggiungimento e così via. Ciò implica finalità e impieghi della dimensione comunicativa assai più differenziati e innovativi. Le trasformazioni delineate hanno evidenti ripercussioni sul profilo professionale e identitario del ricercatore, atto a corrispondere alle attese di un orizzonte di riferimento articolato e variabile. La questione riguarda non soltanto il possesso di competenze aggiuntive che vanno ad integrare quelle per così dire tradizionali di coloro che hanno nella ricerca la loro attività professionale specifica o prevalente. In realtà essa attinge alla dimensione identitaria del ricercatore in una duplice prospettiva: la prima attiene al ricercatore cosiddetto professionista che si trova a dover riconfigurare il senso stesso del proprio agire in un mutato sistema di riferimenti culturali, sociali, economici e valoriali (Derouet, Derouet-Besson, 2009); la seconda inerisce l’integrazione della dimensione di ricerca, intesa come
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habitus professionale, in una molteplicità di professioni la qual cosa non avviene aggiungendo una nuova tessera al puzzle delle competenze già agite bensì rielaborando il tessuto identitario delle professioni stesse. Anche i sistemi e i percorsi di formazione alla ricerca risultano perciò profondamente interpellati dallo scenario di cambiamenti. Dinanzi a un ventaglio così ampio e complesso di contesti, priorità, interlocutori, campi di esercizio, risorse inedite ma altresì nuovi problemi, incertezze e prospettive incognite, pensare che sia possibile individuare percorsi determinati di formazione alla ricerca è un’ambizione probabilmente fuori misura. La fluidità dell’orizzonte di riferimento e la numerosità dei soggetti e dei fattori che in esso interagiscono impongono un salto di qualità creativo ma saldamente ancorato a un’intelligenza lucida della realtà e, non ultimo, alla messa in campo di un impegno economico adeguato con non meno adeguati criteri di efficienza. Non mancano certo programmi e azioni che concorrono in tale direzione ponendone le condizioni (a titolo esemplificativo su scala internazionale basti menzionare ET2020, Horizon 2020). A livello nazionale e nelle singole realtà territoriali sono presenti numerose iniziative e pratiche che interpretano tale bisogno e offrono esempi apprezzabili delle possibili modalità attuative, scontrandosi tuttavia troppo spesso con eccessivi vincoli normativi e amministrativi, farraginosità burocratiche, resistenze culturali di matrice ideologica o corporativa, debole capacità di recepire a livello di sistema le pratiche virtuose. È superfluo osservare che il superamento delle problematicità che attraversano la ricerca educativa non è possibile accollandone il compito ai soli attori e responsabili della ricerca medesima; da parte di chi opera in questo campo va però accolta con serietà e umiltà la sfida dinanzi a cui ci si trova, che non ammette operazioni di mero restyling né soluzioni affrettate non sorrette da respiro culturale ed etico e rigore metodologico. Ignorarla e non impegnarsi per affrontarla ha costi altissimi, poiché destina l’educazione a una progressiva erosione sino alla scomparsa delle sue dimensioni strutturali a vantaggio di interpretazioni unilaterali di stampo tecnicistico e funzionalistico. La questione è insieme etica e culturale ma anche strategica e metodologica: non si può restare interpreti autorevoli in un quadro così complesso con i soli strumenti della teoria e della concettualizzazione e neppure con la sola capacità di offrire soluzioni tecniche e pratiche pronte all’uso; l’ethos scientifico ed educativo implicano l’impegno onesto della ricerca educativa in tutte le sue dimensioni (Viganò, 2010; 2011).
L’arena delle politiche e del policymaking Scommettere su un impegno congiunto di ricerca educativa e decision makers per una migliore comprensione e orientamento delle politiche della formazione e del policymaking implica assumere la prospettiva di un rapporto virtuoso tra le due sfere. Tale relazione sembrerebbe nella natura stessa delle cose: per assumere decisioni fondate e ben orientate servono basi di conoscenza valide, autorevoli e approfondite; rappresenta invece uno snodo problematico evidente. In termini generali, sussiste un’oggettiva e ineliminabile differenza di priorità tra le due attività, ciascuna delle quali obbedisce a un suo sistema di vincoli e di spinte più o meno cogenti; sarebbe irrealistico tendere ad un pieno allineamento tra le due sfere. A un livello più specifico, il nostro Paese sconta l’assenza sia di una consolidata tradizione di ricerca scientifica nel campo delle politiche della formazione sia di una consuetudine del policymaking a far riferimento sistematico alla ricerca come risorsa per la costruzione di basi informative sistematiche e rigorose.
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C’è bisogno di imparare a capire a fare buon uso del policymaking in campo educativo e formativo, la qual cosa implica padronanza di competenze culturali, scientifiche, organizzative, metodologiche e tecniche, capacità di situarsi nel contesto reale e di interpretarne limiti, vincoli, risorse e potenzialità Altrimenti, oltre le abituali retoriche, ci si arena nei consueti labirinti e pantani, si sprecano lavoro ed energie e si perde l’opportunità di uno sviluppo reale. L’intero ciclo di ideazione, costruzione e implementazione delle politiche è costellato di situazioni dinamiche e in parte imprevedibili, necessita di continue ridefinizioni e adattamenti, incontra difficoltà talvolta imponderabili e nuove priorità che sopraggiungono: se chi ha la responsabilità di governare e gestirne l’attuazione non è preparato è inevitabile cadere nel rischio di procedere in maniera arbitraria o condizionata anziché alla luce di un’analisi corretta della situazione e di una visione strategica culturalmente fondata. Servono quindi strumenti innanzitutto culturali e logici, poi scientifici e metodologici ma altresì tecnici e operativi. In altre parole e per ritornare al tema del rapporto tra ricerca e policymaking, è necessario innervare la pratica – che in sé sfugge ad ogni irrigidimento – di quella razionalità possibile che la comprensione e lo studio approfondito configurano e che deve poi diventare ragionevolezza orientata, significativa e sostenibile (Viganò, 2011). Con riferimento alla responsabilità della ricerca educativa di illuminare l’agire politico e sociale, vi è bisogno di un pensiero competente, documentato e orientato, sull’educazione e sulla formazione, per sostanziare il disegno e lo sviluppo delle politiche educative. Occorre capire come funziona realmente la formazione, come muta, come dura nel tempo, come conserva un patrimonio di idee e di energia che la fa esistere. Servono onestà per analisi affidabili, sobrietà per obiettivi praticabili, operosità per raggiungerli. In assenza di visioni appropriate e di prassi ispirate sfuma il sapore dell’azione formativa, se ne perde il senso, prevalgono i pensieri minimi, le visioni accumulative del sapere e quelle semplicistiche o solo ingegneristiche del rapporto tra istruzione, formazione ed educazione; si sottrae la linfa vitale alle istituzioni e alla società. Per la ricerca educativa, operare in tale prospettiva è un lavoro pionieristico sotto il profilo della definizione dei contenuti e della costruzione dei metodi; è difficile da condurre e comunicare, giacché incontra una limitata e parziale consapevolezza del bisogno. Servono coraggio innovativo e robustezza scientifica e culturale per trovare le strade e per non cadere nelle facili tentazioni delle iniziative più mediatiche che sostanziali e della superficialità a prezzo della comprensione approfondita. In questa fatica si esprime tuttavia un compito essenziale: essere nella realtà, in dialogo ininterrotto con tutti gli altri attori ma mai rinunciando a un primario servizio culturale e autenticamente creativo, senza disperdersi nei mille rivoli che portano a rincorrere eventi e situazioni anziché essere fattore di innovazione e orientamento. Occorre inoltre essere consapevoli che gli schemi della razionalità formale servono probabilmente a fini classificatori, ma non consentono di esaminare i termini reali dei processi di formulazione e di attuazione delle politiche pubbliche. Alle originarie prospettive top - down a cui sono da ricondurre sia le concezioni legalistiche dell’azione pubblica sia i paradigmi gerarchici nel considerare gli attori di policy (con la sottovalutazione del ruolo e delle posizioni di chi quotidianamente opera sul terreno della pratica) si sono aggiunte le angolazioni bottom - up e alle definizioni formali delle politiche si è contrapposto il dato reale dell’impiego da parte degli operatori. Sono così stati messi in crisi i modelli impositivi e quelli dualistici basati su una distinzione netta tra il momento della decisione e quello dell’attuazione.
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In questa prospettiva gli studiosi del settore distinguono tra l’intended policy che comprende gli obiettivi e le posizioni dei diversi gruppi di interesse rispetto a una determinata issue, l’actual policy che trova espressione nei documenti, nella legislazione e nelle disposizioni ufficiali e la policy - in - use, cioè la reazione locale da parte dei professionisti sul campo ossia il contesto di produzione dell’azione educativa e della prassi (Hatcher, Troyna, 1994). L’interazione tra i tre termini concorre a costruire un policy cycle che esprime anche intenzionalità, rappresentanza degli interessi e intermediazione tra gli attori. Il ciclo non è una dinamica politica astratta o una mera successione cronologica, ma raggiunge il quotidiano e gli eventi concreti. Vari meccanismi emergono infatti nelle fasi di implementazione incidendo profondamente sui corsi di azione. La ridefinizione degli obiettivi talora è anche un’inevitabile strategia di sopravvivenza, quando gli scopi prefissati si rivelano inattuabili o sorgono ostacoli insormontabili non previsti. Le difficoltà derivano non solo da fattori esterni, ma anche da problemi di compatibilità tra decisioni politiche di settori diversi. Ci sono diverse forme di deficit di implementazione: intenzioni, anche iscritte nelle norme, hanno un valore simbolico e non danno origine a processi di messa in opera, se non parziali o settoriali; incapacità di decisione pur a fronte di problemi riconosciuti, dovuta a insufficiente predisposizione delle condizioni di fattibilità o a variazioni nelle strategie degli attori; decisioni non vengono tradotte in pratica rimanendo inevase nel tempo. Questa prospettiva di analisi dell’arena delle politiche e del policymaking aiuta a comprendere la complessità del rapporto della ricerca educativa con questa sfera ed è lecito interrogarsi riguardo alla possibilità reale di conciliare i rispettivi tempi e priorità. Le urgenze e la complessità dei percorsi decisionali e di implementazione per chi ha compiti di governo e di sviluppo dei processi e dei sistemi di formazione pongono dinanzi a priorità, esigenze, circostanze complesse e specifiche (Bottani, 2009; Weiss, 2007). Sarebbe peraltro ingenuo pensare al rapporto in oggetto in termini di relazione lineare e determinante sugli sbocchi decisionali ai diversi livelli: è un dato di fatto il crogiuolo di aspetti, preoccupazioni, situazioni, priorità, condizionamenti che escludono tale possibilità (Mosher, F., 2007), influendo sui processi decisionali e sui percorsi tortuosi con cui si concretizzano le azioni. La riflessione scientifica internazionale contributi di studio apprezzabili in proposito (Normand, 2007; Donnay, Bru, 2002; Neufeld, 2007). Ciò in nulla scalfisce il dovere, da parte della ricerca educativa, di impegnarsi in tutte le sue articolazioni nella direzione del proprio sviluppo critico e innovativo, cui il mutato contesto la sospinge. Non si tratta di adattarsi passivamente a input dettati da altri; sarebbe un gravissimo errore rincorrere affannosamente richieste e urgenze mutevoli con il prodotto di ricerca per così dire “pronto per l’uso”. Il vero snodo sta nel restare ancorati e fedeli al nucleo significante dell’educazione come valore e diritto/dovere personale e sociale mettendo in campo uno sforzo innovativo autentico per conferire autorevolezza scientifica alla ricerca educativa.
4. L’arena delle pratiche… Anche lo spazio delle pratiche può essere rappresentato con l’immagine metaforica di un’arena. Un’analisi anche solo iniziale di tale sfera dà evidenza a tratti per certi aspetti analoghi a quelli che rendono complesso e dialettico il rapporto con la ricerca educativa: priorità e obiettivi specifici, contesti di pertinenza e orizzonti di
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riferimento, dinamiche organizzative e assetti di programmazione diversi per i due àmbiti di attività. Negli ultimi decenni si è assistito a una considerevole evoluzione critica e costruttiva rispetto a visioni più rigide volte ad interpretare la distinzione fra ricerca e pratica nell’ottica della gerarchia o dell’inconciliabilità. Almeno sul piano teorico-critico e alla luce di quanto si rileva in discorsi, scritti e programmi, possono essere considerate in via di superamento sia l’idea applicazionista della ricerca, intesa come prodotto di un percorso validato dal rispetto di protocolli scientifici standardizzati il quale va poi consegnato a chi opera nei contesti della pratica affinché ne informi l’agire quotidiano, sia quella dell’autosufficienza dell’esperienza come generatore di competenza a cui la teoria non serve. Molteplici iniziative attestano un diffuso impegno a costruire pratiche virtuose nella prospettiva dell’integrazione fertile ed euristica delle due dimensioni. Nel dibattito sul rapporto tra ricerca e pratica educativa è evocato con frequenza l’ideale-metafora della “nuova alleanza” (Damiano, 2006; Perla, 2011), dando in qualche modo per implicita la problematicità del rapporto medesimo, con tratti addirittura di conflittualità, e la necessità di rimodularlo su basi nuove e diverse. L’espressione compare, forse assunta per la prima volta in maniera sistematica, nel titolo di un volume del 1998 curato da Ch. Hadji e J. Baillé, interamente dedicato all’analisi del rapporto fra ricerca e pratica educativa (Hadji, Baillé, 1998). I contributi in esso articolati argomentano in maniera approfondita la complessità dell’obiettivo di individuare criteri di scientificità riferibili alla ricerca in campo educativo; con riferimento specifico al rapporto fra questa e la pratica, sostanziano le ragioni di un allontanamento critico dal modello esplicativo-normativo a favore di un approccio problematico, dinamico, pluridimensionale, fortemente contestualizzato. A livello internazionale è maturato un dibattito critico e fecondo in proposito; sussistono posizioni differenziate non facilmente conciliabili ma la discussione permane aperta e si alimenta di voci provenienti da contesti e aree diverse. Si possono riscontrare convergenze fra il confronto dialettico presente in àmbito francofono e interventi emersi in quello anglofono. Più di trent’anni fa G. Avanzini, voce non isolata, denunciò con efficacia l’illusione del deduttivismo che postula un rapporto deterministico fra conoscenza e azione e induce il convincimento che la pratica educativa possa essere interamente condotta e spiegata da un modello elaborato dalla conoscenza scientifica o, in altri termini, che la pertinenza di una pratica possa essere garantita dalle sole basi scientifiche (Avanzini, 1985). In un noto volume del 2002 edito però a valle di anni di confronto e studio sul tema in oggetto, M. Hammersley (Hammersley, 2002) definisce come enlightment moderato l’azione che la ricerca scientifica può svolgere rispetto alla pratica educativa. Approda a tale sintesi alla luce dell’articolato dibattito, dai toni talvolta anche accesi, conseguente alla polemica suscitata dall’intervento di D. Heargraves alla conferenza di apertura della Teacher Training Agency, nel 1996, in cui aveva sostenuto la tesi della scarsa utilità della ricerca educativa. In sintesi, si viene delineando in termini generali l’idea che la funzione della ricerca educativa sia porre in luce la pratica e darle chiarimenti attraverso il lavoro di modellizzazione, a condizione di mantenere un atteggiamento di modestia scientifica ossia senza incorrere nella tentazione di proporre modelli totalizzanti. Come osserva M. Bru (Donnay, Bru, 2002) la visione oppositiva fra teoria e pratica, troppo rudimentale perché regga il confronto con la complessità, è conseguente all’interesse prioritario che ha indotto a rivolgere attenzione alle pratiche educative ossia la ricerca di soluzioni per migliorarne l’efficacia. Lungi dal disco-
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noscere l’importanza di questo obiettivo ci si può fondatamente interrogare riguardo all’impazienza, da esso generata, di riuscire a individuare e modellizzare un buon metodo educativo, lasciando poco spazio alla ricerca sull’azione e sulle pratiche per conoscerne i funzionamenti, le dinamiche e le variazioni secondo le persone e i contesti. Un esempio eloquente di tale eccessiva distanza dalla concretezza della realtà è l’aver improntato gli studi e le ricerche sulla base di un’astratta idealizzazione dell’atto educativo e formativo, disconoscendo che nella pratica l’azione può essere supportata da un intreccio di motivazioni diverse, talvolta persino fra loro contrastanti, non tutte riconducibili alla finalità esplicita di accompagnare il soggetto nel percorso di apprendimento e di sviluppo verso l’autonomia. Solo nei decenni più recenti (Damiano, 2006) si è progressivamente diffusa una prospettiva di studio spiccatamente descrittiva, esplicativa e comprensiva, volta a conoscere meglio che cosa sono le pratiche educative e di formazione, come si organizzano, quali rapporti hanno con i saperi prodotti dall’esperienza personale e collettiva o dalla ricerca scientifica, come si modificano e si sviluppano e a quali condizioni. Tale riconoscimento del sapere pratico come oggetto specifico e significativo di ricerca ha dato evidenza a una questione metodologica complessa, riguardante le modalità di accesso a tale sapere, che intreccia dimensioni anche implicite e solo parzialmente può essere restituito dal discorso degli attori (Donnay, Bru, 2002). In questa prospettiva euristica in Italia ha avuto ampia e meritata diffusione il contributo di E. Damiano (Damiano, 2006), attento a trovare le metodologie appropriate per studiare l’insegnamento attraverso la conoscenza pratica che di esso costruiscono gli insegnanti. Il programma di ricerca sviluppato si articola in diverse azioni, riconducibili alla razionalizzazione delle procedure d’indagine, alla sistemazione dei riferimenti epistemologici e alla istituzionalizzazione delle pratiche corrispondenti nella formazione degli insegnanti. Occorre peraltro non ignorare le insidie e le problematicità disseminate nell’azione della ricerca educativa animata dalla volontà di dialogare con la pratica, fra cui quelle frapposte dal contesto di vincoli in cui l’esercizio concreto della ricerca si colloca e quelle connesse con una non sempre adeguata consapevolezza e padronanza dei criteri e dei metodi che conferiscono validità e qualità alla ricerca educativa. Fra le prime, basta menzionare la scarsità di politiche di riconoscimento e di supporto atte superare la soglia dell’iniziativa-pilota e attingere a livelli di sistematicità, la rigidità dei sistemi pubblici di valutazione e finanziamento della ricerca, il rischio di subordinare l’attività di ricerca a logiche funzionalistiche che favoriscono solo quella giudicata immediatamente utile per bisogni evidenti (o mediaticamente resi tali più che appurati). Fra le seconde, vi è la tentazione di legittimare l’approssimazione senza averne chiari i limiti, l’alibi di limitarsi a invocare il valore della libertà di ricerca invece che perseguire il rigore etico e scientifico, l’inclinazione mai sopita di autoreferenzialità e autolegittimazione. Molti sono però ancora gli interrogativi a cui cercare risposte soddisfacenti: i modelli teorici possono permettere un’intellegibilità delle pratiche? Attraverso quali metodologie di indagine è possibile accedere alle pratiche e ai saperi loro specifici? Questi ultimi possono essere esplicitati? Sono individuabili e definibili da parte dei professionisti della pratica? Può essere utile, in questa prospettiva di orientamento della ricerca educativa, riprendere alcune indicazioni fornite da M. Bru come condizioni per lavorare in maniera corretta: a) rimettere in questione i modelli prescrittivi e applicazionisti; b) distinguere fra modelli teorici “della” pratica e modelli “per” la pratica; c) evitare concezioni semplificatorie del profilo professionale di chi opera nella pratica edu-
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cativa, che non può essere considerato né come un decisore sovrano assoluto della sua azione né come semplice agente di un sistema preordinato; d) riconoscere le differenze fra la validazione dei risultati delle ricerche scientifiche e la validazione di una pratica; e) individuare e riconoscere le priorità, gli atteggiamenti e le aspettative rispettivamente del ricercatore e del professionista della pratica in rapporto alle situazioni oggetto di comprensione e alle conoscenze perseguite; f) evitare visioni idealizzate della pratica, lontane dalla vera comprensione dell’eterogeneità e delle tensioni in essa presenti; g) riconoscere la specificità dei saperi della pratica ed elaborare metodologie ad essi congruenti (Donnay, Bru, 2002). In realtà, la conoscenza delle pratiche educative, dei criteri che le organizzano, delle loro dinamiche e degli esiti generali è ancora molto frammentaria; non si possiedono dati fattuali sufficienti per delineare uno stato dell’arte rappresentativo delle pratiche nei diversi contesti. In queste condizioni non è facile seguirne l’evoluzione e rendere conto dell’impatto di qualsivoglia intervento innovativo e trasformativo, a livello per esempio di politiche educative. In altri termini, sussiste un oggetto di interesse per la ricerca educativa ancora assai opaco, tanto essenziale quanto complesso.
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5. Lessons learned Sarebbe presuntuoso e incoerente con l’impostazione della presente riflessione considerare queste ultime righe come conclusioni. Presuntuoso perché, con riferimento alle questioni e ai campi di approfondimento scientifico evocati, ci si è limitati a richiamare alcuni snodi con l’obiettivo di rappresentare in termini generali le problematiche in oggetto ricostruendone un quadro d’insieme. Incoerente poiché in realtà l’orientamento delle riflessioni proposte tende ad aprire e a far emergere aspetti e risvolti dai contorni talvolta ancora incerti a cui serve accostarsi con umiltà scientifica. Più che concludere, occorre avere il coraggio tipicamente pedagogico di accettare la scommessa che sia possibile e necessario percorrere l’impegno per la crescente integrazione fra ricerca educativa, pratiche e politiche istituzionali, senza la certezza di vincerla e con la consapevolezza che per avanzare è necessario disporsi a una reale riconsiderazione critica e a un profondo sforzo innovativo in tutti gli aspetti di cui si compone la ricerca medesima. Ciò motiva il titolo scelto per questi ultimi paragrafi e, come detto in premessa, induce a rivolgere l’attenzione alle skills e forse più ancora all’habitus professionale di chi svolge ricerca educativa, nella convinzione che la complessità e l’ampiezza delle problematiche individuate coinvolgono ampiamente tali dimensioni e non possono essere affrontate rafforzando questa o quella abilità o ponendo in atto questo o quell’approccio metodologico. Non cessare di interrogarsi e lasciarsi interrogare dall’esperienza sono atteggiamenti da coltivare e consolidare incessantemente. Può sembrare lapalissiano sottolineare questo aspetto, giacché è difficile immaginare il lavoro di ricerca senza tali premesse; eppure a ben guardare le cose l’insieme dei fattori di contesto interni ed esterni, materiali e culturali, individuali e collettivi non aiuta a tenerle vive. Anzi, non è secondario il rischio di una loro progressiva asfissia. Ascoltare, capire, proporre, mediare, negoziare sono atteggiamenti, da corredare con strumenti culturali e metodologici adeguati, imprescindibili per pensare e fare ricerca educativa. La qual cosa implica fatica, capacità di mettere a lato pregiudizi e filtri culturali, coerenza nel sostenere un’idea e una posizione senza accondiscendenze di comodo ma sapendola modulare in ragione dei bisogni reali
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dell’interlocutore, umiltà nel riconoscere i propri errori e limiti ma altresì autorevolezza scientifica sufficiente per individuare e fare i conti con quelli degli interlocutori. Né si immagini che queste competenze corrono in qualche modo a lato di quelle di ricerca più specificamente intese; la sfida è integrare le prime nell’esercizio corretto e scientificamente valido delle seconde. Non a caso nelle pagine precedenti si è fatto riferimento al profilo professionale e identitario del ricercatore nella sua interezza. Nulla di ciò basterebbe se non fosse fondato sul solido, ancorché critico, possesso di una visione pedagogica ed educativa. Nello scenario descritto, il rischio di lasciarsi incantare dalle sirene e di svendere la ricerca educativa è reale e – a parere di chi scrive – purtroppo già presente nelle pratiche di ricerca; in gioco, come si è detto, c’è l’educazione stessa, niente di meno. Un bene inestimabile che merita, da parte di chi ha la passione e il compito di conoscerla e comprenderla, la fatica di fare sempre per il meglio, nelle piccole attività così come nelle sfide più impegnative.
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Il benessere educativo: validazione di un questionario sul benessere a scuola Anna V. Antonova • Moscow, Russia – anna.antonova@uniroma1.it Maria A. Chumakova • National Research University Higher School of Economics – Moscow, Russia – chumakova.mariya@gmail.com Irene Stanzione • Sapienza – Università di Roma – irene.stanzione@uniroma1.it
Educational well-being: validation of a questionnaire on well-being at school L’articolo presenta una parte dei risultati della sperimentazione di un questionario per la rilevazione del Benessere educativo in alcuni studenti di scuola secondaria di primo grado delle città di Roma e di Mosca. Il benessere educativo è definito come una percezione positiva dell’ambiente scolastico, che comprende il senso di soddisfazione per quanto avviene a scuola, la percezione positiva del clima scolastico, la sicurezza psicologica e la riduzione dei fattori di disagio. La ricerca è stata condotta su due campioni di giudizio italiano e russo. Vengono presentate le proprietà psicometriche dello strumento e parte dei risultati del campione italiano della ricerca.
Keywords: educational well-being, school context, psychological safety, anxiety, school climate.
Parole chiave: benessere educativo, contesto scolastico, sicurezza psicologica, ansia, clima scolastico.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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The article presents a part of the trial results of a questionnaire for the detection of Educational well-being in some middle school students in the cities of Rome and Moscow. Educational well-being is defined as a positive perception of the school environment, which includes the sense of satisfaction with what happens at school, the positive perception of the school climate, the psychological safety and reduction of discomfort factors. The research was conducted on two samples of Italian and Russian students.The article presents the psychometric properties of the questionnaire and of the results of the Italian sample of the research.
Il benessere educativo: validazione di un questionario sul benessere a scuola
Introduzione
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Negli ultimi anni nelle scuole occidentali è aumentata l’attenzione ai fenomeni di disagio psicologico degli studenti. I media hanno dato molto rilievo al fenomeno del bullismo, inteso come espressione di forme di violenza da parte di alcuni studenti nei confronti di altri (verbale, fisica o psicologica), così come sono emersi episodi di violenza da parte di insegnanti nei confronti degli studenti. Questi fenomeni hanno dato lo spunto per numerose ricerche, soprattutto di impostazione psicologica che hanno definito la rilevanza all’interno del contesto scolastico della sicurezza psicologica degli studenti. Sarebbe tuttavia riduttivo limitare il concetto di benessere educativo alla sola assenza di eventi traumatici, con il rischio di pensare che un aumento dei controlli che rendono la scuola “sicura”, possa essere condizione sufficiente per realizzare un contesto educativo in cui i ragazzi possano costruire esperienze di apprendimento e di socializzazione positive. Molti infatti risultano essere gli interventi volti alla tutela degli studenti in particolari condizioni di disagio con sportelli di counselling o interventi psicologici atti a porre fine a situazioni particolarmente problematiche, come quella del bullismo. La tendenza è spesso quella di concepire la sicurezza nell’ambiente educativo come una condizione da tutelare in alcuni contesti particolari, come se non entrasse in gioco nella quotidianità della didattica e nelle dinamiche dell’ambiente educativo stesso. Si è deciso quindi di definire il benessere educativo in modo più ampio come una componente interna dei processi educativi messi in atto nella scuola e dunque come un aspetto di cui prendersi cura tramite gli stessi processi di interazione portati avanti dai docenti e dagli istituti scolastici. A tutela delle condizioni di benessere rientra perciò l’esperienza stessa della scuola intesa in modo olistico. Un’esperienza che sia di qualità e che nasca dall’interazione di colui che la vive con l’ambiente nel quale è inserito. Nel tentare una definizione del benessere educativo si partirà perciò dalla individuazione delle sue componenti: la soddisfazione degli studenti, il clima scolastico complessivo, la percezione dell’ambiente come sicuro e l’assenza di disagio psicologico.
1. Quadro teorico L’importanza dell’interazione dell’individuo con l’ambiente ai fini di un’esperienza educativa di qualità è un tema che ha attraversato la discussione pedagogica per tutto il ’900. John Dewey, già nei primi anni del novecento poneva l’accento sull’importanza di questa interazione (Dewey 1919, 1938), sostenendo che per fornire un valore educativo a un’esperienza, occorra ricercarne la qualità. L’esperienza è l’attività che permette all’uomo di apprendere e di formarsi e si costituisce attraverso l’interazione del soggetto con ciò cui egli si interfaccia – quindi con l’ambiente. L’ambiente influenza inevitabilmente lo sviluppo di ogni individuo.
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In letteratura si parla di ambiente educativo di qualità quando quest’ultimo viene percepito positivamente nelle relazioni tra pari, nelle relazioni con gli insegnanti, nel coinvolgimento nel processo di apprendimento. Un ambiente educativo di qualità è costituito da un sistema di interazioni positive che soddisfino i bisogni della persona (Carmeli & Gittel, 2009). Il benessere può essere rilevato attraverso la percezione dei soggetti, l’esperienza viene valutata, non solo dai risultati cognitivi, ma anche attraverso le emozioni, la soddisfazione dei propri scopi e bisogni nei vari ambiti che il soggetto è chiamato a vivere. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha utilizzato1 l’espressione «salute mentale», per definire lo stato di benessere emotivo e psicologico nel quale l’individuo è in grado di sfruttare le sue capacità cognitive o emozionali, esercitare la propria funzione all’interno della società, rispondere alle esigenze quotidiane della vita di ogni giorno, stabilire relazioni soddisfacenti e mature con gli altri, partecipare costruttivamente ai mutamenti dell’ambiente, adattarsi alle condizioni esterne e ai conflitti interni. Un paradigma classico di benessere è quello fornito da Norman Bradburn nel 1969 e poi ripreso negli anni Novanta. Con questo paradigma il benessere è definito lungo tre dimensioni: la soddisfazione del soggetto, un elemento cognitivo del soggetto fornito dalla auto-valutazione della congruità della situazione con i propri scopi e bisogni; l’affetto positivo e l’affetto negativo, cioè l’esperienza emozionale, gradevole o spiacevole, dell’individuo nella vita quotidiana. Un altro contributo rilevante per l’individuazione dei fattori di benessere, è quello di Ryff e Singer (Ryff & Singer, 1998),secondo i quali il benessere è la realizzazione del potenziale umano in sei ambiti diversi, quali l’autonomia, l’accettazione di sé, il controllo ambientale, lo scopo della vita e le relazioni positive. Si è portati a capire come i fattori di individuali e di contesto si vadano ad intersecare e come il benessere sia perciò letto come uno stato di vita vissuto in modo soddisfacente dal soggetto, unito ad una condizione di salute mentale. All’interno dell’esperienza scolastica entrano in relazione diverse componenti che costituiscono il benessere: dal punto di vista dell’individuo e delle sue capacità interne, tramite la vita nella scuola, si arriva ad acquisire un’identità, non solo quella di studente, ma una vera e propria immagine di sé e delle proprie capacità; questa acquisizione avviene però all’interno di un sistema relazionale, quello con i pari e quello con l’autorità, cioè con gli insegnanti; il sistema di relazioni crea a sua volta un contesto e dunque un senso di appartenenza anch’esso funzionale alla costruzione del sé. Anche nella letteratura italiana diversi sono i lavori che prestano attenzione alle condizioni di benessere degli adolescenti con prospettive differenti sulla situazione psicologica degli studenti, che viene messa in alcuni casi in relazione con il successo scolastico. Veltro et al. (2015) propongono un manuale per la promozione del benessere psicologico rivolto a studenti dai 12 ai 15 anni. L’autoregolazione emotiva, le strategie di problem solving, l’approccio empatico e le competenze sociali sono identificati da tali studi come fattori di protezione di comportamenti a rischio per la salute. La scuola è identificata come luogo privilegiato per il potenziamento di questi fattori sottolineando che gli interventi do-
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http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?lingua=italiano&id=171&area=salute%20mentale&menu=vuoto>.
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vrebbero essere di natura curriculare e non extracurriculare, in un’ottica olistica. Ci si riferisce perciò alla creazione di « un ambiente armonico dove i principali fattori che migliorano il benessere della persona, cioè la promozione delle abilità sociali e dell’autoefficacia, sono condivisi, praticati e sostenuti dai professori, dai familiari e da tutti coloro che vengono a contatto con la realtà scolastica. È dunque soprattutto l’ambiente scolastico che viene ritenuto in grado di dare un significativo contributo alla salute e al benessere degli adolescenti.» (Veltro et al. 2015). Il questionario somministrato dall’indagine PISA sul benessere psicologico degli studenti i cui risultati vengono commentati in PISA in Focus n. 50: Do teacher-student relation affect student’s well-being at school, ha inteso esaminare come il rapporto tra docenti e alunni quindicenni influenzi il senso di appartenenza dei ragazzi alla scuola, il loro benessere e anche il rendimento scolastico. (OECD, 2015). PISA suggerisce che le relazioni positive insegnante-studente siano associate a migliori prestazioni in matematica e può essere un veicolo fondamentale attraverso il quale le scuole possono favorire il benessere sociale ed emotivo degli alunni. In media nei Paesi OCSE, quando si confrontano gli studenti con background socio-economico simile e le prestazioni in matematica, gli studenti che hanno riferito di godere di buoni rapporti con i loro insegnanti (ad esempio, vanno d’accordo con la maggior parte dei loro insegnanti; la maggior parte degli insegnanti sono interessati al loro benessere; la maggior parte degli insegnanti ascoltano ciò che hanno da dire; se necessario ricevono un aiuto supplementare da parte degli insegnanti; sono considerati sufficientemente dagli insegnanti) sono stati più propensi a riferire che sono felici a scuola, che fanno amicizia facilmente, che si sentono appartenere alla scuola, e che ne sono soddisfatti. Il costrutto della soddisfazione nell’ambiente scolastico risulta un aspetto del benessere soggettivo dello studente (Laghi & Baiocco, 2004). La soddisfazione è stata interpretata come coinvolgimento, investimento personale, avere un ruolo attivo nelle scelte rispetto al contesto scolastico (Laghi & Baiocco, 2004). Laghi e Baiocco nel costruire il loro strumento SPQS «Soddisfazione personale e qualità della vita degli studenti», leggono il costrutto della soddisfazione a scuola come composto da quattro fattori: soddisfazione relazionale, soddisfazione in relazione alle attività di studio, soddisfazione in relazione ai docenti, soddisfazione personale. Caprara, Delle Fratte e Steca (2002) identificano ad esempio alcuni indicatori del benessere in adolescenza con l’autostima, la soddisfazione di vita e l’orientamento ottimistico. In altri lavori l’attenzione si concentra sul benessere come assenza di disagio. Si parla ad esempio di «Mal di Scuola» come «tutte quelle situazioni di difficoltà e disagio che gli alunni manifestano in classe, non certo ipotetici effetti deleteri prodotti dall’istituzione scolastica» (Sasso, 2010). Si evidenzia come il disagio scolastico possa influire non solo sulla sfera emotiva e meta cognitiva dell’alunno ma anche su quella fisica, si possono manifestare infatti sintomi a carico dell’apparato gastrointestinale e o respiratorio, disturbi del sonno etc. fino a sfociare in una fobia scolastica (Sasso, 2010). Gli stili educativi rientrano tra le variabili associate al rischio di sviluppare disturbi d’ansia insieme a numerose altre quali l’attaccamento, caratteristiche familiari, eventi di vita (Sanavio, Cornolidi, 2001). L’organizzazione cognitiva di chi è affetto da un disturbo d’ansia rappresenta il mondo come minaccioso e pericoloso e sé stessi incapaci di attivare le risorse necessarie a fronteggiare i pericoli. Alcuni dei sintomi psicofisiologici del disturbo d’ansia generalizzato sono l’irrequietezza, l’affaticabilità, la difficoltà a concentrarsi o vuoti di memoria, l’irritabilità, tensione muscolare, alterazione del sonno. Soffermandosi anche solo superficialmente su
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questo elenco di sintomi fornito dal DSM-V, risulta evidente l’importanza di saper riconoscere ed individuare tali sintomi in un contesto scolastico ai fini di costruire un ambiente educativo sicuro. L’ansia è un fenomeno molto frequente nei ragazzi e si rende evidente soprattutto negli ambienti scolastici. È importante sottolineare che la scuola come istituzione educativa non può prendersi carico degli aspetti patologici e clinici legati all’ansia; è infatti possibile che in alcune situazioni si manifestino dei sintomi indipendentemente dalla qualità educativa del contesto scolastico. La nostra attenzione si sofferma piuttosto su quelle condizioni che possono stimolare sintomi legati all’ansia. Ci sono diverse possibili cause che collegano l’ambiente scolastico con la creazione dell’ansia e diverse tipologie d’ansia scatenate da un insieme complesso di fattori. Si può riscontrare nella stessa struttura pedagogica della “lezione frontale” un fattore ad alto rischio: la relazione che intercorre tra insegnante, che parla, conosce e comanda, e studente, che al contrario ascolta, ignora e obbedisce, può dar vita a reazioni psicologiche spontanee che portano lo studente a mostrare evidenti sintomi di uno stato d’ansia disfunzionale. È importante evidenziare un altro aspetto dell’ambiente scolastico che ha un grande peso sulle dinamiche ansiogene degli studenti: la dimensione sociale. Un bisogno fondamentale umano è l’inserimento nella realtà sociale e l’accettazione da parte dei pari: questo bisogno nei ragazzi è particolarmente stimolato ed è motore di particolari dinamiche sociali all’interno degli ambienti scolastici (Søndergaard, 2012). L’ansia da esclusione sociale è un tratto comune a molti, che può trovare forti sollecitazioni in ambienti dove non si trovano risposte sicure per il bisogno di appartenenza, come le scuole. Dettori (2009) con un approccio quali-quantitativo mostra, attraverso interviste e questionari self-report, quali sono le condizioni che gli studenti individuano come fonti principali di disagio a scuola causa del drop-out. L’indagine è condotta allo scopo di individuare le motivazioni, le tipologie di abbandono e la loro relazione con i fattori di contesto. È interessante notare che chi ha abbandonato la scuola ha dichiarato di aver provato noia per le proposte didattiche, di essersi sentito triste, incapace, oppresso, di aver provato disagio perché non capiva e di aver avuto paura delle reazioni ai loro comportamenti da parte di genitori e insegnanti. Il legame tra il disagio e l’abbandono scolastico è evidenziato anche dal lavoro di Fiorilli et al (2014) che hanno utilizzato uno strumento per la rilevazione dello School Burnout. Abbiamo già detto che la percezione di sicurezza sia una componente del Benessere. Su tale tema in questi ultimi anni ci si è molto concentrati anche nella ricerca educativa in Russia, con molti studi riferiti soprattutto alla sicurezza psicologica, con un approccio che implica la considerazione sia di tutti gli elementi che caratterizzano il contesto socio-culturale (cioè, l’ambiente in cui le persone si trovano a vivere e con le quali interagiscono) sia degli aspetti che caratterizzano la vita psicologica dell’individuo. Questo approccio si basa su teorie differenti: l’impostazione socioculturale di Vygotskij, i lavori di Jakob Rubinstein, per quanto riguarda la tradizione russa e gli approcci di Maslow e Rogers. Maslow (Maslow, 1954) definì la sicurezza (stabilità, dipendenza, protezione, libertà dalla paura, dall’ansia e dal caos) come il secondo dei bisogni dell’uomo descrivendola come una necessità primitiva che deve essere soddisfatta per raggiungere i bisogni gerarchicamente superiori. Rogers nel suo testo Terapia centrata sul cliente, dedica un intero capitolo alla questione dell’insegnamento e sostiene:
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«La struttura e l’organizzazione del sé diventano più rigide in condizioni minacciose mentre le barriere si allentano in condizioni completamente prive di minaccia. […] La situazione educativa che più efficacemente promuove un apprendimento significativo è quella in cui (a) la minaccia del sé di colui che apprende è ridotta al minimo e (b) viene facilitata una percezione differenziata del campo dell’esperienza» (Rogers, 1997, p. 223).
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Il concetto di sicurezza e di clima sicuro nasce nell’ambito della psicologia del lavoro e delle organizzazioni. In quest’ambito Edmondson (1999) esamina la sicurezza psicologica nell’ambiente organizzativo e nei gruppi di lavoro, definendola come «la convinzione da parte del team di essere sicuro nell’assumersi dei rischi interpersonali. Questa convinzione tende ad essere tacita e viene data per scontata. Né i singoli individui, né il team vi prestano attenzione diretta. È il senso di sicurezza che non metterà in imbarazzo il team e nessuno dei suoi membri rifiuterà o punirà qualcuno per aver parlato. Questa sicurezza nasce dal rispetto reciproco e la fiducia tra i membri del gruppo» (trad. nostra). La definizione di Edmondson è valida anche per la scuola in quanto è anch’essa un tipo di organizzazione con delle caratteristiche specifiche dettate dai processi educativi che si innescano al suo interno. I fattori legati al benessere quali la soddisfazione, la percezione di un clima positivo e di un ambiente sicuro e l’assenza di disagio psicologico, acquisiscono perciò un ruolo tanto determinante nei processi di crescita e nelle interazioni degli studenti da portarci a cercare una definizione più ampia di quella di benessere psicologico. Il costrutto di «benessere educativo» si distanzia da quello di benessere psicologico perché comprende la percezione dell’ambiente scolastico, la soddisfazione della scuola, la soddisfazione nei rapporti con i compagni e con gli insegnanti, una buona percezione del clima scolastico e un basso livello di ansia nelle diverse situazioni scolastiche. Si è giunti a questa definizione per sottolineare che esistono delle pratiche relazionali e didattiche e di gestione del contesto educativo che aiutano o inibiscono il raggiungimento del benessere degli studenti e che in alcuni casi contribuiscono in modo significativo allo sviluppo dei loro atteggiamenti (Lucisano, Rubat Du Merac 2014; 2015).
2. Metodologia della ricerca La ricerca di cui in questa sede presentiamo parte dei risultati è finalizzata a definire uno strumento in grado di rilevare il “benessere educativo” degli studenti di scuola secondaria di primo grado. Essa ha preso le mosse da tre strumenti utilizzati in Russia per indagare la sicurezza psicologica e il benessere degli studenti con l’obiettivo di verificarne l’efficacia e di validarli in Italia e in Russia cercando di costruire sulla base della sperimentazione uno strumento unitario che comprendesse tutti gli aspetti che si sono ritenuti rilevanti per indagare la condizione di benessere educativo degli studenti. Nella fase iniziale della ricerca nel 2013 abbiamo tradotto in italiano, con il metodo della traduzione inversa, i tre strumenti russi che vengono illustrati di seguito. a) Il questionario “Diagnostica della sicurezza psicologica nell’ambiente educativo” è stato costruito da Irina Baeva (2011). Baeva (2011) definisce la sicu-
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rezza psicologica come la percezione dello studente di vivere in un ambiente nel quale si sente protetto da esperienze problematiche (Kovrov, Antonova, 2013). In Russia esistono tre varianti del questionario: per gli studenti, per gli insegnanti e per i genitori degli studenti. Vengono utilizzate insieme per valutare la percezione di sicurezza dell’intero ambiente scolastico. Nella nostra ricerca abbiamo usato la versione costruita per gli studenti. Lo strumento comprende ventisei domande su come lo studente si sente a scuola. Lo strumento individua tre aspetti che verificano: 1. la percezione degli studenti dall’ambiente scolastico (esempio “Pensi che la tua scuola ti aiuti a migliorare le tue capacità e abilità”); 2. la soddisfazione dell’ambiente scolastico (esempio “Quanto sei contento di rapporti con gli insegnanti”); 3. il senso di protezione dalla violenza psicologica nelle relazioni tra insegnanti e studenti (esempio “A scuola quanto ti senti protetto da essere maltrattato dall’insegnante”). Il questionario è composto da domande la cui formulazione prevede diverse modalità di risposta alcune a tre alternative (Si, non lo so, no) altre formulate con scale tipo Likert a cinque alternative di risposta. b) Il Test multifattoriale di ansia nei bambini di Elena Malkova (Malkova, 2006). Questo test fornisce una misura del disagio scolastico esaminando in particolare i diversi aspetti dell’ansia nei bambini e negli adolescenti. Le 10 scale del test individuano i seguenti aspetti dell’ansia: – ansia connessa a particolarità individuali; – ansia nei contatti sociali (rapporti con coetanei, genitori ed insegnanti); – ansia legata ad aspetti psicofisici e a variazioni dell’equilibrio neurovegetativo in situazioni stressanti2. c) Il Questionario “La sicurezza psicologica nell’ambiente scolastico”è stato costruito da Vladimir Kovrov e Galina Kozhukhar (2008) e comprende 18 domande. Lo strumento rileva la percezione del clima scolastico e i rapporti dello studente con gli insegnanti e con i compagni. Tali strumenti hanno dato luogo ad un unico questionario composto da 145 item e 14 scale. Tra gli obiettivi della ricerca vi era la verifica delle caratteristiche psicometriche dello strumento e della riduzione dello strumento ad un numero più contenuto di item per renderlo facilmente fruibile nelle scuole dei due paesi. A questi strumenti è stato poi unito un breve questionario per rilevare variabili di sfondo (scuola, classe, sezione di appartenenza, sesso, ed età).
2
Le scale individuate sono le seguenti: ansia aspecifica, ansia nelle relazioni tra pari, ansia connessa all’eterostima, ansia nelle relazioni con gli insegnanti, ansia nelle relazioni con i genitori, ansia collegata al successo scolastico, ansia in situazioni di espressione di sé, ansia in situazioni di valutazione, diminuzione delle prestazioni mentali, connesse all’ansia, variazione dell’equilibrio neurovegetativo.
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3. Caratteristiche del campione Il campione di giudizio comprende un totale di 1852 studenti di cui 848 italiani e 1004 russi delle classi prima, seconda e terza secondaria di primo grado. La somministrazione degli strumenti è avvenuta in 5 scuole di Roma, e in 11 scuole di Mosca. In questo articolo si è deciso di presentare i dati relativi al campione della città di Roma. Si è inoltre deciso per motivi di spazio di esaminare in dettaglio le scale di Soddisfazione e Percezione della scuola come un ambiente sicuro da parte degli studenti. Per mantenere l’anonimato le scuole del campione romano sono state definite con le lettere dalla A alla E (tab.1). Per raccogliere dati rappresentativi delle diversità dovute al contesto socioculturale si è considerata la collocazione territoriale delle scuole di Roma, considerando che in Italia la collocazione delle scuole nel territorio ha tradizionalmente presentato differenze sensibili. Tabella 1. Descrizione del campione per classe e per strato I media
92
CENTRO
PERIFERIA
II media
III media
Totale
Scuola A
35
41
38
114
Scuola B
28
25
48
101
Scuola D
24
62
146
232
Scuola C
111
107
106
324
Scuola E
15
24
38
77
213
259
376
848
Totale
Tab. 1. Descrizione del campione per classe e per strato Tabella 2. Descrizione del campione per classe e genere I media
Genere
II media
III media
Totale
n
%
n
%
n
%
n
%
maschi
98
46,0%
122
47,1%
185
49,2%
405
47,8%
femmine
115
54,0%
137
52,9%
191
50,8%
443
52,2%
Totale
213
100,0%
259
100,0%
376
100,0%
848
100,0%
Tab. 2. Descrizione del campione per classe e genere
4. L’analisi fattoriale esplorativa La struttura fattoriale del questionario è stata esplorata preliminarmente determinando il numero di fattori da estrarre mediante lo scree-plot. Successivamente, i fattori sono stati estratti con il metodo della massima verosimiglianza, seguito da rotazione varimax. La consistenza interna delle scale derivate fattorialmente è stata valutata mediante il calcolo del coefficiente alfa di Cronbach. Inoltre, per migliorare lo strumento per ciascuna scala è stata valutata la possibile presenza di item non omogenei rispetto agli altri item. A questo scopo, per ciascun item sono stati calcolati la correlazione item-totale (corretta con l’esclusione dal computo dell’item in esame) ed il valore del coefficiente alfa di Cronbach ottenibile con l’omissione dell’item dalla scala. È stato inoltre studiato il profilo delle correlazioni tra ogni item e le scale, per identificare la possibile presenza di
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item correlati maggiormente con i punteggi delle scale differenti da quella di appartenenza, e quindi fonte di disomogeneità. L’analisi esplorativa ci ha portato a considerare il fatto che molte delle scale previste dallo strumento si presentavano come multifattoriali e quindi difficili da ricondurre ad una spiegazione univoca. Abbiamo dunque scelto di lavorare sugli item per ottenere scale più consistenti e riconducibili ad un fattore unico. L’analisi esplorativa è stata fatta sia per singolo paese sia nel campione complessivo. Il risultato di questo lavoro ha portato a ridurre in modo consistente le dimensioni dello strumento, obiettivo che ci eravamo proposti fin dall’inizio del lavoro eliminando gli item che introducevano elementi di incoerenza e a ridefinire in base ai contenuti degli item i nomi delle scale che abbiamo ritenuto di poter utilizzare. Così abbiamo ridotto la quantità degli item da 145 a 76 e il numero delle scale previste da 14 a 11. Le scale così definite risultano coerenti, l’alfa di Cronbach risulta sopra il livello d’accettabilità e varia dal 0,69 al 0,92 (tabella 3). N di
% di varianza
fattori
1
Scala: Soddisfazione
1
45,33
Scala: Senso di sicurezza
2
35,37
Scala: Clima scolastico
1
Scala: Ansia aspecifica
1
Scala: Esclusione dai pari
2
Alfa di Cronbach
N di item
,858
8
,923
10
40,00
,840
8
32,31
,789
8
1
36,68
,732
5
Scala: Paura giudizio degli altri
1
37,15
,735
5
Scala: Ansia nelle relazioni con gli insegnanti
1
32,02
,731
6
Scala: Percezione supporto familiare
1
39,28
,747
5
Scala: Ansia di valutazione
1
36,79
,774
6
Scala: Ansia espressione verbale
1
31,58
,694
5
Scala: Ansia neurovegetativa
1
34,37
,833
10
34,44
Tab. 3. Composizione dello strumento dopo l’analisi esplorativa
! !
Il costrutto risulta perciò composto da 11 dimensioni che indagano aspetti relativi alla percezione del contesto scolastico (soddisfazione e clima scolastico), alla percezione del senso di sicurezza nei rapporti con i compagni e con gli insegnanti, alla presenza o assenza di condizioni di disagio dettate da uno stato di ansia legato a condizioni del contesto (esclusione dai pari, ansia nelle relazioni con gli insegnanti, percezione del supporto familiare, ansia da valutazione, ansia da espressione verbale) e da uno stato di ansia legato a caratteristiche individuali della persona di cui si indaga, attraverso la relazioni con le dimensioni, il legame con il contesto (ansia aspecifica, ansia neurovegetativa).
5. L’analisi fattoriale confermativa (modello di equazioni strutturali) La struttura fattoriale emersa dall’EFA è stata sottoposta ad analisi fattoriale confermativa (CFA) al fine di identificare la validità del questionario e per verificare
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il modello a quattro fattori del benessere educativo (soddisfazione, clima, sicurezza, disagio). Il modello è stato ipotizzato sulla base: 1) dei risultati della precedente analisi fattoriale esplorativa; 2) delle considerazioni teoriche sui costrutti indagati e sulle indicazioni riportate in letteratura, ed è stato poi testato con il software EQS 6.1 (Byrne, 2006) Nella Figura1 è possibile vedere il modello applicato.
94
Fig. 1. Risultati del modello strutturale. Il modello italiano di benessere educativo. Correlazioni tra variabili indipendenti.
6. Descrizione di alcuni dei risultati dell’indagine In questa sede ci limiteremo a riportare solo alcuni dei risultati dell’indagine concentrandoci soprattutto su aspetti relativi alle domande introduttive del questionario e alle prime scale che lo compongono. Le domande introduttive del questionario, pur non potendo essere utilizzate in forma di scale, mantengono un valore informativo importante per la comprensione del rapporto degli studenti con la scuola. In questa sezione descriveremo i risultati di queste prime domande e le loro differenze nei due campioni esaminati. La domanda 1 chiede di esprimere agli studenti un proprio giudizio sulla scuola in relazione alla sua funzione di stimolo allo sviluppo delle loro capacità e abilità. Il giudizio che viene dato è complessivamente positivo. Il 70,9% degli studenti afferma con certezza che la scuola li aiuti a migliorare le loro capacità e abilità. Utilizzando le risposte in forma di punteggio dove 1 è “forse no” e 4 “forse sì” è possibile considerare le differenze di media tra le scuole.
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Le studentesse del campione romano tendono a fornire risposte più positive dei maschi e la differenza risulta significativa. (F(1;846)=4,29, p=0,039, R2 = 0,005). La soddisfazione per la funzione di insegnamento della scuola decresce progressivamente in modo evidente dal primo al terzo anno della scuola secondaria di primo grado. La differenza risulta significativa all’analisi della varianza con il test post hoc Bonferroni sia tra la prima e la terza media, sia tra la seconda e la terza media. Tra le classi delle scuole russe il fenomeno è molto attenuato e le differenze non risultano significative (fig. 2). Nelle scuole periferiche gli studenti sono più soddisfatti della funzionalità della scuola dei loro compagni delle scuole del centro Figura Fi gura 2 e(fig. Figura Figura3). 3. Confronto C onto tra tra le le m medie edie alla alla domanda domanda ""Pensi Pensi che che llaa tua tua scuola scuola ttii aiuti aiuti a m migliorare igliorare le le ttue ue ccapacità apacità e abilità?”per abilità?”per classe classe scolastica scolastica e area di di appartenenza appartenenza della della scuola scuola
95 figura.2 ANOVA cl figura.2 figu classi assi di Ro Roma ma F(2;845)=12,252; F( 2;845)=12,252; p=, p=,000R 000 2=0, 000R =0,028 028
fig figura fig igu ura 3 ANOVA cl classi assi di Ro Roma ma F(1;846)=10,016; F( 1;846)=10,016; p=, p=,002R 002 2=0, 002R =0,012 012
!
Fig. 2 e Fig. 3. Confronto tra le medie alla domanda “Pensi che la tua scuola ti aiuti a migliorare le tue capacità e abilità?”per classe scolastica e area di appartenenza della scuola
La seconda domanda del questionario chiede di esprimere un voto di gradimento da 1 a 9 sulla propria scuola. I punteggi per classe scolastica confermano il quadro già emerso dall’analisi delle risposte alla domanda precedente: il giudizio espresso scende progressivamente con l’avanzare della scolarità (fig. 4.) Non si rileva differenza tra le risposte dei maschi e delle femmine. Se si confrontano i due strati del campione possiamo anche in questo caso confermare quanto osservato nella domanda 1: le scuole di periferia ottengono un voto più alto e significativamente differente dalle scuole del centro (F(1;846)=4,054; p=,044 R2=0,005).
Fig. 4. Confronto medie per classe scolastica alla domanda “Quanto ti piace la tua scuola?”
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La domanda 3 chiede agli studenti se avendone la possibilità cambierebbero scuola. Dai risultati ottenuti emerge che nelle scuole del centro la percentuale degli studenti, che cambierebbe scuola è superiore a quella delle scuole periferiche. In generale, il 37,4% degli studenti italiani afferma che potendo cambierebbe scuola (fig. 5).
96 Fig. 5. Frequenze per area di appartenenza delle scuole alla Domanda “Se ti fosse possibile cambieresti scuola?”
La domanda 4 chiede agli studenti di che umore si sentono solitamente a scuola. Il 43,3% degli studenti italiani si sente di umore più buono che cattivo. Nelle scuole che si trovano in centro di Roma maggiore è il numero di studenti che si sentono di umore più cattivo che buono, rispetto alle scuole periferiche (F(2;845)=14,342; p=,000 R2=0,033). La figura 6 mostra come il giudizio degli studenti romani tende a risultare progressivamente negativo con l’avanzare della scolarità.
Fig. 6. Confronto delle medie alla domanda Di che umore sei solitamente a scuola? per classe scolastica
La soddisfazione della scuola e il senso di sicurezza sono più bassi nelle scuole periferiche mentre il clima scolastico è più confortevole nelle periferie rispetto al centro(tab.5). Il clima è percepito come più confortevole per le ragazze che per i
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ragazzi (F(1;846)=5,841; p=,016 R2=0,007). La soddisfazione della scuola e la percezione di un buon clima nella classe scendono progressivamente con l’avanzare della scolarità sia nelle scuole del centro, sia in periferia. Invece, il senso di sicurezza aumenta durante questo periodo, ma solo nelle scuole di periferia (fig. 7).
Soddisfazione
Senso di sicurezza
Clima scolastico
Media
N
Dev. std.
PEREFERIA
2,97
401
0,54
2,05
401
0,84
2,95
401
0,59
CENTRO
3,25
447
0,86
2,55
447
0,90
2,81
447
0,66
Totale
3,12
848
0,74
2,31
848
0,90
2,88
848
0,63
Media
N
Dev. std.
Media
N
Dev. std.
ANOVA F
33,15
68,46
11,86
Sign.
0,000
0,000
0,000
Tab. 5. Confronto delle medie delle scale per l’area di appartenenza delle scuole
97
Fig. 7. Confronto delle medie delle scale per l’area di appartenenza delle scuole e classe scolastica
Le studentesse sono più soddisfatte relativamente alle caratteristiche della scuola intesa come «rapporti con gli insegnanti»(F(1;846)=4,141; p=,042 R2=0,005), «possibilità di proporre iniziative e attività» (F(1;846)=4,553; p=,033 R2=0,005), «rispetto alla dignità» (F(1;846)=4,172; p=,041 R2=0,005) (fig. 7). Gli studenti nelle scuole di periferia di Roma risultano meno soddisfatti della scuola rispetto ai loro coetanei che frequentano le scuole del centro (fig. 7).
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Figura Fi gura 8. C Confronto onfronto de delle lle medie medie al alla la scal scalaa Soddisfazione Soddisfazione pe perr ccaratt aratt
onto delle medie alla scal scalaa Soddisfazione Soddisfazione pe perr ccaratteristiche aratteristiche della della scuola scuo e ggenere enere
!
98
Fig. 8. Confronto delle medie alla scala Soddisfazione per caratteristiche della scuola e genere
Nelle scuole periferiche i ragazzi si sentono meno protetti dall’essere maltrattati (da prese in giro, da aver paura, da essere ignorati o costretti a fare cose contro la loro volontà) (tab. 6). Il livello del senso di sicurezza è più alto nelle scuole del centro.
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A scuola quanto ti senti protetto da...
Periferia
Centro
F
Sig.
R2
1,176
22,454
0,000
0,026
2,58
1,003
16,552
0,000
0,019
2,53
1,034
15,148
0,000
0,018
1,173
2,58
1,351
61,246
0,000
0,068
2,1
1,032
2,54
1,116
35,554
0,000
0,04
essere costretto dai compagni a fare cose contro la tua volontа?
1,92
1,079
2,57
1,267
64,028
0,000
0,07
essere ignorato dall’insegnante?
1,94
1,006
2,43
1,081
45,418
0,000
0,051
essere ignorato dai compagni?
1,96
1,019
2,47
1,161
46,093
0,000
0,052
essere maltrattato dall’insegnante?
1,9
1,126
2,57
1,267
65,206
0,000
0,072
essere maltrattato dai compagni?
1,99
1,092
2,54
1,219
46,87
0,000
0,052
MD
DS
MD
DS
prese in giro o insulti dell’insegnante?
2,25
1,222
2,64
prese in giro o insulti dei compagni?
2,29
1,075
aver paura dell’insegnante?
2,26
1,002
aver paura dei compagni?
1,9
essere costretto dall’insegnante a fare cose contro la tua volontа?
!
Tab. 6. Confronto delle medie degli item della scala Sicurezza per l’area di appartenenza delle scuole
Osservando la figura 8 nel dettaglio inoltre risulta che gli studenti romani pensano che nella loro scuola non esistono condizioni che sollecitano i loro interessi; che nella scuola succedono cose spiacevoli; sentono che non tutte le situazioni scolastiche si possono risolvere nel modo migliore. Ma allo stesso tempo sentono che la scuola li aiuta a prepararli alla vita adulta e che sono trattati in modo umano.
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Fig. 8. Medie delle risposte agli item della scala Clima scolastico
Riassumendo i risultati precedenti la percezione della funzionalità della scuola, il gradimento, l’umore positivo, la soddisfazione, il clima positivo e la percezione di sicurezza decrescono con l’aumentare della scolarità. Per questi stessi aspetti i risultati migliori si sono posizionati nelle scuole di periferia rispetto a quelle del centro, tranne che per la soddisfazione e per la volontà di cambiare scuola.
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-,163** -,295** -,181** -,197** **
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,540**
,540**
1
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,260**
-,295**
-,197
-,097** -,213**
,243
-,315**
-,181
,324**
ANSIA NEURO VEGETATIVA
-,147** -,315** -,231** -,181**
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ANSIA VERBALE
ANSIA ASPECIFICA
,596**
**
ANSIA DA VALUTAZIONE
CLIMA SCOLASTICO
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SUPPORTO FAMILIARE
SICUREZZA (COMPAGNI)
,224** **
PAURA DI GIUDIZI
SICUREZZA (INSEGN)
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ESCLUSIONE DAI PARI
SODDISFA ZIONE SODDISFAZIONE SICUREZZA (INSEGNANATI) SICUREZZA (COMPAGNI) CLIMA SCOLASTICO ANSIA ASPECIFICA ESCLUSIONE DAI PARI PAURA DI GIUDIZI ANSIA DAI INSEGNANTI SUPPORTO FAMILIARE ANSIA DA VALUTAZIONE ANSIA VERBALE ANSIA NEURO VEGETATIVA
ANSIA DAI INSEGNANTI
È interessante osservare le correlazioni tra le misure di percezione della scuola e le scale di disagio psicologico e notare come al migliorare di alcune delle condizioni di contesto scolastico diminuiscano alcune condizioni di disagio psicologico. Le correlazioni tra le scale permettono di osservare come il contesto possa influire sulle condizioni di disagio legate a caratteristiche individuali della persona (ansia aspecifica, ansia neurovegetativa). Queste condizioni di ansia anche se non provocate dal contesto possono comunque essere mediate da quest’ultimo. L’ansia aspecifica e l’ansia neurovegetativa sono infatti in una relazione statisticamente significativa con quasi tutte le scale. Nella tabella seguente sono indicate, in relazione al campione della città di Roma, le correlazioni che si sono dimostrate statisticamente significative.
,703
,497
,118**
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,703
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1
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,575
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,241**
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,668** ,625
,352**
,472
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,512**
,625
,604
** La correlazione è significativa al livello 0,01 (2-code). * La correlazione è significativa al livello 0,05 (2-code).
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Tabella 7. Correlazioni tra le scale del campione di Roma
Conclusioni L’obiettivo del nostro articolo era descrivere lo strumento messo a punto per la misura del benessere educativo e dare una descrizione di una parte dei risultati della ricerca mettendo a fuoco soprattutto la percezione della scuola da parte degli studenti della scuola secondaria di primo grado. Alla luce dei dati raccolti possiamo trarre le conclusioni che seguono. Lo strumento messo a punto si è rilevato affidabile e in grado di misurare, sia negli studenti di Roma che in quelli di Mosca, il Benessere educativo degli studenti, tuttavia poiché le scale sono frutto di una riduzione consistente delle domande somministrate originariamente è in corso una nuova rilevazione per la taratura definitiva dello strumento.
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Il campione romano degli studenti esaminati in questa ricerca percepisce la scuola come un ambiente che da un lato li aiuta a prepararsi alla vita adulta e dove il Clima scolastico è complessivamente positivo e, dall’altro, un ambiente dove si può essere esposti a esperienze spiacevoli e non esistono condizioni tali da sollecitare i loro interessi. Sono insoddisfatti della mancanza di possibilità di proporre iniziative e attività durante il processo scolastico e soddisfatti di più dei rapporti con i compagni di classe che dei rapporti con gli insegnanti. L’aspetto dove gli studenti hanno maggiore difficoltà è quello di proporre le loro iniziative e attività. La Soddisfazione della scuola è più bassa nelle scuole di periferia mentre il Clima scolastico è più confortevole nelle periferie rispetto al centro. Per costruire un ambiente scolastico sicuro è necessario tenere conto che esiste una relazione tra questo e il genere e il livello scolastico: le ragazze si sentono meglio in classe rispetto ai ragazzi e la percezione positiva di quasi tutti gli aspetti indagati decresce con l’avanzare della scolarità. Abbiamo inoltre verificato come la Soddisfazione della scuola e il Clima scolastico facciano decrescere il disagio. Un altro aspetto risultato costante durante tutta l’analisi, è la grande differenza tra i punteggi medi delle singole classi. Questo dato conferma un elemento emerso nella letteratura rispetto alla percezione di sicurezza (Edmondson & Lei, 2014) secondo il quale il costrutto della sicurezza psicologica è legato alle dinamiche del gruppo e al modo in cui questo viene diretto. Questo dato fa pensare che esista una doppia percezione degli studenti, una legata alla classe e una legata alla scuola. Queste due percezioni non è detto che vadano nella stessa direzione. Lo strumento descritto in questo articolo può perciò fornire alle scuole degli elementi importanti per l’autovalutazione e il miglioramento delle condizioni di contesto, offrendo una prospettiva legata sia ad aspetti individuali, sia ad aspetti del contesto classe, sia ad aspetti del contesto scolastico nel suo complesso. Il progetto di ricerca prevede ora la somministrazione su campioni più ampi per confermare le caratteristiche psicometriche dello strumento definito attraverso questa prima indagine e per definirne standard di riferimento.
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Progettazione e valutazione inclusive per gli allievi con disabilità. Dati da una ricerca esplorativa Lucia Chiappetta Cajola • Università degli Studi Roma Tre – lucia.chiappettacajola@uniroma3.it Marina Chiaro • Università degli Studi Roma Tre – marinachiaro@gmail.com Amalia Lavinia Rizzo • Università degli Studi Roma Tre – amalia.rizzo@uniroma3.it
Inclusive planning and inclusive evaluation for students with disability in Italian school. Results from an exploratory research Nella prospettiva inclusiva, la realizzazione di procedure di verifica e di valutazione coerenti con gli obiettivi e le competenze previsti nelle progettazioni individualizzate/ personalizzate è un fattore cruciale per il raggiungimento del successo formativo degli allievi con disabilità o altri bisogni educativi speciali. A partire dai risultati di una ricerca a carattere esplorativo-descrittivo che ha consentito l’analisi delle modalità con cui viene organizzato il processo didattico-valutativo rivolto agli allievi con disabilità nell’ottica della full inclusion, il contributo presenta alcune linee di tendenza attive nelle scuole italiane di ogni ordine e grado relative sia alla presenza e alle modalità di utilizzo degli strumenti per l’integrazione attualmente previsti dalla normativa scolastica italiana (Diagnosi Funzionale, Profilo Dinamico Funzionale, Piano Educativo Individualizzato), sia al livello di collaborazione tra gli insegnanti e anche alle prassi di verifica e valutazione attualmente impiegate.
Keywords: inclusive planning, inclusive assessment, student with disability, ICF-CY, exploratory research.
Parole chiave: progettazione inclusiva, valutazione inclusiva, allievi con disabilità, ICFCY, ricerca esplorativa.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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In the perspective of school inclusion, the link between the realization of assessment and evaluation and the aim of the individualized educational is essential for the personal growth of students with special educational needs. Starting from an exploratory research that examined how Italian school manages planning and evaluation for students with disability, this paper explains some issues related to the presence and the functionality of Italian integration tools, the cooperation between teachers, the assessment and the evaluation procedures.
Progettazione e valutazione inclusive per gli allievi con disabilità. Dati da una ricerca esplorativa
Introduzione
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Nel quadro della prospettiva inclusiva, si ritiene che la realizzazione di procedure di verifica e di valutazione coerenti con gli obiettivi e le competenze previsti nelle progettazioni individualizzate/personalizzate sia un fattore cruciale per il raggiungimento del successo formativo degli studenti con bisogni educativi speciali (Agenzia Europea per lo Sviluppo dell’Istruzione degli Alunni Disabili, 2009; MIUR, 2013). Anche per gli allievi con disabilità, dunque, la valutazione, intesa nella duplice operazione di misurazione e valutazione propriamente detta, precede, accompagna e segue i percorsi formativi attivando le azioni da intraprendere, regolando quelle avviate e promuovendo il bilancio critico su quelle condotte a termine (Domenici, 2005; Chiappetta Cajola, 2008). Promuovendo la partecipazione e la corresponsabilità educativa di tutti gli insegnanti e stimolando la capacità di tenere conto della pluralità delle differenze esistenti in classe, la valutazione degli apprendimenti degli allievi con disabilità si inserisce, quindi, nel più ampio contesto della valutazione inclusiva (Dovigo, 2007; Chiappetta Cajola & Ciraci, 2013) e dell’autovalutazione del livello dell’inclusività della scuola (MIUR, 2013; Booth & Ainscow, 2014), ponendosi in rapporto di circolarità virtuosa con la progettazione e la realizzazione di una didattica inclusiva e offrendo, in definitiva, uno stimolo vigoroso e continuo al miglioramento dei processi inclusivi. La progettualità inclusiva è, dunque, un presupposto imprescindibile per la realizzazione della certificazione delle competenze di tutti gli allievi (MIUR, 2015) e si configurano all’interno delle strategie di orientamento e di ri-orientamento necessarie per la promozione del progetto di vita dell’allievo con disabilità (Nanni, 1990; Chiappetta Cajola, 2015). Di conseguenza, a tutti i docenti è continuamente richiesta, all’interno del citato rapporto di circolarità esistente tra il processo didattico e il processo valutativo, la messa in atto di micro e macro decisioni che abbiano alta probabilità di successo e che siano pertinenti, efficaci ed efficienti quindi «rispettivamente, adeguate al contesto, coerenti con gli scopi individuali e collettivi perseguiti e in grado di produrre gli effetti desiderati» (Domenici, 2009, p. 19). Gli insegnanti chiamati a operare in presenza di tale complessità devono dunque possedere una dotazione culturale e critico conoscitiva tale da consentire loro continui adattamenti dinamici e una capacità modificativa degli ambienti di apprendimento, assumendo responsabilità individuali e collettive, nella piena consapevolezza delle probabili conseguenze delle scelte compiute (Domenici, 2010, p. 12). A questo proposito, risulta essenziale l’apporto che la ricerca didattica può fornire alla qualificazione dei processi di prima formazione, di formazione in servizio e di aggiornamento dei docenti facilitando la comprensione da parte degli insegnanti dei tanti elementi che caratterizzano la cornice quotidiana in cui essi operano in modo tale che essi possano assumere le decisioni che hanno la maggiore probabilità di essere efficaci (Lucisano & Salerni, 2012).
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È in questa direzione che si presentano alcuni risultati della ricerca1 Certificazione delle competenze degli allievi con disabilità: l’impiego delle categorie ICF-CY nella prospettiva dell’inclusione promossa e condotta nel l’A.A. 2012-13 presso il Dipartimento di Scienze della formazione dell’Università degli Studi Roma Tre che ha fornito dati interessanti per riflettere sui processi didattico-valutativi realmente attivati nelle scuole nel corso dell’elaborazione del piano didattico individualizzato/personalizzato rivolto all’allievo/a con disabilità.
1. Obiettivi della ricerca Nella prospettiva della didattica orientativa e inclusiva, la ricerca ha indagato la reale situazione in cui versa la prassi della valutazione e della certificazione delle competenze degli alunni con disabilità anche al fine di individuare gli ostacoli – culturali, pregiudiziali, ambientali – che ne possano aver impedito o rallentato la realizzazione. Inoltre sulla base dei dati rilevati sono state elaborate alcune proposte operative per certificare con adeguatezza le competenze degli alunni disabili facendo leva in particolare sull’International Classification of Functioning, Disability and Health for Children and Youth-ICf-Cy (WHO, 2001, 2007)2 che ha costituito sia il modello interpretativo della documentazione prodotta dalle scuole sia la costruzione degli strumenti della ricerca in coerenza con la prospettiva dell’inclusione scolastica e sociale (Chiappetta Cajola, 2013, 2014, 2015). In coerenza con il quadro teorico di riferimento, la ricerca ha complessivamente posto i seguenti obiettivi: a) esplorare le prassi di valutazione e di certificazione delle competenze per gli alunni con disabilità diffuse nella scuola primaria, nella scuola secondaria di I grado e nel primo biennio della scuola secondaria di II grado del Lazio, in particolare nell’anno terminale di ciascun segmento; b) analizzare le relazioni tra procedure attivate, strumenti utilizzati e normativa scolastica; c) individuare i punti di forza e le eventuali criticità dei processi sia valutativi sia relativi alla certificazione attivati dalle scuole; d) rilevare il grado di diffusione dell’ICf-Cy nella scuola a favore dell’inclusione e a supporto delle pratiche osservative e didattico-valutative; e) individuare proposte-guida utili per la certificazione delle competenze sulla base dell’ICf-Cy sia per la scuola primaria e secondaria di I grado, sia per il termine dell’obbligo scolastico.
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Chiappetta Cajola (2015). A partire da un modello antropologico bio-psico-sociale che attribuisce un ruolo essenziale ai contesti di vita in cui il bambino o l’adolescente è inserito, l’ICf-Cy propone non soltanto una serie di categorie e codici per descriverne funzioni, strutture corporee, attività e partecipazione, ma anche un elenco di categorie e codici relativi ai fattori Ambientali che possono essere “qualificati” come vere e proprie “barriere” o “facilitatori”, della partecipazione dell’apprendimento dell’allievo, presenti nel contesto scolastico.
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2. Metodo di ricerca e campione
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Al fine di conseguire gli obiettivi proposti, la ricerca è stata progettata nell’ambito dell’approccio dei metodi misti o mixed methods, che rappresenta una evoluzione del concetto di triangolazione di informazioni che provengono da fonti diverse, e che nasce, essenzialmente, dall’esigenza di risolvere in modo pratico le problematiche inerenti i quadri teorici ed epistemologici dei modelli di ricerca empirica, quantitativa e qualitativa (Kish, 1987; Campbell & Stanley, 1996; Lazarsfeld, 2001; McMillan & Schumacher 2013). Infatti, tale disegno metodologico effettua, in un unico studio, operazioni di integrazione e combinazione di tecniche, metodi, approcci, concetti o linguaggi appartenenti alla ricerca quantitativa e qualitativa (Johnson & Onwuegbuzie 2004). In particolare per lo studio qui presentato è stato utilizzato il disegno triangolare o convergente parallelo3 che presuppone l’impiego contemporaneo dei due metodi, quantitativo e qualitativo. Sono state, quindi, realizzate contemporaneamente ma separatamente due indagini distinte, una quantitativa e l’altra qualitativa, e dopo aver analizzato distintamente i due data base, seguendo le procedure relative ai due differenti approcci di ricerca, le informazioni sono state integrate nella fase di interpretazione finale dei risultati (Creswell & Plano Clark, 2011). È stato considerato come universo di riferimento l’insieme degli insegnanti del Lazio operanti nei seguenti ordini di scuola: primaria, secondaria di primo grado e secondaria di secondo grado. Da tale universo è stato estratto un campione non probabilistico a scelta ragionata (Cohen, Manion & Morrison, 2007) secondo il quale la scelta delle unità di rilevazione non è casuale ma avviene selezionando quelle unità che sono ritenute maggiormente rappresentative per la finalità della ricerca stessa (Corbetta, 2003). Tale tecnica di campionamento risulta, peraltro, quella maggiormente utilizzata nell’ambito delle strategie di ricerca interpretative (Trinchero, 2002 p. 191). Complessivamente sono stati considerati 13 istituti scolastici4 nell’ambito dei quali sono stati intervistati i 13 dirigenti scolastici, per l’indagine qualitativa, e 408 docenti, per l’indagine quantitativa, distribuiti come segue: 201 insegnanti di 13 scuole primarie; 125 docenti di 13 scuole secondarie di primo grado; 82 insegnanti di 2 scuole secondarie di secondo grado. Le due indagini sono state realizzate nei mesi di ottobre-dicembre 2012 e per la loro realizzazione sono stati progettati e somministrati
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Creswell e Plano Clark, pur riconoscendo che all’interno della comunità scientifica sono presenti delle opinioni divergenti sul come implementare la diversità dei metodi misti, anche in considerazione dei paradigmi di riferimento, hanno individuato prevalentemente quattro disegni misti di base: triangolare o convergente parallelo, sequenziale esplicativo, sequenziale esplorativo e integrato o nidificato (2011, pp. 73-76), che si differenziano sia per la tempistica/priorità di realizzazione della ricerca quantitativa e qualitativa che per le modalità di integrazione/analisi dei risultati complessivi di ricerca. I 13 Istituti Scolastici interessati sono: Istituto Comprensivo “Aldo Moro” Sutri, Viterbo; Istituto Comprensivo “Garibaldi”, Genazzano (Roma); Istituto Comprensivo “Leonardo da Vinci”, Labico (Roma); Istituto Comprensivo “O. Giorgi”, Valmontone, Roma; Istituto Comprensivo “Marchiafava”, Maccarese, Roma; Istituto Comprensivo “Madre Terera”, Valmontone (Roma); Istituto Comprensivo “Mozart”, Roma; Istituto Comprensivo “Pierluigi”, Palestrina (Roma); Istituto Comprensivo “Ricci”, Rieti; Istituto Comprensivo “Sacchetti Sassetti”, Rieti; Istituto Comprensivo “Valerio flacco”, Sezze (Latina); Istituto Tecnico Commerciale “Calamandrei” (Roma); Istituto Istruzione Superiore “Orioli”, Viterbo.
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specifici questionari cartacei auto compilati, ovvero compilati in autonomia dagli stessi insegnanti (Corbetta, 2003), dopo averne effettuato il relativo try-out. In particolare, considerando gli obiettivi della ricerca, l’ordine di scuola di appartenenza degli insegnanti ed il profilo dei docenti intervistati (insegnanti o dirigenti scolastici), sono stati predisposti tre distinti questionari: il primo relativo agli insegnanti della scuola primaria e secondaria di primo grado; il secondo riguardante i docenti della scuola secondaria di secondo grado ed il terzo è stato elaborato specificatamente per i dirigenti. Indagine quantitativa – Questionario docenti L’indagine quantitativa è stata realizzata secondo la prospettiva teorica della ricerca descrittiva che «…si propone di descrivere un fenomeno e di interpretarlo a partire dai dati che vengono rilevati…» (Lucisano & Salerni, 2012 p. 102). Infatti, tale modalità di ricerca, non si ferma alla semplice raccolta dei dati ma prevede una loro specifica elaborazione ed interpretazione, anche in considerazione delle relazioni fra le variabili oggetto di rilevazione. In generale lo schema di una ricerca descrittiva prevede l’analisi di un problema, la formulazione di un’ipotesi, l’individuazione del campione, la selezione degli strumenti di rilevazione dei dati, la raccolta dei dati e la loro analisi e interpretazione (Lucisano & Salerni, 2012). Come previsto nel piano complessivo della ricerca, ai docenti della scuola primaria, secondaria di primo e secondo grado che hanno costituito il campione dell’indagine quantitativa, sono stati somministrati due questionari strutturati5 distinti per ordine di scuola: uno relativo agli insegnanti delle scuole primarie e secondarie di primo grado; l’altro riferito ai docenti delle scuole secondarie di secondo grado. Le aree tematiche delle due tipologie dei questionari, definite in coerenza con gli obiettivi della ricerca sono state le seguenti: a) dati ascrittivi riguardanti i docenti intervistati; b) dati relativi all’organizzazione scolastica per gli alunni con disabilità; c) strategie valutative utilizzate per gli alunni con disabilità: modalità e strumenti; d) modalità di certificazione delle competenze per gli alunni con disabilità; e) conoscenza ed utilizzo dell’ICf-Cy. Nella tabella 1 sono riportate, per ciascun ordine di scuola e per ciascuna area tematica le singole domande che hanno composto il questionario e che hanno costituito la base degli indicatori elaborati ed analizzati come risultati di ricerca. Dalla tabella 1 è possibile osservare che per tutte le aree tematiche, ad esclusione di quella relativa alle strategie valutative, sono state somministrate le stesse domande. Nell’area delle strategie valutative, invece, sono presenti domande specifiche per l’elaborazione del PEI differenziato e del PEI equipollente, strumenti previsti per la scuola secondaria di secondo grado e non nella scuola primaria e secondaria di primo grado. Tale peculiarità è rappresentata, ovviamente, nelle fasi di analisi dei dati6.
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Tra le tecniche di raccolta dei dati previste per le ricerche descrittive (osservazioni, test, interviste, questionari) è stata prescelta quella dell’intervista realizzata mediante la somministrazione di questionari strutturati progettati in funzione delle caratteristiche del campione prescelto ed in relazione al set di indicatori ritenuti rilevanti per l’analisi del fenomeno oggetto di studio (Trinchero, 2002, Corbetta, 2003; Lucisano & Salerni, 2012). Per l’elaborazione e l’analisi dei dati è stato impiegato il software SPSS (Statistical Package for the Social Science).
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Tab. 1: Aree tematiche e domande dei questionari rivolte ai docenti per ordine di scuola
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Indagine qualitativa – Questionario Dirigenti Al fine di poter disporre del punto di vista dei dirigenti scolastici sui temi oggetto della ricerca, è stato previsto un approfondimento qualitativo rivolto ai dirigenti dei 13 istituti scolastici che hanno partecipato alla rilevazione mediante interviste face to face realizzate con il supporto di un questionario di tipo semi-strutturato7, in cui erano presenti aree tematiche differenti da quelle presenti nei questionari somministrati ai docenti. In particolare hanno riguardato: a) dati della struttura scolastica con particolare riferimento alla presenza di alunni con disabilità ed insegnanti su posto di sostegno o presenza di altre figure per l’integrazione; b) organizzazione di attività formativa anche specifica per l’integrazione scolastica; c) conoscenza ed utilizzo dell’ICf-Cy; d) valutazione e certificazione delle competenze per gli alunni con disabilità. Nella tabella 2 sono riportate per ogni area tematica le singole domande che hanno composto il questionario. Le risposte sono state integrate nella fase finale di interpretazione dei risultati, come previsto dal disegno di ricerca dei mixed methods, approccio utilizzato per la ricerca oggetto di questo lavoro. Aree tematiche
Sintesi domande questionari Dirigenti
Dati della struttura scolastica
Tipologia di scuola; numero di allievi/classi/disabili; docenti su posto di comune o di sostegno; presenza di altre figure per l'integrazione; se Dirigente scolastico specializzato per il sostegno.
Formazione
Organizzazione di attività di Formazione in Servizio/Aggiornamento; se il Dirigente scolastico ha frequentato corsi di aggiornamento sull'integrazione; se sono in corso contatti con i CTS; se prevista all'interno del POF la presenza di un docente con funzione strumentale per l'integrazione scolastica.
ICF-CY Valutazione e Certificazione delle competenze
Conoscenza dell'ICF-CY; processi in cui viene utilizzato l'ICF-CY nella scuola. Modalità di condivisione degli strumenti utilizzati per la verifica e valutazione degli apprendimenti per gli alunni con disabilità; se al termine del ciclo scolastico/obbligo formativo viene realizzata la certificazione delle competenze degli alunni con disabilità; se viene utilizzato un modello specifico per gli alunni con disabilità; presenza di eventuali difficoltà o impedimenti per la valutazione degli apprendimenti degli allievi con disabilità.
Tab. 2: Aree tematiche e domande dei questionari rivolte ai Dirigenti Scolastici
3. Descrizione del campione intervistato I risultati relativi al campione intervistato dell’indagine quantitativa, che ha riguardato complessivamente 408 docenti delle scuole di ogni ordine e grado del Lazio, hanno evidenziato le seguenti caratteristiche: il 49,3% sono insegnanti della scuola primaria; il 30,6% insegnano nella scuola secondaria di 1º grado ed il 20,1% nella secondaria di 2º grado (fig. 1). Sono prevalentemente docenti di ruolo: l’88,1% nella primaria, l’83,2% nella secondaria di 1º grado e l’86,6% nella secondaria di 2º grado
7
Il metodo prescelto, per quanto riguarda l’indagine qualitativa, rientra fra quelli presentati da Cohen, Manion e Morrison (2007) nell’ambito di una mappa articolata di tecniche di indagini qualitative riferite ai processi educativi, tra cui si segnalano: l’osservazione partecipante o strutturata; l’osservazione diretta, con presenza fisica dell’osservatore, o indiretta (se si utilizzano materiali come video registrazioni ed altro); le interviste face to face libere o semi-strutturate; le interviste di gruppo, quali il focus group e il brainstorming; le ricerche etnografiche; la ricerca-azione; il role-playing e gli studi di caso o case study.
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(fig. 2), con un’anzianità media di servizio, rispettivamente per ciascun ordine di scuola, pari a 16 anni, 13 anni e 14 anni. I 13 Dirigenti scolastici intervistati per l’indagine qualitativa sono stati prevalentemente donne (8 donne e 3 uomini). Il numero medio di iscritti nei loro istituti è pari a 900 studenti con una media di 28 alunni con disabilità. Infine, a fronte di una presenza media di 83 docenti su posto comune, si registrano mediamente 15 insegnanti su posto di sostegno. +,-./0&1/2.3415260&7.3&07,8,916&:1&5-;,86& !"#$%&
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Fig. 1: Distribuzione docenti intervistati per grado di scuola (V.%)
Fig. 2: Distribuzione docenti intervistati per ruolo (V.%)
4. Disponibilità della Diagnosi Funzionale e modalità di elaborazione del Profilo Dinamico Funzionale Aver chiesto agli insegnanti facenti parte del campione se la scuola è in possesso della Df e se collabora all’elaborazione del PDf, ha consentito di rilevare una serie di criticità rispetto a due questioni che rappresentano presupposti essenziali per la realizzazione piena del processo di inclusione degli alunni con disabilità: – disponibilità a scuola della Diagnosi funzionale (Df) redatta dall’unità multidisciplinare della ASL così come previsto dalla normativa; – l’elaborazione collegiale del Profilo Dinamico funzionale (PDf) (DPR, 1994). Nonostante tali procedure siano stabilite fin dalla legge 104 del 1992, i dati mostrano come non tutte le scuole siano in possesso della Df (nella scuola primaria è acquisita nel 85,7% dei casi, nella secondaria di II grado nel 74,4% e
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nella secondaria di I grado nel 70,2%)8. Anche l’elaborazione del PDf da parte della scuola presenta valori piuttosto bassi nei diversi ordini di scuola arrivando, nella scuola secondaria di I grado, a non rappresentare neppure la metà dei risposte raccolte (primaria 77,3%, secondaria di II grado 62,2%, secondaria di I grado 49,1%). Data l’importanza di questi due strumenti ai fini della progettazione educativa per gli allievi e le allieve con disabilità, questi dati non risultano soddisfacenti e sollecitano indagini più ampie per comprendere le motivazioni da cui derivano le difficoltà manifestate nei diversi ordini di scuola. La discrepanza tra la realtà mostrata dai dati di ricerca e quello che il modello italiano di inclusione prevede, senza possibilità di eccezione, sollecita con urgenza a individuare i necessari correttivi poiché l’utilizzo adeguato di tali strumenti, intesi come strumenti di tipo processuale e non come meri adempimenti burocratici, è una risorsa preziosa per l’inserimento di ogni allievo con disabilità nel sistema educativo e per accompagnare il suo passaggio tra i diversi ordini di scuola, quindi durante momenti delicatissimi nella prospettiva del suo progetto di vita. È in tali momenti che in cui si gioca la capacità della scuola sia di accogliere la persona e la sua famiglia, sia di mettere in condizione gli insegnanti di lavorare nelle migliori condizioni possibili percependo di essere sostenuti e facilitati in un processo che essi vivono sempre come particolarmente complesso e ricco di incertezze. Si ritiene importante sottolineare questo ultimo aspetto in considerazione del ruolo fondamentale che i docenti assumono nella creazione di un ambiente ricco di stimoli in grado di facilitare la partecipazione e l’apprendimento dell’alunno/a con disabilità. Come ormai chiarito nell’ambito del progetto europeo Policies and Pratices for Teaching Sociocultural Diversity (CoE, 2009), nell’attuale normativa italiana sulla formazione degli insegnanti (DM 249/2010; DM 30 settembre 2011) e anche in studi di settore (Chiappetta Cajola & Ciraci, 2013), la creazione di una scuola sempre più inclusiva richiede da parte degli insegnanti il possesso di competenze professionali in grado di saper armonizzare una grande molteplicità di dimensioni. Nell’ambito del citato progetto europeo, ne sono state individuate ben 18 distribuite in tre aree di competenza: knowledge and understanding; communication and relationship; management and teaching. Tuttavia, nel ripensare il profilo professionale degli insegnanti, è necessario sempre tener presente che la costruzione di tali competenze, non è mai un processo scontato, ma un vero e proprio percorso di Longlife Learning che può attivarsi solo se sostenuto da una forte motivazione all’ἀρετή (aretè) dei docenti e dalla presenza di una serie di convinzioni e atteggiamenti coerenti con i presupposti della prospettiva inclusiva, tra cui ci sono una buona capacità di ascolto, di dialogo e di risposta; la giusta attribuzione di valore ai problemi che via via si incontrano; il mantenimento di un comportamento incentrato su coerenza, fiducia, responsabilità, rispetto, generosità, solidarietà; la capacità di tenere sem-
8
Anche le ultime indagini ISTAT hanno confermato che nelle scuole del I ciclo non tutti gli alunni dispongono di questa documentazione prevista dalla legge. L’ultima rilevazione, relativa all’a.s. 2014/15, attesta che permane una quota pari al 4,6% di alunni senza alcuna certificazione nella scuola primaria e al 5,1% nella scuola secondaria di primo grado (ISTAT 2015). La mancanza della Df è un elemento particolarmente grave anche perché determina una sottoattribuzione delle risorse alle scuole e una sottostimata definizione degli insegnanti in organico.
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pre in debito conto la possibilità che nascano difficoltà derivanti dalla scarsa accettazione delle differenze individuali e dalle situazioni di conflitto. Ma affinché tali assunzioni possano realizzarsi, i docenti hanno bisogno di sentirsi fortemente inseriti in un sistema che li “accompagni” e che, oltre le parole e le indicazioni calate dall’alto, grazie a opportune procedure organizzative e a protocolli di lavoro agili, faciliti l’aggiornamento continuo delle conoscenze e lo sviluppo dei sentimenti di sicurezza, rispetto, collaborazione e co-evoluzione necessari a strutturare quelle scelte spesso difficili che vengono loro richieste nell’ambito dell’ineludibile gestione sinergica del “fare scuola”. Per tutte queste ragioni, la mancanza sia della Df sia di quei momenti di confronto e di collaborazione richiesti dall’elaborazione del PDf diventa un forte ostacolo all’intero processo in quanto, creando delle smagliature nella rete scuola-territorio-famiglia, non soltanto non facilita negli insegnanti il pieno esercizio del proprio ruolo, ma può anche provocare lo sviluppo di atteggiamenti disfunzionali, come, ad esempio, il burn out9.
5. Il piano educativo individualizzato: alcune criticità rilevate 112
Le criticità emerse in merito all’assenza della Df e all’elaborazione non congrua del PDf, sembrano avere, in ogni ordine di scuola, una ricaduta negativa sulla collaborazione fattiva tra insegnanti su posto comune e su posto di sostegno ai fini dell’elaborazione del piano didattico individualizzato (PEI), o del piano didattico personalizzato (PEP). ,4%<=,><=<%?%@/149/-;/%@/31A6%31%B%B%B%B%
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Fig. 3: Figure preposte alla redazione del PEI/PEP (V%)
La figura 3, infatti, mostra che andando avanti nei diversi ordini di scuola e soprattutto con il passaggio alla scuola secondaria di II grado in cui prevale il curricolo dei saperi “formali” (Boselli & Serio, 2005) si accentua il fenomeno della “delega” e il piano educativo viene infatti redatto in modo sempre più solitario dall’insegnante di sostegno di cui com’è noto, la ricerca mette oggi in evidenza la posizione marginalizzante, spesso definita di serie B10, il vissuto di frustrazione professionale e la tendenza a “scappare” dal proprio ruolo professionale (Associazione TREELLLE et al., 2011, pp. 146-148). 9
Maslach, Jackson, Leiter, 1996; Maslach, Leiter, 1997; Maslach, Schaufeli, Leiter, 2001; Kraft 2006; freudenberger, Richelson 1980, Chiappetta Cajola, 2008. 10 Piazza 2009; Bergamo 2004; Associazione TREELLLE et al., 2011.
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Fig. 4: Insegnanti coinvolti nella definizione degli obiettivi di apprendimento da inserire nel Pei (V.%)
Lo spazio di azione separato dell’insegnante di sostegno e la presenza di una modalità di lavoro per nulla aderente alle raccomandazioni ribadite nelle Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità (MIUR 2009), sono confermate anche dai dati rilevati in merito alla definizione degli obiettivi di apprendimento da inserire nel PEI (fig. 4). Essi mostrano che l’auspicata corresponsabilità educativa non trova una traduzione operativa nella scelta condivisa degli obiettivi che rappresentano un momento fondante dell’intero impianto organizzativo della progettualità inclusiva. Da questi dati emerge come, anche in relazione a questa fase del processo di inclusione, le procedure rilevate risentano ancora di una carenza di dialogo. Condividere, esplorare, individuare e sperimentare i collegamenti tra la professionalità dell’insegnante di sostegno e i colleghi consentirebbe, invece, di rendere la progettazione educativo-didattica un vero e proprio percorso di ricerca e uno stimolo per innescare una sorta di apprendimento trasformativo (Mezirow, 2003) in grado, tra l’altro, di limitare o addirittura evitare il citato burn out favorendo le copies strategies dei docenti e, quindi, reazioni di adattamento utili a far efficacemente ai fattori di stress scolastico mantenendo un accettabile livello di benessere individuale e sociale11.
6. La collaborazione degli insegnanti per la scelta delle prove di verifica degli apprendimenti In una scuola inclusiva, la scelta condivisa e l’impiego di determinate prove di verifica vanno inquadrati nella prospettiva di poter ottenere informazioni utili per un continuo adattamento/miglioramento delle strategie didattiche in vista di una loro sempre maggiore efficacia, efficienza, nonchè pertinenza allo specifico contesto. Ma, anche in riferimento alla scelta corresponsabile e condivisa delle prove di verifica per gli allievi con disabilità, i dati rilevati portano alla composizione di un quadro ancora non pienamente soddisfacente.
11 Lazarus, folkman 1984; Lazarus 1991, 1993; Pancheri 1993; Griffith, Steptoe, Cropley 1999.
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Insegnanti impegnati nella scelta delle prove di verifica
Ordine di scuola Primaria
Secondaria di I grado
Secondaria di II grado (PEI differenziato)
Secondaria di II grado (PEI equipollente)
Solo insegnante di sostegno
6,2
4,0
25,6
3,9
Insegnanti di sostegno e su posto comune insieme
90,8
88,8
67,1
81,7
Solo insegnanti su posto comune
2,0
2,4
0,0
2,6
Non so
1,0
4,8
7,3
11,8
Tab. 3: Distribuzione per ordine di scuola degli insegnanti impegnati nella scelta delle prove di verifica (V.%)
114
Infatti, per quanto riguarda la condivisione della scelta delle prove di verifica, nella tabella n. 3 si legge, che nella scuola primaria e nella scuola secondaria di I grado sono ancora presenti situazioni in cui le prove non sono individuate mediante la piena applicazione di modalità collaborative all’interno dell’intero team di docenti. Nella scuola secondaria di II grado, l’interazione tra insegnanti è ancora meno consistente rispetto ai precedenti ordini di scuola, poiché gli insegnanti di sostegno e su posto comune scelgono insieme le prove di verifica nel 67,1% dei casi per il PEI differenziato12 e per l’81,3% per il PEI equipollente13. Alla luce di quanto stabilito a livello normativo, e che si sintetizza di seguito, nella scuola secondaria di II grado una maggior condivisione è necessaria proprio in relazione all’esigenza degli insegnanti di condividere la responsabilità rispetto al futuro degli allievi con disabilità che proprio, in base alla tipologia di programmazione seguita e alle corrispondenti modalità di verifica, avranno la possibilità o meno di conseguire il titolo di studio conclusivo del percorso di studi in questo ordine di scuola. Infatti, nella scuola secondaria di II grado, gli insegnanti, in raccordo con la famiglia (OM 90/2001), possono decidere di diversificare il piano educativo inserendo obiettivi didattici e formativi non riconducibili ai programmi ministeriali (MIUR, 2001). In questo caso, la valutazione dei risultati del percorso didattico differenziato avverrà da parte del consiglio di classe con l’attribuzione di voti e di un credito scolastico, relativi unicamente allo svolgimento di tale piano (MIUR, 2014). Tali voti consentiranno agli alunni la prosecuzione degli studi esclusivamente per il perseguimento degli obiettivi del PEI . In caso di redazione di un “PEI differenziato”, gli alunni con disabilità conseguono, quindi, un’attestazione delle competenze e delle abilità acquisite che può costituire un credito formativo spendibile nella frequenza di corsi di formazione professionale nell’ambito delle intese con le Regioni e gli Enti locali (MIUR, 2001). La situazione è molto diversa se le caratteristiche del soggetto che frequenta la scuola secondaria di secondo grado rendono possibile attivare una programmazione individualizzata mirata al raggiungimento degli stessi obiettivi di apprendimento previsti per la classe. In questo caso, per la valutazione del rendimento e
12 Piano educativo Individualizzato differenziato (OM 90/ 2001). 13 La definizione “PEI equipollente” è stata proposta nel questionario in quanto di uso comune tra i docenti per indicare un PEI che comporta l’impiego di prove equipollenti e consente l’acquisizione del titolo di studio.
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nelle prove d’esame per gli alunni e le alunne con disabilità è consentita la somministrazione di prove equipollenti, quindi con uguale “valore” rispetto alle prove di verifica predisposte per gli altri candidati (Legge 104/92, art. 16; D.Lvo 297/1994, art.318; DPR 1998, art. 6; OM 2014, art. 17). Per quanto affermato, alla luce delle procedure valutative tipiche della scuola secondaria di II grado, la rilevazione di una maggiore percentuale di casi di collaborazione tra insegnanti su posto comune e insegnanti di sostegno soprattutto in merito alla scelta delle prove di verifica equipollenti, può essere interpretata come il risultato di una maggiore necessità (che dovrebbe di norma essere avvertita anche negli altri ordini di scuola) di coniugare la competenza specifica sui contenuti dell’insegnante della disciplina con l’expertise che l’insegnante di sostegno possiede in merito alle suddette questioni didattico-valutative.
7. Predisposizione dei criteri di accettabilità delle risposte e utilizzo dei risultati delle verifiche per la riprogettazione dei percorsi didattici Per effettuare la valutazione dei risultati degli allievi con disabilità (DPR 2009), la definizione di “criteri assoluti” è ritenuta altamente funzionale alle loro esigenze formative poiché tale modalità permette di non dover operare confronti tra la performance dell’alunno in questione con quella di altri alunni (Chiappetta Cajola, 2008). Per controllare e valutare il progresso individuale degli allievi con disabilità rispetto ai livelli di partenza è possibile anche scegliere di adottare dei criteri relativi (Domenici, 2000). Entrambe le procedure possono fornire dati informativi per regolare intenzionalmente l’organizzazione dell’offerta didattica al fine di strutturare le condizioni contestuali più adeguate per facilitare la realizzazione completa del soggetto con disabilità (Chiappetta Cajola, 2013). Qualsiasi sia la scelta che venga effettuata, rimane la responsabilità di fissare in modo condiviso tra tutti gli insegnanti i criteri, assoluti o relativi, che permettano di individuare la soglia di prestazione richiesta. Frequenza con cui nelle prove di verifica vengono predisposti i criteri di accettabilità delle risposte
Ordine di scuola
Primaria
Secondaria di I grado
Secondaria di II grado (PEI differenziato)
Secondaria di II grado (PEI equipollente)
Sempre
31,0
38,9
15,6
22,7
Spesso
31,0
34,4
27,3
26,7
A volte
25,9
20,0
39,0
34,7
Mai
8,7
1,7
7,8
5,2
Non so
3,4
5,0
10,3
10,7
Tab. 4: Distribuzione per ordine di scuola della frequenza della definizione dei criteri di accettabilità delle risposte (V.%)
Dalla ricerca emerge però che l’attribuzione di tali criteri da parte dei docenti non rappresenta una prassi costante e consolidata in nessuno dei diversi ordini di scuola (Tab. 4). Nella scuola primaria i criteri di accettabilità delle risposte vengono
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sempre stabiliti soltanto nel 31% dei casi, nella scuola secondaria di I grado nel 38,9% e nella scuola secondaria di II grado nel 15,6% nel caso di un PEI basato su una progettazione differenziata e nel 22,7% nel caso di un PEI equipollente. Il quadro peggiora ulteriormente se si considera l’esistenza di una percentuale di rispondenti secondo i quali tali criteri non vengono mai definiti. Si presume infatti che tale fascia di insegnanti non abbia la possibilità di assumersi in modo adeguato la responsabilità del processo valutativo che coinvolge l’alunno/a con disabilità (scuola primaria l’8,7%, scuola secondaria di II grado-PEI 7,8%, scuola secondaria di II grado-PEI equipollente 5,2%). Inoltre, mancando la definizione dei criteri di accettabilità delle prove, non sarà possibile realizzare la successiva analisi interpretativa delle ragioni che hanno consentito oppure ostacolato il superamento di tale soglia di prestazione da parte dell’alunno. Di conseguenza, non sarà possibile per i docenti avvalersi di indicazioni sull’efficacia e sulla qualità delle proposte didattiche realizzate al fine di apportare le modifiche necessarie a far raggiungere all’alunno i traguardi di abilità o competenza previsti nel PEI.
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I risultati delle verifiche vengono utilizzati per la riprogettazione dei percorsi didattici
Ordine di scuola
Primaria
Secondaria di I grado
Secondaria di II grado (PEI differenziato)
Secondaria di II grado (PEI equipollente)
Sempre
48,7
25,0
16,1
16,0
Spesso
31,9
45,0
37,3
42,7
A volte
13,5
25,8
41,3
41,3
Mai
5,9
4,2
5,3
0,0
Tab. 5: Frequenza di utilizzo dei risultati delle prove di verifica per la riprogettazione dei percorsi didattici (V.%)
La tabella n. 5 evidenzia che la scuola primaria è l’ordine di scuola con il valore più alto in merito all’utilizzo costante dei risultati ottenuti dalle prove di verifica per la riprogettazione dei percorsi didattici (48,7%). Rispetto a tale procedura, negli altri livelli scolastici, la percentuale di docenti che ha fornito la risposta sempre, è di molto inferiore (secondaria di I grado 25%, secondaria di II grado/PEI differenziato 9,0%, secondaria di II grado/PEI equipollente 16,0%). In questi ordini di scuola la maggior parte degli insegnanti ha indicato che l’utilizzo dei risultati delle prove per la riprogettazione avviene spesso (secondaria di I grado 45%, secondaria di II grado/PEI differenziato 30,7%, secondaria di II grado/PEI equipollente 42,7%). In questo quadro, il dato che appare più preoccupante è relativo alla presenza di alcune situazioni in cui l’acquisizione dei risultati delle verifiche non viene mai utilizzata per la riprogettazione degli interventi didattici (primaria 5,9%, secondaria di I grado 4,2%, secondaria di II grado/PEI differenziato 7,7%). In questi casi che, pur essendo in una percentuale bassa sono riferiti ad alunni specifici i cui diritti all’istruzione non vengono attuati, ci si chiede come il progetto didattico individualizzato/personalizzato specifico per l’alunno con disabilità possa nascere da una scelta didattica intenzionale compiuta dagli insegnanti per accompagnare i processi di apprendimento degli alunni stimolandoli al miglioramento continuo (DM 16 novembre 2012). In mancanza di un’attività di riprogettazione realizzata sulla base di un esame puntuale della prassi didattica, infatti, non è possibile
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migliorare l’offerta formativa della scuola adeguandola in modi progressivamente sempre più efficaci alle necessità e alle potenzialità di ogni singolo alunno per il quale rappresenta un’insostituibile occasione di crescita e di affermazione di sè.
8. Le modalità di rilevazione attivate per conoscere le caratteristiche degli allievi con disabilità La valutazione degli apprendimenti degli allievi con disabilità necessita dell’impiego ragionato di strumenti di verifica individuati sulla base delle loro caratteristiche metrologiche e della pertinenza con gli obiettivi di apprendimento da sottoporre a misurazione. Nell’ambito delle procedure di controllo dell’apprendimento una questione molto delicata è, dunque, rappresentata dalla scelta degli strumenti conoscitivi. </@%41%@74/M1P76-/%3/7%47M/447%7-7P7147%37%1II@/-379/-;6#%.687147PP1P76-/%/%1H;6-6971%3/047%14H--7%86-%37.1K747;N% ?%I@/M7.;1%B%B%B%B%%
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Primaria
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117
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Fig. 5: Modalità di rilevazione dei livelli di apprendimento (V.%)
Come si evince dalla figura n. 5, nella scuola primaria gli elementi conoscitivi degli alunni vengono ricavati prevalentemente dai colloqui con le famiglie (78,4%), dall’osservazione sistematica (74,3%), dai contatti con le scuole di provenienza (58,1%) e dalla somministrazione di prove (56,8%). Nella scuola secondaria di I e di II grado la somministrazione di prove viene utilizzata nella totalità dei casi (100%), segue l’osservazione sistematica utilizzata rispettivamente nel 85,5% e nel 93, 2% dei casi e i colloqui con le famiglie (secondaria di I grado 82,1%, secondaria di II grado 80,7%). I contatti con le scuole di provenienza rappresentano fonti di informazione rispettivamente nel 63,2% e nel 45,8% delle situazioni. Nella secondaria di II grado, un numero consistente di insegnanti ha dichiarato di non sapere con quale modalità venga realizzata la rilevazione dei livelli iniziali di apprendimento, socializzazione e autonomia degli alunni e delle alunne con disabilità (67,6%).
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Strumenti utilizzati per la verifica Prove oggettive
Prove semistrutturate
Problem solving legato alla vita reale
Altre prove
Primaria
95,7
67,6
60,0
25,9
Secondaria di I grado
86,3
69,2
47,0
34,2
Secondaria di II grado (PEI differenziato)
100,0
1,5
0,0
1,5
Secondaria di II grado (PEI equipollente)
100,0
0,0
0,0
0,0
Ordine di scuola
Tab. 6: Distribuzione per ordine di scuola degli strumenti utilizzati per la verifica degli apprendimenti (V.%)
118
In relazione alla tipologia di strumenti utilizzati per la verifica nelle scuole del campione, la tabella n. 6 mostra che la scuola primaria e secondaria di I grado, pur nella conferma di una maggiore presenza delle prove oggettive (Domenici, 2003), non esclude le altre tipologie di prove che sono ampiamente rappresentate. Molto diversa la situazione della secondaria di II grado in cui l’utilizzo pressochè esclusivo di strumenti oggettivi, a fronte della validità e dell’attendibilità dei dati che essi consentono di rilevare, appare piuttosto riduttivo rispetto all’opportunità di privilegiare di volta in volta le prove più adeguate alle attività svolte e programmate, ai diversi contesti, agli scopi della verifica e alle funzioni della valutazione. Ordine di scuola Ambiti di utilizzo delle prove oggettive
Primaria
Secondaria di I grado
Secondaria di II grado (PEI differenziato)
Secondaria di II grado (PEI equipollente)
Affettivo-relazionale
3,1
6,6
16,0
12,0
Apprendimento
52,3
46,3
24,7
46,7
Autonomia
6,2
5,0
11,1
4,0
Cognitivo
64,2
62,0
55,6
56,0
Comunicazionale
7,3
5,8
13,6
16,0
Linguistico
45,1
38,0
24,7
18,7
Motorio-prassico
3,6
4,1
6,2
0,0
Non so
2,1
5,8
17,3
16,0
Sensoriale
2,6
1,7
1,2
2,7
In nessuno di questi ambiti
0,0
2,5
2,5
0,0
Tab. 7: Distribuzione per ordine di scuola degli ambiti di utilizzo delle prove oggettive (V.%)
Come evidenziato nella tabella n. 7, le prove oggettive vengono utilizzate in tutti gli ordini di scuola principalmente nell’ambito cognitivo, dell’apprendimento e linguistico. La prevalenza di tali scelte può essere compresa in quanto, al fine di rilevare conoscenze, abilità e competenze di carattere disciplinare, generalmente le prove oggettive possono essere messe a punto secondo gradazioni di difficoltà molto diverse tra di loro. Pertanto, grazie a questa loro flessibilità sono generalmente molto adattabili per la verifica degli obiettivi definiti nel PEI.
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Ordine di scuola Ambiti di utilizzo delle prove
Primaria
Secondaria di I grado
Prove semistrutturate
Primaria
Secondaria di I grado
Prove basate sul Problem solving
Primaria
Secondaria di I grado
Altre tipologie di prove
Affettivo-relazionale
14,7
17,5
34,6
25,9
29,8
15,1
Apprendimento
50,3
30,0
16,2
21,6
19,6
24,5
Autonomia
1,7
8,3
43,2
20,7
23,8
14,2
Cognitivo
37,9
47,5
28,1
31,0
17,3
27,4
Comunicazionale
32,8
21,7
22,7
27,6
11,3
21,7
Linguistico
35,0
32,5
4,3
6,0
10,7
15,1
Motorio-prassico
4,0
4,2
15,7
5,2
29,8
14,2
Non so
4,0
6,7
5,4
9,5
5,4
13,2
Sensoriale
3,4
1,7
2,7
1,7
19,6
7,5
In nessuno di questi ambiti
0,0
2,5
0,5
6,9
2,4
9,4
Tab. 8: Distribuzione per ordine di scuola degli ambiti di utilizzo di prove semistrutturate, di prove basate sul problem solving e di altre tipologie di prove (V.%)
119 Le prove semistrutturate sono utilizzate solo nella scuola primaria e secondaria di I grado (Tab. 8) e vengono impiegate per la rilevazione degli ambiti dell’apprendimento, cognitivo e linguistico con leggere differenze di preferenza nei due ordini di scuola. Le prove semistrutturate sono somministrate solo nella scuola primaria e nella scuola secondaria di I grado in cui vengono impiegate per la rilevazione anche delle acquisizioni superiori ovvero quelle acquisizioni che dipendono dalla qualità delle interazioni interpersonali e che si offrono come il terreno più fertile per lo sviluppo delle funzioni mentali superiori: pensiero concettuale, memoria logica, attenzione spontanea e linguaggio razionale (Chiappetta Cajola, 2005). In considerazione della modificabilità cognitiva anche delle persone con disabilità (feuerstein, Rand, feuerstein, 2005) e del ruolo dei fattori ambientali rispetto allo sviluppo o al potenziamento del «funzionamento umano» (WHO, 2001) sarebbe auspicabile che tali prove, quando le caratteristiche cognitive del soggetto lo consentono, venissero impiegate anche nella scuola secondaria di II grado per acquisire informazioni non ottenibili con le prove oggettive e adeguare, con sempre maggior puntualità, le azioni didattiche agli obiettivi fissati nel PEI. Anche le prove basate sul problem solving legato alla vita reale vengono utilizzate solo nella scuola primaria e nella scuola secondaria di I grado (Tab. 8). Nella scuola primaria riguardano principalmente gli ambiti dell’autonomia, affettivorelazionale, e cognitivo e nella scuola secondaria gli ambiti comunicazionale, affettivo-relazionale e dell’apprendimento. La diversa distribuzione nei due ordini di scuola, e soprattutto l’utilizzo prevalente nella secondaria di I grado di queste prove nell’ambito comunicazionale piuttosto che dell’autonomia, rivela come in tale ordine di scuola, la crescita degli alunni conduca i docenti a spostare l’attenzione dagli aspetti di autonomia personale e sociale, su cui si interviene moltissimo e probabilmente in modo efficace nella scuola primaria, ad aspetti più generalmente riferibili alla gestione della comunicazione interpersonale. Nella scuola secondaria di I grado, infatti, tali aspetti si manifestano nel saper interagire in modo sempre più autonomo nel corso di interazioni che, in questo contesto, rivestono un carattere più formale. In questo caso, l’assenza di queste tipologie di prove nella scuola secondaria di II grado può far pensare che le questioni legate alla gestione
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120
autonoma di se stessi e delle interazioni sociali, pur sicuramente presenti almeno nell’azione didattica per gli alunni con una disabilità medio-grave, non siano considerati nel corso dei processi valutativi. In relazione all’utilizzo di altre tipologie di prove14, la tabella n. 8 mostra che esse vengono utilizzate, nella scuola primaria, principalmente negli ambiti motorio-prassico, affettivo-relazionale, dell’autonomia e, nella scuola secondaria, negli ambiti cognitivo, dell’apprendimento e comunicazionale. La presenza esclusiva nella scuola primaria dell’utilizzo di questa tipologia di prove di verifica, rispetto agli ambiti motorio-prassico e affettivo relazionale, fa presumere che, nella scuola secondaria di I grado e di II grado, il raggiungimento di obiettivi importantissimi per lo sviluppo degli allievi con disabilità non viene sottoposto a controllo. Tra le possibili motivazioni non si può non pensare che il prevalere dei saperi formali e l’organizzazione tipica della scuola secondaria di I grado che, generalmente, spinge a distribuire le ore di sostegno in corrispondenza delle discipline ritenute “più importanti”, non valorizzi gli aspetti corporei, espressivi e ludici dell’esperienza di apprendimento come risorse essenziali, ad esempio, per la promozione dei potenziali di apprendimento e di socializzazione degli allievi con disabilità anche nell’ambito di attività comuni alla classe. Infatti, nonostante l’importanza attribuita in letteratura alla dimensione ludica della didattica e la valenza delle sue caratteristiche nell’ambito di interventi mirati all’inclusione, spesso la dimensione ludica e creativa non viene considerata come una risorsa dei percorsi didattici che si svolgono a scuola, soprattutto nella scuola secondaria15. Ordine di scuola Modalità con cui vengono reperite le prove di verifica
Primaria
Secondaria di I grado
Secondaria di II grado (PEI differenziato)
Secondaria di II grado (PEI equipollente)
Appositamente ideate e costruite
44,4
65,3
59,0
61,7
Adattate da riviste/libri specializzati
36,0
18,2
19,2
12,3
Tratte da riviste/libri specializzati
14,3
9,1
9,0
6,8
Tratte da documentazione presente in archivio
3,7
4,1
1,3
4,2
Non so
1,6
3,3
11,5
12,3
Tab. 9: Distribuzione per ordine di scuola delle modalità di reperimento delle prove di verifica (V.%)
14 Queste prove possono prevedere l’esecuzione autonoma, su sollecitazione oppure con l’aiuto di un adulto o di un compagno di attività pratiche, informatiche, motorie, grafico-pittoriche, musicali ed anche lo svolgimento di giochi (Chiappetta Cajola, 2012). 15 A tale proposito, con la Seoul Agenda: Goals for the Development of Arts Education anche l’UNESCO ha ribadito l’importanza dell’educazione artistico-espressiva per la trasformazione dei sistemi educativi che attualmente sono impegnati ad incontrare i bisogni degli studenti in un mondo caratterizzato sia da rapidi cambiamenti sia da ingiustizie sociali e culturali. Il target group dell’educazione artistica viene infatti individuato in modo specifico nelle persone “svantaggiate” tra cui sono indicate anche le persone con disabilità, i poveri, gli immigranti e i rifugiati, gli indigeni, i bambini e i ragazzi esclusi dai percorsi formativi, i carcerati (UNESCO-KACES, 2010).
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Rispetto al reperimento delle prove di verifica, i diversi ordini di scuola esprimono un orientamento comune. Nella maggioranza dei casi, infatti, le prove vengono ideate e costruite appositamente dagli insegnanti o da questi adattate sulla base delle caratteristiche specifiche degli allievi con disabilità. Le peculiarità dei singoli rende infatti molto difficile usare senza nessuna modifica le prove presenti nelle riviste o nei testi specializzati. Solo una percentuale molto bassa utilizza le prove di verifica presenti in un apposito archivio della scuola. Le motivazioni possono essere riferibili sia alla necessità di un’alta individualizzazione/personalizzazione dei percorsi formativo-valutativi, sia alla difficoltà di dedicare tempi e spazi ad un’archiviazione delle prove che possa poi consentirne un’agevole consultazione. F47%.;@H9/-2%H247PP12%I/@%41%M/@7O81%3/047%1II@/-379/-2%I/@%047%14H--7%86-%37.1K747;N%.6-6%86-37M7.7%7-%./3/%37B%B%B%B%% G)#$% ($#G%
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Fig. 6: Luoghi e sedi di condivisione degli strumenti utilizzati per la verifica degli apprendimenti (V.%)
Rispetto ai luoghi istituzionali in cui si realizza la condivisione degli strumenti di verifica, la figura n. 6 mostra che, in ogni ordine di scuola, la sede privilegiata di tale condivisione è il Consiglio di Classe/Interclasse seguito dal GLHO16, dal GLH d’Istituto e dal Dipartimento per le tematiche della disabilità. Poco rilevante appare il ruolo attribuito al Collegio dei docenti. Tale orientamento è stato peraltro confermato nelle interviste face to face realizzate ai Dirigenti Scolastici. Inoltre dai dati quantitativi è emerso che le modalità di verifica e di valutazione sono indicate nei PEI degli allievi con disabilità nell’85,4% dei casi della scuola primaria, nel 89,3 % dei casi della scuola secondaria di I grado e nel 84,2% di quelli della scuola secondaria di II grado. Seppure tali modalità siano dichiarate in un elevato numero di PEI, questi dati indicano che esistono ancora delle situazioni in cui il carattere dinamico che dovrebbe caratterizzare anche questo documento viene vanificato. In mancanza di una indicazione puntuale, rigorosa e condivisa delle modalità con cui rilevare e valutare gli esiti dell’apprendimento, l’eventuale modifica delle linee di intervento e delle strategie metodologico-didattiche presentate nel piano educativo non potrà essere elaborata sulla base di precisi punti di riferimento e in modo coordinato tra gli insegnanti. L’azione didattica intrapresa gior-
16 Il GLHO è un gruppo di lavoro che si costituisce per ogni alunno con disabilità nell’ottica della corresponsabilità educativa di tutti gli insegnanti e in un rapporto costruttivo con gli operatori sanitari, con la famiglia e con altre figure professionali che interagiscono con il soggetto (Assistenti Educativi Culturali, assistenti alla comunicazione, musicoterapisti, ecc.). (DPR del 24 febbraio 1994, CM 258/1983 Legge 104/92, MIUR 2009).
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no dopo giorno e, più in generale l’intera impostazione didattica, non potrà, quindi, che risultare poco pertinente, disorganica e improduttiva e si porrà come un ostacolo allo sviluppo delle abilità, delle conoscenze e delle competenze dell’allievo con disabilità.
9. Osservazioni e prospettive Sintetizzando i risultati emersi, si può affermare che nella scuola attuale sono ancora presenti numerose criticità relative al controllo dei processi di apprendimento che ostacolano la realizzazione di una piena e virtuosa circolarità tra i processi valutativi e la progettazione didattica in direzione inclusiva. Pur a distanza di tanti anni dalla promulgazione della legge quadro 104/92, si è infatti, constatato che – la Df non è sempre presente tra la documentazione in possesso della scuola; – la scuola non partecipa in modo costante alla redazione del PDf; – nel PEI non sempre sono indicate le modalità di verifica e di valutazione.
122
Tra le questioni ancora aperte permane, inoltre, una carenza di collaborazione tra gli insegnanti in servizio su posto comune e di sostegno a conferma di una situazione già da tempo accertata17. In relazione alle modalità con cui vengono verificati gli apprendimenti degli alunni con disabilità, dai risultati di ricerca è anche emerso che vi è la necessità di incrementare la predisposizione dei criteri di accettabilità delle risposte e di investire i risultati delle verifiche nella riprogettazione del PEI. Complessivamente, quindi, in una visione prospettica di full inclusion, emergono ancora delle difficoltà da parte della scuola di dare risposte ai diritti di piena partecipazione ed apprendimento degli allievi con disabilità. In questo quadro, appare cruciale investire nel miglioramento della formazione iniziale e in servizio degli insegnanti finalizzandola ad acquisire le modalità più appropriate ed efficaci per poter affrontare le diversità degli studenti18. Nell’ambito di tale formazione, lo sviluppo di una competenza esperta nella lettura contestualizzata delle caratteristiche degli alunni con disabilità, faciliterebbe nei docenti la messa in relazione dei risultati dei processi di apprendimento con le condizioni in cui questi si sono verificati e, di conseguenza, una progettazione inclusiva. A tal proposito, come peraltro sostenuto dall’attuale normativa sull’inclusione (MIUR 2009, 2012, 2013; Dm 30 settembre 2011), si ritiene che l’ICf-Cy (WHO 2007) possa offrire un contributo molto valido non soltanto per la diffusione tra gli insegnanti di una maggiore consapevolezza su quanto i dispositivi didattici e valutativi impiegati assumano, il ruolo di “barriere” o di “facilitatori”, ma anche per la costruzione di strumenti di osservazione e di rilevazione che consentano la
17 Chiappetta Cajola, 2007; Canevaro, d’Alonzo, Ianes, 2009; Associazione Treelle et al., 2011; Ianes, 2014. 18 Il bisogno delle scuole di una formazione adeguata, che faciliti la gestione della progettazione curricolare in direzione inclusiva, è emerso anche dal punto di vista di Dirigenti Scolastici che hanno partecipato alla ricerca (Chiappetta Cajola, 2015). Sulle attuali delle modalità di formazione degli insegnanti in servizio si veda la recente legge 107/2015.
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lettura condivisa del contesto e la raccolta e l’interpretazione di dati su quelle che sono state le opzioni maggiormente “facilitanti” (Chiappetta Cajola, 2014). In precedenti ricerche, infatti, è stato verificato che l’impiego dell’ICf-Cy all’interno di una metodologia operativa specificatamente rivolta a supportare l’azione didattica multidisciplinare e la riflessione critica condivisa sui processi inclusivi, si è mostrato utile per superare alcune difficoltà di collaborazione tra insegnanti curricolari e di sostegno in ambito progettuale e valutativo (Chiappetta Cajola, 2013; Chiappetta Cajola & Rizzo, 2014). Quanto esposto apre, anche nella prospettiva dell’Evidence Based Education applicata, pur con le dovute cautele metodologiche, all’ambito educativo speciale (Calvani, 2012; Cottini & Morganti, 2015; Mitchell, 2008), a ulteriori prospettive di ricerca mirate allo sviluppo di strumenti e metodologie di osservazione su base ICf-Cy in grado di favorire la valutazione del rapporto tra i risultati scolastici degli alunni con disabilità e i fattori Ambientali che sono stati attivati e, di conseguenza, la progettazione di interventi didattici in direzione sempre più inclusiva.
Riferimenti bibliografici
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Didattica per competenze nei Licei. Una ricerca collaborativa Scuola-Università Loredana Perla • Università degli Studi di Bari Aldo Moro, loredana.perla@uniba.it Viviana Vinci • Università degli Studi di Bari Aldo Moro, viviana.vinci@uniba.it
Competence-based teaching in Licei (High Schools). A School-University collaborative research Quale Liceo è possibile pensare a partire dall’analisi delle pratiche di progettazione didattica che vi hanno luogo? Quali trasformazioni sono oggi in corso nel sistema dei Licei a seguito dell’assunzione nella didattica del costrutto della “competenza”? È possibile, a partire dalle risultanze di una ricerca-formazione, giungere a formalizzare un modello di progettazione curricolare per competenze ad uso dei Licei italiani? La ricerca “I nuovi Licei alla prova delle competenze. Guida alla Progettazione nel biennio” (Perla, 2014) offre qualche risposta in tal senso. Il contributo presenta i risultati di una ricerca collaborativa che ha coinvolto 21 Licei pugliesi, 21 Dirigenti e 110 insegnanti di varie discipline nella progettazione di un modello didattico per competenze per il primo biennio liceale.
Keywords: competence-based teaching, collaborative research, high schools, training, professional development
Parole chiave: didattica per competenze, ricerca collaborativa, Licei, formazione, sviluppo professionale
Benché il lavoro sia frutto del lavoro congiunto delle due autrici, Loredana Perla ha scritto i paragrafi 1, 2 e 5, Viviana Vinci i paragrafi 3 e 4. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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What kind of Licei (High Schools) can be conceived from the analysis of their educational planning? What kind of transformations are taking place in the Licei system following the incorporation of didactics within the framework of “competence”? Is it possible to develop a competence-based curricular planning model for Italian Licei starting from the results of a research&training project? A research, “I Nuovi Licei alla prova delle competenze. Guida alla Progettazione nel biennio” (New Licei put to the competence test; A guide to de planning of the first two-year period) (Perla, 2014), provides a possible solution. This paper shows the results of a collaborative research that involved 21 Licei in Apulia, 21 school heads and 110 teachers in different subjects aimed at the development of a competence-based educational model for the first two-year period of Licei.
Didattica per competenze nei Licei. Una ricerca collaborativa Scuola-Università
1. Progettare per competenze nel curricolo liceale
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La standardizzazione dei sistemi scolastici europei nei traguardi di apprendimenti in uscita degli studenti ha portato, com’è noto, al tentativo di “conformare” i curricola della Scuola italiana all’istanza di sviluppo, definita nelle Raccomandazioni del Parlamento Europeo del Consiglio del 23 agosto 2008, di competenze chiave per l’apprendimento permanente. La Scuola, con la didattica delle competenze, si pone oggi il problema di far apprendere agli allievi saperi trasferibili e un atteggiamento che implichi profondamente le meta-abilità cognitive del transfert, l’auto-regolazione, l’imparare ad imparare. Si tratta di abilità metacognitive preziose che facilitano l’apprendimento degli studenti e che richiedono un puntuale “lavoro” insegnativo di progettazione e mediazione: ciò che Tardif e Meirieu chiamano désétayage o “esercizio del transfert” (Tardif, Meirieu, 1996), ossia la ricerca di tutte le possibili connessioni delle conoscenze e degli apprendimenti disciplinari con le pratiche sociali. Il curricolo per competenze non mette fra parentesi le conoscenze disciplinari, ma non le ritiene più sufficienti per il buon “funzionamento” cognitivo degli allievi, i quali maturano un gran numero di apprendimenti informali nei contesti di “vita reale”. Se pensiamo ad una curricolazione scolastica capace di finalizzare le conoscenze apprese anche in termini di competenze spendibili nel mondo delle professioni, la sfida più grande appare il Curricolo liceale, tradizionalmente articolato per conoscenze e abilità (indicate peraltro dai Programmi ministeriali, fonti alle quali le Scuole hanno attinto per organizzare il curricolo in direzione perlopiù monodisciplinare). Letti dalla prospettiva tradizionale degli studi liceali, “Liceo” e “competenza” paiono lemmi semanticamente e storicamente distanti: per un verso il Liceo costituisce un istituto di antichissima tradizione che offre una formazione non specialistica, facente leva soprattutto sulla razionalità teoretica (dal verbo greco theoréo, osservo, vedo), interrogando la realtà con una logica che oggi diremmo epistemica e scientifica; di contro la competenza ha un significato tutto “moderno”, che fa leva su una razionalità soprattutto pratica e su una logica tecnica che, pur non annullando quella teorica, ha le sue “radici” nell’esperienza, in un agire allenato sull’esempio, nella mobilisation (Le Boterf, 1994, p. 20), ovvero un’attivazione autonoma di risorse personali in forme adattate alle circostanze. Come connettere, dunque, il mandato formativo tradizionale e universale dei Licei con le istanze pratiche di una formazione attenta agli specialismi, ai saperi d’esperienza, all’apprendistato, all’alternanza scuola-lavoro, in una parola: all’apprendere per competenze e non più solo per conoscenze? Quali saperi far apprendere (e come insegnarli) per rispondere alle istanze di una “società conoscitiva” (Cresson, Flinn, 1996) le cui mutazioni incrementano giorno per giorno le possibilità di ciascuno di accedere al sapere e di imparare? Tali domande hanno dato il via alla ricerca “I Nuovi Licei alla prova delle competenze” (Perla, 2014), finalizzata a delineare un possibile modello di accompagnamento didattico per supportare i docenti liceali a “ragionare” sul mondo della
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competenza, sulle rifrazioni didattiche e sulle innovazioni metodologiche che la didattica delle competenze inevitabilmente introduce nelle pratiche d’aula quotidiane della scuola secondaria superiore. Soprattutto, si tratta di ragionare sul modo di intendere e strutturare il curricolo (Dewey, 1902; Bobbit, 1918; 1924; Tyler, 1949; Pinar, 2003), riguardato nella sua doppia valenza teorico-pratica, come percorso formativo intenzionalmente pensato e realizzato da un certo grado scolastico, comprendente l’intero arco di esperienze, consapevoli e inconsapevoli, che si verificano nell’ambiente educativo della scuola (Scurati, 1990) – quindi il complesso dei contenuti, degli strumenti, delle risorse, degli ambienti allestiti dagli insegnanti al fine di far conseguire agli allievi gli obiettivi formativi prescritti dai Programmi ministeriali e declinati nel POF e nella programmazione – ma, anche, come dispositivo evolutivo chiave per progettare la formazione scolastica, flessibile e permeabile alle trasformazioni indotte nei saperi dai processi socio-culturali di un mondo sempre più globalizzato. Sino ad oggi, la progettazione della formazione attraverso il dispositivo del curricolo scolastico è stata solitamente pensata seguendo la “logica” degli obiettivi e la “drammaturgia” di due fasi operative, macroprogettazione e microprogettazione, svolte perlopiù in sequenza e nell’ambito delle autonomie delle Scuole. L’ipotesi dalla quale siamo partiti (che ha costituito anche l’unità di analisi della ricerca e il punto di partenza del lavoro) è che il luogo primo in cui sarebbe opportuno che gli insegnanti cominciassero ad accostare il tema della didattica delle competenze è proprio quello della progettazione curricolare. Le motivazioni che sottendono tale ipotesi sono fondamentalmente due. La prima attiene alle proprietà euristiche del curricolo, assunto come dispositivo strutturante l’agire didattico, quindi come strumento “per pensare e organizzare la formazione scolastica” (Baldacci, 2006, p. 68), che induce i docenti a ragionare sulle componenti costitutive del discorso didattico, a cominciare dal rapporto fra saperi da insegnare e mediatori di insegnamento: un rapporto che è necessario ripensare in una progettazione curricolare liceale in funzione di una didattica delle competenze, a partire dalla costruzione di situazioni-problema che mettano gli studenti in condizione di mobilitare e finalizzare le proprie conoscenze. La seconda ragione attiene alla volontà di scardinare un pregiudizio diffuso nella cultura di Scuola, ossia che esista un’insuperabile dicotomia fra Licei, intesi come “scuole della conoscenza”, e Istituti tecnici e professionali, come “scuole della competenza”. La progettazione curricolare liceale – sulla base della Riforma dei Licei che pone in relazione le competenze in uscita dall’obbligo con gli assi culturali – rappresenta proprio il “luogo” in cui coniugare la funzione fortemente identitaria della cultura liceale tradizionale con le innovazioni delle professioni, del mercato del lavoro, del Quadro europeo dei Titoli e delle Qualifiche. La progettazione curricolare costituisce un “organizzatore” didattico che struttura la pratica insegnante e che, se analizzato, consente di comprendere, appunto, come la pratica insegnante venga organizzata. Di seguito due macro-obiettivi da cui è discesa l’articolazione del progetto di ricerca-formazione: – passare da una didattica fondata soltanto su contenuti e strutture disciplinari ad una didattica volta a favorire negli studenti lo sviluppo di competenze, comprendendo come ogni disciplina “concorra ad integrare un percorso di acquisizione di conoscenze e competenze molteplici, la cui consistenza e coerenza è garantita proprio dalla salvaguardia degli statuti epistemici dei singoli domini disciplinari”, pur garantendo i risultati di apprendimento comuni all’istruzione liceale, divisi nelle cinque aree (metodologica; logico-argomentativa; linguistica e comunicativa; storico-umanistica; scientifica, matematica e tecnologica)
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contenute nel Profilo educativo, culturale e professionale dei Licei, Allegato A al D.P.R. 15 marzo 2010, n. 89; – accompagnare i docenti nell’acquisizione degli strumenti idonei a saper progettare e valutare per competenze, valorizzando, per un verso, la funzione dei dipartimenti per il sostegno alla progettazione formativa e alla didattica (soprattutto dipartimenti interdisciplinari per il dialogo e il confronto nell’ottica di una didattica per competenze che superi il disciplinarismo e la settorialità), per altro verso, valorizzando la pratica del confronto e della dialettica con l’Università, in grado di agevolare la costituzione di comitati scientifici per l’organizzazione e l’utilizzazione degli spazi di autonomia e flessibilità, per favorire la riflessione sulle pratiche didattiche, oltreché la produzione, documentazione, validazione e disseminazione di pratiche e materiali didattici.
2. L’impianto della ricerca a statuto collaborativo
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Il progetto, concepito in sinergia con l’Ufficio Scolastico Regionale della Puglia, nella persona della dott.ssa Lucrezia Stellacci, ha potuto giovarsi di competenze plurime e di uno statuto che ha messo al lavoro, in posture diverse ma con responsabilità condivise, un gruppo comprendente ricercatori, dirigenti e docenti. Si tratta di DidaSco (Didattiche Scolastiche), un gruppo di ricerca – costituito da docenti universitari di varie discipline, ricercatori, dirigenti e insegnanti – nato nel 2010, presso l’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, con l’obiettivo di elaborare risposte di tipo progettuale a richieste di formazione-ricerca emergenti dal territorio pugliese. Il percorso con i 21 Licei ha avuto il suo abbrivio nella consapevolezza comune che la qualità della formazione offerta dalla Scuola non possa mai prescindere dalla variabile – ad essa strettamente correlata – di una didattica professionale rivolta allo sviluppo permanente del docente, secondo statuti diversi da quelli che hanno regolato la modellistica di settore sino ad oggi (Perla, 2011). Lo statuto della ricerca-formazione è stato di tipo collaborativo, maturato nell’ambito degli studi franco-canadesi sulla formazione degli insegnanti alla metà degli anni ’90, ponendo tre soggettività in dialogo: didatta generale, didatta disciplinare, insegnante, implicate pariteticamente, sia pure con posture diverse, di fronte al medesimo oggetto di studio (Perla, 2010, 2011, 2012). L’intento è quello di trasformare la realtà didattica mentre si fa ricerca con gli insegnanti, ma anche quello di formare gli stessi insegnanti mentre si fa ricerca. La cornice più ampia in cui si inscrive tale framework è quello della didattica professionale (Vinatier, Altet, 2008; Calderhead 1992; Pastré, 2002; Pastré 2008; Ria, Leblanc, Serres, Durand, 2006; Perla, 2012), adottando un protocollo fenomenologico self- study (Loughran, Hamilton, Laboskey, Russell, 2004; Hamilton et al., 1998; Perla 2010) che ha fatto leva su dispositivi dell’analisi di pratica (Altet, 2003; Vinatier, Altet, 2008; Perla, 2005, 2010; Maubant, Martineau, 2011). La cornice teorica della didattica professionale comprende modelli di ricerca-formazione sempre più orientati al riconoscimento del cosiddetto “sapere del pratico” (Perla, 2010, 2011), che muovono da ricerche incentrate sul peso delle conoscenze pre-riflessive e dei saperi incorporati nelle pratiche degli insegnanti, dal “pensiero degli insegnanti” (il Teacher’s Thought) e da tutti quegli elementi che ne sottendono la soggettività e che comprendono credenze, teorie implicite, intenzioni, desideri, sentimenti, memorie: elementi che, pur non essendo esplicitati dal docente, hanno un peso decisivo nell’orientarne relazioni, prese di decisione, declinazione delle regole e gestione della vita di classe quotidiana. La formazione, in tale frame, deve partire dalla valoriz-
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zazione del “sapere del pratico” e connettersi alle problematiche delle pratiche educative, utilizzando metodologie atte a rendere esplicito e condivisibile il sapere del pratico e basandosi sul dialogo riflessivo e partecipativo fra insegnanti e ricerca. Trattandosi di un itinerario di ricerca-formazione finalizzato allo sviluppo professionale del gruppo dei docenti coinvolti, il protocollo è stato ancorato alla finalità di perfezionamento di una razionalità strumentale volta al miglioramento della professionalità degli insegnanti (Aubusson, Schuck, 2008; Maubant, Martineau, 2011; Astolfi, 2008; Lenoir, Vanhulle, 2006; Hasni, Lenoir, Lebeaume, 2006). Nel nostro caso specifico l’expertise coltivata attraverso il percorso di ricerca-formazione è stata il saper progettare per competenze, con una focalizzazione precisa sulle dimensioni agite della progettazione curricolare: scelta dei saperi da far apprendere, costruzione di metodi, ambienti e dispositivi didattici necessari affinché i saperi siano fruibili e appresi, definizione dei raccordi fra discipline, selezione delle modalità di valutazione degli apprendimenti conseguiti. Moduli
Contenuti
Mediatori
I Modulo Analisi assunzioni esplicite e implicite del costrutto di competenza
Confronto fra le assunzioni esplicite e implicite sul costrutto di competenza emergente dal gruppo dei docenti (in questo percorso, “formandi”) e le definizioni normative e scientifiche
Focus-group, scrittur-azioni, questionario
II Modulo La cocostruzione del glossario della didattica per competenze
a) L'alfabeto della didattica per competenze b) Il contesto normativo e i documenti della Riforma dei Licei c) Il cambiamento del "lavoro didattico" nell'apprendimento per competenze d) La riflessione sul proprio “fare scuola”: come insegno? quali mediatori uso? Cosa ritengo indispensabile che gli allievi sappiano? e) Come cambia la "consegna" nella didattica per competenze: imparare “ad assegnare i compiti” in funzione dello sviluppo delle competenze
Pista-glossario lavoro di gruppo in presenza; forum sul come cambia il modo di assegnare una consegna nella didattica per competenza; analisi dei documenti dei Nuovi Licei (DPR 15 marzo 2010 n. 89; Legge 96 del 26 dicembre 2006 n. 296 sull'obbligo di istruzione, art. 1 commi 622, 624, 632; Decreto Ministeriale 27 Gennaio 2010 n. 9 - modello di certificazione; Le Indicazioni nazionali per i licei (biennio e triennio); Decreto ministeriale n. 139 del 22 agosto 2007 (Regolamento recante norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione che prevede quattro assi culturali: l'Asse dei Linguaggi, l'Asse Matematico, l'Asse ScientificoTecnologico, l'Asse Storico-Sociale); le competenze chiave di cittadinanza; il profilo dello studente liceale
III Modulo Analisi di casi di progettazione a partire dalle pratiche
a)
I profili di uscita al termine del primo biennio (articolati per assi culturali e competenze di cittadinanza). b) La mappa delle competenze articolata per assi culturali e competenze di cittadinanza
Studio di caso su pratiche didattiche per competenze realizzate dalle Scuole; lezioni eventuali su didattica laboratoriale; su didattica per progetti; su didattica per problemi; su didattica dell’apprendistato cognitivo in contesti reali; alternanza scuola-lavoro
IV Modulo Progettare, valutare e documentare il curricolo nel primo biennio
a)
Simulazione su una singola competenza. Scheda di descrizione di una competenza; programmazione relativa a una disciplina con discipline concorrenti; progettazione di UdA disciplinari, multidisciplinari, interdisciplinari.
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b) c) d) e) f) g) h) i) j) k) l)
m) n) o)
V Modulo "Discutere" la ricerche
progettazione e la valutazione per competenze
Le condizioni per progettare un curricolo per competenze nel primo biennio: vincoli e potenzialità; vincoli e potenzialità del territorio di appartenenza dell’Istituto; L’ideazione dell’offerta formativa; I cambiamenti nei processi di apprendimento degli allievi; Il ruolo-leader del dirigente nel promuovere la didattica per competenze; Il ruolo intellettuale del docente; Il ruolo strategico dei dipartimenti e dei comitati scientifici; Il ruolo strategico delle connessioni col territorio e delle reti di scuole; Gli ambienti didattici peculiari per lo sviluppo delle competenze; La tecnologia a supporto del lavoro didattico per competenze; La produzione dell'Unità didattica per competenza Come si certifica una competenza secondo gli "assi culturali"; L’impianto valutativo orientato ad apprezzare il livello di sviluppo delle competenze: passaggio da un approccio valutativo analitico a un approccio valutativo olistico; La formatività della valutazione Come costruire una comunità di “pratici in ricerca” con web 2.0, con condivisione e confronto dei materiali prodotti in rete. Come documentare le pratiche realizzate in aula al fine di inferirne tratti comuni utili alla formalizzazione di un modello didattico per competenze spendibile nei Licei.
Silvano Tagliagambe: "L'ambiente didattico come luogo della progettazione per competenze e della convergenza fra cultura scientifica e cultura umanistica" Giuliana Sandrone Boscarino: "Insegnare per sviluppare competenze: dal significato alla valutazione e alla certificazione della competenza" Ernesto Galli della Loggia: "Insegnare la storia"
Dispositivi: format di progettazione; valutazione riflessiva; valutazione dello studente circa gli eventuali cambiamenti derivanti dalle modifiche introdotte.
Seminari tematici
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j) La produzione dell'Unità didattica per competenza k) Come si certifica una competenza secondo gli "assi culturali"; l) L’impianto valutativo orientato ad apprezzare il livello di sviluppo delle competenze: passaggio da un approccio valutativo analitico a un approccio valutativo olistico; m) La formatività della valutazione n) Come costruire una comunità di “pratici in ricerca” con web 2.0, con condivisione e confronto dei materiali prodotti in rete. o) Come documentare le pratiche realizzate in aula al fine di inferirne tratti comuni utili alla formalizzazione di un modello didattico per competenze spendibile nei Licei. V Modulo "Discutere" la progettazione e la valutazione per competenze
Silvano Tagliagambe: "L'ambiente didattico come luogo della progettazione per competenze e della convergenza fra cultura scientifica e cultura umanistica" Giuliana Sandrone Boscarino: "Insegnare per sviluppare competenze: dal significato alla valutazione e alla certificazione della competenza" Ernesto Galli della Loggia: "Insegnare la storia" Gino Roncaglia: "Libro, didattica, competenze e mondo digitale"
Seminari tematici
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Tab. 1: Articolazione del percorso formativo: moduli, contenuti, mediatori
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Come si evince dalla tabella esemplificativa dell’articolazione del percorso, la sperimentazione ha previsto: – una prima fase della ricerca (modulo I) dedicata all’esplicitazione del punto di vista dei docenti coinvolti in ordine ai significati attribuiti al costrutto della competenza nelle pratiche didattiche ordinarie dell’insegnamento liceale: in questa fase, come si approfondirà successivamente, sono stati utilizzati diversi strumenti, ossia focus-group, questionari, scrittur-azioni (cfr. par. 3), finalizzati ad accogliere la “voce docente” e a far emergere il “pensiero del pratico” (Perla, 2010); – una seconda fase (moduli II/V) dedicata alla co-costruzione di un dispositivo di accompagnamento alla progettazione per competenze nel primo biennio liceale. Questa fase, come si approfondirà nel paragrafo 4, ha visto i docenti partecipanti alla sperimentazione impegnati nell’analisi dei docenti della Riforma liceale, nello studio di un Glossario sulla didattica per competenze, nella partecipazione a seminari tematici di approfondimento, nella analisi critica e nell’utilizzo del Format progettuale proposto: questa fase ha avuto come esito la formalizzazione di 120 Unità di Competenza. Vediamo specificamente la prima fase del progetto di ricerca-formazione.
3. L’analisi delle pratiche ordinarie di progettazione liceale nella ricerca-formazione: focus group, questionari, scrittur-AZIONI Il percorso di ricerca-formazione è stato avviato nell’anno scolastico 2011-2012 e ha coinvolto, assieme al gruppo di ricerca DidaSco, 21 Licei pugliesi, 21 Dirigenti e 110 docenti di varie discipline. Nella convinzione che la progettazione costituisca per l’insegnante – insieme all’azione e alla valutazione – una delle dimensioni fondative dell’evento didattico (Cerri, 2012), si è scelto di focalizzare, come specifica unità di analisi, la pratica della progettazione curricolare. La scelta si lega anche alla constatazione dei molteplici significati attribuiti al concetto di curricolo organizzato per competenze, da cui discendono differenti pratiche di “fare scuola” e nuove didattiche (Scurati, 2008). Una scelta non semplice, se si pensa alle condizioni e “criticità” contestuali che la sottendono: la mancanza di una definizione univoca e accreditata in ambito pedagogico-didattico del sintagma “competenza scolastica”; la mancanza di un “tempo scuola” adeguato per la realizzazione di un curricolo per competenze, che richiede invece una rimodulazione radicale dell’organizzazione di tempi e spazi del “fare Scuola” (Damiano, 2013 Perrenoud, 2010); la mancanza, soprattutto nei Licei (ma non solo), di una cultura del “patto di apprendimento con gli studenti”, indispensabile in tutti i “competence based approach” (Perrenoud, 1996).
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A partire dall’analisi del lavoro di un gruppo di docenti liceali intorno alle azioni implicate dalla pratica della progettazione, si è inteso esplorare anzitutto i significati connessi al costrutto di competenza eppoi di analizzare il lavoro sommerso ed esplicito implicato dalla declinazione di tale costrutto nella pratica della progettazione, tentando di coglierlo attraverso l’utilizzo di vari strumenti. Il primo consiste in un questionario “esplorativo” sulla didattica per competenze, composto di quattro sezioni: 1) una anagrafica, contenente variabili descrittive della popolazione di riferimento; 2) una dedicata alla definizione del concetto di competenza a partire dal profilo dello studente in uscita, dai tratti che la caratterizzano e dalle criticità maggiori riscontrate dagli insegnanti rispetto all’introduzione della “cultura didattica della competenza” nei Licei; 3) una sulla progettazione, finalizzata a comprendere se gli insegnanti progettano e valutano per competenze e, se lo fanno, attraverso quali strumenti e secondo quali convinzioni; 4) una sezione, infine, focalizzata sulle strategie didattiche e sui metodi ritenuti più efficaci nella promozione della competenza. I dati sono stati analizzati per mezzo del software SPSS e hanno mostrato importanti risultanze circa le rappresentazioni dei docenti sulla didattica per competenze nei Licei. I questionari validi analizzati sono 93. Il gruppo di rispondenti al questionario è composto da 93 insegnanti aventi una età media di 48,97 anni (con una distribuzione maggiore nella fascia di età fra i 40-50 con il 46,7% e in quella fra 51-62 anni con il 44,6%, contro l’8,6% di insegnanti “giovani” con età compresa fra i 30-38 anni), di sesso prevalentemente femminile (80,6%), con una anzianità media di insegnamento di 21,22 anni (la percentuale maggiore, pari al 68,1% dei rispondenti, ha da 16 a 29 anni di insegnamento, a fronte del 18,7% di insegnanti aventi fino a 15 anni e il 13,2% di insegnanti aventi da 30 a 40 anni di esperienza lavorativa). Le discipline insegnate afferiscono prevalentemente l’asse dei linguaggi (Lettere con il 34,8%, Inglese con il 12%, seguite da percentuali minori delle lingue Francese e Spagnolo, del Latino e del Greco), a cui seguono l’asse matematico (Matematica e Fisica con il 18,5%), l’asse storico-sociale (Filosofia e storia 9,8%, Religione cattolica con il 5,4%, Psicologia ed Educazione fisica in percentuali minori) e, infine, l’asse scientifico-tecnologico (Scienze con il 13%). I rispondenti sono ben distribuiti territorialmente nei quattro raggruppamenti della sperimentazione (i cosiddetti “Poli”): il 26,9% proviene da scuole del gruppo BARI 1, il 26,9% proviene da scuole del gruppo BARI 2, il 23,7% proviene dal gruppo BAT – comprendenti le provincie di Barletta-Andria-Trani – il 22,6% proviene dal gruppo TARANTO. Fra le varie domande analizzate, una, in particolare, appare di grande interesse perché volta a comprendere come gli insegnanti progettano per competenze, da dove “partono”, quale logica seguono (a partire dai contenuti, dai documenti ministeriali, dalle abilità, ecc.).
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Per progettare per competenze occorre: 1. Pensare a un tema intorno al quale aggregare i contenuti 2. Individuare le abilità (skills) 3. Leggere attentamente il documento ministeriale sull'obbligo d'istruzione 4. Far "toccare" le discipline ai loro confini 5. "Cominciare dalla fine": si parte dall'approdo 6. Uscire dall'autoreferenzialità del lavoro individuale 7. Pensare a situazioni-problema che mettano lo studente in condizione di sfidarsi di fronte alla complessità 8. Aiutare lo studente a comprendere il senso del suo apprendere 9. Partire dalle competenze di cittadinanza, incrociarle con gli assi culturali, per arrivare alla definizione di competenze disciplinari 10. Partire dalle competenze disciplinari, incrociarle con gli assi culturali, per arrivare alle competenze di cittadinanza
N
Minimum
Maximum
Mean
90 91
1 4
10 10
6,41 8,36
Std. Dev. 2,435 1,442
89
1
10
7,10
2,454
75 87 92
1 1 1
10 10 10
6,47 5,92 8,47
2,158 2,484 1,824
91
5
10
8,91
1,208
92
2
10
9,16
1,179
92
1
10
7,61
2,219
90
1
10
7,54
2,632
!
Tab. 2: “Logiche” della progettazione per competenze
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Dall’analisi dei dati si evince come il passaggio alla progettazione per competenze passi, secondo gli insegnanti rispondenti, attraverso l’aiutare lo studente a comprendere il senso del suo apprendere (item 8.8, Mean 9,16), il pensare a situazioni-problema che mettano lo studente in condizione di sfidarsi di fronte alla complessità (item 8.7, Mean 8,91), l’uscire dall’autoreferenzialità del lavoro individuale (item 8.6, Mean 8,47). Interessante notare come non ci sia sostanziale differenza fra gli item di risposta 8.9 e 8.10, che invece definiscono due logiche di progettazione diverse: la prima che parte dalle competenze di cittadinanza, incrociate con gli assi culturali, per arrivare a definire le competenze disciplinari (Mean 7, 61), la seconda che parte dalle competenze disciplinari, incrociate con gli assi culturali, per arrivare a definire le competenze di cittadinanza (Mean 7,54). Significativo il giudizio medio più basso, il “cominciare dalla fine”: partire dall’approdo (item 8.5, Mean 5,92) che, invece, rappresenta una logica progettuale molto importante nella didattica per competenze. Anche la domanda successiva, incentrata sui fattori che hanno contribuito nel delineare il modello di insegnamento liceale dei rispondenti è di un certo interesse (soprattutto se pensiamo in termini di formazione e sviluppo professionale), in quanto mostra come fattori prevalenti l’attenzione per lo studente e i suoi bisogni (item 12.3, Mean 9,26, Std. Dev. 0,8), la ricerca di metodi per rendere più efficace il mio insegnamento (item 12.6, Mean 9,04, Std. Dev. 0,9), lo studio personale (item 12.4, Mean 8,96) e l’attenzione al sapere che insegno (item 12.9, Mean 8,8), mentre sottolinea un giudizio medio nettamente più basso per quanto attiene i modelli di insegnamento dei miei maestri (item 12.5, Mean 6,25). Quanto i seguenti fattori hanno contribuito alla delineazione del tuo modello di insegnamento liceale? 1. L'autoriflessività 2. L'aggiornamento e lo scambio fra colleghi 3. L'attenzione per lo studente e i suoi bisogni 4. Lo studio personale 5. I modelli di insegnamento dei miei maestri 6. La ricerca di metodi per rendere più efficace il mio insegnamento 7. La riflessione sul "dopo di noi" degli studi liceali 8. L'attenzione all'orientamento degli studenti 9. L'attenzione al sapere che insegno
N 87 91 92 91 92 92 86 91 91
Minimum Maximum 2 1 7 4 1 7 1 4 5
10 10 10 10 10 10 10 10 10
Mean 8,24 8,23 9,26 8,96 6,25 9,04 7,29 8,05 8,80
Std. Dev. 1,804 1,506 ,888 1,173 2,740 ,960 2,158 1,409 1,301
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Tab. 3: Fattori influenzanti il modello di insegnamento liceale
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Il secondo strumento di analisi utilizzato è stato un focus group incentrato sulle credenze che sottendono la didattica per competenze (destinato anche ai dirigenti coinvolti nella sperimentazione): l’utilizzo di questo strumento – che, com’è noto, permette una focalizzazione di gruppo su un tema o scaletta strutturata di argomenti – ci ha permesso di approfondire la definizione di competenza a partire dall’esperienza d’aula, la progettazione per competenze e in particolare il ruolo delle discipline e delle strategie didattiche più efficaci nella promozione della competenza. Le discussioni emerse durante i focus group sono state tutte registrate, trascritte fedelmente – assieme alle note prodotte dall’osservatore sulle dinamiche interpersonali e le interazioni gruppali – e analizzate da un gruppo di tre membri dell’équipe di ricerca DidaSco attraverso due fasi: – una prima fase esplorativa di analisi linguistica computazionale attraverso il software NVivo, in cui sono stati utilizzate le funzioni esplorative della Queries (in particolare la Word Frequency), utili per avere un quadro generale e d’insieme dei concetti-chiave ricorrenti: oltre a “competenza” e “competenze” (utilizzati indistintamente nella forma singolare e plurale), prevalgono alcuni lemmi come essere, ragazzi, conoscenze, scuola, progettazione, difficoltà, abilità, conoscenza, discipline, didattica, contenuti, problema; questa prima fase esplorativa ha permesso di constatare anche il minor “peso”, in termini di frequenza/occorrenza, di termini come “valutazione” (30) rispetto a “progettazione” (68 occorrenze + 34 per “progettare”), così come la predominanza di concetti come “conoscenze” (80 occorrenze al plurale, 50 al singolare) e “contenuti” (50) rispetto a lemmi come “esperienza” (31) o “pratica” (30); – una seconda fase dell’analisi dei dati è stata condotta secondo procedure di analisi qualitativa dei dati di matrice fenomenologica (Mortari, 2010; Perla, 2011; 2012). La codifica dei dati (open coding) è avvenuta attraverso due momenti: una prima concettualizzazione dei dati, cioè una suddivisione del corpus fedelmente trascritto in “unità di testo”, stringhe testuali più o meno brevi o concetti che consentano di nominare fedelmente ed etichettare i fenomeni indagati; una successiva categorizzazione dei dati, cioè l’individuazione di categorie aventi un grado di astrazione e generalizzazione superiore alle unità di testo/concetti, che hanno permesso di raggruppare e confrontare le varie etichette concettuali precedentemente individuate. Si riportano alcune tabelle esemplificative dell’analisi dei focus. Categorie Risoluzione problemi Creatività
di
DEFINIZIONE Competenza (C.) come strategia di risoluzione di problemi C. come capacità creativa di utilizzare le conoscenze
UNITÀ DI TESTO 17. è saper risolvere il problema (…) puoi saperlo tutto il programma ma se non hai acquisito la competenza della risoluzione, della lettura, dell’interpretazione… 13. una capacità creativa, la possibilità di muoversi con flessibilità, creatività e fantasia in quella stessa direzione;
Tab. 4:diEsempio di analisi qualitativa sul concetto di “competenza” Tab. 4: Esempio analisi testuale qualitativatestuale sul concetto di “competenza” CATEGORIE Comprensione Comunicazione Consapevolezza Conoscenza Creatività Insieme di abilità Interdisciplinarità Qualità umana Risoluzione dei problemi
ricerche
DEFINIZIONE Competenza come capacità di comprensione e interpretazione C. come saper comunicare, interagire, comprendere C. come consapevolezza dell’alunno in situazioni difficili C. come prodotto dei contenuti, delle conoscenze C. come capacità creativa di utilizzare le conoscenze C. come insieme complesso di abilità C. derivante da un ragionamento e lavoro interdisciplinare C. come qualità umana che sottende l’azione C. come strategia di risoluzione di problemi
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Tab. 5: Esempi di categorie descrittive del concetto di “competenza” emergenti dall’analisi
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Creatività
C. come capacità creativa di utilizzare le conoscenze
13. una capacità creativa, la possibilità di muoversi con flessibilità, creatività e fantasia in quella stessa direzione;
Tab. 4: Esempio di analisi testuale qualitativa sul concetto di “competenza”
CATEGORIE Comprensione Comunicazione Consapevolezza Conoscenza Creatività Insieme di abilità Interdisciplinarità Qualità umana Risoluzione dei problemi
DEFINIZIONE Competenza come capacità di comprensione e interpretazione C. come saper comunicare, interagire, comprendere C. come consapevolezza dell’alunno in situazioni difficili C. come prodotto dei contenuti, delle conoscenze C. come capacità creativa di utilizzare le conoscenze C. come insieme complesso di abilità C. derivante da un ragionamento e lavoro interdisciplinare C. come qualità umana che sottende l’azione C. come strategia di risoluzione di problemi
5: Esempi categorie descrittive del concetto di “competenza” emergenti dall’analisi Tab. Tab. 5: Esempi didicategorie descrittive del concetto di “competenza” emergenti dall’analisi
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L’analisi qualitativa dei dati testuali trascritti dalle sessioni dei focus group, che ha portato alla estrapolazione di categorie descrittive dei concetti di “competenza”, di “disciplina”, di “progettazione per competenze” e di “strategie didattiche per promuovere la competenza”, ha mostrato un quadro denso di rappresentazioni complesse emergenti dal processo di analisi. Per quanto concerne i significati del concetto di competenza, ad esempio, emergono alcune risultanze interessanti: un’ottica funzionalista-utilitarista che considera la competenza come sapere utile e conoscenza “applicata” nei contesti della vita quotidiana; un’ottica della competenza centrata maggiormente sulla persona, intesa cioè come qualità umana, unica e personale, come capacità di affrontare la vita e di mobilitare e mixare risorse personali e conoscenze; un’ottica che considera la competenza come somma di conoscenze e abilità; un’ottica, ancora, che ritiene la competenza sinonimo di consapevolezza e riflessione. Fra tutte, la rappresentazione prevalente in termini di occorrenza sembra essere la visione della competenza intesa come “sapere pratico” che permette di risolvere problemi, di saper trasferire conoscenze da un contesto ad un altro, utilizzando in maniera creativa le risorse a disposizione. Dall’analisi qualitativa dei dati si evince anche lo stretto legame fra le innumerevoli categorie di significato della progettazione per competenze e altre dimensioni quali la comunicazione, la creatività, l’utilizzo sapiente di strumenti culturali diversi, la flessibilità e l’adattamento, la centralità dello studente, la necessità di lavorare in “rete” (a livello dipartimentale, fra docenti e discipline diverse, fra scuola e territorio). Il concetto meno “categorizzato” nell’analisi qualitativa dei dati trascritti dalle sessioni dei focus group appare il ruolo delle discipline nella progettazione per competenze: dalle poche categorie emergenti – ad esempio “specificità”, “diversificazione”, “linguaggio” – emergono significati che evidenziano la specificità disciplinare e la settorialità di contenuti e linguaggi, poco funzionali al raggiungimento di competenze trasversali e interdisciplinari. Il terzo strumento di analisi, utilizzato per la prima volta dal gruppo DidaSco, è costituito dalle scrittur-AZIONI (micro-scritture riflessive) sulla pratica didattica ordinaria, sulla progettazione e sulla valutazione per competenze. La scrittur-azione (particolare tipologia di scrittura professionale sperimentata per la prima volta in questa ricerca) consiste in una micronarrazione riflessiva e analitica, attraverso un dispositivo in forma di racconto, delle azioni d’aula inerenti i modi di progettare, valutare e gestire la mediazione didattica. Il loro fine è stato quello di far emergere una riflessione da parte dei docenti sul proprio “fare scuola” e sulle seguenti domande: come insegno? Quali mediatori uso? Che cosa ritengo indispensabile che gli allievi sappiano? Tali scrittur-AZIONI sono state suddivise secondo gli assi disciplinari di appartenenza dei docenti (linguistico, matematico, scientifico,
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storico-sociale) e sottoposte ad analisi secondo le procedura previste dalla Grounded Theory (Strauss, Corbin, 1990; Cipriani, 2008; Tarozzi, 2008), basata su un processo di carattere prevalentemente induttivo in cui viene privilegiato il rapporto svincolato il più possibile da teorie a priori con i dati empirici, che vengono raccolti e codificati durante il lavoro di ricerca, al fine di produrre una teoria a base-dati, secondo il “principio di fedeltà al fenomeno” (Mortari, 2007; Perla, 2009, 2010). L’analisi è stata condotta, in maniera triangolata, da tre persone (oltre alle autrici del presente contributo, anche dalla dott.ssa N. Schiavone), al fine di verificare l’attendibilità dalle interpretazioni individuali via via emergenti. La codifica, definita su tre unità di analisi (metodo di insegnamento, modo di progettare e modo di valutare), si è snodata attraverso una serie ordinata di fasi che qui sintetizziamo brevemente, riportandone alcuni estratti esemplificativi in forma tabellare. 1) Open coding: lo scopo di questa prima immersione consiste nello scoprire, nominare e categorizzare il fenomeno, quindi applicare etichette concettuali ai significati emergenti dall’analisi e creare delle categorie di senso per codificare il fenomeno (labelling phenomena) nel processo di generazione della teoria.
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UNITÀ DI TESTO CODIFICA APERTA O ETICHETTAMENTO Nell’ottica di una didattica laboratoriale, o anche Didattica laboratoriale del cosiddetto cooperative learning, mi piace sollecitare la partecipazione e gli interventi dei Cooperative learning ragazzi anche sulla base delle loro esperienze, cercando di fornire agganci con la realtà nel Fornire agganci con la realtà tentativo di far loro rendere conto che la letteratura UNITÀ DI TESTO CODIFICA APERTA O ETICHETTAMENTO non è solo pagina scritta da qualcuno che magari è Nell’ottica di una didattica laboratoriale, o anche Contestualizzzare l’insegnamento Didattica laboratoriale morto tanto tempo fa del cosiddetto cooperative learning, mi piace sollecitare la partecipazione e gli interventi dei Cooperative learning Tab. 6: Estratto unitàinsegnamento” diesperienze, analisi “metodo di insegnamento” Tab. 6:ragazzi Estrattoanche unità di analisi “metodo sulla base delle diloro cercando di fornire agganci con la realtà nel Fornire agganci con la realtà tentativo di far loro rendere conto che la letteratura non è solo pagina scritta da qualcuno che magari è 2) Axial coding: consiste nel riorganizzareContestualizzzare i datiCATEGORIE allo scopo di giungere a conl’insegnamento morto tanto tempo fa CONCETTI nessioni tra le categorie (e tra categorie ed eventuali sotto categorie) elaborate. Approccio cooperativo TaleDidattica codifica è condotta attraverso serie complessa di procedure e comparaTab.laboratoriale 6: Estratto unità di analisi “metodouna di insegnamento” Giochi ruolo e debriefing Metodologie attiveparadigm). zioni chediavviene mediante un paradigma di codifica (coding Cineforum Ascolto di video, filmati CONCETTI CATEGORIE cooperativo Tab. 7:Approccio Estratto dal riepilogo “Open Coding” e base per l’“Axial Coding” - unità di analisi “metodo di insegnamento” Didattica laboratoriale Giochi di ruolo e debriefing Metodologie attive Cineforum Ascolto di video, filmati CODIFICA APERTA E CODIFICA CODIFICA UNITA’ DI TESTO ETICHETTAMENTO ASSIALE SELETTIVA Tab. 7: Estratto dal riepilogo “Open Coding” e base per l’“Axial Coding” – Supporti didattici Tab. 7: Estratto dal riepilogo “Open Coding” e base per l’“Axial Coding” - unità Supporti di analisi “metodo di insegnamento” L’insegnamento del biennio è in gran unità di parte analisi “metodo di insegnamento” didattici Centralità del libro di testo scandito dall’uso dei libri di testo che, principali opportunamente utilizzati, consentono di procedere, da una parte ad un sicuro Dal testo si parte e al testo si consolidamento ed ampliamento delle ritorna 3) Selective coding: selezione di una categoria centrale (Core attorno CODIFICA APERTA E category) CODIFICA UNITA’ DI TESTO morfo-grammaticali e sintattiche, ETICHETTAMENTO ASSIALE allaconoscenze quale devono essere integrate sistematicamente tutte le altre. A questo punto dall’altra assicurano un progressivo del testo e Supporti L’insegnamento del biennio è in gran parte Centralità l’integrazione elementi codificati fino a quel momento può procedere all’inampliamento deldegli vocabolario che, in forma di dell’interpretazione didattici Centralità del basata libro di testo dall’uso dei libri di testo che, spirale, viene ripreso ed arricchito terno discandito una story che è una rappresentazione narrativa a proposito del fenomeno sull’analisi principali opportunamente utilizzati, consentono di Uso diDal supporti documentativi Supporti testuali con centraleprocedere, di studio. Abbiamo infine accompagnato laparte lettura dei da una parte ad un sicuro testo si e al testo si corpus (...) preparo la lezione consultando più testi, e oltre ilritorna libro di testo!! didatticiad integrare consolidamento ed ampliamento delleannotazioni la scrittura di memos, cioè brevi riflessive che servono intendo questo termine in una accezionee sintattiche, integrati ! conoscenze morfo-grammaticali l’operazione diassicurano etichettamento. piuttosto ampia, che comprende immagini dall’altra un progressivo MappeCentralità concettuali del testo e (quadri, fotografie...), a volte musiche, frasi ampliamento del vocabolario che, in forma di dell’interpretazione basata piuttosto lapidarie, secondo me spirale, vienema ripreso ed arricchito sull’analisi Uso di tabelle tematiche e “onnicomprensive” o testi di canzoni, mappe sinottiche Uso di supporti documentativi Supporti concettuali, linee del tempo. Fornisco in ricerche (...) preparo la lezione consultando più testi, e anno IX di| testo numero 16 | didattici Giugno 2016 oltre il libro !! fotocopia il materiale non a disposizione sul intendo questo termine in una accezione Schemi integrati ! di sintesi libro di testo. piuttosto ampia, che comprende immagini Mappe concettuali (quadri, fotografie...), a volte musiche, frasi piuttosto lapidarie, ma secondo me Tab. 8: Esempio di passaggio dall’“Open Coding” alla “Selective Uso di tabelleCoding” tematiche e
Giochi di ruolo e debriefing Cineforum Ascolto di video, filmati
Metodologie attive
Tab. 7: Estratto dal riepilogo “Open Coding” e base per l’“Axial Coding” - unità di analisi “metodo di insegnamento”
CODIFICA APERTA E ETICHETTAMENTO
UNITA’ DI TESTO L’insegnamento del biennio è in gran parte scandito dall’uso dei libri di testo che, opportunamente utilizzati, consentono di procedere, da una parte ad un sicuro consolidamento ed ampliamento delle conoscenze morfo-grammaticali e sintattiche, dall’altra assicurano un progressivo ampliamento del vocabolario che, in forma di spirale, viene ripreso ed arricchito (...) preparo la lezione consultando più testi, e intendo questo termine in una accezione piuttosto ampia, che comprende immagini (quadri, fotografie...), a volte musiche, frasi piuttosto lapidarie, ma secondo me “onnicomprensive” o testi di canzoni, mappe concettuali, linee del tempo. Fornisco in fotocopia il materiale non a disposizione sul libro di testo.
Centralità del libro di testo
CODIFICA ASSIALE Supporti didattici principali
CODIFICA SELETTIVA Supporti didattici
Dal testo si parte e al testo si ritorna Centralità del testo e dell’interpretazione basata sull’analisi Uso di supporti documentativi oltre il libro di testo!!
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Supporti didattici integrati
Mappe concettuali Uso di tabelle tematiche e sinottiche Schemi di sintesi
8: di Esempio di passaggio dall’“Open Tab. 8: Tab. Esempio passaggio dall’“Open Coding” alla “SelectiveCoding” Coding” alla “Selective Coding” !
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Dall’analisi delle scrittur-azioni sono emerse diverse risultanze, interessanti soprattutto nella comparazione fra docenti di diverso asse culturale: è il caso, ad esempio, delle categorie “metodo e strategie” di insegnamento, che vede l’uso prevalente di metodologie attive e cooperative (didattica laboratoriale, circle time, gruppi di lavoro ecc.) fra docenti di asse linguistico e di asse storico-sociale, a differenza dei docenti di asse scientifico e matematico, che sembrano privilegiare le metodologie interattive e l’ausilio di ambienti didattici multimediali. Trasversalmente a tutti gli assi emerge la prevalenza di una logica progettuale per obiettivi, che prende avvio dall’analisi dei bisogni della classe, procede alla definizione di finalità e obiettivi da conseguire coerentemente con le linee indicate dal POF e, soprattutto, definite nei Dipartimenti, per scegliere conseguentemente azioni e strumenti per il raggiungimento di tali obiettivi. Nello spazio riflessivo costituito dalla prima fase di analisi del percorso di ricerca-formazione, abbiamo chiesto ai docenti lo sforzo non lieve di rivisitazione delle logiche programmatorie da sempre utilizzate. La logica della competenza induce, infatti, ad organizzare i saperi da insegnare secondo una criteriologia non più radicata nella sola struttura epistemologica delle discipline, bensì negli esiti attesi: nei cosiddetti “traguardi di competenze”. È un rovesciamento cognitivo dei modi tradizionali di progettare l’insegnamento-apprendimento: lo si pensa a partire dall’arrivo, piuttosto che dalla sorgente dei saperi. È un rovesciamento che pone i docenti dinnanzi al problema del passaggio dal curricolo formale al “curricolo progettato” (Maccario, 2012, p. 147): l’indagine ha dimostrato numerose criticità al riguardo, probabilmente a causa degli interrogativi emergenti dalla quotidianità delle prassi scolastiche liceali circa la plausibilità della competenza nei percorsi generalisti della formazione scolastica. Gli insegnanti hanno dichiarato di avere esperienza di didattica per competenze, del pensare a “compiti in situazione” in cui verificare le competenze degli studenti, la loro autonomia e responsabilità, ma si tratta spesso di esperienze sporadiche, nate dalla volontà del singolo insegnante e “staccate” dalla progettazione curricolare, a volte artatamente preparate per rispondere a situazioni di emergenza (calo di interesse o stanchezza), per “alternare” la didattica tradizionale con giochi, escamotage e metodiche laboratoriali, più divertenti, appassionanti. Al carattere sporadico e stra-ordinario della didattica per competenze nella quotidiana vita d’aula si accompagnano le avvertite criticità della
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scuola (e le difficoltà di modificarla), della strutturazione dei contesti scolastici (tempi, spazi, organizzazione, difficoltà di interazione fra colleghi) e dell’applicazione della normativa ministeriale (soprattutto il rapporto fra contenuti-programmi-tempi). Tutti elementi che non solo non agevolano la didattica per competenze ma, addirittura, le sono d’ostacolo, in un momento cruciale di cambiamento in cui gli insegnanti devono, nonostante le difficoltà, modificare la progettazione didattica a partire dalla promozione e verifica della competenza degli studenti. Fra le criticità emerse con chiarezza, ad esempio: la difficoltà di coniugare la progettazione per competenze a livello temporale rispetto alla definizione delle progettazioni disciplinari (già definite all’avvio dell’anno scolastico); vincoli orari e rigidità curricolare che hanno reso più complesso l’incontro interdisciplinare; la scarsa disponibilità da parte di docenti – già impegnati in percorsi curricolari ed extracurricolari – nel profondere un notevole impegno in termini di tempi e risorse professionali per mettere a punto e/o utilizzare format di progettazione altamente strutturati; la difficoltà di pervenire, nei tempi assai ristretti della collegialità scolastica, ad un piano di lavoro condiviso sull’attività progettuale per competenze; la difficoltà di coniugare progettazioni per competenze con i programmi, con i manuali in adozione, con gli ambienti di apprendimento in uso e a disposizione nelle scuole. Grazie agli esiti ottenuti dall’analisi di focus-group, questionari e scrittur-AZIONI, inoltre, è apparso evidente nel gruppo docente lo scollamento esistente fra il “sapere dichiarato” sulla progettazione per competenze e il “sapere agito” inerente a tale pratica. Se per un verso i docenti hanno attestato un buon livello di conoscenza della nozione “competenza”, per altro verso, la rapida ricognizione delle pratiche di progettazione ordinariamente svolte dagli stessi ha evidenziato, come si è visto, l’ancoraggio a modelli tradizionali di programmazione disciplinare per obiettivi e/o moduli. Si è dunque reso necessario avviare col gruppo un discernimento delle ragioni di questo gap, e ciò ha fatto da preludio al lavoro successivo, quello di scaffolding da parte del gruppo DidaSco, che ha predisposto un “format di progettazione” utile a delineare, agli occhi dei docenti, la sequenza di decisioni necessarie per “costruire” una progettazione per competenze. Lo strumento è stato offerto al gruppo dei docenti a mo’ di “fac-simile di guida alla progettazione” e presentato nei suoi passaggi documentali. Analizziamolo specificatamente.
4. Il dispositivo per progettare il curricolo nel primo biennio liceale Il dispositivo di accompagnamento alla progettazione per competenze nel primo biennio liceale è costituito da “schede tutoriali”, corrispondenti ad altrettante fasi operative di redazione della progettazione. Le schede sono state usate in sequenza, nel senso che l’una è propedeutica alla realizzazione della successiva. Scheda a) – Mappa di descrizione dei risultati di apprendimento comuni in uscita dal Liceo, distinta per indirizzo liceale. La compilazione è a cura del Collegio dei Docenti, dopodiché viene condivisa a livello dipartimentale e interdipartimentale; Scheda b) – Mappa di intersezione discipline-assi. La compilazione è a cura dei singoli Dipartimenti mentre la condivisione avviene a livello interdipartimentale. Questa mappa visualizza con immediatezza le discipline prevalenti nella promozione di una determinata competenza e le discipline che invece semplicemente vi “concorrono”;
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Scheda c) – Matrice degli assi culturali e delle competenze di cittadinanza. È una sintesi operativa del documento sul Nuovo Obbligo d’Istruzione (Decreto n. 139/2007). L’utilità di questa matrice sta nel costituire un riferimento condiviso da tutti i dipartimenti. La sua compilazione avviene prima a livello interdipartimentale, la condivisione è all’interno dei singoli Dipartimenti laddove funge appunto da griglia referenziale complessiva. Scheda d) Matrice d’intersezione Aree/Assi. Questa matrice è costruita ad “imbuto”. Si parte dalle Competenze chiave di cittadinanza (indicate nella Raccomandazione del Parlamento Europeo del Consiglio del 18 dicembre 2006). A queste si fanno seguire i Risultati di Apprendimento comuni a tutti i percorsi liceali che gli studenti devono acquisire alla fine del quinquennio e che costituiscono le competenze in uscita al termine del percorso liceale. Si prosegue con l’indicazione delle Competenze di Asse, delle abilità e delle conoscenze per il primo biennio, così come indicate nel documento sul Nuovo Obbligo. La compilazione di questa matrice avviene all’interno dei Dipartimenti disciplinari. Scheda e) – Matrice Unità di competenza (UdiCo). Si tratta del tassello chiave della progettazione. Che cos’è esattamente una UdiCO? È una proposta metodologica, cioè un’idea che racchiude una serie di indicazioni su come organizzare e gestire l’attività di apprendimento/insegnamento per competenze; è uno strumento documentale e la testimonianza di un evento o processo didattico caratterizzato dall’intenzionalità docente a voler “garantire la trasformazione delle capacità di ciascuno in reali e documentate competenze”. Rispetto all’Unità didattica che costituiva l’unità “molecolare” della progettazione, l’UdiCO (Unità di competenza) è l’unità “molare” nel senso che porta a sintesi – attraverso l’identificazione e realizzazione del compito unitario di apprendimento – il lavoro di contaminazione/incontro multidisciplinare agevolato dalla realizzazione o delle precedenti matrici. Le Unità di competenze sono progettate dal singolo docente (e allora si parlerà di UdiCo a disciplina prevalente) oppure da un team di docenti di varie discipline (e allora si parlerà di UdiCo co-disciplinari). L’insieme di tutte le Unità di competenza – disciplinari e interdisciplinari – costituisce la Progettazione per competenze di classe (organizzata a cascata, dal Collegio ai Dipartimenti alla Classe).
AREA SCIENTIFICA, MATEMATICA E TECNOLOGICA (parametro comune a tutti i Licei) Comprendere il linguaggio formale specifico della matematica, saper utilizzare le procedure tipiche del pensiero matematico, conoscere i contenuti fondamentali delle teorie che sono alla base della descrizione matematica della realtà
I biennio
II BIENNIO
Conosce gli elementi essenziali della statistica; Conosce i principali strumenti di indagine scientifica
Padroneggia gli elementi essenziali della statistica; Sa svolgere semplici indagini di carattere scientifico utilizzando strumenti adeguati
V ANNO Padroneggia gli elementi essenziali della statistica; Sa svolgere e interpretare indagini di carattere scientifico utilizzando strumenti adeguati
9:della Estratto Mappa di descrizione risultati diLiceo apprendimento Tab. 9:Tab. Estratto Mappa didella descrizione dei risultati di apprendimentodei comuni in uscita dal
comuni
in uscita dal Liceo Discipline/ Competenze L1
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ASSE
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Tab. 10: Estratto della Mappa di intersezione discipline-assi!
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Tab. 11: Estratto della Mappa degli assi culturali e delle competenze di cittadinanza
Tab. 9: Estratto della Mappa di descrizione dei risultati di apprendimento comuni in uscita dal Liceo
Tab. 9: Estratto della Mappa di descrizione dei risultati di apprendimento comuni in uscita dal Liceo Tab. 9: Estratto della Mappa di descrizione dei risultati di apprendimento comuni in uscita dal Liceo SCIENTIFICOSTORICO-
Discipline/ Competenze
L1
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ASSE
ASSE
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LINGUISTICO
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ASSE ASSE ASSE ASSE RELIGIONE Tab. 9: Estratto della Mappa di descrizione dei risultati di apprendimento comuni in uscita dal Liceo Discipline/ ASSE ASSE ASSE SCIENTIFICOSTORICOLINGUISTICO MATEMATICO ITALIANO Competenze TECNOLOGICO SOCIALE Discipline/ SCIENTIFICOLINGUA MATEMATICO L1 L2 L3LINGUISTICO L4 L5 L6 M1 M2 M3 M4 S1 S2 S3 G1 Competenze TECNOLOGICO STRANIERA ASSE ASSE ASSE ASSE RELIGIONE L1 L2 L3 L4 L5 L6 M1 M2 M3 M4 S1 S2 STORIA/GEO Discipline/ SCIENTIFICOSTORICOITALIANO LINGUISTICO MATEMATICO MATEMATICA Competenze RELIGIONE TECNOLOGICO SOCIALE LINGUA L1 L2 L3 L4 L5 L6 M1 M2 M3 M4 S1 S2 S3 G1 SCIENZE STRANIERA ITALIANO RELIGIONE MUSICASTORIA/GEO
LINGUA
ITALIANO ARTE eSTRANIERA IMMAGINE MATEMATICA LINGUA ED. FISICA SCIENZE STORIA/GEO STRANIERA TECNOLOGIA MUSICA MATEMATICA STORIA/GEO ARTE e IMMAGINE MATEMATICA SCIENZE ED.Estratto FISICA Tab. 10: SCIENZE della Mappa di intersezione discipline-assi! MUSICA TECNOLOGIA MUSICA
Tab. 10: Estratto della Mappa di intersezione discipline-assi
ARTE e IMMAGINE ARTE e IMMAGINE
ED. FISICA Tab. 10: Estratto della Mappa di intersezione discipline-assi! ED. FISICA
TECNOLOGIA TECNOLOGIA COMPETENZE DI CITTADINANZA
COMPETENZE DI ASSE
ABILITA’/ CAPACITA’
CONOSCENZE
DISCIPLINE PREVALENTI
DISCIPLINE CONCORRENTI
Tab. 11: Estratto della Mappa degli assi culturali e delle competenze Tab. della Mappa di intersezione discipline-assi ! di cittadinanza Tab. 10: Estratto Estratto della Mappa di intersezione discipline-assi !
Estratto della Mappa degli assi culturali delle competenze di cittadinanza Tab. Tab. 11:11: Estratto della Mappa degli assieculturali e delle competenze di cittadinanza
Tab. 12:Tab. Matrice di intersezione Aree/Assi 11: Estratto della Mappa degli assi culturali e delle competenze di cittadinanza
IstitutoTab. liceale di appartenenza: 11: Estratto della MappaCOMPETENZE degli assi culturali e delle competenze di cittadinanza COMPETENZE AL Provincia COMPETENZE di appartenenza:TERMINE DEL AL TERMINE DISCIPLINE DISCIPLINE DI ABILITA’ CONOSCENZE DEL I BIENNIO QUINQUENNIO CONCORRENTI PREVALENTI CITTADINANZA Anno Scolastico Tab. 12: Matrice di intersezione Aree/Assi ASSE NELL’AREA Disciplina Istituto liceale di appartenenza: PeriodoProvincia di appartenenza: Classe Anno Scolastico Tab. 12: Matrice di intersezione Aree/Assi Tab. 12: Matrice di intersezione Aree/Assi UDICODisciplina (Titolo/Monte ore ) Istituto liceale di appartenenza: Competenze chiave di cittadinanza Periodo Provincia di appartenenza: Tab. 12: Matrice di intersezione Aree/Assi Competenza/e Classe Anno Scolasticodi appartenenza: AbilitàIstituto UDICO liceale (Titolo/Monte ore ) Disciplina Provincia dichiave appartenenza: Conoscenze Competenze di cittadinanza Periodo AttivitàAnno Scolastico Competenza/e Classe Discipline concorrenti Abilità Disciplina UDICO (Titolo/Monte ore ) Metodologia Conoscenze Periodo Competenze chiave di cittadinanza Strumenti Attività Competenza/e Classe Controllo degli apprendimenti Discipline concorrenti Abilità (Titolo/Monte ore ) Tempi UDICO Metodologia Conoscenze Competenze chiavedelle di cittadinanza Verifiche per l’accertamento abilità e conoscenze Strumenti Attività Compito unitario degli in situazione per l’accertamento delle competenze Competenza/e Controllo apprendimenti Discipline concorrenti Tempi Abilità Metodologia Verifiche per l’accertamento delle abilità e conoscenze Conoscenze Strumenti Compito unitario in situazione per l’accertamento delle competenze Controllo degli apprendimenti Attività Tempi Discipline concorrenti Verifiche per l’accertamento delle abilità e conoscenze Metodologia Compito unitario in situazione per l’accertamento delle competenze
Strumenti Controllo degli apprendimenti Tempi Verifiche per l’accertamento delle abilità e conoscenze Compito unitario in situazione per l’accertamento delle competenze
Tab. 13: Scheda UdiCO
Dopo che i docenti del Consiglio di Classe avranno individuato l’insieme delle UdiCo disciplinari, multidisciplinari e generaliste (finalizzate cioè allo sviluppo di competenze trasversali, Rey, 2003) da sviluppare nel primo biennio suddividendole fra primo e secondo anno, occorre un ultimo step che inerisce alle funzioni di sistema da attribuire a un docente del Liceo: quelle di monitorare l’applicazione della progettazione supportando i docenti dei vari Consigli di classe anche in quel delicato processo che è la certificazione e valutazione delle compe-
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tenze. Il dispositivo di accompagnamento alla progettazione – ideato dal gruppo DidaSco, équipe “mista” composta, come si è detto, da ricercatori ed esperti di didattica, esperti di didattiche disciplinari, Dirigenti scolastici e docenti di scuola – è stato proposto ai docenti coinvolti nella sperimentazione durante alcuni incontri laboratoriali coordinati da membri di DidaSco; tali incontri hanno visto la suddivisione dei docenti per gruppi, sulla base dell’asse culturale dominante. La proposta del Format è stata discussa e analizzata dal gruppo di lavoro con i docenti, i quali hanno potuto “mettere alla prova” tale strumento nel processo di produzione e analisi di Unità di Competenza disciplinari e interdisciplinari: il risultato è stato la progettazione di ben 120 Unità di Competenza – redatte individualmente e collegialmente – utilizzando il format DidaSCo come guida e scaffolding utile alla progettazione. I docenti hanno potuto fruire anche di un tutoraggio online all’interno della piattaforma e-learning “La Riforma dei licei” dedicata al progetto, “luogo” virtuale di condivisione dei documenti della sperimentazione (Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006; le Indicazioni Nazionali per i Licei; il “Profilo educativo culturale e professionale dello studente”, allegato A al Regolamento dei Licei, D.P.R. 89 del 15 marzo 2014) e delle stesse Unità di Competenza; all’interno della piattaforma è stato condiviso anche un Glossario didattico ad uso dei Nuovi Licei, strumento di lavoro a cura del Gruppo DidaSco comprendente alcuni lemmi centrali nella curricolare liceale. La progettazione – da parte degli insegnanti – di unità di competenze, attraverso le schede di accompagnamento alla scrittura progettuale precedentemente descritta, ha portato anche ad un perfezionamento del Format di progettazione DidaSco inizialmente proposto: per esempio l’iniziale scansione dei 5 anni è stata meglio articolata in termini di competenze, abilità e conoscenze per il primo e il secondo biennio piuttosto che per l’ultimo anno; alcuni docenti hanno aggiunto le finalità formative generali dell’Unità di Competenza; in molti hanno provato un’iniziale difficoltà a formalizzare il compito unitario in situazione per l’accertamento delle competenze acquisite (una difficoltà non casuale, superata proprio grazie al lungo percorso di accompagnamento formativo, che sicuramente ha rappresentato il punto di svolta nel cambiamento dalla progettazione per obiettivi alla progettazione per competenze). Un caso esemplare di personalizzazione del Format DidaSco è dato dalla produzione dell’e-book ipermediale Moby Dick Prezi (a cura di Luigi Masiello, docente partecipante alla sperimentazione), nato inizialmente come Unità di Competenza e confluito successivamente in uno strumento ipermediale che, sempre secondo la logica progettuale proposta nel Format, comprendesse anche collegamenti a file testuali, audio, video e immagini sul tema. Il progetto di ricerca-formazione ha permesso, dunque, il raggiungimento di un importante risultato: la co-ideazione fra il gruppo di ricerca DidaSco – Didattiche Scolastiche e il gruppo di docenti partecipanti alla sperimentazione di un possibile format di progettazione per competenze con unità di competenza interdisciplinari che rendessero in modo esplicito le intersecazioni tra discipline apparentemente distanti e che comprendesse, all’interno di percorsi creativi, strumenti e compiti adeguati alla valutazione della competenza dello studente in situazione. Tutto il lavoro svolto ha rimarcato l’importanza di creare spazi e tempi di condivisione e collegiali necessari per un lavoro progettuale collaborativo, creativo, capace di superare alcune fra le criticità insite nella progettazione curricolare liceale precedentemente descritte.
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5. Conclusioni Ripensare la progettazione curricolare liceale in funzione di una didattica delle competenze induce a riscoprire la necessaria complementarità fra saperi da insegnare e mediatori di insegnamento (Martini, 2011; Damiano, 2013), oltre che fra unità dei saperi e unità della persona che apprende. Il lavoro di ricerca collaborativa svolto ha aiutato i docenti coinvolti a comprendere che la competenza realizza un apprendimento di ordine più complesso e che questo apprendimento richiede forme di insegnamento/mediazione didattica/valutazione plurime. Il “salto di qualità” di un’organizzazione curricolare per competenze, rispetto al tradizionale curricolo organizzato per obiettivi di conoscenze e abilità, è nella capacità della Scuola di costruire situazioni-problema (compiti unitari di apprendimento) che mettano in condizione lo studente di mobilitare e finalizzare le sue conoscenze. Competenza e conoscenza non sono, dunque, poli antitetici: se le discipline restano la sorgente prima della conoscenza, nel passaggio al curricolo per competenze occorrerà propiziarne l’incontro e la “traduzione operativa” in esperienze concrete, senza rinnegare assolutamente la tradizione didattica dell’insegnamento liceale e senza nemmeno ridurre alle sole competenze (alla loro misurazione/valutazione, alla loro logica necessariamente “laboristica”) l’intero processo formativo liceale. L’agire progettuale per competenze tutto è meno che un adempimento burocratico. È un sistema complesso di azioni e relazioni (potremmo definirlo un sistema di management della progettualità curricolare), mai riducibile alla sola redazione documentale: esso implica, invece, l’assunzione da parte dei docenti di uno stile di lavoro orientato al confronto a tutti i livelli collegiali, oltre che una riflessività da rendere nel tempo habitus professionale. Anche per questo vi si sottolinea che il primo passo da compiere nell’apprendere a progettare per competenze è la chiara evidenziazione delle responsabilità degli attori e dei “luoghi” della progettazione. Saper progettare per competenze è un’expertise collegata a spazi, tempi, atti: senza una formazione ad hoc in tal senso nessun docente potrà mai tradurlo in una vera e propria padronanza. Lavorare sulla progettazione per competenze può configurare uno spazio intellettuale e formativo permanente fra Scuole e Università che abbia per oggetto l’esperienza agita in aula: si tratta di uno spazio attualmente mancante nei Licei, che andrebbe fortemente voluto, costruito e presidiato a sostegno dello sviluppo professionale dei docenti. Il lavoro con le Scuole pugliesi è in progress: il progetto La riforma dei Licei è stato il primo step, focalizzato sulla co-costruzione di un modello di progettazione curricolare per competenze nel primo biennio, di una sperimentazione non ancora conclusa. È in corso di avvio il prosieguo della sperimentazione, incentrato sulla valutazione delle competenze nei Licei.
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Rey, B. (2003). Ripensare le competenze trasversali (it. transl.). Milano: FrancoAngeli. Ria, L., Leblanc, S., Serres, G., Durand, M. (2006). Recherche et formation en “analyse de pratiques”: un exemple d’articulation. Recherche et formation, 51, 43-56. Scurati, C. (1990). Realtà e forme dell’insegnamento. Contributi per una teoria della didattica. Brescia: La Scuola. Scurati, C. (2008). Nuove didattiche. Linee di ricerca e proposte formative. Brescia: La Scuola. Strauss, A., Corbin, J. (1990). Basics of qualitative research: Grounded theory procedures and techniques. Newbury Park, CA: Sage. Tardif, J., Meirieu, Ph (1996). Stratégie pour favoriser les transfert des connaissances. Vie pédagogique, 98. Tarozzi, M. (2008). Che cos’è la Grounded Theory. Roma: Carocci. Tyler, R.W. (1949). Basic Principles of Curriculum and Instruction. Chicago: The University of Chicago Press. Vinatier, I., Altet, M. (2008). Analyser et comprendre la pratique enseignante. Rennes: Pur.
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La valutazione della qualità dei servizi rivolti all’educazione e alla cura della prima infanzia: uno studio sull’attendibilità dello strumento valutativo ACEI-IGA Andrea Pintus • Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia – andrea.pintus@unimore.it
Evaluating quality in early childhood education and care service: a study of the consistency of ACEI-IGA assessment tool Lo studio qui presentato, realizzato con 23 insegnanti e 9 coordinatori pedagogici delle scuole dell’infanzia comunali di Parma, si colloca all’interno di una ricerca internazionale volta ad indagare le proprietà psicometriche del Global Guidelines Assessment tool sviluppato dall’Association for Childhood Education International (versione italiana denominato Indicazioni Globali per l’Autovalutazione – IGA). Le analisi dei dati mostrano da un lato una buona consistenza interna dell’IGA dall’altro una basso grado di accordo tra valutatori.
Keywords: assessment tools, self-evaluation, kindergartens, teachers, program quality, consistency.
Parole chiave: strumenti di valutazione, auto-valutazione, scuole dell’infanzia, insegnanti, qualità, attendibilità.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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The current study is part of an international research on the psychometric properties of Global Guidelines Assessment tool developed by the Association of Childhood Education International (Italian version named “IGA – Indicazioni Globali per l’Autovalutazione”). Participants were 23 teachers and 9 pedagogical coordinators from kindergartens run by the Municipality of Parma (Italy). The results show strong internal consistency for the IGA as well as moderate interrater consistency.
La valutazione della qualità dei servizi rivolti all’educazione e alla cura della prima infanzia: uno studio sull’attendibilità dello strumento valutativo ACEI-IGA
1. Linee guida per la qualità dei servizi rivolti all’educazione e alla cura della prima infanzia
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Il concetto di qualità, applicato ai servizi rivolti all’educazione e alla cura della prima infanzia, è come noto un concetto problematico (Cecconi, 2002; Dahlberg, Moss, 2005; Ferrari, 2013; Ishimine, Tayler, 2013). Nondimeno la sfida di come migliorare la qualità di tali servizi è diventato un tema di grande interesse a livello internazionale, tanto per i ricercatori che operano nelle scienze dell’educazione, quanto per i policy makers e gli amministratori dei servizi educativi prescolastici (Bondioli, Savio, 2015; Fenech, 2011). Ciò è dovuto, in buona parte, alla consapevolezza della ricaduta positiva a medio e lungo termine degli investimenti in tali servizi (Bennet, 2012; Pianta, Barnett, Burchinal, Thornburg, 2009; Heckman, Masterov, 2007; Nores, Barnett, 2010). La ricerca internazionale ha, in tal senso, ampiamente messo in evidenza una relazione positiva tra l’aver frequentato un servizio rivolto alla prima infanzia e il successo nel percorso evolutivo individuale, nei termini sia di sviluppo cognitivo (Camilli, Vargas, Ryan, Barnett, 2010), sia di successo scolastico e lavorativo (Aos, Lieb, Mayfield, Miller, Pennucci, 2004; Heckman, 2006). Un aspetto cruciale che emerge da questi studi è tuttavia che la ricaduta positiva di tali servizi non risiede nella frequenza in sé, ma nella loro qualità. Diverse organizzazioni internazionali, pertanto, al fine di fornire un utile supporto alla diffusione di buone pratiche, hanno cercato di individuare e specificare gli elementi essenziali che testimoniano e specificano la qualità di questi servizi, fornendo indicatori che, seppur specifici, rimandano sostanzialmente ad alcune dimensioni comuni, e quindi confrontabili tra loro, quali l’organizzazione dell’ambiente di apprendimento, i contenuti del curricolo, le modalità di formazione degli educatori e degli insegnanti, la relazione tra bambini ed insegnati e le modalità di partecipazione delle famiglie (European Commission/EACEA/Eurydice/Eurostat, 2014; European Commission, 2014). In tale direzione vanno le “Global Guidelines for Early Childhood Education and Care in the 21st Century” sviluppate dall’Association for Childhood Education International (ACEI) in collaborazione con l’U.S. National Committee dell’Organizzazione Mondiale per l’Educazione Prescolare (ACEI/OMEP, 1999). Il documento proposto dall’ACEI rappresenta l’esito di un percorso di lavoro che ha messo a confronto sul tema della qualità dei servizi educativi, ricercatori, educatori ed insegnanti di diversi paesi nel mondo. Alla luce della pluralità di culture organizzative e di significati legati al tema dell’educazione prescolastica che sono emersi da questo confronto, le linee guida che sono state identificate non vanno intese in senso prescrittivo come un modello a cui conformarsi, ma come una cornice di riferimento culturale attraverso cui leggere e confrontare le diverse esperienze locali al fine di incentivare, attraverso il confronto stesso, lo sviluppo di linee di miglioramento dei diversi servizi educativi. Sulla base di queste “Linee guida”, che hanno lo scopo di promuovere una cul-
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tura che pone come cardine della qualità dei servizi educativi il diritto dei bambini a crescere in ambienti sicuri, aperti alla partecipazione delle famiglie, stimolanti ed attenti al rispetto delle diversità, è stato sviluppato dall’ACEI uno strumento valutativo ad hoc, il Global Guide Line Assessment (GGA) (ACEI, 2006; Barbour, Boyer, Hardin, Wortham, 2004; Hardin, Bergen, 2010), il quale è stato oggetto di alcuni studi condotti nei diversi paesi in cui è stato tradotto, i quali ne hanno confermato le buone proprietà psicometriche (Hardin, Hung, 2011; Sandell, Hardin, Wortham, 2010).
2. Indicazioni Globali per l’Autovalutazione Nel contesto italiano il processo di traduzione e adattamento del GGA (nella versione italiana denominato “IGA – Indicazioni Globali per l’Autovalutazione”) è stato realizzato con il coinvolgimento attivo di un gruppo di insegnanti di scuola dell’infanzia di alcune provincie della regione Emilia Romagna dal Centro di ricerca VALFOR (VALutazione, progettazione e documentazione dei processi educativi e FORmativi) del Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia1. In modo analogo a quanto emerso in altri paesi, anche nel contesto italiano uno studio condotto in collaborazione con il Servizio Scuola dell’Infanzia del Comune di Parma ha messo in evidenza una buona validità dell’IGA (Pintus, 2012). In particolare lo strumento è stato valutato da un gruppo di insegnanti e di coordinatrici pedagogiche di Parma, utile, completo, efficace ed adeguato al contesto a cui si rivolge. Alcune criticità si sono evidenziate, tuttavia, per quanto riguarda la capacità dello strumento di cogliere le diverse sfaccettature dell’area in cui viene affrontato il tema dei bisogni educativi speciali. In particolare, dall’analisi degli esempi forniti a supporto dei giudizi è emerso come non fosse sempre chiaro per i valutatori quale fosse l’oggetto o il piano rispetto al quale effettuare la valutazione: l’impianto normativo del sistema educativo nel suo complesso o le modalità della sua implementazione da parte della singola struttura osservata. La prima accezione rimanda infatti ad una valutazione di tipo macro sul modello di inclusione del sistema educativo italiano, ovvero a prescindere dalla presenza o meno di bambini con bisogni educativi speciali nella scuola oggetto di interesse, la seconda a come la singola scuola fa fronte concretamente alla presenza di bambini con bisogni educativi speciali. 2.1 ACEI-IGA: procedure d’uso e specificità dello strumento Ciò che contraddistingue maggiormente l’ACEI-IGA rispetto ad altri strumenti valutativi più noti come ad esempio l’AVSI (Bondioli, 2001; Bondioli, Ferrari, 2008), è l’assenza di descrittori analitici per i diversi livelli della scala proposta e per la presenza di uno specifico campo aperto di annotazione libera.
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Il gruppo di ricerca che ha condotto il progetto è stato composto da: Luciano Cecconi (responsabile scientifico), Dolores Stegelin, Antonio Gariboldi (fino al 2008), Giuseppe Malpeli, Francesca Corradi (fino al 2009), Maria Alessandra Scalise (fino al 2009), Andrea Pintus (dal 2009), Rossana Allegri.
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È importante sottolineare che l’oggetto su cui si realizza la valutazione attraverso l’IGA è la scuola nel suo complesso, non le singole sezioni della stessa. A tal fine, l’ACEI precisa nelle istruzioni che accompagnano lo strumento, di identificare dei valutatori che abbiano un’ampia conoscenza ed una visione d’insieme della scuola da valutare, ovvero che possano restituire una rappresentazione della scuola nella sua totalità organizzativa e didattica. In modo particolare, viene richiesto di identificare una figura che svolge un funzione di direzione/coordinamento della struttura (nel caso italiano, è stata prevista la possibilità di identificare un dirigente del servizio o un coordinatore pedagogico della scuola) ed un’insegnante/educatore con adeguata esperienza nella scuola oggetto di interesse. Nelle procedure di somministrazione dello strumento si precisa, inoltre, che le valutazioni devono essere effettuate contemporaneamente ed in parallelo, in particolare i valutatori devono compilare lo strumento nello stesso momento ed in seguito ad una sessione di osservazione comune, ma senza confrontarsi su i reciproci giudizi. Nello specifico, lo strumento si compone di 76 item suddivisi in 5 aree di contenuto2:
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1. 2. 3. 4. 5.
ambiente di apprendimento e spazio fisico; contenuti del curricolo e scelte pedagogiche; insegnanti per la prima infanzia; relazioni di collaborazione con le famiglie e la comunità; bambini con bisogni educativi speciali.
Ognuna di queste cinque sezioni è introdotta da un breve testo che inquadra l’area di contenuto oggetto di attenzione e precisa il modello di qualità preso come riferimento per effettuare la valutazione. Ad esempio, nell’introduzione alla prima area dell’IGA (“ambiente di apprendimento e spazio fisico”) viene precisato che: l’ambiente di apprendimento del bambino deve essere sicuro sia dal punto di vista fisico sia da quello psicologico. Rientra nel concetto di sicurezza fisica la necessità di proteggere il bambino da tutti quei pericoli che, minacciando la sua salute, ne impediscono l’apprendimento e lo sviluppo. Promuovere la sicurezza psicologica del bambino significa che l’ambiente, nella sua globalità, dovrebbe infondere in tutti i bambini un senso di benessere e di appartenenza. Lo spazio fisico dovrebbe essere organizzato in modo tale da offrire una varietà di esperienze di apprendimento per tutti i bambini, indipendentemente dall’etnia, dal genere, o dalla disabilità.
2
Nello studio qui proposto si è fatto riferimento alla III versione rivista dell’ACEI-IGA. La traduzione del GGA in diverse lingue ed il suo utilizzo in diversi paesi ha posto all’ACEI il problema della verifica sistematica delle proprietà psicometriche dello strumento, con particolare attenzione ai significati assunti dai diversi item nei diversi contesti di utilizzo. La questione è stata affrontata da Hardin, Bergen ed Hung (2013) in uno studio specifico in cui sono stati analizzati i dati raccolti a livello internazionale. L’analisi condotta sulla base del metodo di Rash ha permesso di individuare un certo numero di item poco soddisfacenti o problematici. La nuova versione del GGA è stata quindi ridotta di 12 item (da 88 a 76), mentre altri 7 sono stati riformulati per ridurre alcune ridondanze di significato. La struttura dello strumento, tuttavia, nel suo complesso è rimasta invariata.
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Ogni area è poi composta al suo interno da un certo numero di item, ognuno dei quali rimanda ad aspetti concreti della vita della scuola rispetto ai quali il valutatore è chiamato ad esprimere una valutazione sia “quantitativa”, utilizzando una scala ordinale a 5 gradi (eccellente, buono, adeguato, minimo, inadeguato)3 sia “qualitativa”, fornendo esempi a supporto del giudizio quantitativo espresso (vedi Fig. 1).
151
Fig. 1: Esempio di compilazione di alcuni item dell’ACEI-IGA
3. Uno studio sull’attendibilità dell’ACEI-IGA Lo studio qui presentato si colloca all’interno di una ricerca internazionale volta ad indagare le proprietà psicometriche dell’ACEI-IGA, in particolare la sua attendibilità. La ricerca, nel suo complesso, coordinata da Belinda J. Hardin (University of North Carolina at Greensboro, USA) è stata condotta tra la primavera del 2012 e l’estate del 2014 in 9 paesi (China, Guatemala, India, Italia, Messico, Perù, Tailandia, Taiwan, Stati Uniti d’America). In ogni sito di ricerca sono stati coinvolti un certo numero di progetti educativi/scuole dell’infanzia, ovvero servizi educativi rivolti alla fascia 3-6 anni, ed in ogni struttura sono stati individuati un insegnante ed un direttore/dirigente o coordinatore pedagogico, ai quali è stato chiesto di valutare la propria scuola utilizzando l’ACEI-IGA. In ogni contesto di studio, i partecipanti all’indagine sono stati invitati a momenti formativi in cui erano chiamati a confrontarsi su gli aspetti metodologici e
3
Per facilitare la compilazione, nelle istruzioni di supporto per i valutatori, viene indicato di esprimere i giudizi quantitativi tenendo presente la seguente equivalenza: eccellente = sempre osservato; buono = molto osservato; adeguato = osservato ogni tanto; minimo = osservato occasionalmente; inadeguato = mai osservato.
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contenutistici dello strumento valutativo utilizzato. Tali momenti sono stati realizzati sia prima sia dopo la somministrazione dello strumento. Complessivamente hanno partecipato all’indagine 346 servizi/scuole e 678 soggetti. Per quanto riguarda il contesto italiano, la ricerca è stata condotta in collaborazione con il Servizio Scuole dell’Infanzia del Comune di Parma ed è stata realizza in 23 scuole (13 gestite direttamente dal comune e 10 gestite da Parmainfanzia s.p.a.) coinvolgendo 23 insegnanti (1 per ogni scuola dell’infanzia) e 9 coordinatori pedagogici4. In accordo con il protocollo definito dall’ACEI, per ogni scuola sono state identificate delle figure che avessero una visione d’insieme della struttura oggetto di valutazione, ovvero il coordinatore pedagogico di riferimento ed un insegnante che potesse vantare una certa esperienza nella scuola stessa. Al momento dell’indagine l’anzianità di servizio media dei partecipanti è risultata essere di 14 anni nel caso delle insegnanti e 16 anni in quello dei coordinatori pedagogici. Di seguito saranno presentate le analisi condotte su i dati raccolti in queste scuole; tuttavia, al fine di fornire utili spunti di riflessione, verranno anche riportati alcuni risultati emersi dalle analisi condotte dal gruppo di ricerca internazionale (Hardin, Bergen, Cecconi, 2014).
152 3.1 Uno sguardo d’insieme Pur non essendo la valutazione della qualità dei servizi educativi e delle scuole coinvolte l’obiettivo di questo studio, può essere utile fornire un sintetico sguardo d’insieme sulla valutazioni realizzate sia a livello internazionale (N = 678) sia a livello locale (N = 32). Nel complesso le aree che presentano le valutazioni più positive sono risultate essere quelle relative alla gestione dell’ambiente (I), alle scelte pedagogiche (II) e all’identità dell’insegnante (III)5. Le arre valutate meno positivamente sono risultate essere quella relativa alla relazione con le famiglie (IV) e quella che fa riferimento al far fronte ai bisogni educativi speciali (V) (vedi Tab. 1).
4
5
Il percorso di ricerca è stato coordinato dal prof. Luciano Cecconi del Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia in stretta collaborazione con il dott. Giuseppe Malpeli (Università di Modena e Reggio Emilia) e la dott.ssa Rossana Allegri, responsabile del servizio Scuole dell’Infanzia del Comune di Parma. Prima della fase di osservazione e somministrazione dell’IGA sono stati organizzati alcuni momenti di raccordo rivolti ai soli coordinatori pedagogici ed un momento formativo rivolto ai coordinatori pedagogici e agli insegnanti delle scuole dell’infanzia del comune di Parma coinvolti nell’indagine, al fine di illustrare le categorie di riferimento dello strumento e mostrare le sue modalità di utilizzo. Le analisi sono state realizzate codificando le valutazioni raccolte sulla scala ordinale attribuendo un valore numerico compreso tra 1 e 5: inadeguato = 1, minimo = 2, adeguato = 3, buono = 4, eccellente = 5.
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Area
Totale dati raccolti a livello internazionale M
DS
Dati raccolti nel comune di Parma Insegnanti
Pedagogisti
Totale
M
DS
M
DS
M
DS
I II
4,12
0,55
4,60
0,37
4,62
0,41
4,61
0,39
4,17
0,54
4,63
0,38
4,68
0,32
4,66
0,34
III
4,36
0,52
4,57
0,51
4,77
0,29
4,67
0,42
IV V
3,92 3.62
0,62 0,89
4,50 4,51
0,47 0,41
4,57 4,66
0,36 0,24
4,53 4,59
0,42 0,34
Tab. 1: Valutazioni medie e DS per area
Come è possibile notare nella tabella 2, i dati raccolti in Italia, seppur presentano analogie con il contesto internazionale, sono risultati decisamente più postivi rispetto ai dati raccolti negli altri paesi partecipanti allo studio. Entrando nel merito delle valutazioni raccolte nelle suole del comune di Parma, non si evidenziano differenze statisticamente significative nei giudizi espressi da insegnanti e coordinatori pedagogici in nessuna delle aree di contenuto dell’ACEI-IGA.
153 3.2 Coerenza interna ed accordo tra valutatori L’attendibilità dello strumento è stata indagata attraverso due tipi di misure: l’Alpha di Cronbach per verificare l’omogeneità o coerenza interna dell’insieme degli item che compongono le diverse aree di contenuto dell’ACEI-IGA; il coefficiente r di Pearson per verificare l’accordo tra le coppie di valutatori (1 insegnante e 1 pedagogista per ogni scuola). Il coefficente alpha calcolato sul campione complessivo dell’indagine ha messo in evidenza una consistenza interna ad ogni sottoscala dello strumento molto alta (alpha compreso tra 0,90 e 0,97)6. Come mostrato nella tabella 2, nel contesto italiano, seppur nel complesso il dato risulta altrettanto positivo, si sono evidenziate alcune parziali criticità nell’area V, l’area relativa a come le scuole fanno fronte alla gestione dei bambini con bisogni educativi speciali. Per quanto riguarda quest’area, tuttavia, l’alpha di Cronbach risulta incrementarsi in modo significativo (da 0,64 a 0,90) sottraendo all’analisi l’item 63 (“Le bambine e i bambini hanno le stesse possibilità di accedere al servizio educativo e pari opportunità per ogni tipologia e livello di sostegno e di servizio”). Un incremento positivo, seppur più modesto (da 0,64 a 0,72) si evidenzia anche sottraendo l’item 67 (“Le informazioni relative al progetto educativo vengono comunicate a tutti i gruppi presenti nella comunità locale”). L’accordo tra valutatori è stato analizzato confrontando tra loro le valutazioni realizzate da insegnanti e coordinatori pedagogici sulle 5 diverse aree di contenuto dell’ACEI-IGA. Nello specifico, per ogni area è stata calcolata la somma dei punteggi attribuiti da insegnanti e pedagogisti ai singoli item delle aree corrispondenti. In questo caso le analisi condotte a livello internazionale evidenziano aree di minore (r III = 0,51) e maggiore (r IV = 0,74) affidabilità. Le valutazioni realizzate in Italia presentano una correlazione positiva e significativa solo sull’area I, l’area
6
N=678, p. < 0,01
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relativa all’ambiente di apprendimento e allo spazio fisico (r = 0,60, p < 0,05), mentre nelle altre aree la correlazione risulta non significativa (vedi Tab. 2). Area
α
Somma punteggi Insegnanti
Pedagogisti
Scarto % tra valutatori
r
I
0,87
77,74
79,13
6,78
0,60*
II
0,87
69,61
70,04
6,96
0,36°
III
0,92
50,70
52,04
8,20
0,27°
IV
0,89
85,87
85,74
9,32
0,23°
V
0,64
62,70
65,22
9,01
0,29°
* p < 0,05
Tab. 2: Consistenza interna, valutazioni medie, scarto tra valutazioni, correlazione tra valutatori distinte per area dell’ACEI-IGA
154
Nella tabella che segue viene riportato, distinto per area dello strumento (IV), lo scarto % tra le valutazioni effettuate dalle coppie di valutatori in ogni singola scuola7. Nel complesso, la discrepanza di giudizio maggiore (scarto compreso tra 10% e 40%) la si riscontra nelle scuole indicate con le lettere “J”, “K”, “L”, “E”, “R”, “U”. In particolare nelle prime tre scuole tale scarto lo si riscontra in ognuna delle cinque aree dell’IGA, nelle seconde in tre aree su cinque. In generale è l’area IV quella che mostra lo scarto percentuale medio più alto. D’altro canto, sono diversi i casi in cui si è riscontrato il pieno accordo tra valutatori. In modo particolare, la completa coincidenza nei giudizi tra insegnanti e pedagogisti si è realizzata in una scuola (D), un quasi completo accordo in 4 scuole (G, H, I, Q). Il quadro che emerge da queste analisi, al netto di un contesto generale che, stando alle auto-valutazioni degli insegnanti e coordinatori pedagogici coinvolti, si contraddistingue nel suo insieme per l’assenza di forti problematicità, nel suo complesso ci appare anche caratterizzato da una significativa differenziazione interna, ovvero da una forte specificità delle singole scuole.
7
Per mantenere l’anonimato sia delle scuole sia dei valutatori, ogni scuola viene indicata qui con una lettera progressiva dalla A alla Z.
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Aree ACEI-IGA
Scuole II
A
1,47
11,67
6,82
14,47
7,14
8,31
B
25,00
5,00
4,54
2,63
8,93
9,22
C
7,35
11,67
11,36
2,63
3,57
7,32
D
0,00
0,00
0,00
0,00
0,00
0,00
E
7,35
10
20,45
15,79
19,64
14,65
0,00
6,67
4,55
3,95
12,50
5,53
0,00
0,00
19,74
0,00
3,95 0,29
F G
0,00
III
Media
I
IV
V
H
1,47
0,00
0,00
0,00
0,00
I
4,41
6,67
2,27
2,63
1,79
3,55
J
14,71
21,67
40,91
31,58
16,07
24,99
K
14,71
21,67
34,09
27,63
25,00
24,62
L
10,29
13,33
15,91
15,79
19,64
14,99
M
7,35
0,00
2,27
2,63
16,07
5,66
N
5,88
3,33
2,27
9,21
3,57
4,85
O
1,47
0,00
0,00
1,32
7,14
1,99
P
2,94
3,33
6,82
5,26
1,79
4,03
Q
0,00
0,00
0,00
1,32
0,00
0,26
R
10,29
8,33
9,09
15,79
14,29
11,56
S
10,29
3,33
2,27
2,63
5,36
4,78
T
13,24
0,00
4,54
6,58
8,93
6,66
U
2,94
13,33
11,36
22,37
7,14
11,43
V
4,411
11,67
6,82
9,21
21,43
10,71
Z
10,29
8,33
2,27
1,32
7,14
5,87
Media
6,78
6,96
8,20
9,32
9,01
8,05
Tab. 3: Scarti % medi in ogni singola scuola distinti per area dell’ACEI-IGA
Conclusioni Lo studio qui presentato si inserisce in un consolidato rapporto tra il Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell’Università di Modena e Reggio Emilia ed il servizio Scuole dell’infanzia del comune Parma, rapporto che negli anni ha avuto come punto fermo quello di costruire occasioni di confronto in cui insegnanti, pedagogisti e ricercatori, potessero riflettere insieme sulle diverse sfaccettature che qualificano i servizi educativi rivolti all’infanzia (Cecconi, Stegelin, Pintus, Allegri, 2014). In tale quadro, i risultati si prestano a riflessioni su almeno due piani. Da un lato, quanto emerso sulle proprietà psicometriche dell’ACEI-IGA offre diversi elementi di riflessione ai ricercatori impegnati nello sviluppo dello strumento, in particolare sulle specificità dei contesti in cui viene ad essere utilizzato; dall’altro, propone agli insegnanti e agli operatori dei servizi educativi coinvolti dei possibili spunti su cui problematizzare la propria esperienza. L’analisi dell’alpha di Cronbach indica, complessivamente, una buona attendibilità dello strumento. Tuttavia, le diverse aree di contenuto presentano omogeneità interne differenti. Ciò risulta particolarmente evidente nel caso dell’area V (bambini con bisogni educativi speciali), in cui un livello altrettanto soddisfacente dell’alpha lo si ottiene sottraendo dall’analisi un item che evoca il rapporto tra
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equità di accesso ai servizi e genere. L’item in questione rimanda in modo specifico al problema delle possibili diseguaglianze di trattamento dei bambini in base al loro sesso. Il contenuto, tuttavia, non fa espressamente riferimento a bambini con bisogni educativi speciali, e ciò appare in contraddizione sia con quanto espresso nell’introduzione alla sezione in cui l’item è collocato, in cui vengono menzionati menomazioni, disabilità, malattie, rischi associati a ritardo nello sviluppo ed abilità eccezionali 8, sia su ciò che comunemente nel contesto italiano definisce il quadro dei bisogni educativi speciali. In tal senso è utile riprendere alcuni passaggi della Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 (“Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica“) in cui l’espressione “Bisogni Educativi Speciali (BES)” è ricondotta ad un’area di svantaggio ampia, che comprende, oltre alle richieste di speciali attenzioni riferite alla presenza di deficit, anche quelle riferibili a disturbi specifici di apprendimento, disturbi evolutivi specifici, svantaggio sociale ed ambientale, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana. Per quanto riguarda l’accordo tra valutatori, le analisi condotte evidenziano una bassa fedeltà dello strumento. In modo particolare, le valutazioni realizzate dalle coppie di valutatori presentano una correlazione significativa solo sull’area che fa riferimento all’ambiente e all’adeguatezza delle strutture scolastiche (ambiente di apprendimento e spazio fisico). La discrepanza tra valutazioni non è tuttavia trasversale, ma caratterizza in modo eterogeneo le singole scuole. In circa un terzo dei casi le divergenze sono risultate essere particolarmente accentuate sulla maggior parte, se non tutte, le aree di contenuto dell’ACEI-IGA. Nel complesso, tuttavia, lo scarto medio nelle singole aree risulta tutto sommato modesta (meno del 10%). In accordo con questo dato, emerge come in cinque scuole le discrepanze di giudizio tra valutatori siano state nulle o di minima entità su ognuna delle aree. Il quadro che emerge indica, pertanto, una forte specificità del contesto (sia a livello nazionale, ovvero il sistema educativo prescolastico italiano, sia locale, cioè l’insieme delle scuole dell’infanzia del comune di Parma), in cui sono state realizzate le osservazioni. In tal senso, il dato, al di là della sua valenza in merito alla riflessione sulle qualità psicometriche dello strumento, si offre come un interessante spunto anche e soprattutto nell’ambito di una riflessione tra e con gli operatori del settore su come i diversi attori che operano nelle strutture educative percepiscono
8
AREA 5: BAMBINI CON BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI. I bambini con bisogni educativi speciali sono quelli con menomazioni, disabilità, malattie, rischi associati a un ritardo nello sviluppo o con abilità o talenti eccezionali. Al fine di sviluppare le potenzialità di questi bambini sono richiesti interventi di sostegno che vanno oltre quelli che sono considerati sufficienti per lo sviluppo dei loro pari in condizioni normali. La loro condizione può essere legata a una molteplicità di fattori (per esempio, povertà, malnutrizione o condizioni biologiche). I bisogni educativi speciali dei bambini possono variare da quelli che richiedono attenzioni minime a quelli che richiedono considerevoli cambiamenti nell’organizzazione delle attività previste nel progetto e nell’uso di servizi specifici. Il concetto di “bisogni educativi speciali” è frutto di una costruzione sociale e poiché ogni società è unica essa sviluppa un proprio concetto significativo di “bisogni educativi speciali”, identifica le lacune nei servizi e sviluppa le opportune risposte alle sue specifiche mancanze. Servizi accessibili ed equi per TUTTI i bambini possono determinare cambiamenti positivi e duraturi tali da diminuire la necessità di servizi speciali e aggiuntivi.
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e valutano le diverse dimensioni in cui tali servizi si realizzano. A tal riguardo, i risultati emersi ci suggeriscono, qualora si volesse utilizzare nuovamente l’ACEIIGA come strumento auto-valutativo, di strutturare momenti formativi maggiormente centrati su come intendere le diverse dimensioni di giudizio dello strumento e pervenire ad una condivisione maggiore dei criteri attraverso cui esprimere ed interpretare le diverse valutazioni. Più in generale, l’auspicio è quello che ulteriori occasioni di confronto che muovano dall’analisi di questi risultati, possano essere l’occasione, come è stato in passato, per riflettere insieme agli insegnanti e i coordinatori pedagogici coinvolti su i significati della propria azione educativa e, di conseguenza, su ciò che qualifica, secondo il loro punto di vista, i diversi contesti educativi, al fine di porre le basi per azioni di miglioramento delle scuole in cui operano. La letteratura suggerisce, infatti, in questo senso, come non sia l’implementazione di pratiche valutative in sé ad associarsi ad un incremento della qualità di un servizio educativo, quanto la sua interconnessione con pratiche di sviluppo professionale (Taguma, Litjens, 2013). In questo quadro, l’autovalutazione attraverso strumenti quali l’ACEI-IGA può rappresentare un’occasione formativa importante se si associa ad un processo meta-valutativo, in cui, cioè, la pratica valutativa viene problematizzata in tutte le sue componenti (significati, finalità, specificità contestuali, implicazioni politiche, aspetti culturali e metodologici, ecc.) (Ferrari, 2013; 2015).
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Il tirocinio universitario secondo i tutor aziendali: un punto di vista centrale per un modello circolare e integrato Eleonora Renda • Sapienza – Università di Roma – eleonora.renda@uniroma1.it Anna Salerni • Sapienza – Università di Roma – anna.salerni@uniroma1.it Dania Malerba • Sapienza – Università di Roma – dania.malerba@uniroma1.it
Placement tutors’ perceptions about University traineeship: a central point of view for a circular and integrated model L’intervento si propone di riflettere sul modello di tirocinio curricolare dei Corsi di Laurea in Scienze dell’educazione della Sapienza centrando l’attenzione sulle valutazioni dei tutor aziendali che seguono gli studenti nel corso del tirocinio. Il modello realizzato permette di pianificare un percorso formativo adeguato al raggiungimento degli obiettivi di studio e di lavoro, considerando competenze, conoscenze e interessi degli studenti, nonchè l’evoluzione del mercato del lavoro. Centrale è il monitoraggio dell’attività nelle sue fasi e per mezzo di differenti strumenti di rilevazione che consentono di cogliere i diversi punti di vista. Nel contributo, dopo una breve presentazione del modello, vengono approfondite le opinioni dei tutor aziendali. I dati sono stati raccolti attraverso un questionario semistrutturato, somministrato alla fine dell’esperienza di tirocinio e completato da 144 tutor. I risultati emersi dall’analisi permettono di sottolineare i punti di forza e di debolezza del modello di tirocinio.
Keywords: internship, evaluation, kearning, placement, university, tutor.
Parole chiave: apprendimento-insegnamento, tirocinio, università, tutor, valutazione, mondo del lavoro.
Il contributo è frutto di un lavoro e di una riflessione comune da parte delle autrici. Tuttavia la responsabilità è per l’Introduzione e i paragrafi 1,2,3 di Anna Salerni, per i paragrafi 4 e 5 di Eleonora Renda e 6 di Dania Malerba. Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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This paper aims to reflect on the intership model in first and second level degree courses in “Education and Training” at Sapienza University of Rome, exploring the viewpoint of tutors who follow students during their training. The circular and integrated model allows to plan an appropriate training to achieve studying and working aims, considering students’ skills, knowledge and interests, taking into account also the labour market development. Data were collected through a semi-structured questionnaire administered at the end of the training experience and completed by 144 tutors. The results coming from the analysis are discussed underlining strengths and weaknesses of the internship program.
Il tirocinio universitario secondo i tutor aziendali: un punto di vista centrale per un modello circolare e integrato
Introduzione
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In un processo di apprendimento i diversi attori coinvolti giocano, ognuno in modo diverso, un ruolo fondamentale per il raggiungimento degli obiettivi formativi. Tale principio vale anche per il tirocinio la cui finalità è quella di far fare agli studenti un’esperienza sul campo che sia occasione di formazione proficua e di crescita personale e professionale e che pertanto richiede una accurata progettazione e concertazione tra le diverse figure che vi partecipano. Per il funzionamento del sistema di tirocinio centrale è l’attività di monitoraggio che riguarda le diverse fasi del processo e i diversi attori coinvolti. Il monitoraggio dell’attività consente di rilevare una serie di informazioni che permettono di verificarne l’andamento e di rivedere, se necessario, le decisioni e le azioni che garantiscono il raggiungimento degli obiettivi perseguiti. In questo contributo si vuole porre l’attenzione sulle informazioni date dai tutor aziendali al termine dell’attività di tirocinio relativamente allo studente in formazione, attraverso le risposte a un questionario. I punti di vista dei tutor aziendali e il contributo che essi possono dare, specie se confrontato con le opinioni degli studenti, sono più facili da comprendere se si fa riferimento al modello di tirocinio di apprendimento-insegnamento adottato e ai diversi ruoli che ognuno degli attori impegnati nel sistema svolge. Il tirocinio universitario, se organizzato ad arte, si configura come un potente strumento formativo e di orientamento per lo studente in quanto occasione per acquisire consapevolezza del mondo del lavoro in generale e, nello specifico, della professione desiderata e, dunque, per riflettere sul proprio futuro occupazionale e per operare scelte formative e lavorative consapevoli e il più possibile efficaci. Non basta, infatti, progettare un modello di tirocinio per realizzarlo, ma è necessario un notevole sforzo nella sua organizzazione, gestione, formazione e valutazione per fare in modo che l’esperienza si integri davvero con gli apprendimenti di natura teorica. Ancora, affinchè il modello di tirocinio sia virtuoso non ci si deve limitare a selezionare le organizzazioni presso le quali far fare il tirocinio, stipulare le convenzioni, far svolgere agli studenti l’attività e al termine di essa chiedere di raccontare l’esperienza ai fini del riconoscimento dei crediti formativi, ma è necessario predisporre situazioni che consentano un rapporto circolare tra la teoria e la pratica, tra gli insegnamenti teorici e le realtà lavorative, in modo che si realizzi una deweyana continuità dell’esperienza e una riflessione consapevole su di essa.
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1. Il valore del tirocinio La presenza di attività formative di carattere pratico, che permettano agli studenti di avere un contatto diretto con i diversi contesti lavorativi, rappresenta una delle novità principali della riforma universitaria, nonché una tra le misure politiche di promozione dell’occupazione a livello nazionale ed europeo, introdotte per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Uno tra i risultati più significativi del Processo di Bologna (1999) e del relativo dibattito europeo sui sistemi di istruzione superiore è certamente la realizzazione di un sistema incentrato sull’apprendimento piuttosto che sul solo insegnamento. Il tirocinio in questo senso rappresenta un’utile opportunità in quanto consente di sperimentare la pratica, pur se in situazioni “protette”. L’esperienza pratica di apprendimento, così come dimostrano gli studi e le ricerche in materia, favorisce l’orientamento al lavoro e alla formazione e in parte il suo accesso in quanto facilita lo sviluppo di conoscenze, l’acquisizione di competenze professionali e trasversali (le cosiddette abilità per la vita) e un possibile inserimento nel pur precario e instabile attuale mondo del lavoro. Come sostiene Donald Schön (1987), il tirocinio è un setting progettato allo scopo di apprendere una pratica. Gli studenti apprendono attraverso il fare in un contesto che si avvicina molto al mondo della pratica, anche se il loro fare ha solo una piccola ricaduta sul lavoro (come normato dalla Legge 196/97 “Norme in materia di promozione dell’occupazione” – art. 18 “Tirocini formativi e di orientamento”). Certamente il tirocinio è una esperienza controllata, con meno pressioni, distrazioni e rischi rispetto al contesto lavorativo reale, ma utile per sperimentare la teoria e per acquisire formazione e competenze professionali di natura tecnica e trasversale. La sfida per i sistemi universitari è, dunque, di vaste proporzioni, poiché si tratta di progettare modelli orientativi e di apprendimento capaci di supportare gli studenti durante il proprio percorso formativo e di fornire loro utili strategie per affrontare i cambiamenti, senza esserne travolti.
2. Il modello di tirocinio dei corsi di laurea pedagogici della Sapienza: circolare e integrato La pratica – sostiene Dewey (1929) riflettendo sulle fonti dell’educazione – rappresenta l’inizio e la conclusione di ogni indagine. L’inizio perché definisce i problemi che da soli conferiscono alla ricerca qualità e senso educativo; la conclusione, perché solo la pratica è in grado di provare, verificare, modificare e sviluppare le conclusioni delle indagini. Sempre citando Dewey “la prova della torta sta nel mangiarla”. In tal senso il tirocinio, come dimostrano i numerosi studi sul tema, può diventare il “motore” e il “perno” del rapporto di cooperazione formativa tra il sistema accademico e il mondo del lavoro e può costituire un valido dispositivo per formare/sviluppare nello studente quelle capacità che rappresentano una delle principali qualità del professionista “riflessivo” e “polivalente” nella società postmoderna (specialmente per quanti operano in ambito educativo). La scelta del modello di tirocinio nei Corsi di laurea pedagogici della “Sapienza” è determinata dalla convinzione che apprendere dall’esperienza sia fondamentale per sviluppare conoscenza e che tra teoria e pratica debba esserci un rapporto
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circolare. Una teoria senza relazione con i problemi pratici rischia infatti di essere astratta e inefficace, così come rischia di essere cieca una prassi che si esaurisce nell’affrontare i problemi e le situazioni che si presentano, senza una formazione teorica, basandosi su teorie ingenue e assunti impliciti, risultato del senso comune e di teorie popolari prive di alcun fondamento scientifico (Bruner, 1997). Nella progettazione del tirocinio nei Corsi di laurea pedagogici della “Sapienza”, sono stati scartati due tra i tre principali modelli di tirocinio che può capitare di incontrare ovvero quello della “separazione” e quello della “dipendenza” a favore di quello dell’“integrazione problematica” (Frabboni, Guerra & Lodini, 1995)2 poiché si ritiene sia in grado di favorire la sinergia tra teoria e pratica grazie anche alla costante interrelazione dei tre attori coinvolti. Il modello si basa sul principio che l’organizzazione del tirocinio deve riguardare e coinvolgere parimenti sia l’università sia le strutture che mettono a disposizione degli studenti i loro servizi e la loro formazione, considerando entrambi come soggetti necessari per la formazione dei futuri professionisti. Nello specifico nei Corsi di Laurea pedagogici della “Sapienza” è stato messo a punto un modello circolare e dinamico di tirocinio (figura 1) dove ogni protagonista, essenziale per la realizzazione del sistema, dovrebbe incontrarsi e confrontarsi con gli altri formando, informando e costruendo conoscenza (Salerni, 2007). Il modello proposto è dinamico in quanto non si conclude al termine dell’attività di tirocinio ma, proprio perché ciclico, continua a portare nuove esperienze che producono di conseguenza nuove informazioni e conoscenze. Esso, grazie anche al monitoraggio e alla costante valutazione dell’attività, si autoaggiorna, poiché coglie i cambiamenti di una o più parti degli elementi che compongono il sistema, e, in modo attivo, favorisce decisioni adeguate per migliorarne l’efficacia. In questo continuo rimando tra teoria e pratica e in questo confronto tra i diversi soggetti che partecipano al processo il momento della riflessione diviene imprescindibile nelle diverse fasi del tirocinio.
2
Il modello di tirocinio della “separazione” vede una netta divisione fra l’attività pratica (propria dell’esperienza sul campo) e la formazione teorica (propria dell’educazione formale), considerando il tirocinio come momento a sé del percorso formativo e dunque con nessuna ricaduta ne’ sul percorso formativo dello studente ne’ sull’organizzazione e la progettazione della didattica. Il modello della “dipendenza” si basa invece sull’idea che la teoria sia in qualche modo superiore alla pratica, pur prevedendo un collegamento tra lo studio e l’esperienza sul campo. In questo modello la relazione tra teoria e pratica è possibile se la scelta delle organizzazioni in cui far svolgere agli studenti il tirocinio è effettuata in base alla capacità che esse hanno di utilizzare quanto appreso studiando e se si ritiene che siano in continuità con gli studi teorici. Il modello della dipendenza considera l’ambiente di lavoro in posizione subordinata rispetto ai contesti formali di istruzione/formazione. Tale considerazione dipende anche dal fatto che non sempre è facile instaurare una effettiva collaborazione e uno scambio reciproco di conoscenze e competenze tra le aziende e i contesti di istruzione e le figure che debbono supportare tale attività (tutor aziendale e universitario), al fine di realizzare nel migliore dei modi la formazione dello studente. In questo modello il tirocinio è considerato momento in cui è possibile mettere in pratica quanto appreso nei contesti di istruzione ed è concepito in modo tale che non ci si aspetta alcun feedback tra esperienza concreta e formazione teorica.
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Università
Studente
Riflessione per l’azione/ nell’azione/ sull’azione
Studente
Azienda
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Fig. 1: Rappresentazione del modello circolare del tirocinio
Per semplificare quanto detto, il modello di tirocinio adottato nei Cosi di Laurea prevede che gli attori del sistema svolgano, nella fase iniziale, intermedia e finale del tirocinio, differenti azioni di formazione e informazione utilizzando diverse strategie e differenti strumenti di rilevazione/valutazione.
3. Le fasi del percorso di tirocinio e gli strumenti utilizzati per il monitoraggio In più sedi abbiamo presentato il modello di tirocinio dei Corsi di laurea in Scienze dell’educazione della “Sapienza”, in queste pagine ci proponiamo di sintetizzare ruoli, strumenti di monitoraggio e funzioni esercitate dagli attori del processo nelle diverse fasi del percorso. In tal modo riteniamo si possa rendere più chiaro quanto, per una riflessione sull’efficacia del sistema, sia utile considerare il punto di vista dei tutor aziendali, non solo come facilitatori dell’apprendimento degli studenti, ma anche come mediatori delle esigenze e delle richieste che il mondo del lavoro può e deve porre all’università in vista di una reale sinergia tra domanda e offerta di lavoro (Salerni, 2007; Salerni-Sanzo, 2013). Fase iniziale del tirocinio L’università forma e orienta gli studenti. Tale compito è svolto da un docentetutor, che segue lo studente (iscritto al secondo anno di corso e con almeno 60 CFU) nell’intera attività e lo indirizza alla scelta del tirocinio e dell’organizzazione più vicina ai suoi interessi e al suo percorso di studio, considerando il profilo professionale e il settore nel quale vorrebbe lavorare. In questa fase si raccolgono, attraverso diversi strumenti, dati relativi al percorso accademico dello studente e/o professionale (Curriculum, Piano di studi, Colloquio motivazionale, Scheda di avvio al tirocinio) per conoscere la sua situazione formativa e professionale e le sue mo-
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tivazioni e poterlo orientare alla scelta più idonea. Appena avviata l’attività di tirocinio lo studente compila un breve Questionario di inizio attività. Nel corso di questa fase, e durante l’organizzazione dell’intero processo formativo, l’università prende contatti con le aziende che ritiene vicine agli sbocchi professionali previsti dal corso di studi o è contattata dalle aziende interessate ad accogliere tirocinanti. L’università presenta il Corso di studi e i suoi possibili esiti professionali e in qualche modo concorda le offerte di tirocinio ovvero gli interventi e le attività da proporre agli studenti, tenendo conto del tipo di formazione ricevuta e delle competenze acquisite, o che è possibile acquisire, all’università. In tal modo l’università ottiene da parte delle aziende un prospetto sintetico relativo alla offerta di tirocinio (il settore di intervento), all’attività prevista per lo svolgimento del tirocinio, al numero di tirocinanti che è possibile accogliere, ai requisiti richiesti allo studente, alle persone da contattare e alla sede dell’Ente. Lo studente nella fase iniziale, individua l’organizzazione presso la quale svolgere il tirocinio e definisce con essa il progetto formativo, i tempi e le modalità di lavoro. Successivamente comunica le sue scelte alla Commissione tirocini del Corso di laurea per l’approvazione3. In questa fase lo studente è chiamato a essere parte attiva nella stesura del progetto formativo in modo che gli sia chiaro ciò che dovrà fare. Le modalità di svolgimento del tirocinio, concordate nel progetto, debbono essere per lo studente punti di riferimento utili nel corso di tutta l’attività per un’agire consapevole orientato agli obiettivi formativi previsti. Fase intermedia del tirocinio Lo studente inizia il tirocinio e, anche attraverso l’azione del tutor aziendale, apprende e sviluppa una serie di competenze e conoscenze proprie di un contesto di lavoro oltre a competenze di tipo trasversale. In questa fase l’università raccoglie dallo studente tirocinante e dall’azienda informazioni sull’attività formativa e sull’aderenza al progetto formativo concordato con l’obiettivo di poterla rivedere e di intervenire, se necessario, per migliorare e modificare il percorso (attraverso la somministrazione telefonica o in presenza di un Questionario semi strutturato per lo studente e per il tutor aziendale). L’azienda, in questa fase, da una parte forma lo studente, dall’altra informa l’università sulle competenze e conoscenze possedute dallo studente e sulle competenze e conoscenze che sarebbe necessario che lo studente possedesse per poter “sfruttare” al meglio l’esperienza pratica. La ricaduta per l’università è quella di mettere alla prova il proprio modello formativo e la propria offerta didattica, mentre per l’azienda è quella di riflettere sul modello di professionalità trasmesso e sul proprio modo di agire.
3
Lo studente ha tre possibilità: può rispondere alla richiesta di un’opportunità di tirocinio pubblicata sul gestionale Jobsoul on line di placement della Sapienza da un ente convenzionato con l’Ateneo (offerta che è stata selezionata e approvata dalla Commissione tirocini del Corso di Laurea); può individuare un ente di suo interesse registrato sul portale Jobsoul e già convenzionato con l’Ateneo e quindi prendere contatti per accertarsi della disponibilità ad accogliere tirocinanti; può proporre alla Commissione tirocini un ente non ancora convenzionato ma che svolge attività o progetti di particolare interesse.
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Fase finale Lo studente, in modo diretto e indiretto, riporta all’università la sua esperienza pratica ai fini del riconoscimento dei crediti formativi sia attraverso il racconto della sua esperienza con la stesura di una Relazione sia attraverso la compilazione di un Questionario semi strutturato. La fase finale del monitoraggio di tirocinio permette all’Università di fare un bilancio il più possibile oggettivo e fedele sull’attività. Oltre agli strumenti indicati, al termine dell’attività, viene somministrato un Questionario semi-strutturato al tutor dell’azienda o a chi abbia effettivamente seguito lo studente nel corso dell’attività. Le informazioni raccolte nelle diverse fasi di tirocinio attraverso i questionari confluiscono in una banca dati che può essere incrociata con i dati del sistema Jobsoul. In sintesi, l’ultima fase del modello di tirocinio che corrisponde al “ritorno” dell’esperienza all’università dovrebbe avere come effetto quello di rivedere l’organizzazione del tirocinio, i rapporti con le aziende (in termini di efficacia e di formazione da loro prevista) e l’offerta didattica per far sì che i programmi dei diversi insegnamenti siano utili per l’esperienza di lavoro sul campo e per la futura professione che si vuole intraprendere. Se il modello funziona, e se effettivamente le informazioni circolano tra i diversi protagonisti e nelle diverse fasi dell’attività, come anticipato, esso non si interrompe quando si conclude una singola esperienza di tirocinio, ma continua a funzionare, in quanto tutti i protagonisti coinvolti nel processo contribuiscono con le loro riflessioni a migliorare il sistema. In termini deweyani, potremmo dire che il modello di tirocinio rappresentato è caratterizzato dal rapporto tra fini e mezzi. Il fine proprio del tirocinio, vale a dire quello di fare acquisire allo studente competenze e conoscenze professionali e sociali, è destinato, una volta conseguito, a diventare a sua volta mezzo per il raggiungimento di fini ulteriori. Questo continuum fini-mezzi consente un processo di costante riorganizzazione, messa a punto e revisione del modello nei suoi contenuti e nelle sue procedure. Certamente, affinché il modello funzioni, lo studente deve essere realmente messo nelle condizioni di poter descrivere e commentare la sua esperienza, così come l’azienda deve poter prendere parte attiva allo sviluppo dell’organizzazione e l’università deve essere realmente disposta ad ascoltare e confrontare i diversi punti di vista. In termini operativi ciò significa che le organizzazioni che accolgono i tirocinanti debbono essere informate dall’università sui risultati ottenuti e debbono informare l’università sul tipo di attività svolta con gli studenti, in modo da condividere i criteri di valutazione e comprendere se la direzione intrapresa sia stata efficace e valida. Prima di tutto, però, l’azienda deve concordare con l’università le offerte di tirocinio da proporre agli studenti in modo che esse siano coerenti con il corso di studi e soprattutto utili ai fini della loro formazione e dei diversi profili professionali.
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4. Ruolo e compiti dei tutor nella formazione sul campo
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Come è noto, nel processo di tirocinio i principali attori coinvolti sono: lo studente universitario, il tutor docente universitario che segue lo studente durante il percorso formativo e il tutor aziendale (la figura che supporta il tirocinante nel contesto di lavoro)4. Ai due tutor è affidato il compito di facilitare il percorso di crescita e di sviluppo del tirocinante. Stando a quanto confermano gli studi e le ricerche in materia, affinché l’attività di tirocinio si realizzi con il massimo successo è necessario non solo che ognuna delle figure coinvolte svolga con competenza ruolo e compiti richiesti, ma anche che tra queste vi sia integrazione in termini di confronto e di scambio di informazioni. È soprattutto necessario tener presente che al centro di questo processo vi è il tirocinante in formazione. Il paradigma da cui si parte è che la formazione per essere efficace deve essere il più possibile a misura di chi apprende e non un mero compito burocratico richiesto dal sistema universitario che basta assolvere affinché vi sia crescita e sviluppo personale e professionale. Tanto il tutor universitario quanto il tutor aziendale non debbono limitarsi a eseguire compiti organizzativi nelle diverse fasi dell’attività, ma devono avere competenze orientative e formative ovvero essere in grado di progettare esperienze di apprendimento-insegnamento mirate per i tirocinanti. In altri termini ciò significa che il tutor universitario deve: conoscere i profili professionali formati dal corso di laurea ed essere continuamente aggiornato sui cambiamenti del mondo sociale e produttivo; conoscere le aziende che operano nel territorio e i loro sbocchi lavorativi; saper orientare lo studente alla scelta consapevole delle organizzazioni in cui fare esperienza rilevando con competenza i suoi interessi, le sue motivazioni e il suo percorso formativo; saper selezionare la struttura adatta alle richieste e alle aspettative dello studente; saper predisporre insieme all’azienda e al tirocinante un progetto formativo mirato e che abbia valore formativo; saper valutare il percorso formativo e soprattutto supportare lo studente fin dall’avvio del tirocinio a riflettere e a rielaborare in modo costruttivo l’esperienza, collegando le conoscenze teoriche con l’esperienza fatta sul campo (Salerni, Sanzo, Szpunar, 2011). Al tutor aziendale spettano invece i seguenti compiti: valutare la richiesta di tirocinio, verificando se le aspettative dello studente corrispondono alle esigenze e alle aspettative dell’ente ospitante; definire insieme al tirocinante (e possibilmente insieme al tutor accademico) il progetto formativo di tirocinio e gli obiettivi di apprendimento attesi; accogliere il tirocinante e inserirlo nel contesto lavorativo; supportare il tirocinante durante il percorso e verificare periodica-
4
La letteratura nazionale relativa al ruolo del tutor, ai suoi compiti e alle sue competenze riguarda soprattutto i tutor aziendali per l’apprendistato (D’Agostino 2003, ISFOL, 2013). Il Decreto Legislativo n. 167/2011 (Testo Unico dell’Apprendistato) prevede, infatti, la presenza di un tutore (o referente aziendale, art.2 comma 1) nel corso dell’intero processo formativo facendo riferimento al Decreto 28 febbraio 2000 n. 22. Il Decreto del Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale ha emanato le disposizioni relative alle esperienze professionali richieste per lo svolgimento delle funzioni di tutor aziendale nell’apprendistato, delineandone nel dettaglio la figura professionale, le caratteristiche, il ruolo e i compiti e definendo le azioni di formazione, di durata non inferiore a 8 ore, al fine di garantire l’acquisizione delle competenze utili all’esercizio di tale ruolo.
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mente i risultati raggiunti; riflettere periodicamente sull’andamento del tirocinio e affrontare difficoltà che via via possono emergere; garantire che lo studente svolga le attività previste dal progetto formativo; valutare l’attività del tirocinante al suo termine.
5. La voce dei tutor aziendali La “voce dei tutor” appare un elemento significativo per contribuire al miglioramento del rapporto tra istituzione formativa e contesto lavorativo. Il tutor aziendale, infatti, come sopra richiamato, svolge un ruolo importante sia perché si occupa di seguire il tirocinante, l’andamento e l’impegno applicato nelle attività svolte presso la struttura, ma anche perché ha un punto di osservazione privilegiato per restituire all’università alcune prime valutazioni. La loro opinione viene considerata per indagare la soddisfazione, il gradimento e più in generale l’opinione delle strutture riguardo lo svolgimento del tirocinio al fine anche di migliorare la qualità dell’esperienza formativa per gli studenti dei corsi di laurea triennale e magistrale. Come abbiamo sostenuto precedentemente essa risulta maggiormente utile se confrontata e confermata dalle opinioni degli altri attori coinvolti nel processo5. Per conoscere il punto di vista del tutor aziendale è stato costruito un Questionario composto da 13 domande con l’obiettivo di prendere in esame almeno 3 aree (tab. 1): il percorso formativo, la valutazione del tirocinio e del tirocinante, la soddisfazione rispetto all’esperienza di tirocinio (Salerni et al. 2007)6. • Le domande relative al Percorso formativo si propongono di acquisire informazioni: sulle attività svolte dal tirocinante; sulle modalità di lavoro; sulla pianificazione del lavoro; sui problemi eventualmente insorti nel corso del tirocinio; sulla eventuale risoluzione; • le domande relative alla Valutazione del tirocinio e del tirocinante consentono di focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti e momenti importanti, potenzialmente problematici, dell’esperienza di tirocinio (congruenza delle ore, rapporto tra tutor e tirocinante, raggiungimento obiettivi formativi, competenze possedute prima e dopo il tirocinio, eventuale valutazione da parte dell’ente, valutazione delle competenze necessarie per essere assunti dall’Ente); • le domande relative alla Soddisfazione hanno lo scopo di far esprimere al tutor aziendale un parere sulla sua personale soddisfazione rispetto all’esperienza di tirocinio vissuta dallo studente.
5
6
Obiettivo prossimo, come si è detto, sarà quello di mettere a confronto le risposte dei tutor aziendali con le opinioni espresse dagli studenti soprattutto nella stesura della relazione finale di tirocinio necessaria per il riconoscimento dei crediti universitari formativi. Un questionario strutturato non è lo strumento migliore per rilevare le opinioni dei tutor aziendali, ma certamente quello che è più facile utilizzare in termini di tempo e di disponibilità da parte dei rispondenti per avere informazioni sul tirocinio. La scelta dello strumento da impiegare è stata effettuata considerando le difficoltà che si presentano utilizzando modalità di rilevazione che consentono di rilevare dati più in profondità, come per esempio un colloquio o un’intervista.
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Area
Percorso formativo
Variabili
1
Tipo di attività svolte durante il tirocinio (semplici o complesse)
2
Grado di inserimento del tirocinante nell’azienda e motivazioni Problemi o difficoltà incontrati nel corso del tirocinio, motivazioni, modalità di risoluzione dei problemi
Valutazione del tirocinio e del tirocinante
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N. Item
Organizzazione del tirocinio
3,3.a* 4,4.a*, 4.b*, 4.c*
Idoneità del monte ore per comprendere il modo in cui si lavora all’interno dell’azienda
5
Tipo di rapporto instaurato con il tirocinante
6
Raggiungimento degli obiettivi formativi stabiliti nel progetto formativo
7
Motivazione del conseguimento, o meno, degli obiettivi indicati nel progetto formativo
7.a*
Possesso iniziale di competenze da parte dello studente e loro miglioramento
8
Modalità, fasi e finalità della valutazione dello studente da parte dell’Ente
9, 9.a*, 9.b*
Possesso delle caratteristiche necessarie per l’assunzione dello studente da parte dell’Ente
11
Opinione del tutor rispetto al grado di soddisfazione del tirocinante
10
Offerta di collaborazione con l’Azienda Soddisfazione
11.a
Disponibilità a ripetere l’esperienza con altri tirocinanti e motivazioni
12, 12.a*
Grado di soddisfazione del tutor rispetto all’esperienza di tirocinio seguita e motivazioni
13,13.a*
* Domande a risposta aperta Tab. 1: Struttura del “Questionario finale per il tutor aziendale”
La popolazione presa in esame in questa ricerca è costituita da 1447 tutor aziendali di enti che hanno ospitato studenti del Corso di laurea triennale e magistrale negli ultimi due anni accademici (a.a. 2013/2015), ai quali è stato sottoposto un questionario cartaceo8 da compilare e consegnare per il riconoscimento dei crediti formativi. Si tratta complessivamente di risultati che fanno riferimento a esperienze di tirocinio curriculare svolte prevalentemente nei seguenti ambiti:
7
8
Le analisi si riferiscono ad una indagine condotta nell’ambito di una esercitazione di ricerca con studenti universitari (Università e lavoro), si è scelto dunque di limitare la popolazione solo a due anni accademici per consentire di mostrare agli studenti partecipanti l’intero processo di ricerca (dall’inserimento dei dati, al loro trattamento e alla restituzione dei risultati attraverso la stesura di una relazione). Somministrare un questionario cartaceo, la cui compilazione è condizione necessaria per l’acquisizione dei crediti formativi dello studente tirocinante, permette di mantenere un contatto diretto con le strutture, responsabilizzare le figure di riferimento (tutor) e soprattutto evitare le mancate risposte. Ovviamente non è possibile tuttavia evitare eventuali risposte di compiacenza.
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1) istruzione e formazione (pre-scolastica, scolastica e professionale) in più del 67% dei casi; 2) attività socio-educative (circa 20%); 3) servizi sanitari (4,5%). Le restanti esperienze di tirocinio degli studenti si distribuiscono in altri settori, comunque coerenti con il percorso formativo (educazione degli adulti, risorse umane, ambito penitenziario, ecc..). La prima parte del questionario, che possiamo sinteticamente ricondurre all’area “Percorso formativo” (cfr. Tab. 1), restituisce alcune indicazioni circa l’organizzazione del percorso di tirocinio e l’inserimento dello studente nella struttura. Nella maggior parte dei casi i tutor intervistati dichiarano (61,6%) di aver specificatamente pianificato le attività, anche se non mancano situazioni in cui l’attività varia a seconda delle esigenze giornaliere. L’attivazione di un tirocinio prevede infatti, come sopra richiamato, la stesura di un progetto formativo firmato dal tutor aziendale e da quello universitario in cui sono descritti gli obiettivi formativi previsti per il monte ore complessivo in accordo con lo stesso tirocinante. Conseguentemente quindi i tutor sono sollecitati a programmare le attività del tirocinante e a organizzare l’ingresso dello stesso nella struttura. Il ruolo stesso del tutor è proprio quello di accompagnare lo studente nell’esperienza di tirocinio e di supervisionarne le attività. Nei questionari emerge con evidenza il supporto al tirocinante da parte del tutor o di altro personale presente nella struttura ospitante nello svolgimento dei compiti a lui assegnati (73,6%), che risultano essere per il 45,8% comunque semplici e di routine. È evidente che il contributo di uno studente nell’ambito di una organizzazione già strutturata non può che esprimersi in attività non troppo complesse o comunque coordinate da figure più esperte. Il senso stesso del tirocinio è infatti quello di osservare un ambiente lavorativo per conoscere le principali modalità di lavoro e iniziarsi a familiarizzare con esso e con il profilo professionale richiesto. Inoltre si riscontra da parte delle strutture ospitanti un apprezzamento circa l’atteggiamento collaborativo e propositivo degli studenti e la loro capacità di inserimento e di integrazione nell’ambiente lavorativo. L’inserimento dei tirocinanti appare, secondo le valutazioni dei tutor, complessivamente positivo (96,5%) e senza difficoltà di rilievo. Gli studenti sembrano dimostrare interesse, diligenza e capacità d’integrazione nell’equipe; solo in pochissimi casi sono state dichiarate difficoltà nella relazione con gli altri (1,4%) e scarsa partecipazione nell’attività svolte (2,1%). L’esperienza di tirocinio così strutturata e le ore a disposizione per lo svolgimento delle attività appaiono adeguate e sembrano consentire, a detta degli stessi tutor, la costruzione di un rapporto Sereno (82,6%), Costruttivo (76,4%) e Costante (66,7%) con i tirocinanti (Graf.1). Per la valutazione del rapporto tutor/tirocinante è stato chiesto di indicare tra coppie di aggettivi opposti il punteggio che maggiormente si avvicinava all’aggettivo scelto (Differenziale semantico di Osgood). Inoltre i tutor dichiarano di considerare raggiunti gli obiettivi formativi prefissati in modo molto soddisfacente (75% dei casi) o comunque in modo sufficiente (22%).
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Graf. 1: Rapporto tra Tutor e Tirocinante Fonte: DB Tutor – SEF e PSEF
Solo in alcuni casi (4 tutor) viene dichiarato che più tempo a disposizione avrebbe consentito un migliore raggiungimento degli obiettivi e una maggiore possibilità di approfondimento di alcune attività professionali. In merito a questo punto, appare opportuno chiarire che la durata dei tirocini di norma varia tra le 150 e le 300 ore a seconda dei piani di studio triennali e magistrali e dei CFU da raggiungere (rispettivamente 6 o 12 CFU); inoltre la distribuzione delle ore nell’arco della settimana può cambiare a seconda della disponibilità dello studente e della struttura stessa. Con molta probabilità un tirocinio svolto con costanza e assiduità regolare favorisce un maggior apprendimento di mansioni e capacità/competenze specifiche (strumentali, organizzative, relazionali, personali). Per quanto riguarda infatti la valutazione delle competenze dello studente in ingresso e in uscita è stato interessante rilevare eventuali miglioramenti o peggioramenti tra la fase di inizio e quella finale del tirocinio. La valutazione richiesta ai tutor consiste infatti nell’identificare (attraverso una scala Likert) il possesso pre e post tirocinio di specifiche competenze, suddivise per aree: 1. Competenze STRUMENTALI: Conoscenze linguistiche; Conoscenze informatiche; Espressione orale; Scrittura; 2. Competenze ORGANIZZATIVE: Organizzazione del proprio lavoro; Scelta e gestione del materiale di lavoro; Capacità progettuali; Gestione di un gruppo di lavoro; Autonomia nello svolgimento dei compiti affidati; 3. Competenze RELAZIONALI: Relazionarsi con gli altri; Identificarsi nel proprio ruolo lavorativo; Lavorare in gruppo; Capacità di apprezzare la diversità e la multiculturalità; 4. Competenze PERSONALI: Capacità critica e autocritica; Saper risolvere problemi; Saper sopportare lo stress; Motivazione; Interesse per il lavoro; Senso di responsabilità; Disponibilità; Spirito di iniziativa.
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Per analizzare tali informazioni è stato effettuato un confronto (Graf. 2) tra le due valutazioni (in entrata e in uscita) al fine di stabilire se il tirocinio ha favorito un miglioramento o se, invece, si assiste a una stazionarietà o a un peggioramento delle capacità/competenze del tirocinante. In generale, dall’analisi delle aree identificate, emerge, come era da aspettarsi visto il tipo di attività, un evidente miglioramento delle competenze organizzative (70,6%) e di quelle relazionali (55,2%). Per quanto riguarda le competenze personali nel 40,4% dei casi i tutor dichiarano un miglioramento e nel 46,5% una stazionarietà delle competenze che comunque erano già state valutate positivamente anche in ingresso. Infine, per quanto attiene le competenze strumentali la quota maggiore dei tutor (58%) fa riferimento ad una stabilità, l’8,9% nota un miglioramento, mentre nel 29,7% dei casi sembra non sia stato possibile valutare le specifiche richieste. In effetti in alcune strutture, come per esempio gli asili nido, appare più complicato esprimere una valutazione su conoscenze o capacità non agite direttamente nel contesto, o agite solo in minima parte, come per esempio le conoscenze informatiche, le conoscenze linguistiche, o le competenze di scrittura. !
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Graf. 2: Evoluzione competenze (confronto tra competenze in entrata e in uscita) Fonte: DB Tutor – SEF e PSEF
Per quanto rigurda l’ultima area delle domande del questionario (Soddisfazione), complessivamente i tutor, in accordo con quanto dichiarato dagli stessi studenti tirocinanti, ritengono molto soddisfacente (oltre il 70%) e abbastanza soddisfacente (24.3%) l’esperienza di tirocinio dello studente seguito, in particolare riconoscono che l’accoglienza dei tirocinanti presso la loro struttura è occasione per valorizzare predisposizioni personali, volontà e collaborazione da parte dei tirocinanti (circa il 41,7%) e favorire la crescita e la conoscenza reciproca (16%). Tale obiettivo è del resto proprio quello che il modello di tirocinio proposto nei Corsi di laurea si prefigge. La soddisfazione per l’esperienza vissuta è confermata inoltre dal fatto che una quota che supera il 98% dei tutor dichiara di aver intenzione di ospitare altri tirocinanti provenineti dal Corso di laurea sia per dare loro l’opportunità di svolgere un’esperienza formativa, sia riconoscendo che questi studenti sono e possono essere una risorsa per la struttura e un collegamento diretto con l’università, integrando finalmente formazione e lavoro. Emerge, infine, dai questionari un dato che più di altri conferma l’importanza di una adeguata esperienza di tirocinio anche per l’inserimento lavorativo: oltre il 36% dichiara di aver intenzione di proporre o aver proposto al tirocinante di collaborare nella propria struttura.
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6. Riflessioni generali: punti di forza e debolezze La forte spinta da parte del Corso di laurea ad avviare esperienze di tirocinio coerenti con i profili formativi dei percorsi triennali e magistrali e l’attivazione di un modello di gestione del tirocinio come sopra presentato, ha senza dubbio diversi punti di forza.
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– In primo luogo, nonostante il processo di attivazione sia abbastanza articolato per le aziende e per gli studenti9 e preveda la necessità di una struttura e di operatori dedicati alla gestione delle attività, ha permesso nel tempo la costruzione di una solida prassi gestionale che consente di monitorare costantemente il processo e i suoi passaggi, intervenendo laddove vi siano difficoltà. – Inoltre, anche semplicemente il fatto che lo studente debba recarsi nelle diverse fasi del tirocinio presso l’università per compilare i questionari (pre, in itinere, post) e scrivere la relazione finale sull’esperienza di tirocinio per il riconoscimento dei crediti formativi, favorisce un’utile interazione con il tutor universitario che può supportarlo durante tutto il processo ricevendo anche informazioni circa la validità formativa della struttura ospitante e la disponibilità dei suoi referenti a seguire i tirocinanti nel processo formativo. – La relazione tra università e aziende, che passa anche attraverso il questionario somministrato ai tutor aziendali, consente uno scambio continuo di informazioni e un confronto, seppur nei limiti sopra denunciati, sulla preparazione degli studenti e sull’utilità del tirocinio per l’acquisizione di specifiche competenze professionali, contribuendo inoltre alla costruzione di una ampia rete di strutture/imprese disponibili ad accogliere tirocinanti per attività/profili coerenti con il percorso di studi e a seguirli nel processo formativo. Per quanto riguarda invece alcune criticità rispetto agli strumenti utilizzati per il monitoraggio e in particolare relativamente al questionario indirizzato ai tutor aziendali è opportuno segnalare che vi sono alcuni possibili interventi di miglioramento, quali: – una maggiore richiesta di specificare le mansioni svolte e i profili professionali di riferimento, al fine di costruire una “certificazione” puntuale delle attività effettuate; – una revisione della tabella delle competenze nel questionario, anche alla luce degli ultimi orientamenti in termini di certificazione delle competenze acquisite attraverso i tirocini formativi e di orientamento (DGR 199/201310);
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Nello specifico i tirocini vengono attivati tramite una piattaforma (www.jobsoul.it) che richiede la registrazione sia da parte dell’azienda che dello studente per avviare la Convenzione quadro con l’intero Ateneo e il progetto formativo convalidato dal tutor universitario. È evidente dunque che una procedura così articolata, seppur informatizzata, richiede una serie di passaggi burocratici amministrativi di rilievo e tempi di lavoro non sempre immediati. 10 In particolare la DGR 199/2013 prevede che il soggetto ospitante trasmetta la relazione sull’esperienza svolta dal tirocinante al soggetto promotore ai fini del rilascio, da parte di quest’ultimo, dell’attestazione dell’attività svolta e delle competenze eventualmente acquisite (Delibera della Giunta regionale, 18 luglio 2013, n. 199 Attuazione dell’Accordo
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– per migliorare il sistema e rendelo sempre più coerente con il percorso di studi e gli sbocchi lavorativi, potrebbe essere interessante un confronto diretto con alcuni dei tutor aziendali (possibilmente quelli appartenenti alle strutture che ospitano un elevato numero di tirocinanti) per approfondire alcune questioni di rilievo (per esempio la distanza tra le aspettative circa la preparazione degli studenti e le conoscenze/capacità richieste per lo svolgimento delle attività di specifici ruoli professionali). A tal fine potrebbe essere utile l’attivazione di almeno due focus group annuali tra tutor aziendali e tutor universitari, oltre che, ovviamente, completare l’analisi di tutti i questionari disponibili (tutor e studenti) anche attraverso confronti su specifiche dimensioni analizzate ed effettuare approfondimenti tramite l’analisi delle relazioni prodotte dagli studenti. Infine sulla gestione universitaria dei tirocini curriculari vi sono margini di miglioramento, che non riguardano esclusivamente i Corsi di laurea oggetto del presente contributo, fra i quali: – la necessità di poter snellire alcuni passaggi amministrativi (dall’attivazione della Convenzione a quella del progetto formativo possono passare anche più di 30 giorni), semplificandone le modalità e accelerando i tempi; – la possibilità di attivare maggiori laboratori e attività di orientamento al mondo delle professioni educative che possano contribuire allo sviluppo di specifiche competenze professionali anche per chi non ha modo di attivare un tirocinio curriculare (studenti/lavoratori) nè tantomeno di riconoscere attività pregresse (magari non coerenti con il percorso formativo); – l’urgenza di conoscere i destini professionali dei laureati anche dopo il conseguimento del titolo di studio per capire, se e in che misura, l’esperienza di tirocinio condotta ha rappresentato davvero un momento di formazione e di orientamento e in che modo si collega alle traiettorie professionali degli individui.
Riferimenti bibliografici Bruner, J. (1996). The culture of education. Cambridge, Mass.: Harvard University Press. D’Agostino, S. (a cura di) (2003). Manuale per il tutor aziendale. Roma: Isfol. Dewey, J. (1989). The School and Society and The Child and the Curriculum. Chicago: University of Chicago Press. Dewey, J. (1904). The Relation of Theory to Practice in Education. In McMurry C. A. (ed.), The Third Yearbook of the National Society for the Scientific Study of Education (pp. 929). Chicago: The University of Chicago press. Dewey, J. (1929). The Source of a Science of Education. New York: Livering Publishing Corporation. Dewey, J. (1938). Experience and education. Indianapolis: Kappa Delta Pi. Frabboni, F. & Guerra, L., Lodini, E., (1995), Il tirocinio nella formazione dell’operatore socioeducativo. Roma: Carocci.
adottato dalla Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano del 24 gennaio 2013, in applicazione dell’art. 1, co. 34, legge 28 giugno 2012, n. 92 in ordine alla regolamentazione dei tirocini. Revoca DGR n. 151 del 13 marzo 2009).
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Isfol (2013). Il tutor aziendale per l’apprendistato. Manuale per la formazione. I libri del Fonso sociale europeo. Roma: Isfol. Magni, C., Lucisano, P., Renda, E. (2014). I servizi di supporto alla transizione al lavoro per i laureati: professionalità e strumenti per l’incontro domanda/offerta. In Piazza R. (a cura di), L’esperto in career guidance. Formazione e ruolo professionale. Milano: FrancoAngeli. Magni, C., Renda, E. (2013). Aspettative dei laureati e domanda delle imprese: esplorazione di un binomio asimmetrico. Quaderni di Economia del Lavoro, 99, 73-102. Milano: FrancoAngeli. Salerni, A. (ed.). (2007). Apprendere tra università e lavoro. Un modello per la gestione del tirocinio universitario. Roma: Homolegens. Salerni, A., Sanzo, A., Sposetti, P., Storchi, M. N. (a cura di) (2007). Terza indagine sul tirocinio. Roma: Edizioni Nuova Cultura. Salerni, A., Sanzo, A., Szpunar, G. (2011). Il tirocinio come strumento di integrazione tra teoria e pratica. le competenze del docente universitario nel modello dei Corsi di Laurea pedagogici della “Sapienza” Università di Roma. In L. Galliani (a cura di), Il docente universitario. Una professione tra ricerca, didattica e governance degli Atenei, Atti della VIII Biennale Internazionale della Didattica Universitaria Padova 2 e 3 dicembre 2010, (pp. 457-468, Tomo II). Lecce: Pensa MultiMedia . Salerni, A., Sposetti, P. (2010). La valutazione della produzione scritta universitaria: il caso delle relazioni di tirocinio. In E. Lugarini (Ed.), Valutare le competenze linguistiche. Atti del XV Convegno Nazionale Giscel (pp. 391-404). Milano: Franco Angeli. Salerni, A., Sposetti, P., Szpunar, G. (2013). La narrazione scritta come elemento di valutazione del tirocinio universitario. Ricerche di pedagogia e didattica, 8, pp. 9-26. Salerni, A., Sposetti, P., Szpunar, G. (2014). Narrative writing and University Internship Program. Procedia – Social and Behavioral Sciences, 140, pp. 133-137. Salerni, A., Sanzo, A. (ed.) (2013). Orientare al tirocinio e alle professioni. L’università incontra le aziende. Roma: Nuova Cultura. Schön, D. A. (1987). Educating the Reflective Practitioner: Toward a New Design for Teaching and Learning in the Professions. San Francisco: Jossey-Bas. Schön, D. A. (1983). The Reflective Practitioner: How Professionals Think in Action. New York: Basic Books. Sposetti, P. (2011). Quante e quali scritture professionali in educazione. Italiano LinguaDue, 3, pp. 261-271. Szpunar, G., Salerni, A., Sposetti, P., Renda E. (2015). Il tirocinio universitario come strumento di orientamento. L’esperienza dei Corsi di Laurea in Scienze dell’educazione della Sapienza di Roma. Formazione, Lavoro, Persona, 13, pp. 146-159. Szpunar G., Renda E. (2015). Educatori non si nasce. Una riflessione sul ruolo del tirocinio nella formazione delle competenze per il lavoro socio-educativo. Formazione Lavoro Persona, V, 15, 2015, pp. 149-159.
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Didattica Universitaria di Qualità in un’ottica inclusiva. Il modello DUQ-G, per la gestione della progettazione di un corso di insegnamento Diletta Peretti • Università degli Studi di Cagliari – perettid@unica.it Raffaela Tore • Università degli Studi di Cagliari – raffaela.tore@gmail.com
Quality of Didactic in University for an inclusive vision. The DUQ-G model, for project management of a course Al giorno d’oggi le aule presentano una grande eterogeneità in ambito sociale, culturale, etnico. Il docente universitario dovrebbe essere consapevole del ruolo dell’educazione in termini di dinamiche sociali e muoversi all’interno di una visione inclusiva tenendo conto delle diversità dei discenti, al fine di sviluppare il potenziale di ogni allievo. Il Laboratorio Didattico Calaritano ha svolto un lavoro di riflessione sulle buone pratiche in tema di progettazione didattica e valutazione degli apprendimenti. Tra i prodotti di questo percorso, il modello DUQ-G si propone come strumento per una Progettazione Didattica Universitaria di Qualità. L’attenzione è centrata sullo studente e sulle sue caratteristiche personali e fornisce gli strumenti atti al raggiungimento degli obiettivi di apprendimento, al monitoraggio dell’attività didattica e alla verifica della coerenza con la fase di progettazione.
Keywords: didactic planning, inclusion, quality, university, student, successful educational.
Parole chiave: programmazione didattica, inclusione, qualità, università, studente, successo formativo.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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Nowadays students’ different social environments, cultures, abilities and disabilities make classes very heterogeneous. University teachers ought to be conscious of the role of education in social dynamics and to have an inclusive vision to evaluate and promote every single student potential. In academic year 2008-2009 the Laboratorio Didattico Calaritano started a formative path for teachers of the Ateneo di Cagliari, aiming to provide them knowledge, competencies and good practice regarding didactic planning and evaluation of learning outcomes. Among the products of this path, the DUQG model is proposed as a tool for a quality didactic planning of courses. Focus’s centered on students and their personal features and gives tools in aim of achieve learning objectives, to monitor didactic activity and to verify its consistency with the planning step.
Didattica Universitaria di Qualità in un’ottica inclusiva. Il modello DUQ-G, per la gestione della progettazione di un corso di insegnamento
Introduzione
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Il carattere di complessità che contraddistingue la società contemporanea, nonché i ritmi convulsi con cui essa si evolve e modifica i suoi assetti, hanno da tempo reso necessaria una revisione delle tradizionali nozioni di conoscenza, insegnamento e apprendimento. Sempre più si evidenzia l’esigenza di rimodulare i saperi anche sull’acquisizione di conoscenze, abilità e competenze atte ad affrontare una realtà composita e mutabile, dai confini labili e continuamente modificabili, un corpus di saperi finalizzati a formare un individuo aperto, pronto al dialogo, in grado di accettare il mutamento ed il pluralismo delle prospettive, di apprendere durante l’arco della vita (longlife learning). In tutti i campi si assiste ad una separazione dei saperi quando invece più forte è sentita l’esigenza di trovare il filo conduttore delle azioni umane, anche alla luce del carattere sempre più transnazionale e globale della nostra società non più solo a livello economico, ma anche culturale e politico. I processi di insegnamento e apprendimento sono importanti nella vita di un individuo perché lo formano culturalmente e da essi dipendono sia la carriera professionale sia il ruolo che egli svolge nella società. Le potenzialità di crescita di un paese dipendono perciò dalla qualità del suo sistema formativo e d’istruzione e quindi dalla qualità delle professionalità in grado di implementare conoscenze, abilità e competenze nelle generazioni future. 1. Il Processo di Bologna e lo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore All’interno di questo scenario si inserisce il discorso ampio e articolato in materia d’istruzione e ricerca avviato in Europa con il Processo di Bologna e la Strategia di Lisbona1 finalizzati a creare uno spazio europeo collettivo, denominato Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore (SEIS/ EHEA), che si occupasse dell’istruzione e della ricerca con l’obiettivo, tra gli altri, di accrescere il mercato del lavoro e la mobilità e quindi migliorare l’economia europea. L’iniziativa era stata ispirata dall’incontro dei Ministri di Francia, Germania, Italia e Regno Unito del 1998 e lanciata come Processo di Bologna alla conferenza dei ministri dell’istruzione superiore che si era tenuta a Bologna nel giugno 1999. Il SEIS si pone come obiettivi dell’Istruzione Superiore la libertà accademica, l’autonomia istituzionale e la partecipazione di docenti e studenti al governo del-
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La Strategia di Lisbona (2000) è un programma di riforme approvato dal Consiglio Europeo per favorire occupazione, sviluppo economico e coesione sociale in una economia fondata sulla conoscenza.
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l’università, la presenza di una qualità accademica, lo sviluppo economico e la coesione sociale. Deve inoltre essere sviluppata la dimensione sociale dell’istruzione superiore, l’occupabilità e l’apprendimento permanente dei laureati, la libertà di movimento di studenti e docenti, la collaborazione con l’istruzione superiore di altre parti del mondo e con l’esterno. Sulla base degli accordi raggiunti nell’ambito dello Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore i governi hanno il compito di attuare le riforme legislative necessarie. Tra le riforme impostate dai governi nell’ambito del SEIS si rilevano: l’introduzione di un sistema di titoli comprensibili e comparabili (il sistema a tre cicli, di primo, secondo e terzo livello), la trasparenza dei corsi di studio attraverso un comune sistema di crediti basato sul carico di lavoro e i risultati di apprendimento e attraverso il Diploma Supplement, il riconoscimento dei titoli e dei periodi di studio, l’attuazione di un quadro dei titoli per lo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore, un approccio condiviso all’Assicurazione della Qualità. Le decisioni sono assunte dai ministri responsabili dell’istruzione superiore dei paesi partecipanti durante le conferenze ministeriali che si tengono ogni due o tre anni. Tra una conferenza ministeriale e l’altra, il processo di costruzione dello Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore viene curato dal Gruppo dei Séguiti di Bologna (BFUG), costituito dai rappresentanti di tutti i paesi partecipanti, cui si aggiungono alcuni membri consultivi. IL SEIS conta attualmente 47 paesi membri, che sono stati ammessi in diversi scaglioni (possono candidarsi ad entrare nello Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore i paesi che hanno sottoscritto la Convenzione Culturale Europea2 purché si impegnino a perseguire e realizzare gli obiettivi del Processo di Bologna nel loro sistema di istruzione superiore); anche la Commissione Europea è membro a pieno titolo. Attualmente i membri consultivi sono otto: Business Europe, il Consiglio d’Europa (CoE), Education International (EI), l’Unione Europea degli Studenti (ESU), l’Associazione Europea delle Università (EUA), l’Associazione Europea delle Istituzioni di Istruzione Superiore (EURASHE), l’UNESCO, l’Associazione Europea per l’Assicurazione della Qualità nell’Istruzione Superiore (ENQA). L’Assicurazione della Qualità è infatti uno degli obiettivi più importanti del SEIS e uno dei temi sui quali il Gruppo dei Sèguiti può costituire gruppi di lavoro.
2. SEIS: stato dell’arte Attualmente lo stadio di avanzamento del Processo di Bologna e quindi i relativi benefici per studenti, docenti ed istituzioni variano da paese a paese. Insieme ai successi conseguiti occorre mettere in evidenza anche la mancata attuazione di alcuni obiettivi da parte dei governi nazionali. I cicli di studio (tre più due) risultano applicati in ventiquattro paesi, mentre altri si stanno adeguando. Ci sono differenze non solo nel recepire o meno i suggerimenti delle Conferenze o nei tempi di attuazione ma anche nella denominazione di coloro che hanno conseguito i vari titoli3. Il Quadro dei Titoli Italiani (QTI, sito MIUR 20 gennaio 2011) comprende laurea (1° ciclo), laurea magistrale (2° ciclo), dottorato di ricerca (3° ciclo) ed è costruito sul modello del Quadro dei
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http://conventions.coe.int/Treaty/Commun/ http://europa.eu/youreurope/citizens/education/university/
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titoli per lo Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore. Tuttavia mentre in Italia agli studenti che abbiano conseguito una laurea di durata triennale spetta la qualifica di dottore4, nel resto dell’Europa si parla di bechelor ed il titolo di dottore può riferirsi solo a colui che esercita la professione di medico o ha conseguito il dottorato. In Inghilterra, Spagna, Germania e nelle università pontificie, il grado accademico di doctor viene conseguito solo con il relativo dottorato. La suddivisione nei tre cicli era stata suggerita al fine di favorire e sviluppare la occupabilità quindi la istituzione dei corsi di studio, in particolare quelli triennali, presupponeva un preciso e appropriato contatto con il mondo del lavoro, cosa che non sempre è accaduta e accade, almeno in Italia, determinando un possibile scollamento tra percorso di studio e competenze effettivamente richieste in ambito nazionale ed europeo. I Paesi europei che hanno aderito al Processo di Bologna si sono impegnati a emettere, insieme ai propri titoli di istruzione superiore, anche un documento aggiuntivo noto come Supplemento al Diploma o Diploma Supplement (DS), uno strumento di grande aiuto per una corretta valutazione del corso e del titolo di studio relativo. Si ritiene possa facilitare le procedure di riconoscimento dei titoli accademici e professionali e quindi la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione in quanto ricostruisce in modo analitico, preciso e trasparente tutto il percorso formativo, compreso il curriculum con l’elenco delle materie e i loro principali contenuti. In Italia il D.M. 270 prevede che le università lo rilascino integrando tale diposizione nel Regolamento Didattico di Ateneo e il DM 47/2013 che l’ANVUR (l’Agenzia nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca) ne verifichi l’effettivo rilascio a tutti i laureati. Va osservato che il Diploma Supplement e i quadri delle qualifiche che categorizzano i risultati dell’apprendimento in conoscenze, abilità e competenze utilizzando i Descrittori di Dublino, non operano distinzione tra i risultati attesi, come stabiliti nella descrizione del programma di studio, e ciò che lo studente ha effettivamente conseguito in termini di risultati dell’apprendimento; ciò comporta la necessità di collegare i risultati dell’apprendimento e il modo in cui il rendimento dello studente è valutato “[…] usando criteri, regole e procedimenti resi pubblici ed applicati in modo coerente”.5 Un altro principio fondamentale del SEIS è l’Apprendimento Permanente, programma che il Parlamento e il Consiglio Europeo hanno fatto loro nel 2006 con la creazione del Lifelong Learning Programme. Sebbene sia stato uno dei temi centrali del Processo di Bologna, i documenti politici sono scarsi: solo in pochi paesi i documenti d’indirizzo sull’istruzione superiore includono una definizione di apprendimento permanente; anche laddove tali documenti esistano, è difficile stabilire quali attività rientrino sotto questo concetto; l’offerta associata all’apprendimento permanente comprende principalmente corsi non formali organizzati dagli istituti di istruzione superiore accanto ai loro corsi di diploma formali o corsi di diploma offerti secondo modalità diverse dai tradizionali schemi a tempo pieno (per l’Italia vedi Dlg.vo 16 gennaio 2013, n. 13). Per quanto riguarda l’Assicurazione della Qualità il workshop tenutosi a Dublino il 9 e 10 Febbraio 2012 (Quality Assurance and Qualifications Frameworks: exchanging good practice), ha fatto il punto su quanto compiuto finora dall’ENQA,
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Decreto Ministeriale 270/2004, Legge n. 240/2010 art. 17 comma 2. Standard and Guidelines for Quality Assurance in the European Higher Education Area©, Yerevan, May 2015 (ESG).
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l’Associazione Europea per l’Assicurazione della Qualità nell’Istruzione Superiore. Il sistema di qualificazione del SEIS, (QF- EHEA) comprendente tre cicli con i relativi descrittori per ogni ciclo basati sui risultati di apprendimento (learning outcomes) nonché l’intervallo dei crediti per i primi due cicli, è stato adottato dal 2005 per rendere comparabili le qualifiche nazionali ed è stato recepito dalla Unione Europea con la istituzione della Rete di Qualificazione Europea (EQF). Ogni nazione è autonoma nel prendere le proprie decisioni ma la certificazione di elementi di qualificazione dovrebbe essere comune a tutti i paesi europei pena la squalifica delle reti di qualificazione a livello nazionale ed europeo. La compatibilità di una rete nazionale con la Rete di Qualificazione Europea (EQF) deve essere certificata secondo i criteri indicati dal EQF Advisory Group al fine di guidare un processo di verifica, supportato da esperti internazionali, che porti a produrre un documento di auto-certificazione compatibile con le linee guida dettate dal QF-EHEA; tuttavia risulta che la implementazione dei sistemi di qualificazione a livello nazionale sia lenta e che pochi progressi siano stati fatti. Tra il 2006 e il 2012 hanno completato l’auto-certificazione Belgio, Danimarca, Galles, Germania, Inghilterra, Irlanda, Irlanda del Nord, Malta, Olanda, Portogallo, Romania e Scozia (Quality Assurance and Qualifications Frameworks: Exchanging Good Practice. ENQA Workshop Report 21. Belgium 2012). La funzione di agenzia nazionale sull’assicurazione della qualità viene svolta in Italia dall’ANVUR; l’insieme delle attività dell’Agenzia che costituiscono il sistema volto all’accreditamento iniziale e periodico dei corsi di studio e delle sedi universitarie, alla valutazione periodica della qualità, all’efficienza dei risultati conseguiti dagli atenei e al potenziamento del sistema di autovalutazione della qualità e dell’efficacia delle attività didattiche e di ricerca delle università viene denominato AVA (Autovalutazione, Valutazione periodica, Accreditamento) ed ha iniziato ad essere applicato progressivamente dalle università a partire dal 2013. Gli elementi portanti del sistema integrato AVA derivano in larga misura, oltre che dalla normativa nazionale, dal già citato documento ENQA (ESG, Standards and guidelines for quality assurance in the European Higher Education Area), linee guida per l’assicurazione interna ed esterna della qualità nell’istruzione superiore. L’EQAR (European Quality Assurance Register for Higher Education) pubblica annualmente un rapporto con la lista delle agenzie di assicurazione della qualità conformi alle ESG. Assicurazione della Qualità, reti di qualificazione, riconoscimento e risultati di apprendimento si sostengono e si complementano e dovrebbero essere sviluppati e implementati insieme. I risultati di apprendimento, come definiti dal processo di Bologna, sono ampiamente usati ma non sono compresi ed applicati allo stesso modo nei vari paesi: solo alcuni vantano esperienze dettagliate a livello istituzionale e nazionale. Il rapporto 2007–2008 del Joint Nordic Project, un forum gestito dal NOQA (the Nordic Quality Assurance Network for Higher Education)6 riferisce che Scozia ed Eire mostrano i sistemi più sviluppati, che usano i risultati di apprendimento come base per la rete di qualificazione, i descrittori di livello, i descrittori di qualificazione generica, i descrittori di soggetto e i moduli individuali; anche Galles, Inghilterra e Irlanda del Nord hanno sistemi ben collaudati che hanno introdotto l’uso dei learning outcomes nella alta formazione. Belgio, Croazia, Estonia,
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G. Gallavara et al., Learning outcomes: Common framework – different approaches to evaluation learning outcomes in the Nordic countries,. ENQA Occasional papers 15.
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Italia, Moldavia, Portogallo, Romania, Spagna, Ungheria e Svizzera stanno facendo rapidi progressi verso una implementazione dei learning outcomes; in particolare la Comunità Fiamminga in Belgio, Irlanda, Italia, Regno Unito, Repubblica Slovacca, Spagna e Ungheria hanno sviluppato o sono in uno stadio avanzato di implementazione di sistemi integrati che adottano l’approccio dei learning outcomes a tutti i livelli della attività educativa, mentre in Estonia, Grecia, Lituania e Lettonia si riscontra uno sviluppo modesto in quest’area; fuori dall’Europa le più attive risultano Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica e Stati Uniti.
3. Il Laboratorio Didattico Calaritano
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In Italia, dalla riforma dell’università avviata con i DDMM 509/1999 e 270/2004, in accordo con le direttive europee, ha avuto inizio un processo di rinnovamento dell’offerta formativa che tende al superamento di un modello di organizzazione del sapere oggi inadeguato a capire e gestire la complessità sociale, culturale ed economica. Tali interventi mirano a garantire la trasparenza dei percorsi formativi, la mobilità lavorativa tra i paesi europei e una conoscenza di alta qualità; costituisce un problema molto pesante perciò l’alta percentuale di insuccessi scolastici e di abbandoni (in Italia il tasso di dispersione riportato per il 2014 è del 27,9%)7 per non parlare dell’università dove si osservano sia dispersione che riduzione delle iscrizioni. È necessario ripensare il modo di fare formazione per renderlo più funzionale alle nuove esigenze e alle nuove condizioni della società odierna: è probabile, infatti, che capacità professionali e tecniche attuali possano risultare non più rispondenti alle mutate condizioni sociali le quali, a loro volta, potrebbero richiedere nuove e più produttive finalità educative, rivedendo in particolare il percorso formativo dei docenti, e la creazione di nuove opportunità al fine di rendere disponibili risorse che permettano di migliorare la qualità delle loro prestazioni. Sappiamo che oggi le aule sono caratterizzate da una maggiore eterogeneità rispetto al passato: i ragazzi provengono da ambienti sociali diversi, presentano livelli diversi di abilità e di disabilità, appartengono a varie culture; per questo motivo anche le competenze pedagogiche dei docenti universitari devono essere continuamente aggiornate per mettere in atto scelte competenti per organizzare l’insegnamento e valutare l’apprendimento in modo efficace tenendo conto delle diversità dei discenti; un docente dovrebbe quindi anche conoscere le pratiche di tipo riflessivo in modo da analizzare il proprio operato, i propri successi e insuccessi, per migliorare le proprie strategie e tecniche didattiche ed essere in grado di sviluppare il potenziale di ogni allievo. È auspicabile per questa figura professionale la comprensione del ruolo dell’educazione in termini di dinamiche sociali di inclusione/esclusione e il possesso di tecniche e competenze per valutare la diversità delle culture e dei sistemi di valori dei propri allievi e quindi il processo di apprendimento di ciascuno in base al principio di equità sociale (Bloom, 1984, Tagliagambe, 2006; Giovannini, 2012). Anche il docente universitario dovrebbe muoversi all’interno di una visione inclusiva, che è una peculiarità di una forma-
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Dossier Dispersione nella scuola secondaria superiore statale, di TuttoScuola, Roma, 2014, all’indirizzo on line http://www.tuttoscuola.com/public/uploads/000/Tuttoscuola-Dossier-Dispersione_11_6_14.pdf
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zione di qualità, e favorire forme di apprendimento significativo, attivo e creativo indispensabile per permettere sia agli studenti che ai docenti di apprendere, di acquisire e mettere in relazione ricerche e nuove conoscenze. I nuovi concetti assumono significato quando si integrano con le conoscenze precedenti, quando sono assimilati o incorporati nella struttura cognitiva del soggetto. Ognuno possiede significati e concetti propri dai quali deve partire per costruirne altri, per adattarli a nuove esigenze ed evidenze (Ausubel, 1983; Kolb, 1998; Novak, 2001). L’università in quanto produce formazione formale dovrebbe diventare, in quest’ottica, Comunità in Apprendimento e promuovere fra tutti gli attori coinvolti leadership diffusa che favorisca il loro coinvolgimento nel percorso di inclusione: questo significa per i formatori essere implicati nell’azione, coinvolti, orientati ad attivare relazioni e rapporti orizzontali, a mettersi in gioco e attivare processi di nuove consapevolezze professionali che rinforzano l’autostima avvicinando la vita personale a quella professionale (Leone & Moretti , 2010). Questo tipo di organizzazione si configura anche come una Comunità di Pratica (Wenger, 2007) dove i professionisti dell’insegnamento-apprendimento costituiscono gruppi informali in cui è possibile scambiarsi confidenze, pareri, impressioni, dubbi, informazioni e dove si possono apprendere nuove conoscenze e competenze. Da questi presupposti è nato nella Università di Cagliari il Laboratorio Didattico Calaritano (LDC), avviato nell’anno accademico 2008-2009 nell’ambito del Progetto Qualità Campus-Unica, che ha ripreso le linee teoriche esplicitate nel progetto Campus One, per sostenere un percorso formativo rivolto ai docenti nell’Ateneo cagliaritano avente l’obiettivo di fornire loro conoscenze, competenze e buone prassi sui temi della progettazione didattica e della valutazione degli apprendimenti. Il progetto Campus One è stato portavoce di diverse istanze legislative e si è fatto sostenitore, tra queste, del protocollo Confindustria – Conferenza dei Rettori del 13 luglio 1993 attraverso il quale le realtà aziendali manifestarono crescente attenzione al rapporto con l’università per la definizione di nuovi percorsi formativi in risposta alle nuove esigenze del mondo del lavoro. Tale progetto si prefiggeva di rispondere ad alcune esigenze emerse a livello europeo, in sintonia con le conclusioni della Presidenza del Consiglio Europeo di Barcellona, ove si constatava una ancora insufficiente capacità concorrenziale degli atenei del nostro Paese, nonostante la qualità delle pubblicazioni e delle attività di ricerca e formazione in essi condotte8. In particolare lo scopo del Laboratorio Calaritano era di favorire un apprendimento significativo (Novak J., 2001) attraverso la valutazione di tutti i processi di insegnamento e apprendimento per promuovere le competenze degli studenti universitari e ridurre la dispersione. L’esperienza del Laboratorio Calaritano si è configurata durante la sua prima fase come attività di formazione, che ha impegnato i corsisti da febbraio a luglio 2009 ed è stata articolata in dieci moduli di due giornate ciascuno, per una durata totale di sessanta ore. Hanno collaborato, in qualità di relatori, undici docenti provenienti da sette atenei italiani; tale corso di formazione è stato seguito da cinquanta tra professori di I e II fascia e ricercatori dell’Università di Cagliari. La seconda fase del percorso del Laboratorio Didattico si è sviluppata tra settembre 2009 e marzo 2010 sotto l’egida del Centro Qualità dell’Ateneo, costituito nel frattempo. I docenti del Laboratorio Calaritano, impegnati in una Ricerca-Azione Partecipativa, hanno con-
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wwwcrui.it/, Progetto, Campus One, op. cit., pp. 8,9,10.
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diviso buone pratiche di progettazione didattica per la costruzione di tutti quegli strumenti validi per l’ottimizzazione del processo di insegnamento-apprendimento. Le ipotesi di lavoro sono state elaborate in relazione alle esigenze e agli interessi manifestati dai corsisti. Operatività, trasversalità, riflessività, produttività sono stati i criteri generali di riferimento didattico per la conduzione dei laboratori sotto la guida di una cabina di regia composta da pedagogisti delle Università di Firenze (G. De Gobbo, P. Orefice) e Napoli (M.L. Iavarone, M. Striano). La composizione eterogenea dei partecipanti in relazione sia agli ambiti disciplinari di provenienza (area umanistica e scientifica) che al ruolo ricoperto (facevano parte del gruppo docenti e ricercatori dell’università, studenti, supervisori di tirocini) ha favorito un approccio trasversale alle problematiche poste in campo mettendo in evidenza problemi comuni ai diversi ambiti disciplinari e peculiarità di singoli settori, nonché punti di vista differenti dei vari attori. Particolare rilevanza è stata data alla azione sistematica di riflessione sulle esperienze compiute dai docenti sulle proposte metodologiche e didattiche offerte dai relatori e al confronto e alla condivisione di idee. Un rapporto completo dell’esperienza è pubblicato dalla Fondazione CRUI (2014)9.
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4. Il modello DUQ- G Nell’ambito del lavoro del Laboratorio Calaritano si è sviluppata la proposta del Gruppo Unica10 di un modello Gestionale della Progettazione Didattica Universitaria di Qualità (DUQ-G) che si basa sul DUQ-P, Modello di Qualità Pedagogica, ampiamente descritto nel report citato. Il DUQ-G parte dalla considerazione che per l’innovazione della didattica universitaria è essenziale l’applicazione di un sistema gestionale certo e organizzato, finalizzato all’efficacia dell’insegnamento basato sulla ricerca e sulla bontà dell’apprendimento nell’ottica anche dell’occupabilità; ci si aspetta pertanto di ottenere eccellenti performance da un processo di insegnamento e apprendimento vissuto in maniera olistica, seguendo il modello teorico proposto durante il Laboratorio Didattico Calaritano e che si basi su principi che possono essere così declinati: il Corso di Studio, tramite i corsi di insegnamento, è centrato sullo studente e sulle sue caratteristiche personali per offrire a tutti gli strumenti atti al raggiungimento degli obiettivi di apprendimento; il corso di insegnamento si svolge secondo quanto previsto in fase di progettazione dello stesso; le competenze acquisite sono quelle previste in progettazione didattica e la loro acquisizione è valutata con metodi e principi dichiarati (ESG Yerevan)11; le competenze, conoscenze e abilità acquisite, in relazione al profilo professionale per cui sono formati gli studenti, sono documentabili e sistematiche; tutto il processo formativo e la sua progettazione risultano tracciabili e formalizzati. Il Modello comprende documenti operativi che consentono al docente di controllare la propria attività didattica nelle tre fasi previste. La fase ex-ante prende in considerazione il lavoro di preparazione che il docente svolge progettando il corso
AA.VV. (2014). Insegnare discipline, Apprendere per lavorare, nei contesti universitari – L’esperienza cagliaritana e il modello di qualità pedagogica, Fondazione CRUI. 10 Ibidem. 11 https://revisionesg.wordpress.com/ ESG 9
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di insegnamento a seguito delle deliberazioni del CdS; obiettivi, metodologie previste e risultati attesi devono essere considerati e documentati in modo da poter essere inclusi nella programmazione e resi pubblici; una progettazione certa e formalizzata, utilizzando gli appositi documenti, serve al docente per una migliore previsione delle variabili che consentiranno, in fase di erogazione dell’attività didattica, di aumentare il controllo e garantire il successo formativo. Il Modello DUQ-G serve inoltre allo studente o aspirante tale per poter disporre di tutte le informazioni che consentono di seguire il corso in maniera più consapevole ed efficace. La fase progettuale include la predisposizione di prove atte alla valutazione dei saperi in ingresso, in itinere e finali dello studente mediante criteri definiti di riferimento, utilizzando i Descrittori di Dublino. Nella fase in itinere si collocano lo svolgimento del corso, la documentazione del lavoro svolto e delle considerazioni e riflessioni su quanto si va facendo supportati dagli appositi documenti. Le attività che caratterizzano questo momento sono la presentazione del corso illustrando il relativo documento di progettazione all’aula, la ricognizione delle caratteristiche di questa in termini di conoscenze e di stili di apprendimento degli studenti, lo svolgimento del corso secondo quanto progettato e divulgato, la valutazione in itinere degli apprendimenti, la valutazione dell’andamento del corso di insegnamento da parte degli studenti. La fase ex-post attiene alla valutazione del progetto formativo, i momenti in cui si tiene sotto osservazione il raggiungimento degli obbiettivi di apprendimento in coerenza con la progettazione, utilizzando gli appositi documenti. La Scheda di Controllo e Validazione della Progettazione, che si articola in varie sezioni corrispondenti a momenti diversi di controllo del progetto, è finalizzata a documentare quanto viene fatto durante il corso per poter disporre di evidenze che consentono di monitorare l’attività didattica e verificarne la coerenza con la fase di progettazione. In generale questo strumento di sistema deve documentare le anomalie riscontrate riguardo le attività effettivamente svolte rispetto a quanto progettato al fine di consentire al docente una riprogettazione immediata del corso di insegnamento, quando possibile, e di utilizzare tale registrazione in fase di nuova progettazione per l’anno successivo. In accordo con il modello DUQ Pedagogico il modello DUQ-G tiene conto di tre tipologie di relazione: relazione intersoggettiva cioè quella che intercorre tra docente e studenti, relazione tra saperi oggettivi e soggettivi (cioè quella legate alle peculiarità del soggetto e alla sua storia personale) e la relazione metodologica di insegnamento.
5. Conclusioni I documenti europei mostrano che la crisi economica globale ha messo in evidenza debolezze strutturali con gravi conseguenze per milioni di persone. Il tasso di disoccupazione giovanile supera il 20% in tutta l’UE ed è superiore al 50% in alcuni Stati membri. Dalla loro lettura si evince che la crisi non è l’unica causa della disoccupazione e che contribuiscono al fenomeno anche un’istruzione inadeguata e la mancanza di qualifiche12. I cambiamenti avvenuti nel mondo del lavoro a li-
12 Commissione Europea, 2014,Istruzione, formazione, gioventù e sport, http://europa.eu/ pol/pdf/flipbook/it/education_training_youth_and_sport_it.pdf
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vello mondiale ed europeo richiedono sempre più l’acquisizione di alte e solide competenze in ogni settore lavorativo pertanto è necessario progettare una didattica di qualità in cui il monitoraggio del processo di insegnamento – apprendimento favorisca l’implementazione di conoscenze, abilità e competenze spendibili a lungo termine, nel mondo del lavoro e nella vita (Zabalza, 2010; Moliterni, De Stasio & Carboni, 2011). In fase di progettazione, durante la stesura degli obiettivi, si dovrebbe ragionare in termini di risultati di apprendimento, declinati secondo i Descrittori di Dublino. Occorre anche ragionare in termini di inclusività in modo che tutti, a seconda delle proprie attitudini e potenzialità, possano accedere al mondo della formazione, del lavoro e produrre innovazione. Una modalità adeguata potrebbe essere quella di riuscire a personalizzare l’insegnamento verso ogni studente attraverso l’implementazione di una valutazione dell’apprendimento adeguata in modo da identificare punti di forza e di debolezza in ognuno. L’esperienza proposta durante il Laboratorio Didattico Calaritano e il modello Gestionale della Progettazione Didattica Universitaria di Qualità (DUQ-G) hanno voluto rispondere a queste esigenze; seguendo i dettami del Processo di Bologna la centralità del soggetto che apprende si evidenzia nella considerazione delle peculiarità apprenditive degli studenti valutate in ingresso e con la raccolta della loro valutazione, in itinere, della coerenza tra lo svolgimento del corso rispetto alla progettazione resa pubblica; i tempi e i risultati di apprendimento previsti sono dichiarati e i sistemi di verifica si basano sui Descrittori di Dublino. Questo modello presenta delle analogie e anche delle innovazioni rispetto alla scheda SUA (Scheda Unica Annuale del Corso di Studi) curata dall’ANVUR. La scheda SUA, infatti, mette in evidenza come si debbano scegliere dei metodi di accertamento dei risultati di apprendimento in modo da consentire la verifica di una loro effettiva acquisizione da parte degli studenti; nel documento ANVUR si sottolinea, inoltre, che i metodi e la loro applicazione devono essere documentati in modo da produrre fiducia che il grado di raggiungimento da parte dagli studenti dei risultati di apprendimento attesi sia valutato in modo credibile. In Italia oltre all’esperienza dell’ateneo cagliaritano citata in questo articolo merita particolare attenzione il progetto PRODID elaborato e proposto dall’Università di Padova (Felisatti e Serbati, 2014), che si pone l’obiettivo di costituire un Teaching and Learning Center finalizzato al miglioramento continuo delle strategie di insegnamento e apprendimento dell’università patavina. Le quattro Unità di Ricerca predisposte dal progetto prendono in considerazione le esigenze e i bisogni formativi dei docenti emersi da un’attenta analisi di contesto e forniranno utili suggerimenti per l’elaborazione del progetto formativo per i docenti universitari. Nell’ottica di un dialogo costruttivo per l’individuazione di pratiche didattiche innovative e della loro implementazione nel bagaglio culturale del docente universitario italiano il Modello DUQ-G vuole essere un piccolo suggerimento sulla via dell’inclusione per un pieno successo formativo, grazie ad una progettazione che segua i principi della Qualità. Esso costituisce per i corsi di insegnamento e quindi per il Corso di Studio uno strumento che potrebbe rivelarsi molto utile per la progettazione e il monitoraggio del modo di operare, per una sempre maggiore efficacia dell’azione didattica e per la qualità del servizio di formazione offerto.
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Kolb, A. (1981). Learning styles under disciplinary differences. In A. Chickering (Ed.), The Modern American College. San Francisco: Jossey-Bass. Legge 30 dicembre 2010, n. 240. Norme in materia di organizzazione delle università, di personale accademico e reclutamento, nonché delega al Governo per incentivare la qualità e l’efficienza del sistema universitario. Pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 10 del 14 gennaio 2011 – Suppl. Ordinario n. 11; <http://www.camera.it/parlam/leggi/ 10240l.htm>. Leone, A., Moretti, G. (2010). Formazione degli insegnanti e competenze disciplinari. Il contributo della valutazione. Cagliari: CUEC. Moliterni, P., De Stasio, S., Carboni, M. (2011). Studiare all’Università. Strategie di apprendimento e contesti formativi. Milano: FrancoAngeli. Novak, J. (2001). L’apprendimento significativo-Le mappe concettuali per creare e usare la conoscenza. Trento: Erickson. Schön, D.A. (2006). Formare il professionista riflessivo. Per una nuova prospettiva della formazione e dell’apprendimento nelle professioni. Milano: FrancoAngeli. Tagliagambe, S. (2006). Più colta e meno gentile. Una scuola di massa e di qualità. Roma: Armando. Wenger, E., McDermott, R., Snyder, W. M. (2007). Coltivare comunità di pratica. Prospettive ed esperienze di gestione della conoscenza. Milano: Guerini e Associati. Zabalza Beraza M.A. (2010). Competencias docentes del professorado universitario. Narcea.
186 Sitografia www.ANVUR.it www.businesseurope.eu www.coe.int/it/ www.crui.it www.EHEA.info www.ei-ie.org www.ENQA.eu www.EUA.be www.EURASHE.eu www.lastrategiadilisbonalazio.it www.processodibologna.it/ www.quadrodeititoli.it www.unesco.it
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“La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia. Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”: la decima edizione del seminario SIRD Giovanni Moretti • Università Roma Tre - giovanni.moretti@uniroma3.it
“The research at Doctoral Schools in Italy. Comparing Doctoral candidates, Ph.D.s and Teachers”: the tenth edition of SIRD conference L’articolo presenta la decima edizione del Seminario SIRD (Società Italiana di Ricerca Didattica), dal titolo “La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia: Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”, svolta a Roma nel giugno 2016. Dell’iniziativa sono messi in evidenza alcuni degli aspetti più rilevanti emersi, in particolare: la presentazione di diciassette progetti di ricerca da parte di dottorandi del secondo anno seguita da uno spazio di discussione; la presentazione di quindici poster da parte di dottori di ricerca; le riflessioni critiche emerse dal confronto con alcuni protagonisti dell’attività di ricerca empirico-sperimentale.
Keywords: Ph.D., poster, public discussion, educational research, research training
Parole chiave: dottorato, discussione pubblica, formazione alla ricerca, poster, ricerca educativa
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research © Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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informazioni
The purpose of this article is to present the tenth edition of SIRD (Italian Society for Educational Research) conference, entitled “The research at Doctoral Schools in Italy: Comparing Doctoral candidates, Ph.D.s and Teachers”, held in Rome in June 2016. The contribution highlight some of the most important aspects raised during the event: the presentation of seventeen research programs by second year Ph.D. students which was followed by an open debate; the presentation of posters by fifteen Ph.D.s; the critical reflections arisen from the comparison with some of the protagonists of the empirical-experimental research.
“La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia. Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto”: la decima edizione del seminario SIRD
1. Il Seminario 2016 e la costruzione di una “massa critica”
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La decima edizione del Seminario SIRD “La ricerca nelle scuole di dottorato in Italia: Dottorandi, Dottori e Docenti a confronto” (Roma, 16-17 giugno 2016) ha confermato l’attenzione della SIRD alla formazione dottorale nei settori scientifici PED/03 (Didattica) e PED/04 (Pedagogia sperimentale). Il successo del Seminario 2016, per il numero delle adesioni e per la qualità dei progetti di ricerca presentati, testimonia che il sistema della formazione dottorale in Italia, che nel periodo 20122015 ha fatto registrare riduzioni molto consistenti per Architettura, Scienze mediche, Scienze storiche, filosofiche e pedagogiche (prossime al 50%), sta reagendo positivamente alle molte difficoltà incontrate negli ultimi anni (complessità delle procedure di accreditamento, introduzione delle procedure di valutazione, diminuzione delle risorse, ecc.). Dopo una fase molto difficile, sembra esserci una inversione di tendenza: alcune delle novità introdotte con la nuova normativa sembrano avere un impatto significativo anche sul numero e su alcune delle caratteristiche degli studenti di dottorato (voto ed età alla laurea, provenienza, cittadinanza e genere) (ANVUR, 2016). In questo problematico e rinnovato contesto di riferimento, nella prospettiva di continuare a manifestare il proprio impegno nella progressiva costruzione di una “massa critica” nell’ambito della formazione dottorale in educazione, si è svolto il Seminario 2016. Dopo i saluti di Lucia Chiappetta Cajola, Direttrice del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università Roma Tre, i lavori sono stati introdotti dall’intervento di Achille Notti (Università di Salerno) Presidente della SIRD. Con il coordinamento di Giovanni Moretti (Università Roma Tre), Maria Lucia Giovannini (Università di Bologna), Roberta Cardarello (Università di Modena Reggio Emilia), Giovanni Bonaiuti (Università di Cagliari), Maria Luisa Iavarone (Università di Napoli “Parthenope”), Pietro Lucisano (Università Roma “La Sapienza”), Patrizia Magnoler (Università di Macerata), Elisabetta Nigris (Università di Milano - Bicocca), Loredana Perla (Università “A. Moro” di Bari) e Ettore Felisatti (Università di Padova), diciassette dottorandi del secondo anno, dei quali è stata accolta la richiesta di partecipazione, si sono alternati presentando l’attività di ricerca condotta nel tempo prestabilito di venti minuti. Al termine di ciascuna presentazione, nello spazio destinato al confronto, si è registrata la partecipazione attiva di docenti esperti e di oltre sessanta giovani ricercatori e dottorandi molti dei quali iscritti al primo anno di corso. La tabella n. 1 evidenzia l’ampio numero delle sedi di provenienza dei dottorandi e dottori di ricerca che hanno partecipato come protagonisti al Seminario 2016: sedici sono le sedi universitarie rappresentate ed alcune di esse confermano con continuità la partecipazione di dottorandi e dottori di ricerca nei due appuntamenti indicati in tabella (paper e poster): Padova, Perugia, Roma “La Sapienza”, Roma Tre e Salerno.
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Università Università di Bologna Università di Enna Kore Università di Firenze Università Milano Bicocca Università di Modena e Reggio Emilia Università di Palermo Università di Padova Università di Pavia Università di Perugia Università Roma “Foro Italico” Università Roma “La Sapienza” Università di Roma Tor Vergata Università Roma Tre Università del Salento-Lecce Università di Salerno Università di Torino Totale !
Presentazione paper dottorandi 1 1 1 2 1 1 1 3 1 3 2 17
Presentazione poster dottorandi o dottori di ricerca 1 1 1 1 1 2 2 1 2 3 15
Tab. 1 - Università di provenienza dei dottorandi e dei dottori di ricerca (v.a.)
I Dottorandi e Dottori di ricerca dopo avere esposto i vari aspetti del loro lavoro, sia sul piano teorico, che procedurale e metodologico, hanno risposto alle domande del pubblico riflettendo criticamente sulle proprie attività di ricerca ancora in corso. Essi, inoltre, se da una parte hanno potuto raccogliere consigli, stimoli e anche informazioni specifiche indubbiamente utili allo sviluppo della propria ricerca, dall’altra hanno potuto avviare un dialogo diretto con studiosi e dottorandi impegnati su tematiche di ricerca affini. La presentazione delle ricerche di dottorato effettuata durante il Seminario 2016 evidenzia il progressivo consolidarsi delle attività di ricerca empirico-sperimentale e della attenzione dedicata ai molteplici contesti in cui si esplica la ricerca educativa (Tab. 2).
Contesti della ricerca Nido Scuole dell’infanzia Scuole primarie Scuole secondarie superiori di primo grado Scuole secondarie superiori di secondo grado Istituzioni scolastiche Università Formazione professionale Attività sportive integrate Medico - ospedaliero Ong
Paper dottorandi 1 8 2 1 4 1 1 -
Poster dottori di ricerca 1 2 6 3 2 1 1 1 1
Totale 1 3 14 5 2 1 5 1 2 1 1
Tab. 2 - Contesti della ricerca indicati nelle relazioni dei dottorandi e nei poster dei dottori di ricerca (v.a.)
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Tuttavia si registra il permanere di una notevole attenzione dedicata ai contesti dei vari cicli scolastici con riferimento particolare a quello della scuola primaria, a fronte della necessità ampiamente condivisa di estendere la ricerca anche ad altri contesti educativi formali, non formali e informali. Tale tendenza nei tempi lunghi può essere interpretata come un segno di debolezza della ricerca educativa nel suo complesso e, nello specifico, come una effettiva difficoltà di accesso a risorse e progetti che possano facilitare e promuovere l’avvio di importanti ricerche empirico-sperimentali in nuovi contesti.
2. La sessione poster
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La decima edizione del Seminario il Direttivo SIRD ha previsto una sezione specifica dedicata alla presentazione di poster. I dottori di ricerca del terzo anno con riferimento particolare a coloro che hanno presentato il proprio progress di ricerca nel corso dei lavori del nono Seminario SIRD sono stati invitati a descrivere e illustrare in sintesi il proprio lavoro di tesi già concluso e i relativi risultati. Rispetto agli anni precedenti è aumentato il numero dei dottori di ricerca che, rispondendo positivamente all’invito, hanno inviato un abstract di massimo 2000 battute entro la data del 3 maggio 2015: le candidature accolte infatti sono state quindici. Il Direttivo SIRD nel promuovere le candidature aveva confermato che: “l’organizzazione dei contenuti del poster (testi, grafici, tabelle, immagini, ecc.) potrà far riferimento alle seguenti sezioni: introduzione, materiali e metodi, risultati, discussione, conclusioni”. Come è noto l’organizzazione del poster, orientativa e non vincolante, intendeva favorire l’originalità delle presentazioni, e prevenire eventuali omologazioni e standardizzazioni delle esposizioni. L’organizzazione, infatti, è stata presa a riferimento da tutti i giovani presentatori, ma ha consentito l’introduzione di interessanti soluzioni grafiche e argomentative che hanno indubbiamente caratterizzato le singole presentazioni. I poster sono stati resi disponibili al pubblico per l’intera durata del Seminario e il 16 giugno, dalle ore 16.30 alle ore 18.30, si è svolta la sessione di presentazione-confronto dei poster da parte dei giovani dottorandi. La partecipazione alla sessione poster è stato ampia ed è risultata elevata la qualità del dialogo intrattenuto dai dottorandi con il pubblico. Il confronto tra esperti si è svolto in modo informale e colloquiale, permettendo di approfondire molte delle questioni trattate dai molteplici percorsi di ricerca. La partecipazione a tale esperienza di confronto e scambio interattivo è stata particolarmente utile per i dottorandi del primo anno che hanno potuto individuare e condividere linee progettuali di ricerca fondate su presupposti chiari e rigorosi.
3. Il confronto con alcuni protagonisti dell’attività di ricerca empirico-sperimentale Nel corso dei lavori del Seminario sono intervenuti giovedì 16 giugno Gaetano Domenici (Università Roma Tre), sul tema “Ricerca scientifica e politiche educative. Problemi e prospettive” e Renata Viganò (Università Cattolica del Sacro Cuore - Milano) su “Ricerca educativa fra pratiche e politiche istituzionali”; venerdì 17 giugno è intervenuto Michele Pellerey (Università Salesiana di Roma), sul tema “ Il senso e la scelta del metodo”. I tre protagonisti della ricerca educativa di tipo
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empirico e sperimentale nel contesto italiano e internazionale sono stati invitati per rispondere ad una esigenza particolarmente sentita dalla SIRD: la necessità di prevenire e contrastare i rischi della frammentazione e della eccessiva specializzazione della ricerca a cui sono esposti anche i dottorandi e i dottori di ricerca e alla opportunità di riproporre alcune riflessioni ritenute fondamentali per dare significato alla ricerca in educazione e coltivare il senso della prospettiva evitando di inseguire le mode. Gaetano Domenici, primo firmatario tra i fondatori della SIRD (11 giugno 1992)1 e Presidente per il quadriennio 2005-2008 della stessa, ha affrontato il rapporto tra ricerca scientifica e politiche educative sottolineando l’importanza decisiva che hanno avuto e che hanno tuttora le società scientifiche e le associazioni pedagogiche in Italia nel contrastare «la miopia intellettuale e i pregiudizi contro la ricerca scientifica» ancora assai diffusi. Ha segnalato ai dottorandi e ai giovani ricercatori l’importanza di conoscere approfonditamente la storia delle società scientifiche, in particolare della SIRD, perché tale conoscenza è indispensabile per capire il modo in cui si è evoluto in Italia il dibattito sulla ricerca empirico-sperimentale. A tal fine ha letto e commentato il significato dell’articolo 2 dello Statuto che definisce gli scopi e le attività della SIRD: «La Società ha lo scopo di promuovere, coordinare e incentivare la ricerca scientifica nel campo dell’educazione scolastica ed extrascolastica, in riferimento ai problemi dell’insegnamento e dell’apprendimento, dei processi di formazione, e di quant’altro sia riconducibile, in sede accademica, alla ricerca didattica e alle diverse sue articolazioni. A tal fine la Società favorisce la collaborazione e lo scambio di esperienze fra docenti e ricercatori, fra Università, scuola e centri di formazione, ivi compresi quelli che lavorano a supporto delle nuove figure professionali impegnate nel sociale, nel mondo della produzione; organizza, promuove e sostiene seminari di studi, stage di ricerca, corsi, convegni, pubblicazioni e quant’altro risulti utile allo sviluppo, alla crescita e alla diffusione della competenza didattica». In quanto protagonista di alcuni dei passaggi più rilevanti del confronto appassionato che ha visto la SIRD perseguire le sue finalità, Domenici ha ricordato ai presenti scelte e eventi cruciali che in vario modo hanno contributo ad emancipare in Italia la ricerca didattica e a consolidarla sul piano teorico e del rigore metodologico (ad esempio la SIRD dal 2007 al 2008 ha dato origine alla “Rivista on line della Società Italiana di Ricerca Didattica” referata con “doppio cieco”). La conduzione della ricerca in educazione, ha affermato Domenici, richiede la disponibilità di infrastrutture, organizzazioni e risorse; soprattutto richiede la presenza di una rete organizzata in grado di fare sistema e di valorizzare le competenze di ciascuno, creando le precondizioni per sviluppare anche ricerche interdisciplinari e longitudinali che rispetto ad altri tipi di ricerche necessitano di tempi lunghi e di risorse altrimenti difficili da garantire. Inoltre ha segnalato tra i problemi maggiori che caratterizzano il contesto Italiano della ricerca educativa, la frammentazione delle organizzazioni e il rischio della autoreferenzialità e per-
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L’atto costitutivo della Società Italiana di Ricerca Didattica (SIRD) redatto in Roma, l’11 giugno 1992, per mano del notaio Carlo Federico Tuccari è stato sottoscritto dai professori: Gaetano DOMENICI, Elio DAMIANO, Nicola PAPARELLA, Luigi CALONGHI, Roberto MARAGLIANO, Franco FRABBONI, Antonio MANGANO, Enver BARDULLA, Benedetto VERTECCHI, Francesco INZODDA, Franca PINTO MINERVA, Cosimo LANEVE, Luigi GUERRA, Roberta CARDARELLO, Cristina COGGI, Ermanno MAZZA, Giuseppe ZANNIELLO, Michele PELLEREY.
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sino della concorrenza tra le stesse quando, invece, sarebbe auspicabile individuare forme efficaci di coordinamento e concordare una strategia comune capace di aprire nuove prospettive di sviluppo. Tale sinergia è oggi indispensabile a fronte della forte riduzione delle risorse destinate alla ricerca in generale, applicata e finalizzata, oltre che all’istruzione: «Al 2014 l’Italia permaneva ancora, infatti, all’ultimo posto della UE per percentuale di spesa pubblica destinata all’istruzione (7.9% a fronte di una media UE del 10.2% e al penultimo posto per quella destinata alla cultura (1.4% contro una media UE del 2.1%) (Fonte: Eurostat 2014)» (Domenici, 2016). Domenici ha rammentato alcuni risultati positivi raggiunti dalla comunità scientifica nel suo complesso, che hanno consentito di sviluppare progressivamente una più rigorosa produzione scientifica e a rinnovare le riviste scientifiche e fondarne delle nuove, anche interdisciplinari, contribuendo in tal modo a diffondere la conoscenza delle ricerche svolte sia in ambito nazionale sia internazionale. Renata Viganò ha presentato alcuni elementi di scenario relativi alle caratteristiche strutturali dei sistemi socio-economici (dematerializzazione, peso crescente della conoscenza, employability come risorsa, ecc) e individuato alcuni snodi o problematiche propri dei sistemi formativi: la presenza vincolante del dialogo sociale e della concertazione nello sviluppo della formazione continua; l’esigenza di migliorare la quantità e la qualità dell’accesso e dell’impiego dei finanziamenti comunitari; la complessità del sistema di programmazione e gestione degli interventi formativi; il bisogno di ancorare lo sviluppo di politiche della formazione a basi informative complete e sistematiche; la necessità di avere una base di ricerca atta a supportare decisioni urgenti ma orientate da strategie di medio-lungo termine. Aspetto assai interessante dell’intervento della Viganò ha riguardato l’esplicitazione dei condizionamenti e degli influssi da parte della governance europea e degli orientamenti transnazionali sulla ricerca condotta nei contesti nazionali (progressiva rilevanza riconosciuta all’evidence-based policy e insieme ai referenti scientifici degli stakeholders). Per Viganò la globalizzazione mette profondamente in discussione la ricerca educativa sul piano epistemologico, della definizione dell’oggetto e delle scelte metodologiche. Inoltre la globalizzazione inciderebbe sul profilo identitario e professionale del ricercatore e nei percorsi e nelle pratiche di formazione alla ricerca. L’argomentazione della Viganò ha chiarito come nella globalizzazione si trasformi sia l’arena delle politiche sia l’arena delle pratiche. L’arena delle politiche registra l’aumento della complessità e della variabilità del cosiddetto policy cycle (problematiche in parte opache, necessità di adattamenti continui, emergere di nuove priorità, ecc); l’arena delle pratiche, invece, spinge nella direzione del superamento dell’idea applicazionista del rapporto tra ricerca e pratica e, coerentemente con quanto avviene nel dibattito internazionale, si orienta nella direzione della «irriducibilità reciproca» e «reciproca necessità» di ricerca e pratica (Hammersley, 2002). L’arena delle pratiche nasconde alcuni ostacoli e rischi da non sottovalutare come quello di subordinare l’attività di ricerca a logiche funzionalistiche che possono favorire solo quella giudicata immediatamente utile per bisogni evidenti (o mediaticamente resi tali più che appurati). La riflessione congiunta sulle due arene, quella delle politiche e quella delle pratiche, ha portato la Viganò a formulare due domande, tra loro strettamente intrecciate, alle quali occorre dare quanto prima una risposta: “I tempi e le priorità della ricerca educativa sono conciliabili con quelli delle politiche?”, “I tempi e le priorità della ricerca educativa sono conciliabili con quelli della pratica?” Viganò ha con-
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testualizzato alcuni dei nodi affrontati nel suo discorso illustrando due azioni di ricerca da lei condotte: la prima sulla qualità dei progetti di formazione degli insegnanti finanziati dall’USR Lombardia, che ha previsto anche la valutazione della ricaduta dei progetti sulla didattica con particolare riferimento allo sviluppo delle competenze professionali e di ricerca degli insegnanti e agli apprendimenti degli studenti; la seconda ricerca, quadriennale, sulla qualità della formazione nelle scuole della Polizia di Stato, che ha consentito di progettare e sperimentare un sistema di monitoraggio e valutazione della qualità della formazione. Entrambe le ricerche sono partite da un ascolto delle organizzazioni/Amministrazioni proponenti, di cui si è cercato di comprendere il funzionamento e la cultura organizzativa per riuscire, anche attraverso la ricerca, ad uscire dalla logica dell’emergenza e maturare una visione strategica sia della formazione sia della valutazione (non a caso il meta-criterio di riferimento scelto nell’ambito della prima ricerca è la «sostenibilità», ovvero la valutazione intesa come parte integrante di ogni azione progettuale). Per concludere Viganò ha esplicitato tre «Lesson learned»: interrogarsi e lasciarsi interrogare dall’esperienza; ascoltare, capire proporre, mediare e negoziare; avere una visione e un’idea evitando di rincorrere le mode e di svendere la ricerca. Pietro Lucisano ha introdotto l’intervento di Pellerey riprendendo alcuni temi già anticipati nella riflessione sulle politiche (Domenici) e nelle considerazioni sui contesti in cui si sviluppa oggi la ricerca educativa (Viganò) per segnalare la necessità di essere “accorti”, perché invece che essere protagonisti ci si potrebbe trovare nel ruolo di esecutori di indicazioni che provengono dall’alto. Chi fa il lavoro di ricerca, invece, dovrebbe avere una prospettiva dentro cui rispettare un certo rigore metodologico. La cosiddetta “fedeltà al metodo” o si colloca dentro una prospettiva o diventa un problema esclusivamente tecnico: si tratta di una dialettica che occorre dominare evitando l’oscillazione tra tecnicismo e sciatteria, due poli opposti, ma entrambi pericolosi. Michele Pellerey ha iniziato il suo intervento segnalando l’importanza del rapporto tra etica e ricerca educativa, aspetto assai dibattuto in ambito internazionale, che consente di capire perché c’è un problema di scelta del metodo di ricerca in ambito pedagogico e didattico. Spesso abbiamo a che fare con ricerche lineari, che ben si presentano, ma nelle quali si puliscono un po’ troppo i dati, facendo in modo che gli esiti vadano bene con le ipotesi; si tratta di un problema assai delicato, che ripropone il tema della trasparenza e dell’osservanza di un codice etico. Pellerey prima ha focalizzato il discorso ponendosi la domanda: «Perché è importante riflettere sul significato e sulla scelta e definizione del metodo di ricerca da adottare sia nel caso di un dottorato, sia nell’impostare un qualsiasi lavoro d’indagine in ambito pedagogico-didattico? », e poi ha proseguito nelle sue argomentazioni con un approfondimento rispetto a metodologie riferibili a questioni di didattica. In tale prospettiva ha richiamato la distinzione di Richard Rorty tra una «ricerca per sapere», per chiarire un quadro teorico, e una «ricerca per agire», rispettivamente più interessata alle logiche interne alla comunità scientifica o al bene di una comunità di vita. Nell’ambito della ricerca didattica più orientata all’azione emergono alcune tendenze metodologiche definibili genericamente «sperimentaliste», spesso orientate a intervenire direttamente per migliorare la situazione, e tendenze cosiddette «interpretativiste», spesso interessate a rilevare, descrivere e comprendere ciò che pensano i docenti o gli studenti. Tuttavia la prospettiva descrittiva è talvolta assunta adattando al contesto gli strumenti utilizzati per rispondere più efficacemente alle esigenze concrete incontrate. Questo accade ad esempio quando la rilevazione di ciò che pensano gli insegnanti in merito alle competenze è funzionale a sviluppare modi più consapevoli di progettazione didattica.
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Le scelte metodologiche quindi sono legate non solo a fattori di ordine teorico, ma spesso sono effettuate in vista della pratica, tenendo conto di ciò che si vuole ottenere. Ritorna al riguardo la questione della trasparenza e dell’etica. Sappiamo, infatti, che le scelte politiche possono condizionare la ricerca scientifica, soprattutto quando le ricerche sono strumentalmente commissionate a supporto di politiche e dei processi decisionali, La riflessione ha consentito a Pellerey di mostrare la rilevanza che oggi ha nella ricerca didattica il riferimento al principio di realtà, che il ricercatore può assumere in senso forte o debole e sulla base di tale decisione potrà scegliere strumenti già predefiniti oppure preferire strumenti flessibili e aperti alla realtà che si intende osservare. Pellerey ha ripreso la distinzione di Ausubel tra ricerca pura e ricerca applicata per ricordare che nel secondo caso i problemi emergono nel contesto operativo e la loro soluzione può essere validata solo all’interno della pratica. Il ricercatore, dunque, deve essere consapevole della posizione in cui si colloca rispetto alla realtà. In questa direzione è possibile affermare che la ricerca per agire è una ricerca di natura prossimale, vicina alla realtà (ad esempio le ricerche su casi singoli, di natura fenomenologica), viceversa la ricerca per sapere è di natura distale, distante dalla realtà (ad esempio la metaanalisi). Tre sono le indicazioni operative proposte da Pellerey ai giovani ricercatori: a) avere una buona consapevolezza delle diverse vie possibili per argomentare in maniera solida e convincente, garantendo l’affidabilità delle proprie conclusioni (in relazione alle ipotesi di lavoro); b) avere la consapevolezza che il proprio apporto è un contributo (più o meno originale, affidabile e pertinente) a un’impresa che non ha mai fine; c) scegliere definitivamente (magari dopo alcuni tentativi) una maniera di procedere congruente con quanto si vuole dimostrare e essere in grado di controllarla adeguatamente (sia quanto a metodi statistici, sia quanto a metodi fenomenologici); seguirla poi con coerenza, e chiarirla nella dissertazione finale (con tutte le consapevolezze necessarie di limiti e approssimazioni presenti). Pellerey ha concluso il suo discorso con una ulteriore domanda «una ricerca, quando può esser definita come scientificamente fondata?». Nel formulare la risposta Pellerey ha richiamato H. Freudenthal (1978), che nell’esaminare la natura scientifica della ricerca didattica evidenzia tre aspetti: a) la rilevanza e la pertinenza dei problemi posti (anche se dobbiamo specificare da quale punto di vista); b) la validità e la coerenza interna ed esterna dell’argomentazione; c) la disponibilità e la discussione pubblica dei problemi, delle argomentazioni e delle conclusioni raggiunte. La ricerca scientifica deve essere sempre aperta alla critica degli altri e alla libera discussione tenendo conto che soprattutto quando abbiamo a che fare con la ricerca empirica non abbiamo mai certezze. Alcune delle problematiche sviluppate dai tre relatori sono state approfondite direttamente, nel corso delle risposte date alle domande ad essi rivolte subito dopo gli interventi, e indirettamente quando sono state riprese e approfondite nel corso del confronto e delle discussioni intrattenute dai docenti con i dottorandi e dottori di ricerca partecipanti al Seminario.
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4. Cambio di formula? L’esigenza di fare “massa critica” in rete La SIRD arriva al tredicesimo Seminario con un bilancio assai positivo. Nel corso degli anni la sua iniziativa è stata sempre di valido supporto e di stimolo all’azione svolta dalle scuole di dottorato e soprattutto ha operato per contribuire a fare “massa critica” e costruire una comunità di confronto tra i dottorati di ambito pedagogico con riferimento particolare alla formazione dottorale nei settori scientifici PED/03 (Didattica) e PED/04 (Pedagogia sperimentale). Come è noto la SIRD, con l’obiettivo di mettere a confronto i dottorandi delle diverse Scuole dottorali italiane, ha avviato un primo seminario nel 2005, a Veroli, e lo ha riproposto con cadenza biennale, con qualche modifica nel 2007 e nel 2009 a Roma e nel 2010 a Linguaglossa (Catania). Dal 2011 il Seminario è stato organizzato con cadenza annuale (Roma, dal 2011 al 2016), per rispondere più efficacemente alle esigenze di confronto tra le varie esperienze di ricerca progressivamente emerse nel corso delle varie edizioni. Gradualmente il Seminario è diventato per la comunità scientifica e per un pubblico sempre più ampio di giovani dottorandi un appuntamento atteso e fortemente partecipato. La formula del Seminario, che prevedeva la presentazione dei lavori di ricerca da parte dei dottorandi iscritti al secondo anno, è stata ulteriormente arricchita dalla settima edizione (2013) con l’invito a predisporre un poster rivolto ai dottori di ricerca del terzo anno. La formula del Seminario annuale oltre al rigore scientifico e metodologico che la contraddistingue dovrebbe riuscire a mantenere le sue caratteristiche di continuità e sostenibilità (in termini di: impegno richiesto ai membri della comunità scientifica, organizzazione, tempi, risorse, ecc.). Tuttavia dovrebbe essere ripensata soprattutto per dare un contributo alle esigenze da più parti segnalate di “Sviluppare una rete cooperativa tra i Dottorati in Scienze Pedagogiche” chiamando i Dottorati in Scienze Pedagogiche a un impegno di co-costruzione della conoscenza (Margiotta, 2014), e di favorire il confronto tra «tradizioni di grande spessore culturale ma non di rado poco permeabili al rigore imposto dalle procedure, pur sempre specifiche e aperte, di ogni rigorosa indagine scientifica, quali o quantitativa che sia» (Domenici, 2011). Quelle sopra ricordate sono due importanti sfide per la SIRD, che nel 2017, quando celebrerà i suoi venticinque anni di attività, saprà certamente accogliere contribuendo ulteriormente a rinnovare e qualificare la formazione dottorale alla ricerca.
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Dottorandi
Titolo
Filomena Agrillo
Università di Salerno
L’inclusione scolastica degli alunni con deficit visivo: possibili strategie educativo-didattiche vicarianti
Alice Baldazzi
Università di Bologna
L’uso dell’ePortfolio a sostegno del lifelong learning e dell’occupabilità.
Giusi Castellana
Università Roma “La Sapienza” Università di Roma Tor Vergata
Migliorare le strategie di lettura degli studenti: una ricerca nella scuola secondaria di primo grado.
Marta De Angelis
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Università
Gabriella Ferrara
Università di Palermo
Maria Anna Formisano
Università di Salerno
Arianna Giuliani
Università Roma Tre
Elif Gulbay Maria Elena Mastrangelo
Università di Palermo Università Roma “Foro Italico”
Snezana Mitrovic Marta Pellegrini
Università Roma “La Sapienza” Università di Firenze
Francesca Rossi
Università Roma Tre
Martina Sabatini
Università di Perugia
Nadia Sansone
Marianna Traversetti
Università Roma “La Sapienza” Università di Modena e Reggio Emilia Università Roma Tre
Sara Zanini
Università di Padova
Lucia Scipione
Competenze professionali degli insegnanti di scuola dell’infanzia e primaria: esperienze nazionali e internazionali a confronto Qualità inclusiva della scuola e formazione degli insegnanti a supporto di alunni con Bisogni Educativi Speciali Il Dirigente scolastico tra gestione amministrativo contabile e organizzazione dei processi didattici. La Leadership Diffusa degli Studenti: quali dispositivi nel contesto universitario. Strategie innovative per la formazione dei futuri docenti. Inclusione in movimento. Le attività espressivo motorie per la promozione di contesti inclusivi per le persone con disabilità Spoken and Written English Language Competence of First Year Italian Students on Performance-Based Tests Il senso di autoefficacia e la percezione dell’insegnamento dei tutor scolastici in Toscana. Competenze strategiche e prospettive temporali nei processi di auto-direzione e auto-riflessione per l’orientamento all’apprendimento permanente negli studenti universitari L’apprendimento di conoscenze geometriche e abilità visuospaziali attraverso il coding L’approccio trialogico all’apprendimento per la didattica universitaria: un modello di intervento e di analisi La promozione della competenza argomentativa: “buone pratiche” di filosofia con i bambini Il Metodo di studio come «prima misura compensativa» per l’inclusione degli allievi con DSA. Una ricerca esplorativa sulla promozione del metodo di studio La comprensione del testo espositivo. Rilevazione e pratiche
Tab. 2 - Presentazione delle tesi di Dottorato
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Dottori Barbara Bacocco Silvia Coppola
Lucia D’Errico
Università Università Roma “La Sapienza” Università di Salerno
Titolo Leadership e caratteristiche organizzative e relazionali dei contesti educativi Progetto di ricerca sulla sperimentazione di nuove tecnologie per la didattica e la valutazione dell’Attività Fisica Adattata nella terza età Il percorso di cura come processo di apprendimento trasformativo Contrastare le difficoltà di apprendimento in matematica degli studenti stranieri nel primo ciclo di istruzione L’impiego delle tecnologie nelle pratiche di insegnamento per favorire l’apprendimento negli alunni con diagnosi di Disturbo Specifico dell’Apprendimento Promuovere e rilevare la prospettiva 0-6: l’elaborazione di uno strumento L’efficacia dei materiali didattici per gli alunni sordi
Valeria Di Martino
Università del Salento Lecce Università di Torino
Cristina Gaggioli
Università di Perugia
Barbara Gobbetto
Università di Pavia
Alessandra Marras
Università Roma “La Sapienza”, ISTC del CNR Roma Università Roma Tre Le performing arts per l’apprendimento della lingua italiana: un percorso educativo interculturale rivolto agli studenti cinesi in ambito universitario Università di Torino Lo sviluppo sostenibile nell’educazione formale. Dal quadro teorico, alla valutazione di percorsi educativi, svolti anche in partenariato Università di Milano La simulazione incarnata: trasposizione didattica e Bicocca apprendimento immersivo Università di Padova La differenza tra dialogo e concettualizzazione
Jiao Yin Mei
Matilde Mundula
Franco Passalacqua Giorgia Ruzzante Sabrina Schiavone Laura Siviero
Università di Enna Kore Università di Torino
Alessia Travaglini
Università Roma Tre
Ilaria Viscione
Università di Salerno
Trasformare le sfide in opportunità: a scuola di resilienza Costruire e valutare un percorso di educazione alla solidarietà internazionale nelle scuole. Una ricerca sperimentale in Piemonte Prosocialità, autoefficacia e pratiche inclusive: il ruolo del Cooperative Learning nella scuola secondaria di primo grado Differenze di genere nello sviluppo della coordinazione
Tab. 3 - Presentazione dei poster di Dottorato
Riferimenti bibliografici ANVUR (2016). Rapporto biennale sullo stato del sistema universitario e della ricerca 2016. Roma, p. 548. http://www.anvur.org Domenici, G. (2011). Strategia «Europa 2020», ricerca educativa e qualità della formazione. Journal of Educational, Cultural and Psychological Studies (ECPS Journal), 2(4), 14. Domenici, G. (2016). Istruzione, ricerca e cultura: si riparte da queste per una nuova Rinascenza?. Journal of Educational, Cultural and Psychological Studies (ECPS Journal), 1(13), 13. Freudenthal, H. (1978). Weeding and Sowing. Dordrecht: Springer. Hammersley, M. (2002). Educational Research, Policymaking and Practice. London: Sage. Margiotta, U. (2014). La ricerca in Scienze dell’Educazione e della Formazione in Italia Analisi e proiezioni. FORMAZIONE & INSEGNAMENTO. Rivista internazionale di Scienze dell’educazione e della formazione, 9(3), 13-26.
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